Il management come scienza sociale: una rilettura delle teorie sulla

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Il management come scienza sociale: una rilettura delle teorie sulla
Il management come scienza sociale: una rilettura
delle teorie sulla corporate governance*
CLELIA MAZZONI** MARIO MUSTILLI***
Abstract
La relazione si propone di aprire il dibattito sul problema della governance
dell’impresa - tema centrale del Convegno - prendendo spunto da alcune riflessioni contenute
nell’articolo di Goshal (2005). In particolare si intende trattare le questioni metodologiche
ed epistemologiche che sono alla base del lavoro di Goshal e rileggere la teoria dell’agenzia
e gli altri contributi teorici sulla corporate governance alla luce di tali premesse
epistemologiche. Partendo dalla “pretesa di conoscenza” della scienza economica (von
Hayek, 1974), derivante dall’intento di utilizzare le stesse metodologie delle scienze esatte, ci
si propone di interpretare gli approcci teorici implicitamente utilizzati in economia per
fronteggiare il problema del “demarcazionismo” (individuazione dei parametri idonei a
distinguere una teoria scientifica da una teoria che non lo è). Si giunge, per tale via, ad
indicare un possibile orientamento metodologico post-positivista fondato su quattro
direttrici: 1) l’obiettivo dell’analisi teorica non è tanto quello di rivelare la verità, quanto
piuttosto di attivare una possibile visione del mondo; 2) l’atto cognitivo non dipende solo
dalle caratteristiche dell’oggetto osservato, ma anche dalle caratteristiche del soggetto
osservante; 3) occorre valorizzare una reciproca contaminazione tra le metodologie
considerate tipiche delle scienze della natura e quelle accreditate come proprie delle scienze
esatte; 4) la coesistenza di punti di vista differenziati e l’impossibilità di dominio completo
della realtà non implicano la rinuncia al metodo weberianamente inteso.
Il tema della corporate governance viene affrontato all’interno di una tale cornice
concettuale. L’esistenza di una semplificazione della relazione principal-agent, così come
descritta dalla teoria dell’agenzia, viene argomentata attraverso una ricostruzione storicoteorica della teoria d’impresa sul tema della governance. La transizione dall’imprenditoreimpresa (che riunisce le prerogative del sapere, coordinare ed investire) all’impresaorganizzazione (nella quale la proprietà non detiene più integralmente il potere di
disposizione) impedisce di utilizzare schemi di connessione lineare nell’analisi del fenomeno
della governance ed impone, invece, una visione del sistema d’impresa come luogo di
compresenza di soggettività differenziate, portatrici di un proprio progetto e di una propria
dotazione conoscitiva. In questa logica la relazione ripercorre il contributo teorico fornito
dalla teoria dei contratti, a partire dall’originario contributo di Coase (1937).
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Pur essendo la relazione frutto di un lavoro di intensa collaborazione tra i due autori,
nella stesura finale i paragrafi 1 e 2 sono stati scritti da Clelia Mazzoni, mentre i
paragrafi 3 e 4 sono stati curati da Mario Mustilli.
Straordinario di Economia e Gestione delle Imprese - Seconda Università di Napoli
e-mail: [email protected]
Ordinario di Economia e Gestione delle Imprese - Seconda Università di Napoli
e-mail: [email protected]
sinergie n. 73-74/07
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IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE
Questa discussione è supportata da alcune evidenze riscontrate nell’analisi empirica, in
cui si affrontano i temi della relazione tra concentrazione del capitale e performance
dell’impresa, delle imprese a proprietà familiare, della presenza di un investitore finanziario
nel pacchetto azionario, di fenomeni come quelli della double agency e della multiple agency.
Nelle conclusioni, rigettando l’ipotesi di dover necessariamente scegliere tra una
gerarchia del capitale e una gerarchia del lavoro, si propone di guardare alla governance
come alla possibilità di costruire un sistema di strutture organizzative e di regole interne in
grado di permettere e assecondare l’avvicendamento tra capitale e lavoro, in funzione delle
conoscenze detenute e delle specifiche condizioni di contesto.
Parole chiave: metodo scientifico, scienze sociali, corporate governance, teoria dell’agenzia
Our paper sets out to open the debate on the question of corporate governance - a key
topic at the Conference - taking its cue from some considerations in Goshal’s article (2005).
