Le Abitazioni nella Roma Imperiale

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Le Abitazioni nella Roma Imperiale
LE ABITAZIONI NELLA ROMA
IMPERIALE
Stefano Bianchi
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1. La Domus Italica.
E’ quella che può essere considerata la capostipite della tipologia di abitazione
romana che poi si evolse in tutte le sue
diverse architetture.
Tali diverse condizioni abitative si
svilupparono, però, nel corso dei secoli,
poiché la primitiva tipologia dell’antica
casa italica, formata da un solo atrium
circondato da poche stanze con un
g
i
a
r
d
i Figura: prospetto di Domus Italica dove si nota
n il compluvium (2).
e
tto posteriore, presenta caratteristiche
comuni a tutte le abitazioni costruite in Figura: vestibolo (4), atrio (3), impluvio (1),
antichità dai Quiriti, a prescindere dalla stanze (5), tablino (6), giardino (7).
classe sociale.
Solo più tardi e ad imitazione di quella
greca, la domus italica si sviluppò in senso
orizzontale fino ad assumere, con
l’aggiunta di nuovi e più comodi
ambienti, l’aspetto della tipica casa
signorile; domus romana o semplicemente
Figura: spaccato di Domus italica, riferirsi
domus.
alle precedenti fig. per i numeri.
2. La Domus.
Occupata di solito da un’unica famiglia, era la casa urbana delle persone più
benestanti. Generalmente costituita dal solo pianterreno, mancava di un prospetto
esterno poiché sul lato della strada non si aprivano né finestre né balconi. Gli
ambienti erano numerosi e destinati ognuno ad un uso preciso.
L’ostium era l’ingresso principale attraverso il quale si accedeva ad un corridoio
detto vestibulum a metà del quale si apriva la vera e propria porta di casa; ianua. A
un lato dell’ostium si trovava la stanza del portinaio; cella ostiarii, oppure alcune
botteghe; tabernae, che erano comunicanti con la casa e si aprivano su strada. Il
vestibulum delle case più ricche era molto vasto ed ornato di colonne e di statue.
Quello era il luogo preposto ad accogliere i clientes per la salutatio matutina in
cambio della quale ricevevano un invito a pranzo o la borsa delle vivande, la
sportula. La ianua era formata da una soglia; limen, dagli stipiti; postes, sui quali era
posato una architrave di marmo; epistylium, sotto al quale si apriva la porta; fores, a
due ante; valvae. Da qui si entrava in un altro corridoio; fauces, che conduceva nella
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stanza principale della casa; l’atrium. Oltre a quest’ingresso ce n’era uno di servizio;
posticum, che da un vicolo laterale alla casa accedeva direttamente al peristylium.
Nell’atrium, di fronte all’entrata, era sistemato il lectus genialis, in ricordo dei tempi
in cui quest’ambiente era considerato il cuore della casa perché vi si accendeva il
focolare domestico ed era insieme stanza da lavoro, di ricevimento e camera
nuziale. Con lo sviluppo degli ambienti posteriori della casa, l’atrio rimase
un’anticamera grandiosa e sontuosamente arredata dove erano conservate le
immagini di cera degli antenati; imagines, i Lares, déi protettori della casa, in una
cappelletta
detta lararium,
la
cassaforte
domestica; arca,
e talvolta anche
un
ritratto
marmoreo del
pater
familias.
Un tavolinetto
di
marmo;
cartibulum,
addossato
al
muro costituiva
il
ricordo
dell’antico
focolare.
L’atrio
era
normalmente
quadrato e al
suo centro si
trovava
l’impluvium
dove
erano
raccolte le acque piovane da un apertura del tetto; compluvium, inclinata verso
l’interno. Quest’acqua era poi convogliata in una cisterna sotterranea.
Nella parete dell’atrio direttamente di fronte all’ingresso si apriva una grande
stanza detta tablinum. Aveva gli angoli delle pareti foggiate a pilastri e un’ampia
finestra prospiciente il peristylium da cui riceveva luce ed aria. Questa era la stanzastudio del padrone di casa dove erano conservati gli archivi di famiglia.
