PARTE PRIMA Metà ottobre 1686 Amsterdam, canale

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PARTE PRIMA Metà ottobre 1686 Amsterdam, canale
PARTE PRIMA
Metà ottobre 1686
Amsterdam, canale Herengracht
Non desiderare le sue ghiottonerie,
sono un cibo fallace.
Proverbi 23, 3
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SOTTO E SOPRA
Sulla soglia della casa del marito Nella Oortman solleva e lascia cadere il battente a forma di delfino, imbarazzata dal rumore
sordo che produce. Non compare nessuno, anche se il suo arrivo
è stato annunciato. L’ora è stata decisa in precedenza e vi è stato
uno scambio di lettere, la carta della madre sottilissima di fronte
alla pergamena costosa di Brandt. No, pensa, questo non è certo
il migliore dei benvenuti, vista la fugace cerimonia di matrimonio
del mese passato: niente ghirlande, niente calice di fidanzamento, niente talamo nuziale. Nella appoggia il bauletto e la gabbia
dell’uccellino a terra. Lo sa che dovrà abbellirli per farne una
casa, una volta che avrà trovato una scala che la porti al piano di
sopra, una stanza e una scrivania.
Alcuni barcaioli ridono sullo sfondo dell’edificio in mattoni di
fronte alla casa e Nella si gira verso il canale. Un ragazzo gracile
si è scontrato con una donna e la sua cesta di pesce, e un’aringa
mezza morta sguscia lungo l’ampia gonna della venditrice. Le grida
roche della ragazza di campagna le entrano dentro: “Stupido! Stupido!” urla la donna. Il ragazzo è cieco, e tasta la terra alla ricerca
dell’aringa fuggita come se fosse un amuleto d’argento, muovendo
rapidamente le dita, che non hanno paura del contatto con il terreno. La prende, ridacchiando, correndo lungo il canale con il suo
trofeo, con il braccio libero pronto a parare eventuali colpi.
Nella esulta in silenzio e si espone a quel raro calore d’ottobre,
godendoselo finché può. Quella parte dello Herengracht è nota
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come Ansa d’Oro, ma oggi il vasto canale è marrone e prosaico.
Le case che incombono sul canale color fango sono un portento. Belle e imponenti, gioielli incastonati nell’orgoglio della città,
ammirano la loro stessa simmetria specchiarsi nell’acqua. Al di
sopra dei tetti la natura fa del suo meglio per reggere il confronto, e nuvole color albicocca e zafferano fanno da eco alle spoglie
della gloriosa Repubblica.
Nella si rigira verso la porta, ora socchiusa. Lo era già prima? Non saprebbe dire. La spinge, scrutando nel vuoto, investita
dall’aria fresca che risale dal marmo. “Johannes Brandt?” chiede
a voce alta, in preda a un leggero panico. Sarà un gioco? pensa.
Non mi muoverò di qui, dovesse arrivare gennaio. Peebo, il parrocchetto, fa vibrare la punta delle piume contro le sbarre della
gabbia e il suo flebile cinguettio si spegne sul marmo. Persino il
canale alle loro spalle, ora diventato quieto, sembra trattenere il
respiro.
C’è una sola cosa di cui Nella è sicura, mentre scruta più a fondo
nell’oscurità. Qualcuno la sta guardando. “Andiamo, Nella Elisabeth,” si dice varcando la soglia. Il marito la abbraccerà, la bacerà
o le stringerà la mano come se fosse solo una questione di affari? Al
matrimonio, circondato dai pochi parenti di lei e da nessun membro della sua famiglia, non ha fatto nessuna di queste cose.
Per far vedere che anche le ragazze di campagna conoscono le
buone maniere, Nella si china e si toglie le scarpe: fini, di pelle, le
sue scarpe migliori, naturalmente, anche se adesso non saprebbe
dire perché se le sia messe. Dignità, aveva detto la madre, ma la
dignità è decisamente scomoda. Nella sbatte le scarpe a terra,
nella speranza che il rumore desti qualcuno o magari lo spaventi.
La madre le dice sempre che ha troppa fantasia, la chiama Nella-tra-le-nuvole. Le scarpe, inerti, ricadono banalmente a terra, e
Nella si sente una stupida.
