Il management come scienza sociale: una rilettura delle teorie sulla
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Il management come scienza sociale: una rilettura delle teorie sulla
Il management come scienza sociale: una rilettura delle teorie sulla corporate governance* CLELIA MAZZONI** MARIO MUSTILLI*** Abstract La relazione si propone di aprire il dibattito sul problema della governance dell’impresa - tema centrale del Convegno - prendendo spunto da alcune riflessioni contenute nell’articolo di Goshal (2005). In particolare si intende trattare le questioni metodologiche ed epistemologiche che sono alla base del lavoro di Goshal e rileggere la teoria dell’agenzia e gli altri contributi teorici sulla corporate governance alla luce di tali premesse epistemologiche. Partendo dalla “pretesa di conoscenza” della scienza economica (von Hayek, 1974), derivante dall’intento di utilizzare le stesse metodologie delle scienze esatte, ci si propone di interpretare gli approcci teorici implicitamente utilizzati in economia per fronteggiare il problema del “demarcazionismo” (individuazione dei parametri idonei a distinguere una teoria scientifica da una teoria che non lo è). Si giunge, per tale via, ad indicare un possibile orientamento metodologico post-positivista fondato su quattro direttrici: 1) l’obiettivo dell’analisi teorica non è tanto quello di rivelare la verità, quanto piuttosto di attivare una possibile visione del mondo; 2) l’atto cognitivo non dipende solo dalle caratteristiche dell’oggetto osservato, ma anche dalle caratteristiche del soggetto osservante; 3) occorre valorizzare una reciproca contaminazione tra le metodologie considerate tipiche delle scienze della natura e quelle accreditate come proprie delle scienze esatte; 4) la coesistenza di punti di vista differenziati e l’impossibilità di dominio completo della realtà non implicano la rinuncia al metodo weberianamente inteso. Il tema della corporate governance viene affrontato all’interno di una tale cornice concettuale. L’esistenza di una semplificazione della relazione principal-agent, così come descritta dalla teoria dell’agenzia, viene argomentata attraverso una ricostruzione storicoteorica della teoria d’impresa sul tema della governance. La transizione dall’imprenditoreimpresa (che riunisce le prerogative del sapere, coordinare ed investire) all’impresaorganizzazione (nella quale la proprietà non detiene più integralmente il potere di disposizione) impedisce di utilizzare schemi di connessione lineare nell’analisi del fenomeno della governance ed impone, invece, una visione del sistema d’impresa come luogo di compresenza di soggettività differenziate, portatrici di un proprio progetto e di una propria dotazione conoscitiva. In questa logica la relazione ripercorre il contributo teorico fornito dalla teoria dei contratti, a partire dall’originario contributo di Coase (1937). * ** *** Pur essendo la relazione frutto di un lavoro di intensa collaborazione tra i due autori, nella stesura finale i paragrafi 1 e 2 sono stati scritti da Clelia Mazzoni, mentre i paragrafi 3 e 4 sono stati curati da Mario Mustilli. Straordinario di Economia e Gestione delle Imprese - Seconda Università di Napoli e-mail: [email protected] Ordinario di Economia e Gestione delle Imprese - Seconda Università di Napoli e-mail: [email protected] sinergie n. 73-74/07 4 IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE Questa discussione è supportata da alcune evidenze riscontrate nell’analisi empirica, in cui si affrontano i temi della relazione tra concentrazione del capitale e performance dell’impresa, delle imprese a proprietà familiare, della presenza di un investitore finanziario nel pacchetto azionario, di fenomeni come quelli della double agency e della multiple agency. Nelle conclusioni, rigettando l’ipotesi di dover necessariamente scegliere tra una gerarchia del capitale e una gerarchia del lavoro, si propone di guardare alla governance come alla possibilità di costruire un sistema di strutture organizzative e di regole interne in grado di permettere e assecondare l’avvicendamento tra capitale e lavoro, in funzione delle conoscenze detenute e delle specifiche condizioni di contesto. Parole chiave: metodo scientifico, scienze sociali, corporate governance, teoria dell’agenzia Our paper sets out to open the debate on the question of corporate governance - a key topic at the Conference - taking its cue from some considerations in Goshal’s article (2005). We aim to tackle the methodological and epistemological questions that underpin Goshal’s work and re-interpret agency theory and other theoretical contributions on corporate governance in light of such epistemological basis. Starting from “the Pretence of Knowledge” of economic science (von Hayek, 1974), deriving from the intent to use the same methods as the exact sciences, we propose to interpret the theoretical approaches used in economics to deal with the problem of “demarcationism” (identification of suitable parameters to distinguish a scientific theory from one that is not). This leads us to indicate a possible post-positivist methodological orientation based on four principles: 1) the aim of theoretical analysis is not so much to reveal the truth as to activate a possible vision of the world; 2) the cognitive act does not depend only on the characteristics of the object observed, but also on the characteristics of the observing subject; 3) we must capitalise upon reciprocal contamination between methods considered typical of the natural sciences and those deemed to belong to the exact sciences; 4) the coexistence of different viewpoints and the impossibility of complete dominion of reality do not entail giving up method in the Weberian sense. The issue of corporate governance is handled within the above conceptual framework. The existence of a simplification of the principal-agent relationship, as described by agency theory, is argued through a historico-theoretical reconstruction of corporate theory on the issue of governance. The transition from entrepreneur-firm (which combines the prerogatives of knowing, coordinating and investing) to the firm-organisation (in which the owner no longer holds complete power of disposal) prevents the use of linear linkages in analysing the phenomenon of governance. Instead, it imposes a conception of the corporate system as the site where there is the co-presence of different subjects, bearers of their own projects and their own baggage of knowledge. Within this rationale, the relationship follows the theoretical contribution supplied by contract theory, starting from the original contribution of Coase (1937). This discussion is supported by some evidence found in empirical analysis, in which the following issues are tackled: the relationship between capital concentration and firm performance, family-run firms, the presence of a financial investor in the shareholding, and phenomena like those of double agency and multiple agency. In conclusion, rejecting the notion of having to choose between a hierarchy of capital and one of labour, we propose to view governance as the possibility of building a system of organizational structures and internal rules that can allow and support alternation between capital and work, according to knowledge possessed and specific contextual conditions. Key words: scientific method, social sciences, corporate governance, agency theory CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI 1. 5 La “pretesa di conoscenza” Il XVIII convegno annuale di Sinergie si propone di discutere un tema centrale del capitalismo contemporaneo - la governance dell’impresa - rivisitando le principali teorie economiche sull’argomento, analizzando le premesse epistemologiche e metodologiche di tali teorie e osservando le conseguenze prodotte, attraverso il loro insegnamento, sulla prassi aziendale. Lo spunto per tali approfondimenti è contenuto in alcuni articoli pubblicati tra il 1996 e il 2005 da Sumantra Ghoshal (Ghoshal-Moran, 1996; Ghoshal, 2005). Questa prima relazione intende aprire il dibattito sul tema, iniziando la trattazione dal punto da cui prende le mosse l’articolo di Ghoshal del 2005: la pretesa di conoscenza. Come si può vedere dalla figura 1 - in cui Ghoshal ripercorre le tappe attraverso le quali, a suo avviso, le cattive teorie distruggono le buone pratiche - la pretesa di conoscenza, unitamente a quella che l’autore indiano definisce “la visione ideologica fosca”, determina il predominio di teorie fondate su ipotesi deboli e scarsa attinenza con la realtà, che - in un processo di autoavveramento generato attraverso il loro reiterato insegnamento nelle aule universitarie e nelle business school - determinano realtà fattuali giudicate dannose. È quanto è accaduto, secondo l’autore, divulgando accademicamente la teoria dell’agenzia e attuando, nelle imprese, le prescrizioni derivate dalla relazione principal-agent, così come veniva descritta da Jensen e Meckling (1976). La locuzione “pretesa di conoscenza” fu usata da von Hayek nella sua Nobel Lecture in occasione della consegna del Premio Nobel per l’economia (von Hayek, 1974). Von Hayek sostenne, in quella sede, che esiste una propensione degli economisti ad imitare acriticamente le procedure proprie delle scienze fisiche e che questa tendenza può generare errori significativi. L’importazione del metodo “scientifico” nelle scienze sociali, secondo l’autore austriaco, genera effetti decisamente “non scientifici” in quanto non tutti i fenomeni sotto osservazione in tali discipline sono esprimibili attraverso dati quantitativi e spesso la rilevazione e la misurazione portano ad escludere alcuni fattori importanti. Mentre nelle scienze fisiche - afferma von Hayek - si presuppone che le principali determinanti di un certo evento sono direttamente misurabili e osservabili1, nello studio di fenomeni complessi, quali ad esempio quelli di mercato, non tutte le variabili sono sottoponibili a tale certa quantificazione; l’ossessione della valutazione numerica genera il pericolo di considerare rilevanti i fattori sottoponibili a misurazione piuttosto che quelli realmente significativi. Ghoshal, riprendendo Clegg e RossSmith (2003), definisce il pregiudizio che collega la bontà di una teoria al metodo adoperato nelle scienze naturali “la superbia dell’invidia della fisica” (2005, 64). Il concetto è approfondito da altri autori, che sottolineano come l’istanza di validazione ingessa la costruzione di teorie, rendendo necessario ad ogni step una verifica che può addirittura essere controproducente ai fini della generazione di 1 Nel prosieguo di questa relazione si dirà che, in alcuni casi, questa affermazione non è così vera neanche per le cd. scienze esatte. IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE 6 nuove conoscenze (Weick, 1989, 516-519). Ghoshal articola il suo pensiero utilizzando alcune categorie riprese da Elster (1983) per differenziare la concettualizzazione nei diversi campi del sapere, distinguendo in particolare le spiegazioni causali (ossia quelle sostenute da una relazione causa-effetto) tipiche delle scienze naturali, da quelle funzionali (potremmo definire così gli eventi generati da un’utilità) proprie della biologia, da quelle intenzionali (ci si riferisce ad azioni individuali fondate su un intendimento, su un obiettivo) appropriate per le scienze sociali e, quindi, per gli studi di management (Ghoshal, 2005, 53 e ss.). Secondo Ghoshal l’adozione dell’approccio scientifico alla ricerca ci ha indotto a sostituire “i concetti di intenzionalità umana con una fede incrollabile nel determinismo causale per spiegare tutti gli aspetti della performance organizzativa” (ivi, 53). Visione ideologica fosca La pretesa di conoscenza Determinismo causale e negazione di qualsiasi ruolo delle scelte e delle intenzioni umane Eccessiva rivendicazione di verità basata su analisi parziali e ipotesi sbilanciate Ipotesi negative su persone e istituzioni Le teorie influenzano la pratica e i manager adottano la visione dominante dei teorici Le ipotesi negative diventano concrete attraverso il processo della doppia ermeneutica Fig. 1: La struttura dell’articolo di Ghoshal Fonte: Ghoshal, 2005, 52 Il tema della pretesa di conoscenza apre il varco alla questione dell’identità delle scienze economiche (e, dal punto di vista a noi più vicino, dell’economia d’impresa), questione che riverbera i suoi effetti sull’azione imprenditoriale, sulla pratica manageriale e sulle potenzialità del circuito insegnamento-apprendimento2. 2 L’apprendimento interviene quando i concetti incontrano le esperienze attraverso la riflessione (Mintzberg-Gosling, 2002). CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI 7 Questo intervento si pone l’obiettivo di affrontare la questione epistemologica nelle scienze sociali e di tratteggiare - nell’ambito dell’attuale panorama della filosofia della conoscenza - un possibile punto di vista per lo studio e l’insegnamento delle discipline economiche. Nella seconda parte della relazione la cornice concettuale proposta verrà utilizzata per rileggere la teoria dell’agenzia e gli altri contributi teorici sulla corporate governance alla luce di tali premesse epistemologiche. 2. Economia ed epistemologia: una proposta post-positivista La tesi di fondo è che, nel panorama contemporaneo, i processi legati alla cognizione e al trasferimento di conoscenza nelle nostre scienze (ma probabilmente il discorso può essere ampliato a molte scienze sociali e, come si è già accennato, perfino ad alcuni aspetti delle scienze naturali) non rispondono a logiche deterministiche e universalistiche, ma piuttosto ad una paziente accettazione del pluralismo delle ipotesi, alla coesistenza di più punti di vista, al riconoscimento di un mondo della conoscenza reale solo come parte del mondo della conoscenza possibile. Fenomeni complessi - come quello della corporate governance - che presentano caratteri variegati e molteplici (spesso addirittura contraddittori al loro interno) non possono essere ricondotti a schemi di spiegazione che si avvalgono di corrispondenze semplificate. Occorre, in tal senso, imparare a catturare alcuni segnali deboli presenti nella realtà economica d’impresa là dove la debolezza del segnale “non sta ad indicare una sua scarsa rilevanza cognitiva, ma piuttosto la difficoltà di riuscire a cogliere fenomeni di cambiamenti ancora in nuce, che possono però avere un assai elevato significato qualitativo e di prefigurazione di tendenza” (Vaccà, 1985, 20). Evidentemente tali segnali deboli sono spesso difficilmente misurabili e/o validabili, almeno in prima istanza, secondo una logica positivista di stretto ancoraggio delle teorie ai fatti. La volontà del positivismo3 di adattare il metodo delle scienze della natura anche alle scienze sociali, identificando nella conoscenza sperimentale la sola conoscenza scientifica, ha comportato che nel concetto di 3 Va sottolineato che il termine “positivismo” viene adoperato in un’accezione tutt’altro che univoca, tanto da spingere Lakatos ad affermare: “tutte le volte che sentite pronunciare questa parola, chiedete una definizione, pensate alla definizione, e non alla parola” (Lakatos, 1995, 45). Com’è noto, Comte - ritenuto da molti il padre del positivismo - sostenne che la conoscenza dell’uomo attraversa tre stadi, quello teologico, quello metafisico per poi raggiungere quello positivo. Nello stato teologico la spiegazione dei fenomeni viene effettuata facendo riferimento a forze che dominano la realtà dall’esterno. Nello stato intermedio - quello metafisico - la realtà è interpretata ricorrendo a principi astratti e spesso soggettivi, mentre nello stadio positivo tutto è giustificato riportandosi alla rilevazione empirica e alle leggi desumibili da questa rilevazione (Izzo, 1991, 63-64). 