Ai lati sinistro e destro dell’atrio si aprivano le alae, costituite da ambienti il cui uso
era vario, ma nella maggioranza dei casi
Figura: spaccato prospettico di una tipica Domus Romana.
erano destinate a stanze da letto; cubicola.
Attraverso un corridoio chiamato andron,
dall’atrio si raggiungeva al pristylium, la parte più interna e spettacolare della casa.
Esso consisteva in un giardino in cui crescevano con ordine ed armonia erbe e fiori,
circondato su ogni lato da un portico, generalmente a due piani, sostenuto da
colonne: lo arricchivano numerose opere d’arte e ornamenti marmorei.
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Nel peristilio si aprivano due stanze grandi e lussuose: l’exhedra e l’oecus. La prima
era una grande stanza affrescata utile per ricevimenti e cene; l’altra era il triclinio
più grande della casa dove si tenevano i banchetti con gli ospiti di riguardo.
Anche i cubicola padronali davano sul peristilio, erano più ampi e luminosi di quelli
che si trovavano nelle ali dell’atrio ed erano decorati in un modo preciso: il mosaico
sul pavimento era bianco con semplici ornamenti, le pitture alle pareti erano diverse
per stile e colore da quelle del resto della casa e il soffitto sopra il letto era sempre a
volta. Nell’epoca imperiale, dopo esser venuti a contatto con i più raffinati Greci, i
Romani dotarono la casa di una sala riservata esclusivamente al pranzo, ma nei
tempi più antichi si banchettava nell’atrio o nel tablino.
La sala da pranzo vera e propria; triclinum, era una stanza vasta e sontuosa che
dava sul peristilio ed era fornita di letti triclinari su cui trovavano posto tre persone
(da qui il nome della sala) su ognuno, sdraiate sul lato sinistro col gomito
appoggiato ad un cuscino; i letti erano chiamati tori o triclinia.
Dalla sontuosità dei banchetti si potrebbe pensare che la cucina; culina, della casa
fosse sullo stile di quelle medievali, invece era il locale più piccolo e tetro della casa;
uno sgabuzzino occupato quasi tutto da un focolare in muratura, invaso dal fumo
che usciva da un buco sul soffitto perché non c’era camino. Annesso alla cucina
c’era il balneus, riservato alla famiglia padronale e le cellae servorum.
3. La Villa.
Nei possedimenti di campagna i ricchi Romani, che in città abitavano la domus,
avevano di regola due edifici: la villa rustica e la villa urbana.
La prima era una fattoria costruita secondo precise esigenze pratiche: vi erano due
cortili; cohortes, uno interno e l’altro esterno, in cui si trovavano le vasche; piscinae,
per abbeverare gli animali, per lavare la lana, macerare il cuoio ed altri usi.
Intorno ad ogni cortile sorgevano le stanze degli schiavi; cellae familiares, una grande
cucina, le stalle per buoi; bubilia, e per i cavalli; equilia, ed il pollaio; gallinarium.
Rivolti a nord, perché fossero sempre freschi e asciutti, c’erano i granai; granaria, i
seccatoi; horea, le stanze in
cui era conservata la frutta;
oporothecae, e la cantina; cella
vinaria.
Annessa alla costruzione
c’era l’aia; area, intorno alla
quale sorgevano i capanni
per la rimessa degli attrezzi;
plaustra.
La villa urbana, che sorgeva
nei
paraggi,
ma
non
necessariamente
così
prossima alla rustica, era più
sontuosa della domus, poiché
doveva offrire un soggiorno
piacevole e tranquillo. Vi
sorgevano numerosi e vasti
Figura: ricostruzione di villa che sorgeva presso Laurentum,
descritta da Plinio il Giovane nelle sue lettere.