We aim to tackle the methodological and epistemological questions that underpin Goshal’s
work and re-interpret agency theory and other theoretical contributions on corporate
governance in light of such epistemological basis. Starting from “the Pretence of
Knowledge” of economic science (von Hayek, 1974), deriving from the intent to use the same
methods as the exact sciences, we propose to interpret the theoretical approaches used in
economics to deal with the problem of “demarcationism” (identification of suitable
parameters to distinguish a scientific theory from one that is not). This leads us to indicate a
possible post-positivist methodological orientation based on four principles: 1) the aim of
theoretical analysis is not so much to reveal the truth as to activate a possible vision of the
world; 2) the cognitive act does not depend only on the characteristics of the object observed,
but also on the characteristics of the observing subject; 3) we must capitalise upon reciprocal
contamination between methods considered typical of the natural sciences and those deemed
to belong to the exact sciences; 4) the coexistence of different viewpoints and the impossibility
of complete dominion of reality do not entail giving up method in the Weberian sense.
The issue of corporate governance is handled within the above conceptual framework.
The existence of a simplification of the principal-agent relationship, as described by agency
theory, is argued through a historico-theoretical reconstruction of corporate theory on the
issue of governance. The transition from entrepreneur-firm (which combines the prerogatives
of knowing, coordinating and investing) to the firm-organisation (in which the owner no
longer holds complete power of disposal) prevents the use of linear linkages in analysing the
phenomenon of governance. Instead, it imposes a conception of the corporate system as the
site where there is the co-presence of different subjects, bearers of their own projects and
their own baggage of knowledge. Within this rationale, the relationship follows the
theoretical contribution supplied by contract theory, starting from the original contribution of
Coase (1937).
This discussion is supported by some evidence found in empirical analysis, in which the
following issues are tackled: the relationship between capital concentration and firm
performance, family-run firms, the presence of a financial investor in the shareholding, and
phenomena like those of double agency and multiple agency.
In conclusion, rejecting the notion of having to choose between a hierarchy of capital
and one of labour, we propose to view governance as the possibility of building a system of
organizational structures and internal rules that can allow and support alternation between
capital and work, according to knowledge possessed and specific contextual conditions.
Key words: scientific method, social sciences, corporate governance, agency theory
CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI
1.
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La “pretesa di conoscenza”
Il XVIII convegno annuale di Sinergie si propone di discutere un tema centrale
del capitalismo contemporaneo - la governance dell’impresa - rivisitando le
principali teorie economiche sull’argomento, analizzando le premesse
epistemologiche e metodologiche di tali teorie e osservando le conseguenze
prodotte, attraverso il loro insegnamento, sulla prassi aziendale.
Lo spunto per tali approfondimenti è contenuto in alcuni articoli pubblicati tra il
1996 e il 2005 da Sumantra Ghoshal (Ghoshal-Moran, 1996; Ghoshal, 2005).
Questa prima relazione intende aprire il dibattito sul tema, iniziando la
trattazione dal punto da cui prende le mosse l’articolo di Ghoshal del 2005: la
pretesa di conoscenza. Come si può vedere dalla figura 1 - in cui Ghoshal ripercorre
le tappe attraverso le quali, a suo avviso, le cattive teorie distruggono le buone
pratiche - la pretesa di conoscenza, unitamente a quella che l’autore indiano
definisce “la visione ideologica fosca”, determina il predominio di teorie fondate su
ipotesi deboli e scarsa attinenza con la realtà, che - in un processo di autoavveramento generato attraverso il loro reiterato insegnamento nelle aule
universitarie e nelle business school - determinano realtà fattuali giudicate dannose.
È quanto è accaduto, secondo l’autore, divulgando accademicamente la teoria
dell’agenzia e attuando, nelle imprese, le prescrizioni derivate dalla relazione
principal-agent, così come veniva descritta da Jensen e Meckling (1976).