8 IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE metodo, così come si è venuto costituendo nella tradizione, sono implicite le nozioni di obiettività e di dimostrabilità che escludono ogni intervento del soggetto osservante (Vattimo, 1983, V). Nonostante le rilevanti critiche mosse da più parti nei confronti del modello positivista, esso pervade ancora concettualmente le nostre coscienze di ricercatori riuscendo a condizionare in modo significativo i giudizi interpretativi sul mondo e l’idea stessa di conoscenza (Paoli, 2006, 15). Nel prosieguo di questo paragrafo si fornirà dapprima un quadro panoramico di come, implicitamente o esplicitamente, l’economia abbia subito le influenze di alcuni correnti di pensiero dominanti in campo epistemologico. Successivamente si presenterà un possibile approccio al problema della pretesa di conoscenza sollevato da Ghoshal, secondo canoni, a nostro avviso, compatibili con l’economia della complessità. 2.1 Il demarcazionismo nella teoria economica Il “demarcazionismo” costituisce il problema a monte della “pretesa di conoscenza”: esso pone l’esigenza, avvertita da tutti coloro che fanno ricerca in qualsiasi campo del sapere, di individuare la linea di demarcazione tra una buona teoria e una cattiva teoria o, in chiave relativa, tra una teoria migliore ed una peggiore. Espressa in termini più estremi, l’istanza ci spinge a chiedere di distinguere una teoria scientifica da una teoria non scientifica. Il tema del demarcazionismo è stato, ed è attualmente, affrontato in economia con diversi gradi di consapevolezza e utilizzando soluzioni molto differenziate. Tale varietà di impostazioni riflette la pluralità di risposte che sono state date alla questione nell’epistemologia contemporanea e testimonia una ricerca di schemi di spiegazione - anche alternativi a quelli tradizionali - per dare giustificazione al progredire della conoscenza. Al tempo stesso, dimostra l’impossibilità di procedere operando gravi semplificazioni. Allo scopo di condividere questa eterogeneità interpretativa, nel seguito si descrive l’influenza dei principali indirizzi demarcazionisti su alcuni economisti o su certe teorie economiche4. È abbastanza facile riconoscere l’influenza della scuola induttivista5 in economia e nell’economia d’impresa. L’approccio metodologico influenzato dall’originaria teoresi baconiana, che nella sua versione classica attribuisce dignità scientifica solo alle teorie dedotte dai fatti, è stato riproposto nel XX secolo in versioni più blande: il probabilismo, secondo il quale anche se le teorie non possono 4 5 La breve ricostruzione che segue è stata effettuata sulla base di diverse fonti, ma soprattutto tenendo conto di alcune opere che si sono occupate di epistemologia in riferimento alla scienza economica (tra cui, in particolare, Pheby, 1991) e delle lezioni tenute da Imre Lakatos presso il Dipartimento di filosofia, logica e metodo della London School of Economics (Lakatos, 1995, 25-159). Com’è noto, tale impostazione basa il lavoro scientifico su verifiche empiriche scrupolose che consentono gradualmente - attraverso osservazioni ripetute - di giungere alla definizione di leggi generali. CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI 9 essere rese certe dall’osservazione empirica, possono da quest’ultima almeno essere rese probabili e il verificazionismo, che riporta la validità di una asserzione alla sua decidibilità attraverso un esperimento. Appare chiaro che tali versioni deboli sono sorte nel tentativo di rendere i principi induttivi compatibili con una loro concreta applicazione al mondo della ricerca contemporanea. In economia è evidente l’influenza del probabilismo in tutte le ricerche che utilizzano l’inferenza e la statistica campionaria per dimostrare delle ipotesi. Come sappiamo, questo standard è molto diffuso nelle comunità di management statunitensi ed è uno degli elementi che viene valutato nei processi di referaggio per la pubblicabilità degli articoli sulle riviste internazionali6. Più raramente si ritrova in economia una concreta adesione al falsificazionismo7, sebbene alcuni riconoscimenti espliciti alla teoria di Popper siano stati fatti da illustri economisti (von Hayek, 1974, 214)8. Nella logica popperiana, la sopravvivenza di una teoria al processo di falsificazione non rende la teoria definitivamente “vera” ma le consente di irrobustirsi, contribuendo al cammino di avvicinamento alla descrizione della realtà oggettiva e, seppur provvisoriamente, le attribuisce carattere di scientificità. In riferimento ai temi del management, Ghoshal afferma che il falsificazionismo può essere crudele in quanto nessuna teoria generalmente spiega completamente un certo fenomeno ed anzi molte teorie diverse (o perfino incoerenti) possono concorrere a comprendere gli stessi eventi (Ghoshal, 2005, 65). L’esistenza 6 7 8 Generalmente all’induttivismo viene contrapposto il deduttivismo, che procede attraverso argomentazioni logiche nella costruzione teoretica. Non è corretto, però, a nostro avviso, giudicare il deduttivismo come un criterio di demarcazione in quanto - a differenza di quanto accade per la scuola induttivista - esso non suggerisce tanto una modalità di distinzione tra scienza e non-scienza, quanto piuttosto una metodologia per la formulazione delle teorie. La teoria economica si è avvalsa, in ogni caso, di importanti contributi fondati sul deduttivismo: si sono serviti ampiamente di riflessioni deduttiviste Ricardo, una gran parte dei teorici marginalisti e i principali esponenti della scuola austriaca (in particolare von Mises). Popper (1970, 1984) critica aspramente la possibilità di utilizzare l’induzione per comprovare una certa teoria e propone di effettuare la validazione della teoria in step successivi: - esporre il problema e formulare una teoria provvisoria; - avanzare ipotesi coerenti; - specificare i falsificatori potenziali della teoria, ossia esplicitare a quali condizioni la teoria può essere falsificata; - eliminare gli errori e le ipotesi dubbie attraverso il processo di falsificazione, scartando le teorie che sono state falsificate; - proporre una nuova teoria, più robusta della precedente, nel senso che spieghi tutto quanto veniva spiegato dalla teoria precedente e superi le obiezioni provenienti dalla falsificazione. In questo processo non è consentito, secondo Popper, procedere attraverso manovre ad hoc, ossia mirate a salvare la teoria precedente, giustificando la parte falsificata come un’eccezione (exception barring). Si è molto discusso della vicinanza tra l’impostazione epistemologica di von Hayek e il falsificazionismo popperiano. Sul tema si veda Pheby, 1991, 163-165. 10 IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE di spiegazioni parziali o contraddittorie dovrebbero essere rifiutate nella logica della falsificazione, ma con esse si potrebbero gettare via punti di vista che contribuiscono ad arricchire l’interpretazione di un fenomeno. Un’impostazione molto utilizzata in economia fa capo al convenzionalismo (o strumentalismo), secondo cui la buona teoria si distingue per la sua capacità di effettuare previsioni valide. In tal senso le teorie sono da considerarsi convenzioni piuttosto che rappresentazioni della realtà e il problema della demarcazione si risolve attribuendo validità scientifica alle teorie che consentono di calcolare con affidabile approssimazione lo stato futuro di alcuni fenomeni. Possiamo far rientrare in questa corrente la presa di posizione epistemologica di Milton Friedman che definì come compito dell’economia positiva quello di procurare un sistema di generalizzazioni utilizzabili per formulare previsioni corrette (Friedman, 1953). La validità della teoria va valutata per l’esattezza, la portata e la coerenza delle previsioni (ibidem). A differenza di quanto sostengono altri autori9, secondo Friedman da una buona impostazione positiva possono dedursi efficaci effetti normativi: il tema fu ripreso anche nella sua Nobel Lecture del 1976, dove affermava che “la conoscenza scientifica positiva, che ci consente di prevedere le conseguenze di una possibile decisione, costituisce certamente una precondizione del giudizio normativo secondo cui quella decisione è più o meno desiderabile” (Friedman, 1976, 256). Volendo portare un esempio, se si accetta che esiste una correlazione tra la quantità di moneta messa in circolazione e l’inflazione (definizione positiva) ne possono derivare interessanti prescrizioni di carattere normativo in chiave di politica economica (tenere sotto controllo l’immissione di moneta). Rientrano in questo tipo di logica molti modelli econometrici mirati a calcolare il risultato sulle variabili dipendenti di alcuni movimenti delle variabili indipendenti10. La propensione a sviluppare modelli previsivi si sta diffondendo anche nelle discipline manageriali: Boisot e MacMillan, ad esempio, stanno implementando un modello in grado di simulare il mutamento delle coordinate all’interno di un certo settore in funzione delle caratteristiche della conoscenza posseduta dagli agenti economici (Boisot-MacMillan-Han-Eun, 2003; CanalsBoisot-Mac Millan, 2004). In alcune teorizzazioni dell’economia d’impresa, si avverte anche una certa adesione al relativismo, che affronta il tema del demarcazionismo confutando l’esistenza di una verità assoluta o, almeno, respingendo la possibilità che la realtà sia conoscibile o interamente conoscibile. Esistono molte versioni diverse di questo indirizzo di pensiero che coinvolge temi che vanno spesso oltre la disputa epistemologica11. Di particolare significato è la posizione di anarchismo epistemologico propugnata da Paul Feyerabend (1973; 1995), il quale, negando 9 10 11 Sen sostiene che la metodologia dell’economia positiva ha portato ad eludere l’analisi normativa (Sen, 2004, 13-14). I modelli econometrici più avanzati cercano di spiegare fenomeni meno chiaramente correlati da relazioni semplici, ma spesso fanno fatica ad inglobare comportamenti caratterizzati da incertezza, interrelazione e retroazione. Si pensi all’attuale dibattito religioso, che tocca spesso il tema del relativismo morale. CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI 11 l’esistenza di un’opinione migliore di un’altra, non solo disconosce la possibilità di avere un criterio di demarcazione oggettivo, ma provocatoriamente afferma che l’anarchico epistemologico può difendere - usando ogni mezzo - una propria tesi, pur essendo convinto che essa non costituisca affatto la verità. In questa concezione la verità è l’opinione del vincitore che utilizza la retorica12, l’emozione, la forza di gruppi organizzati e ogni altro strumento possa risultare utile per far prevalere la sua tesi13. Si possono riportare in qualche modo all’impostazione relativistica le teorie che, specialmente in ambito organizzativo, utilizzano approcci contingenti (Lawrence-Lorsch, 1967; Galbraith, 1973), nei quali viene negata la possibilità di giungere a conclusioni di vasto raggio senza tradire in qualche modo la località e la temporalità dei casi in studio14. Infine, sono anche ben visibili casi in cui la scienza economica ha risolto il problema del demarcazionismo affidando - più o meno implicitamente - il giudizio di scientificità alla comunità accademica, secondo un’impostazione definita autoritarismo elitario che si rifà soprattutto all’opera di Kuhn (1979)15. Secondo quest’indirizzo di pensiero, la demarcazione viene effettuata dalle scuole disciplinari che - in un certo momento storico - attribuiscono dignità scientifica ad un paradigma dominante, assumendo una certa visione del mondo16. Possiamo 12 13 14 15 16 Faccipieri evidenzia che il concetto di retorica non gode di una buona reputazione perché nella concezione comune implica la volontà di convincere con l’uso abile del linguaggio piuttosto che con la forza delle argomentazioni. Nella realtà egli sottolinea che esistono diverse forme di retorica e, in particolare, esiste una retorica propria della scienza che mira alla persuasione “attraverso e non a prescindere” dal valore della tesi sostenuta (Faccipieri, 1993, 15-16). Il sistema della conoscenza, secondo la visione di Feyerabend, può svilupparsi solo lungo sentieri di non conformità, ricercando controdeduzioni per le teorie affermate o per ciò che appaiono fatti acclarati. La risposta al tema del demarcazionismo viene data da Feyerabend utilizzando il criterio di incommensurabilità che nega la possibilità di confronto tra teorie rivali. A tale principio Feyerabend accompagna due corollari: quello della tenacia, che in contrapposizione alle tesi falsificazioniste, consiglia di non abbandonare la teoria anche in presenza di fenomeni contraddittori (cita al proposito le scoperte di Galileo che potettero affermarsi soprattutto grazie alla sua passione e alla sua caparbietà) e quello della proliferazione, che auspica sempre la compresenza di molteplici teorie su un certo tema, anche incoerenti tra di loro. Va precisato che le richiamate teorie organizzative non giungono alla conclusione estrema dell’impostazione relativista che porterebbe a definire l’inutilità della ricerca di principi guida per la progettazione dell’organizzazione: anzi, nel presupposto che la migliore organizzazione non è definibile in assoluto, ma dipende dalle caratteristiche dell’ambiente, sia Galbraith che Lawrence e Lorsch ricercano correlazioni tra tipologie di ambienti e strutture organizzative ottimali. Sul tema si veda, tra gli altri, Scott, 1994, 117-119. Lakatos (1995, 37) riporta a questa impostazione anche il pensiero di Polanyi e di Merton. Un paradigma diventa dominante (superando la fase della “pre-scienza”, in cui esistono molteplici teorie concorrenti) allorquando vi aderisce un numero ampio di studiosi. Durante la fase successiva (definita da Kuhn di “scienza normale”) la teoria viene 12 IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE descrivere come paradigma dominante l’impostazione macroeconomica keynesiana che soppiantò - con un processo analogo a quello descritto da Kuhn per le rivoluzioni scientifiche - la Legge di Say (Pheby, 1991, 81 e ss.). Paradigmi dominanti in economia d’impresa sono stati nel tempo il sistema fordista, la pianificazione strategica, la produzione flessibile e, oggigiorno, l’economia della conoscenza e il knowledge management. 