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porticati sostenuti da lunghe file di colonne che garantivano lunghe passeggiate al
coperto, sia a piedi, che in lettiga, che a cavallo, nei giorni di maltempo. Era dotata
di triclini per l’estate, aperti, e per l’inverno, al chiuso, e di camere per il riposo
diurno; cubicula diurna. C’era anche una stanza da studio, una piscina per il nuoto;
piscina natatoria, e di un bagno fornito di calidarium, tepidarium e frigidarium come le
grandi terme pubbliche.
La villa era circondata da un terreno in parte coltivato ad orto ed in parte a
giardino; hortus, con fiori, piante rare, fontane, giochi d’acqua e statue.
4. Gli Horti.
I giardini Romani non assomigliavano assolutamente ai nostri. Pur essendo grandi
esperti delle bellezze di piante, fiori ed arte da esterno, i Romani possedevano, per
quanto riguarda le piante, solo poche varietà, giacché la selezione che ha portato
alle odierne specie non era ancora iniziata. Inoltre, i canoni estetici dell’antichità
erano sostanzialmente diversi dai nostri; pur apprezzando l’opulenza di un
giardino perfetto, ma sterile; l’indole pratica romana prevaleva anche su questo
aspetto della villa, facendo accostare alle piante ornamentali numerose colture di
alberi da frutta e di ortaggi. Ciò non significa che il giardino di una villa patrizia
fosse una piantagione di cavoli o di altro. In sostanza non c’era quella netta
divisione che si potrebbe avere oggi in campagna tra il giardino, solitamente ameno
alla casa, e l’orto propriamente detto. Lo stesso nome, hortus, andava ad indicare sia
la coltivazione prettamente estetica, che quella alimentarmene funzionale che erano
sviluppate nei pressi della villa.
Un esempio di specie non presente, così come la conosciamo, nei giardini latini è la
rosa. La produzione delle numerose varietà di rose che si conoscono avrà inizio
dopo le selezioni che avranno fatto i Persiani, svariati secoli dopo la caduta
dell’Impero d’Occidente. Nell’epoca imperiale l’unica varietà di rosa era quella che
oggi chiamiamo “Canina”; una corolla con pochi petali legata ancora alla sua
origine selvatica. I fiori di bordura erano gli stessi fiori che crescevano
spontaneamente nei campi e svariate erano le qualità di piante selvatiche usate per
decorazione; more, mirti, oleandri…
Con una tale, limitata, scelta delle varietà di specie, e dalla quasi totale assenza di
piante esotiche, il giardino romano rischiava di apparire monotono ed uniforme. Il
gioco era quindi nello sfruttare questi mezzi di partenza per creare qualcosa di
piacevole. Gli specialisti dell’ars topiaria cercavano di rendere movimentato
l'ambiente di un giardino operando, non tanto con i colori, ma con la forma delle
piante. Erano quindi potate nelle più strane forme e poste in modo da creare diverse
sfumature del verde del fogliame, dall’intensità del lauro, all’argento dell’ulivo, alla
compattezza dei cipressi fino alla lucida superficie delle foglie di pungitopo. Il resto
veniva dagli alberi da frutta che potevano vantare smaglianti fioriture, spesso anche
più incisive di quelle puramente ornamentali: si pensi alla bianca fioritura del
pesco; albero importato dall’oriente da Lucullo insieme al ciliegio ed ai locali peri e
meli; le albicocche, esotiche anche loro, furono importate dall’Armenia.
Un elemento indispensabile al giardino dei Quiriti era l’acqua: giochi di fontane e
sculture creavano stupendi ninfei, nelle cui acque era coltivato quel tipo di pianta
acquatica che chiamiamo proprio ninfea e che esplode in coloratissime fioriture.
Nicchie e mosaici ornavano questi angoli, che nelle villae più importanti
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raggiungevano dimensioni considerevoli (Nel ninfeo della villa di Domiziano ad
Albano Laziale, sui colli Albani, è stata ricavata una chiesa nel medioevo).
Piccoli ruscelli percorrevano il prato in canaletti di marmo cui erano attribuiti nomi
egiziani, euripi, canopi, nili.