La locuzione “pretesa di conoscenza” fu usata da von Hayek nella sua Nobel
Lecture in occasione della consegna del Premio Nobel per l’economia (von Hayek,
1974). Von Hayek sostenne, in quella sede, che esiste una propensione degli
economisti ad imitare acriticamente le procedure proprie delle scienze fisiche e che
questa tendenza può generare errori significativi. L’importazione del metodo
“scientifico” nelle scienze sociali, secondo l’autore austriaco, genera effetti
decisamente “non scientifici” in quanto non tutti i fenomeni sotto osservazione in
tali discipline sono esprimibili attraverso dati quantitativi e spesso la rilevazione e la
misurazione portano ad escludere alcuni fattori importanti. Mentre nelle scienze
fisiche - afferma von Hayek - si presuppone che le principali determinanti di un
certo evento sono direttamente misurabili e osservabili1, nello studio di fenomeni
complessi, quali ad esempio quelli di mercato, non tutte le variabili sono
sottoponibili a tale certa quantificazione; l’ossessione della valutazione numerica
genera il pericolo di considerare rilevanti i fattori sottoponibili a misurazione
piuttosto che quelli realmente significativi. Ghoshal, riprendendo Clegg e RossSmith (2003), definisce il pregiudizio che collega la bontà di una teoria al metodo
adoperato nelle scienze naturali “la superbia dell’invidia della fisica” (2005, 64). Il
concetto è approfondito da altri autori, che sottolineano come l’istanza di
validazione ingessa la costruzione di teorie, rendendo necessario ad ogni step una
verifica che può addirittura essere controproducente ai fini della generazione di
1
Nel prosieguo di questa relazione si dirà che, in alcuni casi, questa affermazione non è
così vera neanche per le cd. scienze esatte.
IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE
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nuove conoscenze (Weick, 1989, 516-519). Ghoshal articola il suo pensiero
utilizzando alcune categorie riprese da Elster (1983) per differenziare la
concettualizzazione nei diversi campi del sapere, distinguendo in particolare le
spiegazioni causali (ossia quelle sostenute da una relazione causa-effetto) tipiche
delle scienze naturali, da quelle funzionali (potremmo definire così gli eventi
generati da un’utilità) proprie della biologia, da quelle intenzionali (ci si riferisce ad
azioni individuali fondate su un intendimento, su un obiettivo) appropriate per le
scienze sociali e, quindi, per gli studi di management (Ghoshal, 2005, 53 e ss.).
Secondo Ghoshal l’adozione dell’approccio scientifico alla ricerca ci ha indotto a
sostituire “i concetti di intenzionalità umana con una fede incrollabile nel
determinismo causale per spiegare tutti gli aspetti della performance organizzativa”
(ivi, 53).
Visione
ideologica
fosca
La pretesa di
conoscenza
Determinismo
causale e
negazione di
qualsiasi
ruolo delle
scelte e delle
intenzioni
umane
Eccessiva rivendicazione
di verità basata
su analisi parziali e ipotesi
sbilanciate
Ipotesi
negative su
persone e
istituzioni
Le teorie influenzano la pratica e
i manager adottano la visione
dominante dei teorici
Le ipotesi negative
diventano concrete attraverso
il processo della doppia
ermeneutica
Fig. 1: La struttura dell’articolo di Ghoshal
Fonte: Ghoshal, 2005, 52
Il tema della pretesa di conoscenza apre il varco alla questione dell’identità
delle scienze economiche (e, dal punto di vista a noi più vicino, dell’economia
d’impresa), questione che riverbera i suoi effetti sull’azione imprenditoriale, sulla
pratica manageriale e sulle potenzialità del circuito insegnamento-apprendimento2.
2
L’apprendimento interviene quando i concetti incontrano le esperienze attraverso la
riflessione (Mintzberg-Gosling, 2002).
CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI
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Questo intervento si pone l’obiettivo di affrontare la questione epistemologica
nelle scienze sociali e di tratteggiare - nell’ambito dell’attuale panorama della
filosofia della conoscenza - un possibile punto di vista per lo studio e
l’insegnamento delle discipline economiche. Nella seconda parte della relazione la
cornice concettuale proposta verrà utilizzata per rileggere la teoria dell’agenzia e gli
altri contributi teorici sulla corporate governance alla luce di tali premesse
epistemologiche.
2. Economia ed epistemologia: una proposta post-positivista
La tesi di fondo è che, nel panorama contemporaneo, i processi legati alla
cognizione e al trasferimento di conoscenza nelle nostre scienze (ma probabilmente
il discorso può essere ampliato a molte scienze sociali e, come si è già accennato,
perfino ad alcuni aspetti delle scienze naturali) non rispondono a logiche
deterministiche e universalistiche, ma piuttosto ad una paziente accettazione del
pluralismo delle ipotesi, alla coesistenza di più punti di vista, al riconoscimento di
un mondo della conoscenza reale solo come parte del mondo della conoscenza
possibile.