2.2 Il “pluralismo metodologicamente fondato”: possibili direzioni per la ricerca in economia L’economia con la quale noi oggi ci interfacciamo è fondata sulla complessità. Quest’ultima non ha soltanto una natura fenomenologica (in quanto sono oggettivamente più complessi i fenomeni che in essa si muovono: i mercati, le imprese, le tecnologie, i consumatori, ecc.), ma ha anche un carattere epistemologico, nel senso che da più parti viene contestata l’esistenza di un’unica possibilità interpretativa e conoscitiva dei fenomeni oggetto di studio, ammettendo, piuttosto, la compresenza di diversi schemi di spiegazione complementari o, finanche, contraddittori. La complessità organizzata (von Hayek, 1974, 209) o complessità strutturata (Luhmann, 1990, 450) tipica della disciplina economica deriva dalla presenza di sistemi che variano non solo in funzione dei singoli elementi che li compongono e delle loro frequenze relative, ma anche delle modalità con cui tali elementi vengono connessi tra loro (von Hayek, 1974, 209). La tipicità delle relazioni ha valore strutturale, in quanto le combinazioni prescelte rappresentano una riduzione selettiva delle infinite possibili combinazioni (Luhmann, 1990, 450) e appaiono come definitorie del sistema. Tentare di vincere la complessità sistemica tipica delle strutture con cui lavoriamo (morfologie articolate nel governo delle imprese, configurazioni reticolari d’impresa, settori che collassano tra di loro) attraverso il metodo cartesiano di scomposizione analitica dei fenomeni risulta impossibile in quanto tali sistemi si definiscono nella propria identità grazie alla loro specifica complessità (potremmo dire: alla particolarità di relazione che si genera tra gli elementi che ne fanno parte) e il frazionamento farebbe perdere loro le proprietà che sono proprie del sistema e non degli elementi che lo compongono: “…l’organizzazione impone dei vincoli che inibiscono talune potenzialità che si trovano nelle varie parti…ma nel contempo il tutto organizzato è qualcosa di più della somma delle parti, perché fa emergere qualità che senza una tale organizzazione non esisterebbero” (Morin, 1997, 51). affinata. Successivamente, se emergono anomalie che la teoria prevalente non riesce più a spiegare, la comunità scientifica abbandona - in un processo che Kuhn identifica come “rivoluzione scientifica” - l’approccio precedentemente diffuso, per assumere una nuova prospettiva di osservazione della realtà. Tale scuola di pensiero viene definita autoritarismo elitario in quanto attribuisce alla comunità scientifica il compito della demarcazione: sarà quest’ultima attraverso l’adesione al nuovo paradigma a sancirne il carattere di scientificità: “così c’è una giuria, ma non una legge” (Lakatos, 1995,37). CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI 13 Se si accetta questa premessa, si deve procedere alla ricerca di statuti epistemologici compatibili con tale complessità che ammettano l’impossibilità di un totale dominio della ragione umana sulla realtà, che lascino spazio alla incertezza, alla multidimensionalità e che guardino agli oggetti dei nostri studi come a macchine non banali, “indeterminate analiticamente, dipendenti dalla storia e, perciò, imprevedibili” (von Foerster, 1997, 131). In tal senso ci sia consentito anche di dissentire parzialmente da Goshal quando afferma che l’elemento costruttivo basilare nelle scienze sociali - e quindi nel management - è l’azione individuale guidata da una certa intenzione (Goshal, 2005, 78). Nella realtà, pur essendo l’intenzionalità (intesa nel senso, precedentemente definito, di tensione verso un obiettivo) alla base dell’azione umana e, quindi, anche dell’azione economica, le relazioni sistemiche ed intersistemiche che si generano, nei fenomeni che noi studiamo, a valle di tale intenzionalità molto frequentemente producono conseguenze assolutamente non intenzionali. Così le scelte strategiche (intenzionali) dei concorrenti su un mercato generano, a seguito delle reazioni causa-effetto e dei relativi feed-back retroattivi, equilibri sistemici spesso molto distanti da quelli auspicati da tali singole intenzionalità. Si potrebbe quindi dire - con Hayek - che “l’analisi delle conseguenze inintenzionali delle azioni umane intenzionali costituisce lo specifico, unico ed esclusivo compito delle scienze sociali” (Antiseri, 2003, 35)17. In questo scenario un’opzione alla quale si può ragionevolmente aspirare e che costituisce la tesi intorno al quale intendiamo lavorare è quella di un pluralismo metodologicamente fondato che accolga la molteplicità dei punti di vista, rispetti la varietà metodologica nella generazione teoretica e restituisca dignità alla soggettività dell’osservatore. Ciò non implica, peraltro, necessariamente percorrere il terreno del relativismo, accogliendo - nel nome della pluralità - opinioni fondate su irragionevoli fantasticherie. Utilizzando i contributi di studiosi delle scienze sociali che hanno approfondito il tema del metodo in contesti di complessità (Gadamer, 1983; Morin, 1983, 1984; Weber, 1974), è possibile essere metodologicamente guidati anche all’interno di una concezione epistemologica postpositivista. Senza avere la pretesa di disegnare lo statuto della nuova epistemologia, ma piuttosto raccogliendo gli spunti che da più parti sembrano ormai consolidarsi, abbiamo provato in modo costruttivo a delineare i principali tratti degli indirizzi di ricerca da intraprendere. L’obiettivo delle teorie non è di rivelare la verità, ma di attivare una possibile visione del mondo. Il processo di costruzione delle teorie può essere assimilato alla navigazione notturna di una nave con il radar (Weick, 1989, 519-520). Gli oggetti che potrebbero entrare in collisione (ad esempio gli scogli) sono individuati attraverso una variazione nelle emissioni sonore del radar. Le possibili strade da percorrere sono tracciate attraverso un criterio selettivo che evita i percorsi in cui vi sono variazioni 17 Sul tema si veda anche Infantino, 2003, 165 e ss. 14 IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE nelle emissioni sonore del radar. Il cammino è guidato da una rappresentazione dell’ambiente e non dall’ambiente medesimo. Per esprimere lo stesso concetto sono state utilizzate altre metafore. Alcuni (Ciappei, 2006, 239) hanno paragonato le nostre potenzialità di conoscenza a ciò che vediamo riflesso in uno specchio: non è la verità, ma contiene qualcosa di vero, con un maggior o minore grado di deformazione a seconda dei casi. Goshal, riprendendo Roethlisberger (1977), afferma che la teoria può essere un bastone per aiutare la formazione di significato durante il cammino (Goshal, 2005, 81). Un processo di segmentazione dei mercati, ad esempio, per quanto accurato e metodologicamente articolato, non ricostruisce una concreta divisione in gruppi di quei consumatori. I segmenti sono categorie interpretative strumentalmente utilizzate dall’uomo per cercare di decodificare la varietà esistente nel consumo, ma il mondo non è, nella realtà fattuale, diviso in segmenti (e neppure in mercati). I segmenti sono rappresentazioni di chi, da osservatore, si pone nella condizione di proiettare una certa immagine di quei potenziali acquirenti e, se le scelte sono metodologicamente corrette, tale rappresentazione può contribuire ad attivare una visione imprenditoriale, che è, e resta, di carattere strategico, ossia fondata su un processo di selezione e ritenzione di alcune tra le infinite opzioni possibili. La strategia ci consente di avanzare tra ciò che è incerto e aleatorio, di servirci delle informazioni che si producono e di formulare conseguenti schemi di azione durante il percorso (Morin, 1997, 59). La strategia è, in tale accezione, assimilabile al senso luhmanniano, inteso “come un surplus di rimandi ad altre possibilità dell’esperire e dell’agire” (Luhmann, 1990, 148): non un cerchio che si chiude, ma piuttosto l’incessante manifestarsi di nuove probabilità. E la ricerca segue - allo stesso modo - un processo di (ininterrotto e perpetuo) rilancio a rinnovate visioni. Ne consegue una concettualizzazione della conoscenza non come graduale avvicinamento asintotico alla verità completa ed oggettiva, ma come progressivo arricchimento, attraverso un potenziale continuo rinvio all’apertura di nuovi scenari. Pertanto lo schema di generazione teoretica si origina da una riduzione selettiva guidata dal senso che attualizza alcune possibilità, rimandandone altre. L’infinita libertà della scelta potrebbe dar vita ad un processo entropico se non fosse guidata, come diremo in un punto successivo, da una struttura metodologica che consente di dare significato al percorso che si sta compiendo. Il processo di selezione e ritenzione di alcune alternative cognitive tra le tante possibile non preclude, né rigetta le possibilità non esplorate che restano latenti, virtualmente fruibili per tragitti successivi. L’atto cognitivo non dipende solo dall’oggetto osservato, ma anche dalle caratteristiche del soggetto osservante. La pretesa oggettività dell’osservazione sembra essere un mito destinato a tramontare. Immaginare un soggetto assolutamente distante e imparziale rispetto all’atto cognitivo, in grado di astrarsi perfettamente dalle sue mappe intellettuali, dalle sue conoscenze pregresse, dall’influenza dal contesto socio-culturale in cui si muove, dai suoi stimoli e dalle sue motivazioni è una finzione che contrasta con CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI 15 l’accettazione della realtà. Ogni osservatore, in quanto essere umano, ha un orizzonte “che abbraccia e comprende tutto ciò che è visibile da un certo punto” (Gadamer, 1983, 352) e l’orizzonte del presente non si costruisce “in modo indipendente e separato dal passato” (ivi, 356). Ne deriva l’istanza di reintegrare l’osservatore all’interno del sistema di conoscenza18 e, al tempo stesso, accettare la molteplicità dei punti di vista come una ricchezza piuttosto che come una imperfezione da eliminare. Ovviamente la questione non investe solo la relazione che si instaura tra chi studia l’impresa (soggetto osservatore) e l’impresa stessa (oggetto osservato), ma coinvolge anche il rapporto che si genera tra l’impresa (in qualità di osservatore) e i contesti che essa decifra (mercati, consumatori, tecnologie, ecc. nella qualità di oggetti osservati). L’interpretazione di un certo ambiente produce comportamenti conseguenti - ad esempio in chiave di scelte strategiche - che a loro volta generano realtà fattuali. Volendo fare un esempio, la nascita delle configurazioni reticolari di impresa (che ha reso più complessa la visuale decodificativa dell’economista) si è affermata anche grazie ad un atto cognitivo da parte delle aziende stesse: queste ultime, osservando la necessità di rispondere alle istanze del consumo contemporaneo con competenze non presenti all’interno di una sola azienda, hanno dato vita ad alleanze tra più imprese in possesso di abilità complementari. Ne consegue che la complessità non è solo nella natura delle cose, ma anche nelle rappresentazioni che ne forniamo (Le Moigne, 1997, 98), le quali - in un incessante circolo di costruzione e interpretazione - a loro volta generano nuovi fenomeni da sottoporre ad osservazione. Occorre valorizzare la reciproca contaminazione - già in atto - tra le metodologie delle scienze della natura e quelle delle scienze sociali. Se la molteplicità di approcci è potenzialità di arricchimento, non occorre, a nostro avviso, rifiutare aprioristicamente gli input epistemologici e metodologici che ci vengono dalle scienze esatte. Questa scelta implicherebbe sostituire una ipotesi universale (quella dettata dal positivismo, che pretende di estendere il metodo delle scienze esatte alle scienze sociali) con un’altra, altrettanto assoluta - e pertanto in contraddizione con la nostra tesi di fondo - mirata ad eliminare il tentativo di riscontro empirico o l’ausilio delle scienze quantitative. Se la misurazione e la quantificazione vengono depotenziate della pretesa di definire la Verità, possono fornire utili spunti per attivare processi cognitivi. D’altronde, possiamo rilevare anche una contaminazione in senso opposto: nelle scienze fisiche si osservano avanzamenti della conoscenza fondati su metodologie non sperimentali19, diventano 18 19 “Uno dei paradigmi, se così si può dire, delle teorie della complessità è quello che viene definito la reintegrazione dell’osservatore nella descrizione. Questo significa che le proprietà degli oggetti osservati sono funzione non tanto o non solo degli oggetti stessi, ma sono funzione in primo luogo dell’osservatore” (Vicari, 1992, 119). Sul tema si veda anche Paoli, 2006, 105 e ss. La teoria della relatività venne provata empiricamente sono molti anni dopo che Einstein l’avesse compiutamente elaborata sulla base della sola intuizione filosofica. 16 IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE centrali principi riferiti a fenomeni naturali in cui si ammette l’incertezza20 e assume importanza il ruolo costruttivo del non equilibrio21. Nel momento in cui le scienze della natura si spingono a mettere in discussione i propri fondamenti epistemologici e a produrne di nuovi (Bocchi, 1985, 420), appare evidente una convergenza tra metodologie originariamente considerate distanti22 e una probabile benefica contaminazione che non deve escludere nulla, se non la pretesa di conoscere la complessità del reale nella sua totalità. Pertanto, pur condividendo l’insofferenza verso la pretesa di conoscenza legata all’adozione dei metodi utilizzati nelle scienze esatte, non siamo dell’opinione che la misurazione debba essere espulsa dalle potenziali strumentazioni di cui si serve la scienza economica23. Se si rinuncia all’ambizione di arrivare, attraverso la valutazione quantitativa, alla validazione di una legge universale, la misurazione può fornire importanti contributi per giungere a costruzioni teoretiche che attivino visioni interpretative e generino rimandi di conoscenza. La coesistenza di più punti di vista e l’impossibilità di dominio totale della conoscenza sulla realtà non implicano la rinuncia al “metodo”. Sulla base delle riflessioni fin qui svolte, appare chiara la rinuncia all’ideale di una scienza onnipotente e l’accettazione consapevole della limitatezza della conoscenza umana. Condividiamo appieno l’affermazione di Ghoshal seconda la quale “l’unica alternativa a qualsiasi forma di assolutismo ideologico è il pluralismo intellettuale” (Ghoshal, 2005, 66). Crediamo nell’arricchimento che proviene alla scienza dalla coesistenza di punti di vista differenziati, conseguenza di particolari prospettive di osservazione, di diversi bagagli culturali, di specifiche motivazioni di analisi. Non pensiamo che esista un metapunto di vista dal quale poter fare sintesi o giudicare le differenze e le contrapposizioni, in quanto tali diversità sono costitutive dei domini cognitivi degli specifici punti di vista (Ceruti, 1997, 39). 