Nel giardino era essenziale che ci fossero anche animali; soprattutto uccelli
ornamentali: pavoni, colombe, ibis, aironi, merli e passeri. Quelli rari erano tenuti in
enormi voliere all’interno delle quali passava spesso un corso d’acqua. Nelle villae
più raffinate, come quella di Lucullo al Tuscolo, si ponevano dei triclini all’interno
delle voliere così che i banchetti potessero essere consumati in un ambiente
rilassante e indicativo di agiatezza.
Molto più raramente, ce ne sono nella villa di Lucullo al Tuscolo, nei giardini erano
presenti delle vasche di itticultura, vere e proprie piscine dove erano allevati pesci
commestibili (anche di specie che noi oggi non mangeremmo come le Murene) dei
quali i Romani erano ghiottissimi.
Come per le voliere, una piattaforma era spesso posta al centro della piscina per
permettere di approntarci una mensa che stupisse anche i commensali più dediti ai
fasti.
5. Le Insulae.
In stridente contrasto con le splendide abitazioni signorili fin qui descritte, la
maggioranza del Popolo Romano alloggiava in grandi casamenti a più piani che
sorgevano nei quartieri popolari.
Le insulae erano sorte nel IV sec. a.C. dall’esigenza di offrire alloggio, entro il
ristretto territorio dell’Vrbs, ad una popolazione in continuo aumento. Nel periodo
imperiale queste costruzioni superavano il sesto piano di altezza, come la famosa
insula Felicles che si elevava su Roma come un grattacielo.
Costruite spesso da imprenditori privi di scrupoli che utilizzavano materiali
scadenti, amministrate da proprietari che miravano ad ottenere il massimo profitto
da affitti esagerati, le insulae erano spesso preda di incendi e i continui crolli che
minacciavano la sicurezza dei cittadini spinsero l’imperatore Augusto a proibire ai
privati di elevare costruzioni sopra i 70 piedi (21m circa). Le insulae avevano una
pianta di circa 300 mq, ma con tali sviluppi verticali sarebbero stati necessari
almeno 800mq di base che assicurassero stabilità all’edificio. Se si aggiunge che per i
muri maestri la legge non richiedeva uno spessore superiore a 45 cm, si può capire
che il primo incubo di un inquilino era vedersi crollare la casa addosso. (vedere
traduzione allegata)
Ciò avveniva con
tanta frequenza, che
alcuni speculatori ne
avevano fatto la
fonte principale dei
propri
redditi.
Crasso, ad esempio,
era famoso per la
rapidità con cui
accorreva sul luogo
Figura: ricostruzione di un Insula scoperta presso Ostia.
di un crollo offrendo
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allo sfortunato proprietario dello stabile di comprarlo lì stesso, a prezzo stracciato.
Le sue squadre di muratori, poi, lo ricostruivano in un batter d’occhio utilizzandone
le stesse macerie e la nuova insula, ancora più traballante, era riaffittata a prezzi
maggiori.
L’insula comprendeva, riuniti nei cenacula, corrispondenti all’incirca ai nostri
appartamenti, numerosi locali piuttosto angusti, areati da finestre che si
affacciavano sulla strada, e non destinati a un uso prefissato come quelli della
domus: spesso uno stesso locale fungeva da stanza da pranzo e da letto.
Anche per le insulae si poteva effettuare una differenziazione in due categorie: nei
palazzi più prestigiosi il pianterreno costituiva un’unità abitativa a disposizione di
un singolo locatario e assumeva l’aspetto e i vantaggi di una casa signorile alla base
dell’insula; nei palazzi popolari il pianterreno era occupato da magazzini e botteghe,
tabernae, in cui gli inquilini non solo lavoravano, ma vivevano e dormivano, poiché
una scala di legno univa la bottega ad un soppalco che costituiva anche l’abitazione
dei bottegai, tabernarii.