Fuori, due donne si salutano gridando. Nella si gira, ma dalla porta aperta riesce a vederne una sola, di spalle, andare incontro all’ultimo raggio di sole, alta, senza cuffia, con i capelli
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color oro. Anche a Nella si sono sciolti i capelli nel viaggio da
Assendelft, e una leggera brezza le fa uscire qualche ciuffo dalla
cuffia. Rimetterli dentro vorrebbe dire apparire ancora più nervosa di quanto già non sembri, così li lascia dove sono, a farle il
solletico al viso.
“Finiremo per avere un serraglio?”
La voce emerge dal buio dell’ingresso e veleggia rapida e sicura. Nella ha un brivido, perché scoprire che i propri sospetti
non sono infondati non esime dalla pelle d’oca. La ragazza osserva una figura insinuarsi nell’oscurità con una mano tesa, difficile
da dire se in segno di protesta o di saluto. È una donna, diritta,
slanciata e vestita del nero più nero, con una cuffia inamidata sul
capo e stirata fino a diventare una perfezione bianca. Non vi è
un ciuffo che le sfugga e la donna reca con sé un profumo vago e
strano di noce moscata. Ha gli occhi grigi e la bocca solenne. Da
quanto tempo è lì a guardare? Peebo saluta l’irruzione cinguettando.
“Lui è Peebo,” dice Nella. “Il mio parrocchetto.”
“Lo vedo,” risponde la donna guardandola dall’alto in basso.
“O meglio lo sento. Suppongo non abbiate portato altri animali?”
“Ho un cagnolino, ma è rimasto a casa...”
“Bene. Sarebbe un problema nei nostri ambienti. Graffierebbe il legno. I cani piccoli affettano maniere da francesi e spagnoli,” osserva la donna. “Sono frivoli come i loro padroni.”
“E sembrano topi,” aggiunge qualcuno da un punto non meglio definito dell’atrio.
La donna si acciglia, chiudendo per un attimo gli occhi, e
Nella la osserva, chiedendosi chi altro assista alla conversazione.
Deve avere una decina di anni in più di me, pensa, anche se ha la
pelle liscissima. La donna si dirige verso la porta alle spalle della
ragazza con una grazia di movimenti consapevole e priva di rammarico. Lancia una rapida occhiata di approvazione alle scarpe
linde sulla soglia e poi fissa la gabbia con le labbra serrate. Peebo
ha gonfiato le piume dalla paura.
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Nella decide di distrarre la donna stringendole la mano in segno di saluto, ma al contatto la donna sussulta. “Ossa forti per
una diciassettenne,” dice.
“Sono Nella. E ho diciotto anni,” risponde la ragazza ritraendo la mano.
“So chi siete.”
“In realtà mi chiamo Petronella, ma tutti a casa...”
“Mi è stato detto fin dall’inizio.”
“Voi siete la governante?” chiede Nella. Nell’oscurità dell’atrio qualcuno soffoca goffamente una risatina. La donna non
se ne cura e guarda fuori, nella luce madreperlacea del crepuscolo. “Johannes c’è? Sono sua moglie.” La donna continua a
tacere. “Abbiamo siglato il nostro matrimonio un mese fa, ad
Assendelft,” insiste Nella. Pare che non vi sia altro da fare se non
insistere.
“Mio fratello non è in casa.”
“Vostro fratello?”
Dall’oscurità giunge un’altra risatina. La donna guarda Nella
dritta negli occhi. “Sono Marin Brandt,” dice, come se Nella dovesse capire. Marin avrà anche uno sguardo duro, ma la ragazza
avverte l’accuratezza venirle meno, nella dizione. “Mio fratello non
c’è,” continua Marin. “Pensavamo arrivasse. Ma non è arrivato.”
“E dov’è?”
Marin guarda di nuovo fuori, verso il cielo. Muove la mano
sinistra come fosse una fronda e dall’oscurità nei pressi della scalinata emergono due figure. “Otto,” dice la donna.
Un uomo si dirige verso di loro e Nella deglutisce, premendo
i piedi freddi contro il pavimento.
Otto ha la pelle marrone scurissimo ovunque, il collo che
emerge dalla camicia, i polsi e le mani che spuntano dalle maniche, una distesa infinita di pelle marrone. Le guance alte, il mento, la fronte ampia, ogni singolo pollice. Nella non ha mai visto
un uomo simile in vita sua.