20 21 22 23 Il principio di indeterminazione di Heisenberg, principio fondamentale della meccanica quantistica, stabilisce che non è possibile conoscere simultaneamente posizione e quantità di moto di una particella. La teoria delle strutture dissipative, che vivono lontane dall’equilibrio, è valsa un premio Nobel per la chimica a Ilya Prigogine nel 1977. La tesi della potenziale vicinanza tra le scienze naturali e le scienze sociali, in verità, fu già proposta da Friedman in apertura della sua già citata Nobel Lecture del 1976: egli afferma che in entrambi i casi non esiste una conoscenza oggettivamente certa, ma solo ipotesi sperimentali, rispetto alle quali “possiamo nutrire maggiore o minore fiducia in relazione a fattori quali l’ampiezza di esperienze che abbracciano…e il numero dei casi in cui sono sfuggiti ad una possibile confutazione” (Friedman, 1976, 254). Va chiarito che, nonostante l’avversione verso la pretesa di conoscenza, anche von Hayek - all’interno della scuola austriaca - fu meno radicale di quanto, ad esempio, non lo fosse von Mises sul ruolo dell’economia matematica (sul tema si veda Pheby, 1991, 164-167). von Hayek chiarisce che la matematica permette di descrivere in termini generali - attraverso un sistema di equazioni - un fenomeno anche quando non si conoscono i valori numerici che esso assume (von Hayek, 1974, 210). CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI 17 Tale pluralismo, però, se non ha pregiudiziali delimitazioni, non significa neppure arbitrio soggettivo o immaginaria inventiva; esso resta rapportato ai dati che sono deducibili dal progressivo approfondimento della questione in studio, dati che vengono selezionati e processati in funzione degli obiettivi cognitivi del ricercatore con il supporto del raziocinio e delle conoscenze pregresse e attraverso l’utilizzo di un metodo weberianamente inteso. Secondo l’insegnamento del sociologo tedesco24, infatti, nella consapevolezza della inconoscibilità del divenire del mondo nella sua interezza - che egli definisce “infinità priva di senso” (Weber, 1974, 96) - occorre recuperare il concetto di cultura come concetto di valore25: in tale accezione la cultura effettua la selezione - guidata metodologicamente dagli obiettivi cognitivi del ricercatore - degli elementi della realtà che diventano significativi in funzione delle idee di valore posta a base dell’attività cognitiva (ivi, 90). In tal senso, nelle ricerche metodologicamente fondate, si raccomanda la chiara esplicitazione degli obiettivi cognitivi, in quanto solo questa esplicitazione può portare alla condivisione da parte dei terzi della particolare prospettiva di osservazione e consente di valutare la coerenza dei passaggi sequenziali che vengono progressivamente posti in essere. In altri termini, la ridondanza dei dati provenienti dalla realtà fenomenica impedisce di fare riferimento ad essi come ad una garanzia assoluta di oggettività: la cernita tra la infinità di informazioni disponibili è diretta da “criteri che non sono universali e necessari, ma che sono essi medesimi il risultato di una scelta” (Rossi, 1974, 25). In tale ottica, il metodo non è riducibile ad una successione prefissata di azioni, ma ad una serie di scelte che si ripropongono ad ogni successivo passaggio del cammino di ricerca: tali passaggi appaiono come un crocevia, in cui ogni volta occorre decidere in quale direzione muoversi. La scelta di valore compiuta a monte fornisce i parametri per orientare la scelta e ne costituisce il presupposto. “Da ciò non discende ovviamente che la ricerca delle scienze della cultura possa dar luogo soltanto a prodotti i quali siano soggettivi nel senso che valgono per l’uno e non per l’altro. Ciò che cambia è piuttosto il grado in cui interessano l’uno e non l’altro”. (Weber, 1974, 100). È metodologicamente fondato, in questa logica, procedere mediante astrazioni concettuali, accentuando alcuni elementi della realtà: si addiviene così all’idealtipo weberiano, che lo stesso autore definisce un’utopia (ivi, 108), in quanto accentua unilateralmente alcuni punti di vista, connettendo fenomeni diffusi e discreti, segnali più o meno deboli, in un quadro interpretativo unitario. Questo quadro ideale non può essere ritrovato integralmente nella realtà, ma costituisce un punto di riferimento utile per poter verificare “la maggiore o minore distanza della realtà da quel quadro ideale” (ibidem). 24 25 Come è noto, Weber respinse sia l’affermazione positivista che reclamava l’importazione delle metodologie proprie delle scienze naturali nell’ambito delle scienze sociali, sia la dottrina storicistica che dichiarava l’impossibilità di pervenire a fondate generalizzazioni (Coser, 1997, 265). “La relazione ai valori viene a designare la particolare direzione dell’interesse conoscitivo che muove la ricerca, vale a dire lo specifico punto di vista da cui questa si pone, delimitando il proprio campo” (Rossi, 1974, 24-25). 18 IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE Così, ad esempio, una volta costruito l’idealtipo del fordismo, si può definire in che misura i caratteri di una certa impresa, in un determinato momento storico, possono essere considerati come propri della fabbrica fordista. In tal senso potremmo considerare idealtipica anche la relazione principal-agent descritta dalla teoria dell’agenzia, salvo a riconoscere - come si dirà nel prosieguo del presente intervento - che questa rappresentazione (teoricamente giustificata secondo i canoni del tempo in cui è stata per la prima volta descritta) appare in molti casi distante dalla realtà della governance contemporanea e in qualche caso poco utile per definire strumenti di intervento. 3. Limiti interpretativi della teoria dell’agenzia Da quanto precede, può affermarsi che i processi legati alla cognizione ed al trasferimento di conoscenza non possono collocarsi, nelle nostre scienze, all’interno di logiche deterministiche, ma piuttosto in altre di tipo pluralistico dove convivono diversi punti di vista. Ci si trova, infatti, di fronte a fenomeni complessi che presentano caratteri molteplici e addirittura contradditori tra loro. Lo sforzo di semplificazione, pertanto, non premia chi voglia porsi obiettivi di comprensione ampia. Nel considerare il tema della corporate governance, un esempio lampante di tale complessità fenomenologica è rappresentata dalla proprietà delle imprese che, specie nelle realtà di maggiori dimensioni, non è interpretabile come un blocco unitario, ma come espressione di interessi ed obiettivi articolati. Lo stesso può dirsi per il management, con la conseguenza che tali categorie rappresentano una pluralità di tendenze che danno vita a relazioni tra loro complesse e tutt’altro che lineari. La teoria dell’agenzia, nel rappresentare una semplice contrapposizione tra principal-agent, identificati ineluttabilmente come azionista e manager, risolve in una connessione causale il tema della corporate governance, trascurando la complessità innanzi evidenziata, sottovalutando l’operazione di coproduzione e propagazione del valore da parte delle diverse componenti dell’impresa in una economia fondata sulla conoscenza. Inoltre, non può essere sottaciuto il ruolo del contesto esterno che riverbera all’interno dell’impresa, proprio attraverso ognuna delle componenti sin qui discusse - manager ed azionisti - altri interessi, altri modi di pensare e di essere, che necessariamente vanno ad influenzare l’assetto complessivo dell’impresa. Un tentativo di inquadrare la corporate governance entro tale scenario è stato effettuato più di recente da Zingales. L’autore ha sostenuto che la corporate governance può definirsi facendo riferimento a due ottiche diverse: una interna, come sistema di assegnazione del potere decisionale, progettato per ovviare all’impossibilità di concludere contratti completi tra i diversi stakeholder; l’altra esterna, come insieme di regolamentazioni, istituzioni e procedure concepite per proteggere gli investitori da comportamenti opportunistici di imprenditori e manager, assicurando l’adeguato ritorno del capitale investito e condizionando CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI 19 l’attività di questi ultimi attraverso una serie di meccanismi e incentivi. Elementi comuni tra ottica interna ed esterna sono l’oggetto, rappresentato dagli stakeholder aziendali, e l’obiettivo, che risiede nella promozione di correttezza, trasparenza e responsabilità nell’attività dell’impresa. La definizione di Zingales sembra molto coerente con ciò che di seguito verrà sostenuto: il riferimento alla problematiche dei contratti incompleti consente di rendere lo sforzo del ricercatore più versatile e, dunque, più aderente alle dinamiche evolutive del contesto economico attuale, favorendo una maggiore predisposizione da parte dell’osservatore a saper individuare la molteplicità dei soggetti componenti l’impresa, le loro relazioni e l’evolvere del rilievo che le singole componenti e le singole relazioni possono registrare nel tempo e tra diverse imprese. Difatti la posizione dei contrattualisti, da un lato, pone implicitamente al centro dell’attenzione le diverse e variegate componenti umane dell’impresa, portatrici di risorse a cui corrispondono interessi da tutelare; dall’altro, ne segnala i rischi di comportamenti opportunistici, come derivata della stessa incompletezza contrattuale, e dunque la difficoltà di riuscire a valorizzare o meno tali risorse al fine del processo di creazione del valore. Inoltre, collocare in un’ottica esterna all’impresa il ruolo dei finanziatori, offre lo spunto, anche forse al di là delle reali intenzione dell’autore, per delineare uno scenario dove le logiche finanziarie rappresentano una delle componenti non direttamente, cioè non internamente, coinvolte nell’azione amministrativa. E ciò sembra coerente anche con una qualificazione della cosiddetta proprietà che è sempre più diffusa in organismi di grande dimensione - per es. i fondi di investimento - che hanno il problema di definire il rendimento, che sanno dialogare con chi si occupa della gestione, ma che rimangono lontani dal cuore organizzativo decisionale dell’impresa (Monks and Minow, 2001). Fondi di investimento che oggi tendono anche ad acquisire la maggioranza del capitale ma nel contempo ad affidarsi all’attività di un gestore imprenditore. A tale quadro interpretativo non si sottrarrebbe neanche la piccola impresa, che vede oggi fondare la propria capacità competitiva sempre meno sul bagaglio di conoscenze dell’imprenditore-fondatore e sempre più sul suo intreccio con conoscenze che provengono da manager e da altre imprese. Anche qui la convivenza di diverse esperienze e know-how rende più complessa la struttura di governance e, dunque, avvalora la dinamica contrattuale come chiave interpretativa. Sul piano della proprietà, pur permanendo in gran parte del nostro sistema produttivo la sovrapposizione tra proprietà e controllo, è sempre più evidente come siano limitate le capacità di crescita del modello proprietario chiuso e come, in tal senso, figure quali i venture capitalist o i business angel rappresentino per la piccola impresa un confronto con il mondo della finanza del capitale di rischio sempre più necessario, anche se non per questo necessariamente desiderato. In questo senso, la piccola impresa rappresenterebbe un punto di un continuum - il ciclo di vita dell’impresa che la porterà necessariamente ad assetti proprietari più complessi là dove le sue dimensioni aumentino consistentemente. 20 IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE La posizione di Zingales trae spunto da riflessioni teoriche consolidate, rappresentando un tentativo di sintesi tra loro. Come è noto, le differenze dei temi trattati dalla corporate governance in letteratura sono riconducibili ai due prevalenti assetti del capitalismo moderno: il primo, da cui muove proprio la teoria dell’agenzia, che ha lo scopo di indagare le modalità di allineamento degli interessi di management e shareholder, che è chiaramente rappresentato dal capitalismo di tipo anglo-sassone; il secondo, che si muove in una prospettiva più ampia incentrata sulla gestione dei rapporti tra tutti gli stakeholder dell’impresa, che promana da esperienze capitalistiche più vicine al mondo europeo o giapponese. Altre definizioni prendono le mosse da questi due assunti iniziali e ne subiscono l’evidente condizionamento; tuttavia, a prescindere da evidenti diversità in termini di principi ispiratori, le due impostazioni originali hanno a che fare con problematiche similari: gli assetti proprietari, i sistemi di controllo e incentivazione, la struttura finanziaria. Tenendo conto di quanto sin qui detto, sembra ovvio concordare anche con le considerazioni sviluppate da altri autori (Lazonick and O’Sullivan, 2000) per i quali, alla base della corporate governance, vi è fondamentalmente la definizione della relazione tra l’allocazione delle risorse e la performance economica dell’impresa. In altri termini, gli assetti di governo dell’impresa, definendo un potere decisionale e il sistema di regole connesse al suo esercizio, nei fatti definiscono le premesse per la definizione dei criteri di investimento e dunque del livello di profittabilità e delle prospettive di sviluppo delle imprese. 