2. A migliaia di chilometri di distanza al di là di una

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2. A migliaia di chilometri di distanza al di là di una
2.
A migliaia di chilometri di distanza al di là di una grande
catena di monti, diventata la schiena dolente da cui venivano molti mali all’Europa, la notte si fermava nello stesso
momento. Un grido attraversava l’aria ancora piena degli
odori della cucina, e dei vestiti portati durante il giorno,
di un appartamento di due stanze piú servizi. Marin fece
un balzo nel letto, un movimento simile a un rotolamento che lo portò fuori sullo scendiletto di lana russa, e per
un attimo non seppe per quale ragione si trovasse in piedi
nel buio, in mezzo al sonno. Chi lo aveva chiamato? C’era
un’adunanza, un’esercitazione?
No. Nulla di tutto questo, erano passati quegli anni. La
casa era ripiombata nel sottofondo notturno con il ronzio
del frigorifero, il rumore dei passi nella strada, tonfi lontani, rimbombi alle pareti. Marin aveva riconosciuto nel
grido la voce di suo nipote, che dormiva nel divano letto
del soggiorno, e adesso, senza aver acceso la luce nel corridoio, si stava dirigendo a tentoni verso di lui.
Il ragazzo era steso sul letto con le lenzuola scostate,
gli occhi sbarrati rivolti al soffitto. Nella penombra gettata dalla luce delle persiane si potevano distinguere abbastanza bene le cose chiare, la testa di capelli biondi, quasi
albini, la trasparenza della cornea e della pupilla, il lenzuolo di traverso.
Marin esitò prima di avvicinarsi, aveva letto che ci vuole
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delicatezza a parlare con i sonnambuli o si rischia di confonderli ancora di piú. A dire il vero non sapeva se il ragazzo
soffrisse di sonnambulismo, in fondo lo conosceva poco.
– Jon, hai fatto un incubo?
Il ragazzo non rispose. Scuoteva la testa sudata, le ciocche color miele si erano appiccicate sulle tempie e sembravano grumi di sabbia bagnata.
Marin prese una sedia, si mise vicino al letto. Dopo cinque minuti in cui non succedeva niente, e lui aveva l’impressione di essere dentro a uno di quei film in bianco e
nero del cinema muto, quelli con sequenze cosí dilatate
da sembrare fotografie, disse: – Vado a prenderti un bicchiere d’acqua.
Quando Marin tornò, Jon si era messo a sedere sul letto, con le lunghe gambe incrociate una sull’altra.
Prese il bicchiere e lo svuotò in un sorso.
– Adesso va meglio.
– Dimmi, cos’hai sognato?
– Non so. Forse non era nemmeno un incubo, ma qualcos’altro, non mi era mai successo.
Fece una pausa, stava cercando le parole, o cercava ancora di capire. Frastornato dalla sensazione di aver attraversato un altro mondo, provava la gratitudine dei rifugiati. Un sentimento simile a quello che lo accompagnava
quotidianamente quando gli si ricordava che veniva dalla
Moldavia, e che in fondo lí era un ospite; ma adesso era
piú forte, piú caldo, sfociava nella gioia piccola e compatta di avere ancora del tempo davanti.
Lo zio lo fissava attento, in attesa.
– Una specie di mancamento nel sonno in cui anziché le
forze fisiche mi è venuta meno la coscienza –. Si scostò i
capelli dalla fronte e riprese: – Ero mezzo sveglio, eppure
era come se fosse presente solo la mia parte fisica, non sa-
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pevo chi ero, dov’ero, non ricordavo i nomi, il mio prima
di tutto. Era pauroso.
– Hai sognato tuo padre?
– No. Semplicemente non sapevo chi ero, esistevo e basta come esiste questa stanza, questa coperta. Ho cercato
di ricordarmi il mio nome e niente.
– Ma hai gridato, a un certo punto è partito un grido
forte che mi ha svegliato.
Il ragazzo sgranò gli occhi. – Ho gridato? Non ricordo –. Lo zio si stropicciò la guancia tra il pollice e l’indice, il rumore della barba contro le unghie, un rumore metallico e
umano, riempí lo spazio tra di loro.
– Qui sei al sicuro. Cerca di dormire.
Gli passò una mano sulla fronte e si avviò verso la camera da letto trascinando i piedi dentro le pantofole. Si
fermò sulla porta che separava il soggiorno dal corridoio
stretto e si voltò di nuovo per chiedere: – Come hai fatto
a ricordarti chi eri?