Particolarmente grave era il problema igienico perché tutti gli appartamenti
mancavano di condutture d’acqua e di bagni: lo splendore degli acquedotti romani
non deve indurre a credere che nelle case private ci fosse acqua corrente; a Roma,
infatti, le reti idriche e fognarie erano esclusivamente riservate all’uso pubblico e
tali rimasero. Solo le domus e le case signorili al pianterreno delle insulae potevano
usufruire, dietro pagamento di un canone molto alto, di un allacciamento privato.
L’acqua zampillava dalle fontane, entrava nelle terme e nei gabinetti pubblici, ma
non arrivava nei cenacula.
Va da se che non essendoci acqua corrente, nelle case non c’erano gabinetti nel
senso moderno del termine; nelle insulae ci si arrangiava lanciando da balconi e
finestre, che a differenza delle case signorili abbondavano, ogni sorta di rifiuti nelle
vie sottostanti.
Noi abitiamo in una città, che si regge in gran
parte su fragili puntelli; infatti, tramite questi il
padrone di casa cerca di rimediare alle mura pericolanti
e quando ha ricoperto con della calce la spaccatura di
una vecchia crepa, invita a dormire tranquilli anche
sotto la minaccia di un crollo improvviso. E’ meglio,
quindi, vivere dove la notte non scoppiano incendi e
non c’è alcun pericolo. Il povero Codro aveva un
piccolo letto, sei orioli, un tavolo e, sotto, una modesta
coppa; una cesta vecchia conservava dei libretti greci e
topi ignoranti rodevano le divine poesie. Niente
possedeva dunque Codro, chi lo nega? E tuttavia quel
disgraziato ha perduto nell’incendio della sua casa quel
poco che aveva. Il colmo della sventura è che nessuno
gli darà cibo e ricovero e lui va, nudo, chiedendo per
carità un tozzo di pane. Se, però, crolla il grande
palazzo del ricco Persico, ecco le donne sconvolte, i
patrizi in lutto e il pretore rimanda le udienze. In tal
caso piangiamo la sventura della città e malediciamo il
fuoco. Ancora l’incendio è acceso e già accorre chi dona
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marmo o partecipa alle spese; questi porterà nude e
candide statue, l’altro qualche capolavoro di noto
autore, questa ornamenti antichi di dei asiatici, quello
dà libri e scaffali e un busto di Minerva, l’altro una
quantità d’argento. E Persico, il più ricco tra i senza
figli, recupera più di quanto abbia perduto e già è
sospettato, a ragione, di aver bruciato lui stesso la sua
casa.
GIOVENALE (trad. S. Bianchi)
6. Suppellex.
Con questo unico termine i Romani definivano tutto ciò che serviva
all’arredamento e che si riduceva in genere ai letti, ai sedili, alle tavole e agli
armadi, oltre naturalmente a tutto ciò che serviva ad ornare la casa come quadri,
baldacchini, tende; velaria, e altro. Sebbene quasi priva di mobili, la casa romana
era fornita di vari tipi di letto: per dormire; lectus cubicularis, per studiare; lectus
lucubratorius, per pranzare; lectus tricliniaris, su cui venivano messi materassi;
culcitae, e cuscini; cervicalia, pulvini. Il letto era praticamente l’unico vero mobile
buono per tutti gli usi. I ricchi avevano letti di legno prezioso o in bronzo, intarsiati
d’avorio, di tartaruga oppure di legni diversi che davano effetti cangianti simili a
quelli delle piume del pavone; i poveri avevano letti in muratura addossati alla
parete e coperti da un pagliericcio. Esistevano letti ad uno, due e tre posti per i
banchetti e durante l’impero chi voleva ostentare un lusso particolare ne ordinava
a sei posti.
I sedili erano di tre tipi: scamnum o
subsellium, semplici sgabelli a
quattro gambe, la sella senza
spalliera, ma con i braccioli e la
cathedra con una spalliera lunga ed
arcuata, destinata generalmente
alle donne o a maestri e sacerdoti.
Il
seggiolone;
thronus,
con
schienale e braccioli era riservato
alle
statue
degli
dei.