3.1 Pilastri logici della teoria dell’agenzia La critica di Ghoshal si confronta con il primo dei due impianti considerati – la teoria dell’agenzia – e ciò lo conduce anche a mettere in discussione i modelli didattici invalsi nelle business school americane. Sarebbe però facile ritenere che Ghoshal opti per una più ampia considerazione dei rapporti esistenti tra impresa e stakeholder, nei fatti concludendo con la superiorità di questa teoria rispetto a quella elaborata a partire dal contributo storico di Jensen e Meckling. In realtà, un’analisi più attenta consente di approfondire meglio la tesi dell’economista indiano e di isolare delle relazioni che dovrebbero in futuro essere comuni alle logiche considerate, consentendo anche di identificare una convergenza dei due assetti capitalistici da cui originano le due teorie. Tale analisi può essere articolata rispondendo a due quesiti riguardanti quelli che appaiono i pilastri centrali del problema dell’agenzia ed in particolare: - perché vi è un principal e perché quest’ultimo lo si identifica nella figura dell’azionista? perché il manager cade in comportamento opportunistici? Le risposte a tali quesiti, che hanno degli evidenti tratti di interconnessione tra loro, possono essere date attraverso una ricostruzione storico-teorica del pensiero sull’impresa. Infatti, l’evoluzione del capitalismo industriale può proficuamente CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI 21 essere utilizzata quale griglia interpretativa per ripercorrere i mutamenti che hanno interessato la natura e le caratteristiche del soggetto imprenditoriale e con essa le problematiche della corporate governance. Originariamente, la centralità della figura dell’imprenditore è dovuta fondamentalmente alle sue tre prerogative: egli conosce il proprio mestiere, sa coordinare e organizzare le altre risorse produttive, dispone di capitali propri e li investe nella propria impresa. Egli dunque dispone delle conoscenze necessarie, frutto di sue precedenti esperienze o attività, ed è colui che rischia in proprio. Anzi la disponibilità delle conoscenze necessarie, gli consente di analizzare il rischio, rendendolo meno avverso a questo rispetto a quanto non accada per altri. Egli persegue il proprio interesse, cioè il profitto dell’impresa, che rappresenta l’obiettivo esclusivo. Tali considerazioni, sul piano epistemologico, consentono di dare una interpretazione razionale e standard dell’impresa che si muove in un quadro di conoscenze ritenute sufficienti per orientarne lo sviluppo, con un vettore di obiettivi semplice e chiaro. In più, una dimensione contenuta della struttura organizzativa non impone un’analisi critica degli assetti di governo che sono tutti incentrati sull’imprenditore, che è la sintesi del comando più efficace poiché - come detto innanzi - egli sa e rischia. E dirige. Inoltre la dimensione del proprio capitale è coerente con la dimensione del business. Alla fine del diciannovesimo secolo lo sviluppo dei macchinari e della dimensione industriale fanno superare il concetto del capitalista imprenditore. Le sue capacità patrimoniali e professionali iniziano a risultare limitate. Lo sviluppo oligopolistico di alcuni comparti accelera tale processo. Si abbassa il rapporto tra capitale investito dall’imprenditore e capitale controllato, che comunque implica una contrazione dell’autonomia che aveva caratterizzato l’agire dei primi imprenditori. Il potere di governo aziendale perde in molti casi il suo carattere di unitarietà, dovendosi ridistribuire tra chi è dedito allo svolgimento del processo gestionale e coloro che sono i fornitori delle risorse finanziarie necessarie ad alimentarlo. È da queste premesse che nasce l’impresa manageriale, che vede la dissociazione tra soggetto proprietario e funzione imprenditoriale, il primo portatore di istanze tipicamente reddituali, la seconda intesa quale modalità di svolgimento del potere di disposizione sulle risorse, potere derivante da una legittimazione che può travalicare le attribuzioni statuite sotto il profilo formale dall’ordinamento giuridico (il proprietario dispone dei propri beni). La complessità della struttura dell’impresa ne determina un ampliamento dei propri confini. Attraverso il processo di delega il potere viene attribuito a soggetti non proprietari, che posseggono competenze specialistiche, senza tuttavia assurgere al ruolo di risorse critiche. Le risorse finanziarie provengono da mercati finanziari che si articolano sempre meglio, in alcuni Paesi, o dalle banche o dallo Stato in altri. Da qui prende le mosse la dicotomia tra mercato anglo-sassone e mercato renano. La teoria economica registra tali mutamenti proponendo un superamento della concezione tradizionale di stampo neo-classico: all’imprenditore-impresa viene a sostituirsi l’impresa organizzazione. L’idealtipo di tale concezione fa riferimento 22 IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE alla corporation manageriale di stampo anglo-sassone, che vede il suo tratto fondamentale nella sua capacità di controllare oligopolisticamente tanto le dinamiche esterne quanto l’evoluzione del progresso tecnico. Tale modello di impresa rappresenta il punto di convergenza delle modalità operative di gestione di un complesso industriale, verso cui si ritiene nel tempo debbano tendere tutte le formule imprenditoriali. In tale ambito, avrebbe poco senso distinguere tra piccola e grande impresa, nel senso che le specificità della piccola - per esempio, la non dissociazione tra proprietà e controllo - spariscono man mano che la propria dimensione aumenta. La corporate governance nasce in tal contesto. Se interpretiamo con tale termine la regolamentazione del potere di decisione nelle imprese ed il connesso potere di allocazione delle risorse all’interno della stessa, si deriva che è nella complessità organizzativa che è giusto procedere a definire delle regole. È in questo tipo di impresa che d’altronde si delinea la tendenziale dissoluzione del soggetto imprenditoriale: la proprietà non detiene più integralmente il potere di disposizione. Con Berle e Means si inaugura un filone di studi che intercetta il nuovo confronto tra azionista e manager; con loro la figura del manager viene introdotta nel dibattito teorico consegnando, anche se in nuce, l’analisi della dicotomia tra gli obiettivi diversi che guidano il comportamento delle due categorie che appaiono al vertice dell’impresa, appunto gli azionisti ed i manager. E sarà questa semplice dicotomia ad orientare per anni il pensiero teorico, e che sarà da base alla stessa teoria dell’agenzia. Tra le due categorie di soggetti si identifica una relazione di tipo lineare, dove il proprietario, che in quanto tale dovrebbe utilizzare il bene, appropriarsi del suo rendimento e soprattutto avere il diritto di modificarne la forma e la posizione, vede nel manager il proprio delegato, che attraverso gradi di libertà crescenti delle sue azioni, soprattutto in via direttamente proporzionale alla dimensione dell’impresa, può indirizzare la stessa impresa verso obiettivi diversi e addirittura contrastanti. È il manager che può in tal senso allontanare la funzione dell’impresa verso ciò che la teoria riconosce essere il suo obiettivo primario, la massimizzazione del profitto, o come verrà definito in seguito la ricchezza dell’azionista. La variabile indipendente della relazione lineare identificata è il comportamento del manager che, con le sue scelte, in un contesto di asimmetria, produce effetti sul patrimonio del proprietario. E se il patrimonio del proprietario, o meglio il suo rendimento - cioè la variabile dipendente - non evolve secondo il principio della massimizzazione, bisogna trovare dei metodi per far convergere il comportamento del manager verso tale obiettivo. La linearità della relazione e la semplificazione degli obiettivi d’impresa che si sovrappongono a quelli del suo proprietario, sono, dunque, i pilastri logici su cui si basa la teoria dell’agenzia, prescindendo, come si dirà in seguito, dalla diversità che si può riscontrare tra le figure di azionista nonché dalla diversità della figura del manager. Il principal è il proprietario ed è il suo patrimonio che va tutelato, poiché è questa la risorsa critica per l’impresa fordista - le risorse manageriali in una economia più semplice di quella odierna si caratterizzano per la loro fungibilità e sostituibilità sul mercato - e perché sopporta il rischio dell’impresa. In tale dibattito CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI 23 ha poco interesse valutare quale contributo di imprenditorialità permanga nelle mani dell’azionista o, all’opposto, quale sia il rischio di finanziarizzazione delle imprese sollevato a suo tempo da Schumpeter: il principal è l’azionista e l’agent può non rispettare gli interessi del primo. La teoria dominante della corporate governance ha le sue radici in questa logica di fondo e si incarna in modello convenzionale dove controllo e rendicontazione sono garantiti da un sistema verticale gerarchico. A sua volta, la gerarchia sottende un contesto dove è importante evidenziare chi risulta all’interno e chi all’esterno dell’organizzazione, ragion per cui la burocrazia deve essere caratterizzata da rigidi confini interni ed esterni (Devanna e Tichy, 1990). Infine, sotto il profilo della competitività, ingenti dosi di investimenti fisici - pertanto ad alta valenza finanziaria - consentono di costruire posizioni oligopolistiche proprio partendo dell’impostazione marginalista, che vede la profittabilità ridursi nel lungo tempo a causa dell’entrata di altri competitor. Il perdurare delle performance dell’impresa non dipende pertanto dalle sue specificità, od anche dal suo tipo di governance, ma dalla sua capacità di occupare il mercato. Ancora una volta, il capitale assume una posizione centrale all’interno delle condizioni di sviluppo dell’impresa. È alla luce di queste considerazioni che può rispondersi al primo dei due quesiti posti: il principal è l’azionista poiché dispone delle risorse critiche - il capitale - ed è colui che sostiene il rischio ultimo. La sua proprietà deve essere tutelata: egli ha il potere di disporne, di godere del relativo rendimento, di modificarla. Il manager, che comunque non dispone di conoscenze critiche, ha solo il compito di sostituirsi all’azionista nella gestione di beni complessi - gli impianti dentro i quali risiede il vero vantaggio competitivo dell’impresa. A ben vedere, va osservato che durante questa fase storica, i soggetti con i quali il sistema imprenditoriale entra in contatto non sono soltanto gli stakeholder legati da vincoli di natura finanziaria, ma anche quei soggetti con i quali la stessa impresa intrattiene rapporti di carattere contrattuale, fornitori di quelle risorse che necessitano allo svolgimento della gestione. L’impresa è dunque il luogo dove si scambiano delle risorse, piuttosto che un insieme di mezzi finanziari che acquistano altre risorse, fisiche - per lo più - e umane. L’importanza di una interpretazione dell’impresa come una forma particolare di mercato interno, caratterizzato da contratti di scambio tra numerosi soggetti è riconosciuta in primis da Coase (1947), il quale si discosta dai grandi temi dibattuti dagli economisti suoi contemporanei, per trattare il problema dell’integrazione produttiva in un’ottica di costi transazionali, riprendendo una categoria di analisi proposta qualche anno prima da Commons (1934). Egli, infatti, considera l’impresa alla stregua di un semplice artificio giuridico, nel senso che essa è un luogo alternativo al mercato - nel quale possono esplicarsi rapporti negoziali tra diversi prestatori di risorse. Il confine tra l’interno e l’esterno diventa pertanto sfumato e variabile nel tempo, in funzione delle valutazione di efficienza di volta in volta effettuate (tali valutazioni sono fatte in base a calcoli tipicamente transazionali). 24 IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE Sotto questo profilo, emerge con chiarezza il legame con il successivo contributo di Alchian e Demsetz (1972), i quali elaborano una vera e propria teoria dei diritti di proprietà, sottolineando come ciascuno dei soggetti che compone l’impresa riesca, attraverso i contratti che disciplinano la propria partecipazione, a soddisfare più efficacemente i propri interessi. Rispetto al ricorso al mercato, infatti, esiste una maggiore possibilità di controllo delle prestazioni svolte, il cui costo (di tipo organizzativo) risulta inferiore all’incremento di produttività assicurato da un contesto organizzato. Tuttavia, la conseguenza naturale di tale teoria - di indubbio rilievo per ciò che si vuol dimostrare - è rappresentata dalla considerazione che gli shareholder non sono gli unici investitori nel business; lo sono anche i manager (e forse qualche employee), i quali apportano la propria capacità lavorativa, il proprio know-how, e quanto più tale bagaglio risulta rilevante per l’impresa e quanto più l’investimento fatto dal lavoratore nella stessa impresa risulta specific, tanto più risulta necessario un loro coinvolgimento nel governo dell’impresa. Infatti, la condizione di debolezza contrattuale in cui il fornitore di know-how si troverebbe, sarebbe quella di aver fatto un forte investimento, specific rispetto all’impresa, senza poter tutelare tale investimento con un coerente potere di decisione strategica sulla stessa. La natura incompleta dei contratti e le asimmetrie informative indurrebbero colui che chiamiamo a tal punto lavoratore, collocato nella note condizioni di hold-up e di lock-in individuate da Williamson26, di rivendere ad un prezzo equo sul mercato la propria professionalità, in quanto - si ripete - specific rispetto all’impresa di provenienza. In altri termini, il potere di governare l’impresa rimarrebbe nelle mani di coloro - gli azionisti - che sono in una migliore condizione di uscita dall’impresa perché, come afferma Ghoshal, è più semplice vendere azioni che ricollocare la propria professionalità sul mercato del lavoro, poiché quest’ultima è meno fungibile di semplici titoli mobiliari. Ciò condurrebbe a fenomeni di free riding, e dunque, ad un uso inefficiente del capitale umano. Il potenziamento o meno del processo di convergenza dei contributi di ognuno degli agenti al consolidamento dell’impresa stessa sarebbe, dunque, in funzione di come i diritti proprietari si distribuiscono all’interno dell’impresa (e dunque su chi ricopre la carica di residual claimant). Tali tesi sulla natura dell’impresa vengono ulteriormente esplicitate nelle opere di Grossman, Hart e Moore, i quali sostengono che la soluzione più efficiente per i sistemi produttivi è quella che vede in posizione baricentrica i soggetti che apportano i diritti di sfruttamento delle risorse, che sono quelli cioè che si caratterizzano per il maggior costo di sostituzione e il massimo contributo in termini di valore. I cardini della loro teoria sono tre: in primo luogo, va considerata l’incompletezza contrattuale, cioè l’impossibilità di disciplinare integralmente i contenuti di una prestazione all’interno di un contratto, che aumenta di pari passo con il crescere della complessità della prestazione fornita, stante la maggiore 26 La risposta del lavoratore alle condizioni di hold-up e di lock-in si incentra nel fenomeno del free-riding, che implica una condizione di disimpegno nei confronti dell’impresa di appartenenza. CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI 25 difficoltà a verificarne gli esiti27. La seconda ipotesi formulata attiene alla eterogeneità degli individui e dei capitali, i quali - per le peculiarità che li caratterizzano - sono difficilmente sostituibili. In terzo luogo, è necessario tener conto dell’importanza dell’innovazione e degli investimenti in capitale umano quali fattori propulsori dello sviluppo economico. Il terzo punto, si collega chiaramente alle considerazioni già sviluppate dalla Penrose qualche anno prima. Anche Hansmann afferma che altri soggetti potrebbero candidarsi ad essere principal per ragioni di efficienza (Hasmann, 1996), appunto perché hanno realizzato investimenti specifici nell’impresa o perchè portatori di risorse relativamente scarse (Aoki, 2004). Ovviamente, ciò può essere realizzato se il capitale umano voglia assumere l’incertezza della propria remunerazione piuttosto che, invece, rendersi disponibile, per ridurre la stessa incertezza, ad accettare un ruolo ridotto sul piano decisionale e conseguentemente su quello della remunerazione (Blair, 1995). Il contesto competitivo degli ultimi anni, caratterizzato da una progressiva crescita di importanza dei meccanismi di relazione inter-aziendale, determina un ulteriore mutamento: emerge, infatti, la necessità non solo di perseguire in un’ottica sistemica il contemperamento dei diversi interessi in gioco ma anche di ricercare, secondo un approccio evolutivo, una convergenza strategica sui progetti da realizzare congiuntamente, anche tra soggetti imprenditoriali distinti, almeno in apparenza. Lo scenario attuale impone, dunque, al soggetto di governo di assumere una posizione baricentrica, alla ricerca di un punto di aggregazione attorno cui catalizzare le energie e le risorse creative dei soggetti esterni attivamente coinvolti a vario titolo nell’attività imprenditoriale: tali soggetti garantiscono il loro apporto sia in funzione della posizione di stakeholder - compartecipando cioè alla realizzazione di un attività innovativa, pur nell’ambito di una propria autonomia strategica progettuale - che della conseguente posizione di riskholder. Il sistema d’impresa va dunque considerato anche e soprattutto quale luogo di incontro e confronto di soggettività differenziate, endogene ed esogene al sistema stesso, ciascuna portatrice di un proprio progetto e di un propria dotazione conoscitiva. Nella conoscenza si riconosce la risorsa cardine di un mondo altamente competitivo e interconnesso28. 