– È stato il tavolo. Quello che abbiamo comprato all’Ikea.
Mentre lo montavamo dicevi che una volta per fare un mobile ci voleva una settimana di lavoro o due, per un falegname, invece noi in un pomeriggio ce la saremmo cavata.
Ero certo che a dire quelle parole eri tu. Poi mia madre,
lei, la sua immagine, non so come mi ha restituito il nome.
– Buonanotte, Jon.
– Buonanotte, Marin.
Jon scandí piano ancora una volta: – Marin –. E dentro quelle sillabe sentí tutta la dolcezza dei nomi, delle
persone e delle cose, che basta pronunciare perché siano
vive. Le storie stavano dentro i nomi come le indicazioni
nei foglietti ripiegati della caccia al tesoro, quando giocava nel cortile della casa in cui viveva da piccolo, con altri
bambini. Se era solo faceva un gioco diverso: si chiudeva
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in camera e ripeteva fino a dieci volte il nome di una cosa, o il nome di un amico. Da principio gli sembrava che a
ogni ripetizione il nome prendesse un senso nuovo, che
dentro la sequenza familiare di lettere si nascondessero
infiniti significati ma, a forza di ripetere, il senso spariva
del tutto e rimaneva solo il suono indecifrabile, la sua voce ormai estranea. Gli venivano le vertigini, eppure erano
solo nomi, la cosa piú comune al mondo. Un altro gioco
d’infanzia si era trasformato in un’abitudine che non lo
abbandonava neanche da adulto. Ascoltava il respiro come se nel silenzio fosse l’unica prova del suo essere lí, in
quel momento e in quel luogo. Ogni volta osservava come
la concentrazione che metteva nell’ascolto delle variazioni
di emissione polmonare, dell’alzarsi e abbassarsi della cassa toracica, si separasse presto dal procedere automatico di
queste funzioni. Il suo corpo e i suoi organi preesistevano
a quell’altro se stesso che era fatto di volontà e pensiero.
Nel centro di Bucarest adesso era silenzio, non un silenzio perfetto, ma quel brusio sommesso che nelle città
accompagna le ore della notte. Jon guardò i libri sul tavolo
e le scarpe accostate alla sedia, il suo piccolo universo ricomposto nell’appartamento di via Lipova. Per il resto la
sua anagrafe era accidentata, padre morto, madre emigrata e lontana, gli studi di Agraria all’università pagati con i
soldi che arrivavano dall’Italia. Quello che aveva appena
sognato era la realtà che viveva di giorno, ma ingrandita
e dilatata: non era dolore, non era male, era indistinzione. Sopravvivenza.
Cominciò a seguire il ticchettio monotono dell’orologio
appeso alla parete e osservare gli oggetti che riempivano
la stanza e che non gli appartenevano. Di colpo la tappezzeria stinta gli sembrava buona, i vetri opachi della finestra gli sembravano buoni pure quelli, buono l’impianto
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stereo con cui lui e lo zio ascoltavano musica e che la sera ricoprivano con un panno. Tutto ciò che lo circondava
era pervaso da una bontà primordiale. O forse le cose gli
apparivano buone perché le vedeva inermi, perché inerme
vedeva se stesso. Ma era un errore, e lo sapeva; non doveva piú sentirsi vulnerabile, doveva andare avanti. Sulla
sedia ai piedi del divano letto c’erano i suoi vestiti, appoggiati alla spalliera, se n’era spogliato qualche ora prima e
li avrebbe indossati il mattino dopo e tutto sarebbe ricominciato, come sempre.
Ripensò alla giornata che aveva trascorso, al grande magazzino di mobili che aveva da poco aperto e dove si poteva comprare di tutto a prezzi tanto bassi. Rivide gli arredi dalle linee semplici, i tappeti, l’assortimento di tinte,
il legno verniciato a pastello, quegli oggetti che ti venivano incontro maneggevoli, colorati, invitanti, e ti facevano
pensare che chi li aveva progettati viveva una vita bella,
intelligente, con tante possibilità. Si alzò a sedere e guardò il tavolo Ikea che nel pomeriggio avevano assemblato.
Marin aveva ragione: non era solidissimo, ma era bello,
era costato poco, l’avevano costruito loro. Nel chiudere gli
occhi si domandò se anche in Italia ci fosse l’Ikea.
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