Fenomeni complessi - come quello della corporate governance - che presentano
caratteri variegati e molteplici (spesso addirittura contraddittori al loro interno) non
possono essere ricondotti a schemi di spiegazione che si avvalgono di
corrispondenze semplificate. Occorre, in tal senso, imparare a catturare alcuni
segnali deboli presenti nella realtà economica d’impresa là dove la debolezza del
segnale “non sta ad indicare una sua scarsa rilevanza cognitiva, ma piuttosto la
difficoltà di riuscire a cogliere fenomeni di cambiamenti ancora in nuce, che
possono però avere un assai elevato significato qualitativo e di prefigurazione di
tendenza” (Vaccà, 1985, 20).
Evidentemente tali segnali deboli sono spesso difficilmente misurabili e/o
validabili, almeno in prima istanza, secondo una logica positivista di stretto
ancoraggio delle teorie ai fatti. La volontà del positivismo3 di adattare il metodo
delle scienze della natura anche alle scienze sociali, identificando nella conoscenza
sperimentale la sola conoscenza scientifica, ha comportato che nel concetto di
3
Va sottolineato che il termine “positivismo” viene adoperato in un’accezione tutt’altro
che univoca, tanto da spingere Lakatos ad affermare: “tutte le volte che sentite
pronunciare questa parola, chiedete una definizione, pensate alla definizione, e non alla
parola” (Lakatos, 1995, 45). Com’è noto, Comte - ritenuto da molti il padre del
positivismo - sostenne che la conoscenza dell’uomo attraversa tre stadi, quello teologico,
quello metafisico per poi raggiungere quello positivo. Nello stato teologico la
spiegazione dei fenomeni viene effettuata facendo riferimento a forze che dominano la
realtà dall’esterno. Nello stato intermedio - quello metafisico - la realtà è interpretata
ricorrendo a principi astratti e spesso soggettivi, mentre nello stadio positivo tutto è
giustificato riportandosi alla rilevazione empirica e alle leggi desumibili da questa
rilevazione (Izzo, 1991, 63-64).
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IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE
metodo, così come si è venuto costituendo nella tradizione, sono implicite le nozioni
di obiettività e di dimostrabilità che escludono ogni intervento del soggetto
osservante (Vattimo, 1983, V). Nonostante le rilevanti critiche mosse da più parti
nei confronti del modello positivista, esso pervade ancora concettualmente le nostre
coscienze di ricercatori riuscendo a condizionare in modo significativo i giudizi
interpretativi sul mondo e l’idea stessa di conoscenza (Paoli, 2006, 15).
Nel prosieguo di questo paragrafo si fornirà dapprima un quadro panoramico di
come, implicitamente o esplicitamente, l’economia abbia subito le influenze di
alcuni correnti di pensiero dominanti in campo epistemologico. Successivamente si
presenterà un possibile approccio al problema della pretesa di conoscenza sollevato
da Ghoshal, secondo canoni, a nostro avviso, compatibili con l’economia della
complessità.
2.1 Il demarcazionismo nella teoria economica
Il “demarcazionismo” costituisce il problema a monte della “pretesa di
conoscenza”: esso pone l’esigenza, avvertita da tutti coloro che fanno ricerca in
qualsiasi campo del sapere, di individuare la linea di demarcazione tra una buona
teoria e una cattiva teoria o, in chiave relativa, tra una teoria migliore ed una
peggiore. Espressa in termini più estremi, l’istanza ci spinge a chiedere di
distinguere una teoria scientifica da una teoria non scientifica.
Il tema del demarcazionismo è stato, ed è attualmente, affrontato in economia
con diversi gradi di consapevolezza e utilizzando soluzioni molto differenziate. Tale
varietà di impostazioni riflette la pluralità di risposte che sono state date alla
questione nell’epistemologia contemporanea e testimonia una ricerca di schemi di
spiegazione - anche alternativi a quelli tradizionali - per dare giustificazione al
progredire della conoscenza. Al tempo stesso, dimostra l’impossibilità di procedere
operando gravi semplificazioni.
Allo scopo di condividere questa eterogeneità interpretativa, nel seguito si
descrive l’influenza dei principali indirizzi demarcazionisti su alcuni economisti o su
certe teorie economiche4.