27 28 Naturalmente, al massimo della complessità vanno collocate le risorse di conoscenza le quali, secondo Polanyi (1958), presentano una componente tacita che in quanto tale mal si presta ad essere sottoposta a processi di verifica e valutazione. L’economia della conoscenza è contraddistinta, come più di recente rileva Foss (2005), da quattro fondamenti: i sistemi di ICT, che rappresentano i driver centrali della diffusione delle conoscenze; l’enfasi posta sulla conoscenza piuttosto che sull’informazione, circostanza che implica un crescente rilievo del capitale umano nei processi di selezione, interpretazione e aggregazione delle informazioni; la convinzione che la conoscenza stia divenendo sempre più diffusa, circostanza che dimostra la difficoltà che la stessa sia catturata da qualcuno che la disponga a sostegno delle proprie posizioni di rendita e la necessità di operare in un quadro di interazione con altre imprese ed altri agenti, all’esterno ed all’interno dell’impresa; infine, strutture organizzative 26 IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE Drucker traccia in via ancora più radicale la modifica che l’impresa del futuro segnerà rispetto a quella del passato (Drucker, 2001). Ed in particolare sottolinea la modifica del ruolo del fattore lavoro. Egli enfatizza la modifica del ruolo di manager ed impiegati che si trasformano in professional, personale di alta capacità, meno avverso al rischio di quanto avvenisse in passato e, dunque, disponibile al cambiamento di lavoro, cosciente del proprio potenziale intellettivo e del proprio bagaglio culturale, che sa assumere nel proprio interesse lavori presso diverse imprese. Saper catturare questa forma di capitale rappresenta una sfida importante per le imprese. Tale prospettiva riduce le condizioni di dipendenza del manager - o dell’esperto - dall’azionista analizzate dalla teoria e tende a modificare i rapporti contrattuali tra le due risorse. Se il manager, il dipendente o il ricercatore diventano dei professional, allora l’accordo con l’impresa deve esprimere un maggior grado di equilibrio tra le parti: vanno, infatti, negoziati non solo i livelli di remunerazione, ma anche il grado di compartecipazione alle decisioni di sviluppo dell’impresa che possa compromettere l’investimento fatto. Tale riequilibrio è strettamente connesso all’esigenza di garantire un’esperienza lavorativa che possa promuovere il curriculum vitae del professional - che poi diviene l’elemento di nuova negoziazione in sede di cambiamento del posto di lavoro - senza arrecare danni allo stesso attraverso un sistema di decisioni troppo sbilanciato a favore dell’impresa. Tutto ciò implica un riequilibrio delle posizioni, che non potrà non modificare gli assetti di governance dell’impresa. Secondo lo studioso americano, sarà dunque sempre più necessario sviluppare meccanismi di potenziamento e tutela della creatività e dell’imprenditorialità interna (anche attraverso effettivi spin-off)29. Vi potranno, inoltre, essere ancora proprietà concentrate, ma il futuro sarà nelle mani delle alleanze, delle joint-venture, dei know-how agreement. Entro tale scenario si collocherà la figura di un nuovo manager come prima delineato. Alla luce di queste ultime riflessioni, non può non affermarsi nuovamente l’utilità della teoria dei contratti che offre lo strumento per leggere l’impresa come il risultato di un contributo di risorse diverse tra loro. Implicitamente scema il ruolo fondamentale del capitale: si avvalora la possibilità di poter invertire la logica assiomatica dove il ruolo del residual claimant sia riconosciuto all’azionista proprietario, ma può ipotizzarsi che tale funzione debba spettare a coloro che apportano le risorse critiche per l’impresa, critiche per il prodotto che offrono, per il settore in cui operano, per la fase storica in cui vivono. Ciò implica che se coloro che cedono risorse critiche all’impresa sono in grado di influenzare i livelli di ritorno, a prescindere dal ruolo di azionista o meno, il loro coinvolgimento dovrebbe rappresentare un significativo incentivo per far gestire la stessa in maniera efficiente (Hart and Moore, 1990). 29 decentrate e piatte, tali da rendere l’impresa disposta a muoversi con autonomia e velocità. Al riguardo si veda il contributo originale di Sorrentino, 1996. CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI 27 Si fa anche un passo in avanti sulla relazione diretta tra il ruolo di residual claimant, il soggetto che sopporta il rischio finale e l’azionista. A quest’ultimo veniva riconosciuto, in passato, il ruolo di decisore ultimo, poiché era non solo il detentore della risorsa critica per definizione - il capitale - ma anche colui che rischiava per tutti. Nel momento in cui si ammette che tutti gli stakeholder rischiano, anche di più di quanto avviene per l’azionista capitalista, cade l’ultimo velo. Il residual claimant può essere anche un soggetto diverso dall’azionista, là dove alcune circostanze lo impongano nel rispetto degli obiettivi dell’impresa. Il mancato riconoscimento di tale ruolo può essere alla base di comportamenti opportunistici da parte del manager, o comunque da parte di colui che disponendo delle risorse critiche, cosciente di tale circostanza, o sostenendo un rilevante investimento in termini di tempo e professionalità impegnata, si senta di fatto escluso dalla direzione strategica dell’impresa e, soprattutto, dalla gestione del residuo. La divergenza tra obiettivi della proprietà e dell’esperto non nascerebbe da una particolare inaffidabilità di quest’ultimo, ma più semplicemente dal mancato riconoscimento del ruolo fondamentale di quest’ultimo e dal rischio cui è sottoposta la sua attività. Volendo semplificare, il rapporto tra il capitale ed il lavoro, i cui offerenti sicuramente appaiono ancora oggi gli stakeholder più importanti, può vedere, pertanto, un diverso tipo di principal all’interno dell’impresa. In altri termini, la relazione lineare che la teoria dell’agenzia sottintendeva e che vedeva nel management la variabile indipendente da porre sotto controllo nell’interesse dell’azionista, può almeno essere interpretata in linea biunivoca, cioè anche inversa. Ciò sul piano metodologico, già consente di confermare la posizione critica di tipo epistemologico proposta da Ghoshal. La linearità della relazione ipotizzata dal problema dell’agenzia si basava su concetti di natura fisica, cioè su relazioni causali che alla luce di quanto detto si rivelano insufficienti sul piano interpretativo. E come se si ammettesse che la mela di Newton che cade dall’albero per merito della forza di gravità, possa d’un tratto risalirvi. Tra azionista e management, dunque, il principal può esser l’uno o l’altro, e, dunque, il campo di osservazione così come i metodi di controllo applicati alla relazione possono apparire di dubbio esito se non partono da questa considerazione di fondo. A prescindere dal valore della conoscenza, e dunque del capitale umano, che più avanti sarà meglio messo in luce, si commetterebbe comunque un errore sostituendo alla gerarchia del capitale quella del lavoro. Entrambe le risorse partecipano al processo di consolidamento dell’impresa a titolo diverso rispetto al passato. Nelle singole fattispecie esse possono assumere il ruolo di principal o agent; esistono imprese dove il contenuto brain è elevato, dove quindi si può ammettere che il lavoro possa assumere il diritto al controllo finale, e decida di distribuire il residuo una volta remunerato il mercato delle risorse finanziarie, comprese quelle di 28 IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE tipo equity; altre imprese dove, invece, la proprietà rimane gestore esclusivo del residuo, una volta pagata la remunerazione del lavoro e reso il conto agli altri stakeholder. Il diverso ruolo assunto da capitale e lavoro, così come sin qui prospettato, può cambiare anche lungo la vita della stessa impresa, che può dunque assumere condizioni morfologiche diverse sul piano della governance e degli assetti proprietari. E in questo senso che può anche definirsi il passaggio dall’impresa manageriale all’impresa progetto: i contenuti morfologici mutano con lo scorrere del tempo e possono articolarsi anche per parte di essa, cioè per i singoli progetti ad essa riconducibili. Dall’analisi che precede è possibile trarre delle considerazioni finali che consentono di dare risposta alle domande poste. L’evoluzione del capitalismo moderno ha visto - e vede comunque in parte tuttora - la risorsa capitale al centro dell’impresa. Vi era, dunque, un solo soggetto principal e questi era identificato nella figura dell’azionista, proprietario e detentore del potere decisionale finale in quanto portatore delle risorse critiche e destinatario del rischio ultimo dell’impresa. La discussione sin qui articolata, ed in particolare il rinnovato ruolo della conoscenza e dunque del capitale umano, consente se non altro di far ritenere che può non essere sempre così, e che, pertanto, possono individuarsi altri tipi di residual claimant ed altri tipi di principal. Altro limite della teoria dell’agenzia è la considerazione della linearità della relazione tra principal ed agent, che discende da una impostazione metodologica che vedeva nella “rappresentazione scientifica” la possibilità di comprendere la realtà, che appare invece complessa. La relazione lineare, invece, è almeno di tipo biunivoco, e ciò consente di sviluppare una critica per così dire interna alla struttura teorica in questione ed alla sua impostazione metodologica di fondo. Sottoposto a critica è anche il concetto di comportamento opportunistico del manager. Tale critica può essere rivolta almeno da tre punti di vista: il primo, di tipo filosofico astratto, nel senso che non possiamo assumere che gli uomini siano mossi esclusivamente dal proprio interesse personale, e che in via subordinata, il proprio interesse personale passi solo per la massimizzazione del proprio tornaconto economico, inteso come profitto o come ricchezza. In secondo luogo, sotto un profilo più teorico economico, considerando che il comportamento opportunistico può derivare da una situazione di costrizione in cui viene posto il manager, che vede il proprio sforzo non opportunamente valorizzato e tutelato: l’analisi transazionale e gli studi di Williamson hanno opportunamente evidenziato tali fattispecie. Infine, da un punto di visto logico, anche l’azionista può assumere comportamenti opportunistici rispetto alla sua impresa. E tale circostanza rende non degna di esclusiva attenzione la fattispecie che debba essere il manager ad essere sottoposto a controllo, visto che lo dovrebbe essere anche l’azionista il quale, nel bel mezzo di una strategia di sviluppo, può ad esempio decidere di vendere l’impresa ad altri. CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI 29 3.2 Ambiguità delle evidenze empiriche L’analisi che precede ha segnato i limiti interpretativi della teoria dell’agenzia all’interno di un articolato complesso di riflessioni teoriche. La conclusione che si è tratta è che lo schema di governance che discende dalla teoria - pur in presenza di limiti ampiamente illustrati - può non essere in assoluto sbagliato, semplicemente perché può convivere con altre forme di governance che fanno riferimento a nuove risorse che appaiono centrali per lo sviluppo dell’impresa moderna. Prima di procedere a delle conclusioni, è bene far riferimento ai numerosi studi che hanno analizzato il valore delle scelte di governance poste in relazione con le performance dell’impresa ed al suo valore. Ciò consentirà di evidenziare ulteriormente le difficoltà interpretative della teoria dell’agenzia, poiché gli esiti delle varie analisi forniscono risultati contrastanti, anche a parità di ipotesi sottoposte a test. Per valutare quale sia la migliore struttura di governo (ammesso che ciò sia possibile) la letteratura in materia si è concentrata principalmente sulle seguenti variabili indipendenti: grado di concentrazione proprietaria, natura del soggetto di controllo, natura del management, composizione e numerosità del board, sistemi di controllo ed incentivazione; e sulle seguenti variabili dipendenti: valore dell’impresa e performance. La prima ipotesi spesso sottoposta a test dalle analisi empiriche è rappresentata dalla relazione tra capitale concentrato, cioè presenza di un blockholder che possiede una larga quota dei diritti proprietari, e performance dell’impresa. Secondo Shleifer e Vishny (1997) la concentrazione della proprietà può contribuire a ridurre le problematiche individuate dalla teoria dell’agenzia. Una proprietà concentrata, contrariamente a quella diffusa, consente infatti di affrontare i compiti di monitoraggio del management con maggiore efficacia, in quanto la dimensione assoluta dei rendimenti rende possibile il superamento di più elevati costi di monitoraggio. Vi sarebbe, inoltre, una maggiore motivazione al controllo proprio in presenza dei larghi capitali investiti nell’impresa. La stessa cosa non sarebbe riscontrabile nella proprietà diffusa, come riportato dalla dottrina tradizionale, e ciò renderebbe più liberi i manager di muoversi con maggiore autonomia, e dunque anche in contrasto con gli obiettivi della proprietà. La stessa capacità sarebbe presente nella impresa familiare non più di contenuta dimensione, che ha intrapreso un programma di assunzione di manager esterni alla famiglia. Tali circostanze indurrebbero a stabilire una relazione diretta tra concentrazione della proprietà e performance dell’impresa. Inoltre, la dimensione della quota posseduta dal grande azionista assumerebbe maggiore rilevanza là dove i mercati finanziari non tutelino l’azionista di minoranza e dove i mercati finanziari sono meno sviluppati. In realtà numerose evidenze empiriche non confermano tali ipotesi. Ciò può capitare per svariate ragioni: il grande azionista può avere solo propositi di promozione della sua ricchezza personale (i cosiddetti “benefici privati”), comunque diversi dallo sviluppo dell’impresa e dunque può non esercitare l’attività di controllo 30 IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE o esercitarla in maniera non coerente con gli obiettivi anche di redditività (Lehmann, Warning and Weigand 2004). Per esempio, in una impresa di una certa dimensione dove però è fortemente presente la proprietà familiare, il grande azionista potrebbe distogliere risorse dall’impresa garantendo benefici ai propri familiari, sottraendo risorse allo sviluppo. Sempre nell’impresa familiare, la volontà di detenere il controllo può indurre l’azionista