Completavano il quadro i tavolini
a tre gambe o ad una gamba sola
con largo piedistallo. Le tavole per Figura: ricostruzione del Triclinum di una Domus di
l’esposizione
del
vasellame ceto medio-alto.
durante il banchetto erano chiamate abaci, mentre le mensae venivano poste presso
il letto triclinare perché i commensali potessero appoggiarvi le stoviglie: avevano
una, tre o quattro gambe e il materiale di fattura variava dal semplice legno al
prezioso avorio.
Gli armadi; armaria, appoggiati a terra o appesi al muro, avevano
approssimativamente la forma dei nostri. L’arca era bassa, di materiale pesante e
ornata di borchie di bronzo; conteneva il patrimonio liquido della casa.
Nelle case di lusso, il resto dell’arredamento era costituito da tappeti, coperte,
trapunte, cuscini e soprattutto da ogni sorta di oggetti preziosi: vasellame d’oro e
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d’argento, statue e ninnoli di ogni genere. La dimora di un senatore, ad esempio,
era in sostanza una serie di grandi stanze nude, in cui la ricchezza era testimoniata
dalla profusione delle stoffe e dei soprammobili rari, ma dove mancava tutto quel
genere di comodità con cui oggi noi identifichiamo il benessere.
7. L’illuminazione.
Le case romane erano piuttosto buie anche di giorno per il ridotto numero di
finestre e per la scarsa diffusione dei vetri alle finestre, sebbene durante l’impero il
lapis specularis fosse impiegato talvolta dalle famiglie agiate per chiudere l’alcova
della stanza da letto o per sostituire le tende alla portantina. Perciò le aperture che
davano luce e aria alla casa funzionavano bene solo quando il clima era mite. Col
freddo, o ci si ammalava per vedere o si sbarrava tutto con pesanti tende di pelle e
imposte di legno, a patto però di togliere luce completamente alla casa. Candele e
torce risolvevano alla meglio il problema. La casa era solitamente illuminata con
lampade ad olio; lucernae, o candelae diverse dalle nostre, formate da cordicelle,
ricoperte di sostanze grasse o cera, che venivano intrecciate come funi e fissate a
candelabri detti lychni.
Per spostarsi all’interno degli ambienti si faceva luce con la lanterna a mano;
lanterna, retta da uno schiavo adibito a questa mansione; lanternarius, e formata da
un lume a olio protetto da sottili pareti di mica.
Le fiaccole di legno resinoso dette taedae erano invece usate in occasioni importanti
come matrimoni o funerali.
8. Toponomastica delle vie.
Indicare l’ubicazione di un’abitazione costituiva un grosso problema; per l’assenza
di nomi alle strade e la totale mancanza di numerazione civica alle case. Per fornire
un indirizzo era perciò necessario ricorrere ad indicazioni quasi tutte
approssimative, causa spesso di equivoci, errori e perdite di tempo. A meno della
remota ipotesi che la propria casa fosse un edificio particolarmente noto: il Palazzo
Imperiale…l’Insula Felicles. Un secondo caso, anch'esso non molto diffuso, era che
la propria via di residenza fosse una delle poche alle quali, anche se in maniera
non ufficiale, era stato tributato un nome: la via Sacra, la via Salaria, una via
Consolare…; nome che derivava dall’uso che se ne faceva, da dove proveniva o da
chi l’aveva fatta costruire.
BIBLIOGRAFIA:
FLOCHINI, GUIDOTTI BACCI “Il Nuovo Libro degli Autori” Bompiani 1993
CALVANI, GIARDINA “Storia Antica–Roma“ Laterza 1992
BRANCATI “I Popoli Antichi 2” La nuova Italia 1988
MONTANELLI “Storia di Roma” Rizzoli 1991
COMASTRI MONTANARI “Cave Canem” Hobby & Work 1999
Le Immagini sono tratte da: BRANCATI “I Popoli Antichi 2” La Nuova Italia 1988
CALVANI, GIARDINA “Storia Antica–Roma“ Laterza 1992
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