Marin sembra spiare una sua reazione. Gli occhi grandi di
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Otto non lasciano trasparire nulla rispetto alla fascinazione malcelata della ragazza. L’uomo fa un cenno del capo e Nella gli risponde con un inchino, mordendosi le labbra fino a che il gusto
del sangue non le ricorda di calmarsi. Osserva la pelle di Otto,
lucente come un seme levigato, i capelli neri che spuntano dal
cuoio capelluto. Sembrano una nuvola di soffice lana, non sono
piatti e unti come quelli degli altri uomini. “Io...” dice la ragazza.
Peebo si mette a cinguettare. Otto tende le braccia e i vasti
palmi delle mani rivelano un paio di soprascarpe. “Per i vostri
piedi,” dice.
Ha l’accento di Amsterdam, ma arrota le parole, rendendole calde e liquide. Nella prende le soprascarpe e gli sfiora la
pelle con le dita. Poi se le infila goffamente. Sono troppo grandi, ma non osa dirlo, almeno le piante dei piedi adesso sono
distanti dal marmo gelido. Stringerà il cinturino di pelle dopo,
al piano di sopra: se mai ci arriverà, se mai le consentiranno di
lasciare l’atrio.
“Otto è il servitore di mio fratello,” dice Marin, gli occhi sempre fissi su Nella. “E lei è Cornelia, la nostra domestica. Si occuperà di voi.”
Cornelia fa un passo avanti. È un po’ più grande di Nella,
avrà vent’anni, forse ventuno, ed è leggermente più alta. Infligge
a Nella un sorriso poco amichevole, squadrando la novella sposa
con i suoi occhi azzurri, spiando il tremore delle sue mani. Nella sorride, incenerita dalla curiosità della cameriera, balbettando
qualche futile ringraziamento. Prova in parte riconoscenza, in
parte vergogna, tuttavia Marin la interrompe.
“Vi mostro il piano superiore,” dice. “Avrete desiderio di vedere la vostra stanza.”
Nella annuisce e negli occhi di Cornelia compare un guizzo divertito. Il parrocchetto emette trilli giocosi che rimbalzano contro le pareti, e Marin indica alla domestica, con un movimento
secco del polso, che l’uccello deve andare in cucina.
“Ma le esalazioni dei cibi...” protesta Nella. Marin e Otto si
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girano di nuovo verso di lei. “A Peebo piace la luce.”
Cornelia prende la gabbia e la fa dondolare come fosse un
secchio. “Per favore, fa’ attenzione,” le dice Nella.
Marin incrocia lo sguardo di Cornelia. La domestica prosegue per la cucina, accompagnata dalla melodia di Peebo, flebile
e preoccupata.
***
Al piano di sopra, Nella è sopraffatta dalla sontuosità della sua
nuova stanza. Marin appare semplicemente contrariata. “Cornelia ha esagerato con i ricami,” dice. “Ma noi speriamo che Johannes si sposi una volta sola.”
Ci sono cuscini con le iniziali, un copriletto nuovo e due tende
rinfrescate di recente. “Il velluto pesante è indispensabile se si
vuole tenere lontana l’umidità del canale,” osserva Marin. “Questa era la mia stanza,” aggiunge spostandosi verso la finestra a
guardare le poche stelle che cominciano a comparire nel cielo
e posando la mano sul davanzale. “Ha una vista migliore, così
l’abbiamo data a voi.”
“Oh, no,” risponde Nella. “Allora dovete riprendervela.”
La donna e la ragazza sono una di fronte all’altra, circondate dalla
massa di ricami, da una profusione di lino ricoperto di B di Brandt
accerchiate da foglie di vite, trincerate in nidi d’uccello, soffocate
da aiuole di fiori. Le B hanno inglobato il nome da ragazza di Nella
con le loro pance grasse e gonfie. A disagio, ma vincolata dal dovere,
Nella sfiora con un dito la messe di lana che ora le grava sull’animo.
“La maestosa residenza dei vostri antenati, ad Assendelft, è
calda e asciutta?” chiede Marin.
“Può essere umida,” risponde Nella chinandosi e cercando di aggiustarsi le grosse soprascarpe maldestramente fissate ai piedi. “I canali di scolo non sempre funzionano. Non è così maestosa, però...”
“La nostra famiglia potrà anche non avere un lignaggio così
antico, ma cos’è il lignaggio di fronte a una casa calda, asciutta e
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