di maggioranza a non coinvolgere altri investitori, rinunciando a superare in tal modo problemi di razionamento del capitale che pure intercettano la politica di investimento dell’impresa. Possono a riguardo immaginarsi anche problemi connessi alla successione (Burkart, Panuzi and Shleifer, 2002) oppure al comportamento dell’azionista molto attento alla propria impresa, che potrebbe essere più avverso al rischio di quanto lo siano i manager (con ciò confutando l’ipotesi originaria di Baumol) per effetto dell’eccessiva concentrazione dei propri interessi. Ancora, il grande azionista, in presenza di un azionista di minoranza necessario al potenziamento della struttura finanziaria, potrebbe trarre beneficio sviluppando una relazione di agenzia tra principal di secondo tipo (Pedersen and Thomsen, 2003). In questo caso, il grande azionista potrebbe tentare di estrarre dei benefici privati, sottraendo valore all’impresa al fine di non condividerlo con l’azionista di minoranza. Non è provata neanche la relazione tra concentrazione della proprietà e valore dell’impresa. Anzi, può succedere che il grande azionista, in presenza di un’impresa di valore, possa essere incentivato a dismettere parte rilevante delle quote azionarie, nei fatti abbandonando il controllo della propria impresa. Bastano tali considerazioni per osservare che una delle conseguenze derivanti dalla teoria dell’agenzia (maggiore concentrazione, maggiori performance e/o maggior valore) non sia per nulla provata. O, meglio, che siano possibili scenari diversi da quelli verso i quali condurrebbe una accettazione acritica della stessa teoria. Un’altra considerazione che può discendere dalla teoria dell’agenzia è quella che riguarda l’eventuale superiorità dell’impresa familiare non solo tenendo conto della concentrazione del capitale ma anche per la presenza dei familiari nel ruolo di manager. Ciò eviterebbe, nei fatti, la dicotomia tra proprietà e controllo, attraverso una stanza di compensazione di obiettivi e comportamenti alternativi rappresentata dalla famiglia. Le evidenze empiriche dimostrano che il controllo familiare può avere sull’impresa controllata effetti per definizione contrastanti, anche nei mercati europei continentali dove non domina il modello di tipo anglo-sassone. Dentro di essa si confrontano, da un lato, un sistema proprietario chiuso, poco favorevole a contribuzioni finanziarie esterne (shareholder non familiari), per paura di perdite di controllo, da cui derivano spesso posizioni manageriali assegnate a familiari non necessariamente in possesso delle relative competenze per assumere tali incarichi; dall’altro, anche un maggior attaccamento alla propria impresa, una maggiore attenzione al prodotto che spesso porta il nome della stessa famiglia. CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI 31 I numerosi studi sull’argomento hanno confermato tali relazioni contrastanti30. In realtà, il problema è più complesso di quanto esposto e non si limita alla sola analisi della dicotomia pura tra family e non family business: risulta necessario, infatti, valutare nel contempo se il valore per gli azionisti sia correlato all’essere esposti esclusivamente al problema di agenzia di tipo I, cioè principal-agent, (nelle imprese non family), esclusivamente al problema di agenzia di tipo II, cioè principalprincipal, (nel caso di soci appartenenti alla stessa famiglia, dove il CEO in carica sia di emanazione familiare, ma dove siano anche presenti control-enhancing mechanisms31 al fine di evitare prevaricazioni del socio di maggioranza, o più attivo nell’impresa, rispetto a quello di minoranza, o più lontano dall’impresa), ad entrambi i problemi di agenzia (nelle family business dove il CEO è un membro esterno alla famiglia), a nessun problema di agenzia (nelle imprese familiari con CEO di emanazione familiare dove la proprietà è largamente concentrata nelle mani del fondatore). In merito a tale tipologia di indagine si segnala il contributo di Villalonga ed Amit (2004) che, analizzando le imprese Fortune 500 (nel periodo 1994-2000), hanno tentato di determinare l’effetto della struttura proprietaria e del controllo nelle mani delle famiglie, unitamente alla presenza di un membro della stessa nel ruolo di CEO, sul valore delle imprese. I due studiosi hanno trovato che il valore più elevato lo si riscontra nelle imprese dell’ultimo tipo (cioè quelle non soggette ad alcun tipo di problema di agenzia) e che l’essere esposti all’agency problem II, una volta attivati meccanismi di controllo, risulta essere più conveniente rispetto all’essere esposti all’agency problem I. Tuttavia, tali risultati si stratificano a seconda del livello di generazione familiare in cui si trova il business; difatti, la relazione tra impresa familiare e valore appare molto positiva se il CEO in carica è il fondatore (o se il fondatore occupa il ruolo di presidente); altrimenti vengono del tutto capovolti i risultati facendo preferire le imprese di tipo non family (e quindi soggette al classico agency problem I). Più di recente, Barontini e Caprio (2005), analizzando in prima battuta le performance delle imprese family in Europa, hanno confermato il positivo effetto del controllo familiare sulle stessa. Tuttavia, tale effetto diviene negativo allorquando, articolatosi l’assetto proprietario tra più membri della famiglia, risulti necessario dar vita a sistemi di maggiore controllo tra gli azionisti. In tale fattispecie, gli studiosi hanno riscontrato il citato effetto negativo sulle performance in termini di ROA e di q di Tobin. Dove l’evidenza empirica europea e quella statunitense non collimerebbero starebbe nell’effetto sulle performance che 30 31 Analizzando le imprese statunitensi, Holderness e Sheehan (1988) trovarono che le imprese a proprietà familiare presentavano una q di Tobin inferiore alle imprese non family, mentre Anderson e Reeb (2003) constatarono l’opposto. Spostando l’attenzione anche verso altri mercati, i risultati empirici sono non sempre convergenti, si pensi ai lavori di Morck (2000), Claessens e Laeven (2003), Cronqvist e Nilsson (2002) e Bertrand, Johnson, SamphantharaK e Schoar (2004). Si fa riferimento a meccanismi quali: dual-share classes, pyramids, cross-holdings, voting agreements tali da creare un cuneo tra diritti di voto e diritti sui cash flow. 32 IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE avrebbero i discendenti dei fondatori. In Europa, infatti, parrebbe che questi ultimi non avrebbero un effetto troppo negativo sulle performance da far preferire le imprese non family alle family business, cosa che invece si riscontrava nella ricerca di Villalonga ed Amit. Passando alla realtà italiana, tipicamente fondata sul family business, i due autori italiani notano come il nostro Paese sia quello con la più alta percentuale di CEO di emanazione familiare tra i discendenti del fondatore e sia nel contempo l’unico Paese dove si è riscontrato un effetto negativo del controllo familiare sul ROA e sul valore delle imprese32. Nell’analisi del caso dell’impresa familiare italiana, assumono importanza anche ulteriori elementi di indagine come la numerosità dei membri del board33 e la presenza al suo interno di consiglieri indipendenti in grado di apportare conoscenze e varietà di idee che compensino eventuali carenze dei rappresentanti familiari, la cui presenza nel board è tuttavia funzionale per il mercato per il loro maggiore contributo in termini di controllo (Corbetta e Minichilli, 2005). In tutti questi casi, appare evidente come risulti necessario guardare alla complessità delle relazioni, senza fidarsi di ipotesi di tipo macro poste a monte della verifica empirica. Ciò che sembra potersi concludere è ancora una volta la necessità di trovare un equilibrio tra il capitale e le capacità degli employees: un equilibrio che consenta anche all’impresa familiare di allargare il campo del potere decisionale a rappresentanti non appartenenti alla proprietà originaria, in ossequio al rinnovato ruolo del capitale umano. In ordine alla tipologia di shareholder e sulle sue funzioni di controllo, va segnalata l’interessante analisi svolta da Pedersen e Thomsen (2003) che hanno riscontrato una relazione moderatamente positiva tra le performance reddituali e la presenza rilevante di un investitore finanziario nel pacchetto azionario. Il dato potrebbe essere valutato sotto diversi punti di vista. In primo luogo, l’azionista finanziario non può procedere a fenomeni di espropriazione nei confronti di altri azionisti, in quanto normalmente sottoposto a controlli di tipo istituzionale più stringenti di quanto può succedere ad un qualsiasi azionista privato. In più, un investitore istituzionale, la cui strategia è anche quella di distribuire il proprio patrimonio su più imprese, riconosce i limiti della propria competenza nella gestione del business ed è quindi più aperto a concedere autonomia al management ed a tutelare la valorizzazione del suo bagaglio professionale. L’azionista finanziario, inoltre, ha una sua solidità finanziaria, dispone di grandi risorse, almeno relativamente all’impresa in cui ha investito, e dunque può attendere lo sviluppo dell’investimento (è cioè meno wealth-constrained). Infine, a sua volta, è un gestore di risorse per terzi: la propria ricchezza non dipende dalla possibilità di estrarre benefici privati, ma dal rendimento delle azioni in sé, che gli consente di remunerare 32 33 Laddove in Norvegia e Svizzera si è riscontrato, rispettivamente un effetto negativo sul valore, ma positivo sul ROA e viceversa, ed in tutti gli altri Paesi un effetto positivo su entrambe le variabili dipendenti. Si dimostra che un cda di maggiori dimensioni è correlato positivamente con le performance del mercato azionario. CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI 33 i capitali che prende in gestione. Circa quest’ultimo aspetto, l’osservazione empirica dimostra che in alcuni casi l’investitore istituzionale, dovendo gestire delle aspettative di rendimento definite ex ante, una volta soddisfatta tale condizione, è disposto a distribuire l’eventuale “extra-profitto” a coloro che hanno gestito l’impresa, rafforzando il loro rapporto fiduciario con l’impresa. Per quanto concerne la soluzione del problema di agency I, infine, le evidenze empiriche riguardanti l’adozione della “managerial ownership” sono anch’esse ambigue e contrastanti. In letteratura si trovano quattro principali orientamenti circa la relazione tra adozione della managerial ownership ed il valore delle imprese. Jensen e Meclking (1976) per primi auspicavano l’utilizzo di questo strumento; Demsetz (1983) riteneva che non vi fosse alcun effetto diretto tra l’adozione di questa soluzione ed il valore d’impresa; Stulz (1988) riteneva al contrario che l’effetto dato dall’avere un manager azionista fosse negativo; Mork (1988), infine, asseriva la non monotonicità della relazione che, secondo l’autore, assumeva segno diverso in relazione al grado di partecipazione. In letteratura esiste evidenza empirica a sostegno di tutte le ipotesi illustrate (si pensi ai lavori di Agrawal 1987, Cho 1998, Demsetz e Lehn 1988 e Mork 1988). Dalla breve rassegna riguardante l’analisi empirica, emerge palesemente la disomogeneità dei risultati, che non permette di trarre conclusioni incontrovertibili circa la relazione tra struttura di governo e performance aziendali, e men che meno avvalorano le ipotesi discendenti dalle assunzioni della teoria dell’agenzia. Emergono però, in linea generale, alcuni risultati degni di considerazione. In primo luogo, si è visto come alla concentrazione proprietaria (in Europa come in U.S.A.) si accompagni un positivo riscontro sul valore dei titoli; si evince poi che il capitalismo familiare è in realtà apprezzato dal mercato, soprattutto se accompagnato dalla presenza del fondatore in qualità di CEO. Per quanto concerne il board of director, l’elevata numerosità e la presenza di consiglieri esterni è vista di buon occhio dagli investitori (a testimonianza del fatto che, alla governabilità e alla snellezza dei processi decisionali, sia preferibile porre in essere costruttive controversie nel board tali da alimentare un processo decisionale più lento, ma anche più consapevole). 3.3 Altri limiti interpretativi contemporanea della teoria dell’agenzia. L’impresa La relazione tra azionista e manager non è di tipo lineare o, almeno, lo è in via biunivoca: tale considerazione ha consentito innanzi di definire la parzialità interpretativa della teoria dell’agenzia. In realtà, la natura dell’impresa contemporanea è ancora più complessa di quanto la semplice biunivocità identificata possa far ritenere. Nell’impresa attuale, esistono conflitti non solo tra le categorie di base individuate - azionisti e manager - ma tra diversi tipi di azionisti e diversi tipi di manager. In più, non possono essere dimenticate le relazioni intercorrenti tra imprese, nei vari tipi di sistemi reticolari. 34 IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE Come opportunamente sottolineato da Child e Rodrigues, lo studioso del problema dell’agenzia non può non tener conto della double agency e della multiple agency (Child and Rodrigues, 2003). La prima si verifica quando differenti gruppi di soggetti nell’impresa pongono in essere decisioni di rilevante impatto anche ai livelli più bassi della gerarchia aziendale. Nei livelli sottostanti il top management, altri manager o comunque dipendenti della società si occupano delle fasi implementative dei piani aziendali definiti. In queste situazioni possono replicarsi le stesse relazioni identificate dalla teoria dell’agenzia, con la differenza che le posizioni principal e agent sono distribuite esclusivamente tra manager. Tutti i fenomeni identificati tra azionisti e manager si replicano: asimmetrie informative, contratti incompleti, problemi di controllo ed incentivazione, tentativi di appropriarsi di posizioni di rendita che derivano da barriere conoscitive (Milgrom and Roberts, 1994). Come pure può avvenire che ognuna delle relazioni individuate possa presentarsi in maniera inversa rispetto alla ipotizzata scala gerarchica. E quanto più la diffusione della conoscenza si propaga tra manager evoluti e capaci, tanto più possono essere loro a trovarsi nella condizioni di principal rispetto al top management. Per multiple agency, Child e Rodrigues identificano una situazione in cui due soggetti, azionisti o manager, danno vita ad una relazione di agenzia sia come principal che come agent e contemporaneamente nei due ruoli. Un esempio classico di multiple agency lo si riscontra allorché due imprese costituiscono una jointventure. In tal caso, la molteplicità dei rapporti di agenzia può derivare dalla considerazione di tre fattori: vi sono più proprietari e ciascuno di loro ha il diritto di richiedere che i propri interessi siano rispettati; considerato che ogni impresa partner assicura all’alleanza risorse complementari di tipo tangibile ed intangibile, tra di loro ognuna diviene principal ed agent per l’altra ed allo stesso tempo; infine, i manager delle imprese alleate si comporta come agent per i propri principal. I due fenomeni commentati fanno solo intravedere il complesso reticolo di relazioni che attraversa l’impresa, al di dentro di essa e al di fuori. Ed il fenomeno si accentua là dove si rafforza il ruolo delle risorse di conoscenza ed aumenta il tasso di dispersione di esse internamente ed esternamente ai confini aziendali. Il tentativo di controllo di tale reticolo diviene estremamente difficile e l’eccesso di controllo come risposta alla complessità della realtà da controllare riduce la capacità di incisività dell’azione manageriale che rischia, tra l’altro, di impiegare il proprio tempo a controllare piuttosto che ad identificare il percorso di sviluppo dell’impresa. Inoltre, si ripete, più aumenta il grado di dipendenza dello sviluppo dell’impresa da capacità e competenze non in possesso di coloro che tradizionalmente definiamo il gruppo di comando (azionisti e top management) più il grado di complessità aumenta. Le logiche di decentramento, naturale conseguenza prevista dall’analisi transazionale, come risposta all’azzeramento dei vantaggi derivanti dall’internalizzazione dovuti all’incremento dei costi di coordinamento e controllo, non esauriscono l’analisi e la comprensione del fenomeno: nella valorizzazione e nella autonomia delle risorse umane interne ed esterne ai confini tradizionali dell’impresa può nascondersi il fondamento dello sviluppo. CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI 35 La fase di controllo è dunque rivolta a tutti i livelli dell’impresa, è condivisa dai portatori delle competenze critiche, non è solo finance oriented e deve essere riflesso di un clima di trasparenza e equità. In tale scenario, bisogna essere consapevoli che coloro che chiamavamo agenti possono divenire del tutto autonomi. E tale consapevolezza da un lato rende ormai obsoleta la visione della teoria dell’agenzia, dall’altro richiede principi nuovi che consentano di immaginare nuove forme di governance entro nuove forme di strutture organizzative. 4. Orientamenti per la ricerca futura Questa relazione non poteva ovviamente esaurire il tema della corporate governance: la complessità e la rilevanza dell’argomento non lo consentiva. Rilevanza che è ben presente a tutti noi: appare evidente che su tale tema più che su altri si deve confrontare la comunità scientifica poiché esso riverbera le sue connessioni sulla natura e le forme del capitalismo futuro ed in certa misura sulle logiche di convivenza che contraddistingueranno anche i nostri prevedibili assetti sociali. Alla luce di ciò, trarre delle conclusioni consente, da un lato, di focalizzare ancora meglio le tesi esposte e, dall’altro, a procedere ad alcune loro estensioni che potranno essere oggetto di ulteriori approfondimenti e studi. I) Come tutte le teorie che celano in sé tentativi di estensione di metodi scientifici all’analisi di contesti sociali, la teoria dell’agenzia cade in un eccesso di semplificazione. La realtà è molto più complessa e le relazioni da essa individuate non riescono a rappresentarla compiutamente; è anche vero che il contesto storico a cui quella teoria faceva riferimento consentiva di effettuare delle semplificazioni senza correre grossi rischi. Il capitale era al centro della capacità competitiva dell’impresa, l’azionista era colui che rischiava di più. E non è escluso che tale paradigma conti ancora nell’analisi dei sistemi produttivi attuali. Tuttavia, l’economia contemporanea pone al centro dell’impresa il capitale umano che non solo può diventare risorsa critica, ma come detto innanzi, si espone al rischio di non veder valorizzato il proprio investimento, tanto più rischioso perché specifico e poco ricollocabile sul mercato, tanto più elevato quanto più rilevano nella creazione del valore la conoscenza, l’innovazione e l’esperienza. Se criticità delle risorse ed esposizione al rischio ultimo erano le categorie logiche su cui riposava la leadership dell’azionista e, dunque, il suo essere residual claimant, se ciò può essere riconosciuto anche al detentore della conoscenza, manager o dipendente - in altri termini chi non investe per lo più capitale finanziario -, allora anche soggetti del genere possono assumere il ruolo del residual clamaint. Così come appare che comportamenti opportunistici possono essere assunti sia da azionista che manager, ognuno nei confronti dell’altro ed ognuno nei confronti dell’impresa di appartenenza; anche sul piano dell’opportunismo, non vi è una esclusiva del manager: opportunista 36 IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE può divenire anche l’azionista e, paradossalmente, anch’egli può essere soggetto a controllo. II) Le evidenze empiriche non confortano neanche le posizioni interpretative che discendono direttamente e indirettamente dalla teoria dell’agenzia. La relazione diretta tra proprietà concentrata e performance, che derivava da una valutazione comparata tra costi di controllo, efficacia relativa di questi ultimi e rendimento, non è sempre comprovata, soprattutto perché le categorie considerate - azionisti e manager - non esprimono uniformità di indirizzi ed obiettivi, non tanto tra loro quanto al loro interno. Anche l’impresa familiare vede ridimensionarsi il ruolo tradizionale che gli è da tempo riconosciuto; la riduzione dei rischi di dicotomia tra obiettivi tra membri della stessa famiglia - che riduceva i costi di agenzia e che, dunque, dava impulso alla sua capacità competitiva ed alle sue performance in termini relativi - non può non confrontarsi con il rischio di un’altra dicotomia: tra obiettivi dell’impresa ed obiettivi della famiglia. Non può non osservarsi, inoltre, che tale dicotomia sia spesso un freno molto più rilevante allo sviluppo di quanto possa apparire la tradizionale divergenza tra i fini di proprietari e manager. Ciò trova consistenza soprattutto nella considerazione che nell’impresa familiare, di solito di non elevate dimensione, la proprietà non sia contendibile e che, dunque, venga meno l’unica ipotesi di modifica degli assetti - cioè la sua scalabilità per dirla a’ la Marris - che consenta di modificare l’approccio verso i manager, verso i mercati e così via. La chiusura del modello proprietario porta alla conseguenza che se bisogna avallare il peso dell’esperto, tutelare il suo investimento attraverso un coinvolgimento effettivo nella direzione strategica, cioè condurre a termine il processo di avvaloramento dei professional di cui si è detto innanzi, tale esigenza non trova spazio proprio per merito della chiusura che i rapporti familiari esercitano su tale processo. E questo può rappresentare un cuneo ineliminabile allo sviluppo, poiché viene bloccato il processo di travaso di nuove conoscenze e nuovi know-how nel patrimonio aziendale. In altri termini, il modello proprietario chiuso, tipico dell’impresa familiare, si interporrebbe alla crescita non tanto e non solo per problemi di capacità finanziaria - come tradizionalmente riconosciuto - quanto per l’impossibilità di comprendere le nuove risorse della conoscenza e cioè il capitale umano non proveniente dalla famiglia. Tali tendenze si rafforzano là dove modelli culturali e sociali consolidano la chiusura intellettuale al confronto con altre esperienze lavorative e spinge a chiedersi se non sia in tale ambito che bisogna ritrovare in buona parte i motivi che non spingono alcune aree geografiche a svilupparsi. III) L’analisi delle evidenze empiriche ha isolato anche la figura dell’investitore finanziario, rintracciando una moderata correlazione positiva tra la presenza di tale investitore e le performance dell’impresa. L’economia contemporanea offre anche un altro spunto a sostegno della tesi commentata. Le imprese oggi si confrontano con mercati più ampi e più volubili; investimenti sempre più elevati devono essere realizzati sia nell’ampliamento del raggio di azione sia nell’innovazione di prodotto. Le risorse finanziarie - che pure necessitano - CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI 37 possono superare le disponibilità di azionisti imprenditori che hanno comunque a che fare con il vincolo di bilancio della propria famiglia o connesso alle proprie personali aspettative. L’organizzazione del capitalismo moderno attraverso la costituzione di fondi di investimento, banche e banche d’affari, venture capitalist, consente di immaginare che la copertura dell’investimento possa essere ottenuta in qualche maniera dall’esterno dell’impresa e, soprattutto, in misura maggiore rispetto a coloro che svolgono funzioni che tradizionalmente definiamo imprenditoriali e/o manageriali. Dall’esterno, nel senso qui accolto, proverrebbe non solo il capitale di debito ma anche quello cosiddetto di rischio, che avrebbe la caratteristica di essere più paziente, di assumere - appunto - un rischio maggiore connesso ad un maggior rendimento, senza che ciò però implichi una partecipazione alla gestione, né diretta né indiretta. D’altronde, l’organismo gestore di risorse finanziarie è a sua volta un’impresa ed è specializzato nel diversificare i rischi in una logica, nel migliore dei casi, industrial-finanziaria. Al vertice dell’impresa si troverebbe, dunque, colui che dispone del know-how necessario: al mercato finanziario rimarrebbe il rispetto delle aspettative di rendimento ed il rispetto dei termini contrattuali, con un grado di controllo di tipo diverso rispetto a quello ipotizzato dalla relazione principal-agent. Volendo accettare ancora le categorie logiche della teoria dell’agenzia, il principal non sarebbe il proprietario ma un investitore attento alle performance, che asseconda un progetto proposto da un esperto gestore, che ha la convinzione di non permanere nella detenzione delle azioni per sempre, ma che dismetterà tali azioni entro un certo arco temporale. Questa visione implicherebbe una cesura netta tra capitale finanziario e capitale di conoscenza e consentirebbe di fare chiarezza almeno in alcuni contesti, lasciando al possessore della conoscenza la responsabilità dell’impresa - a tutela del suo investimento specific - e nel contempo l’obbligo di rispettare i termini contrattuali definiti con il mercato finanziario. IV) Naturalmente assetti del genere non possono essere assorbenti della variegata realtà: al ricercatore spetta solo l’esigenza di annoverarli tra le tante ipotesi di lavoro da analizzare, secondo l’impostazione di pluralismo metodologico considerata all’inizio della relazione. Se però si ammette la possibilità di poter alternare il capitale finanziario o quello di conoscenza al vertice della struttura d’impresa, allora possono essere rivisti anche i principi ispiratori delle attività di controllo. Sembra di poter dire che l’articolata strumentazione di controllo che nei vari Paesi si cerca di adottare per tutelare il ruolo di tutti gli stakeholder nei confronti di chi decide nell’impresa, muova da un obiettivo che è quello di evitare che chiunque sia nella posizione di prendere decisioni possa ricavarne benefici privati, contrari all’interesse dell’impresa e, dunque, dell’ente da cui dipende la loro carriera, la dimensione dei loro risparmi e così via. D’altronde, se chi decide, decide contro l’interesse di coloro a cui è legato lo sviluppo dell’impresa, rischia di decidere anche contro il proprio interesse, naturalmente nel caso in cui nell’impresa risieda la prospettiva di crescita del suo bagaglio 38 IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE professionale e patrimoniale. Per cui, se decide contro l’interesse dell’impresa escluse ipotesi di tipo puramente criminoso - lo fa perché ritiene che la stessa impresa o non valorizza il proprio investimento o perché i propri benefici personali non risiedono dentro di essa. E ciò può succedere non solo nel caso di un manager infedele ma, come visto, anche nel caso di un azionista che non ha interesse a promuovere l’impresa di cui è proprietario. Se è così, il problema si incentra non tanto nell’immaginare articolate procedure di controllo ma nella possibilità di avere regole che garantiscano la rimozione del vertice, a favore di chi la pensa in maniera opposta o in via preventiva o in un tempo comunque breve e comunque utile ad evitare danni irreparabili all’impresa. Il problema risiede nel costruire un sistema di strutture organizzative e di regole interne (ed anche esterne - si pensi all’insieme del sistema giuridico) in grado di permettere, di assecondare l’eventuale avvicendamento. Non solo tra azionisti e manager, ma anche tra manager. V) Ha poco significato, entro l’ambito interpretativo delineato, dire chi deve decidere: lavoro e capitale si continueranno a confrontare durante la storia del capitalismo, assumendo un ruolo principale a seconda delle contingenze, e forse una volta trovato un assetto efficace, questo potrà subire delle modifiche, poiché possono mutare le condizioni di contesto. Anche in tal caso propendere per una gerarchia del lavoro o per una gerarchia del capitale non rappresenta il problema centrale. L’obiettivo è quello di individuare volta per volta chi rappresenta la risorsa critica e rischia di più e garantire che sia lui a governare. Tuttavia, ciò che riusciamo a percepire oggi è la forza della conoscenza e dunque del capitale umano e ciò ci spinge a credere che per troppo tempo, anche nel nostro Paese, abbiamo ritenuto che la proprietà di un’impresa potesse giustificare la leadership anche di rilevanti complessi aziendali anche se i proprietari non disponevano delle competenze necessarie; possiamo dissociare effettivamente la proprietà, l’investimento del capitale personale dalla figura dell’imprenditore, possiamo ritenere possibile che le tre prerogative dell’imprenditore (investimento personale, conoscenza del proprio mestiere e capacità di coordinamento) possano ridursi a due, consentendo di definire imprenditore anche colui che non investe nell’impresa i propri capitali; d’altronde, come lo stesso Fazzi già asseriva (Ciappei-Brichieri, 2005): (all’imprenditore sono riconosciuti)”..compiti propri da assolvere nell’azienda, che non gli derivano da essere o meno il proprietario” ed ancora “il capitale privato ed il rischio economico non caratterizzano più la funzione dell’imprenditore”. Volendo estendere il ragionamento fatto, in realtà, quanto più la società civile è ingessata nei suoi meccanismi di sviluppo, nelle imprese come nelle altre istituzioni, tanto più diviene difficile premiare lo sforzo di chi sa, di chi conosce. Ovviamente tale ruolo lo si conquista sul campo, sul fronte dei risultati, sul fronte del libero mercato. CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI 39 Bibliografia AGRAWAL A., MANDELKER G., “Managerial incentives, corporate investment and financing decision”, Journal of Finance, n. 42-4, 1987. ALCHIAN A.A.-DEMSETZ H., “Production, information costs and economic organization”, American Economic Review, n. 72, 1972. ANDERSON R.C., MANSI S.A., REEB D.M., “Founding family ownership and the agency cost of debt”, Journal of Financial Economics, n. 24, 2003. ANDERSON R., REEB D.M., “Founding-Family Ownership and Firm Performance: Evidence from the S&P500”, Journal of Finance, n. 58, 2003. 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