È abbastanza facile riconoscere l’influenza della scuola induttivista5 in
economia e nell’economia d’impresa. L’approccio metodologico influenzato
dall’originaria teoresi baconiana, che nella sua versione classica attribuisce dignità
scientifica solo alle teorie dedotte dai fatti, è stato riproposto nel XX secolo in
versioni più blande: il probabilismo, secondo il quale anche se le teorie non possono
4
5
La breve ricostruzione che segue è stata effettuata sulla base di diverse fonti, ma
soprattutto tenendo conto di alcune opere che si sono occupate di epistemologia in
riferimento alla scienza economica (tra cui, in particolare, Pheby, 1991) e delle lezioni
tenute da Imre Lakatos presso il Dipartimento di filosofia, logica e metodo della London
School of Economics (Lakatos, 1995, 25-159).
Com’è noto, tale impostazione basa il lavoro scientifico su verifiche empiriche
scrupolose che consentono gradualmente - attraverso osservazioni ripetute - di giungere
alla definizione di leggi generali.
CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI
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essere rese certe dall’osservazione empirica, possono da quest’ultima almeno essere
rese probabili e il verificazionismo, che riporta la validità di una asserzione alla sua
decidibilità attraverso un esperimento. Appare chiaro che tali versioni deboli sono
sorte nel tentativo di rendere i principi induttivi compatibili con una loro concreta
applicazione al mondo della ricerca contemporanea. In economia è evidente
l’influenza del probabilismo in tutte le ricerche che utilizzano l’inferenza e la
statistica campionaria per dimostrare delle ipotesi. Come sappiamo, questo standard
è molto diffuso nelle comunità di management statunitensi ed è uno degli elementi
che viene valutato nei processi di referaggio per la pubblicabilità degli articoli sulle
riviste internazionali6.
Più raramente si ritrova in economia una concreta adesione al
falsificazionismo7, sebbene alcuni riconoscimenti espliciti alla teoria di Popper siano
stati fatti da illustri economisti (von Hayek, 1974, 214)8. Nella logica popperiana, la
sopravvivenza di una teoria al processo di falsificazione non rende la teoria
definitivamente “vera” ma le consente di irrobustirsi, contribuendo al cammino di
avvicinamento alla descrizione della realtà oggettiva e, seppur provvisoriamente, le
attribuisce carattere di scientificità.
In riferimento ai temi del management, Ghoshal afferma che il
falsificazionismo può essere crudele in quanto nessuna teoria generalmente spiega
completamente un certo fenomeno ed anzi molte teorie diverse (o perfino incoerenti)
possono concorrere a comprendere gli stessi eventi (Ghoshal, 2005, 65). L’esistenza
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7
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Generalmente all’induttivismo viene contrapposto il deduttivismo, che procede
attraverso argomentazioni logiche nella costruzione teoretica. Non è corretto, però, a
nostro avviso, giudicare il deduttivismo come un criterio di demarcazione in quanto - a
differenza di quanto accade per la scuola induttivista - esso non suggerisce tanto una
modalità di distinzione tra scienza e non-scienza, quanto piuttosto una metodologia per
la formulazione delle teorie. La teoria economica si è avvalsa, in ogni caso, di importanti
contributi fondati sul deduttivismo: si sono serviti ampiamente di riflessioni deduttiviste
Ricardo, una gran parte dei teorici marginalisti e i principali esponenti della scuola
austriaca (in particolare von Mises).
Popper (1970, 1984) critica aspramente la possibilità di utilizzare l’induzione per
comprovare una certa teoria e propone di effettuare la validazione della teoria in step
successivi:
- esporre il problema e formulare una teoria provvisoria;
- avanzare ipotesi coerenti;
- specificare i falsificatori potenziali della teoria, ossia esplicitare a quali condizioni
la teoria può essere falsificata;
- eliminare gli errori e le ipotesi dubbie attraverso il processo di falsificazione,
scartando le teorie che sono state falsificate;
- proporre una nuova teoria, più robusta della precedente, nel senso che spieghi tutto
quanto veniva spiegato dalla teoria precedente e superi le obiezioni provenienti
dalla falsificazione. In questo processo non è consentito, secondo Popper, procedere
attraverso manovre ad hoc, ossia mirate a salvare la teoria precedente, giustificando
la parte falsificata come un’eccezione (exception barring).
Si è molto discusso della vicinanza tra l’impostazione epistemologica di von Hayek e il
falsificazionismo popperiano. Sul tema si veda Pheby, 1991, 163-165.
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IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE
di spiegazioni parziali o contraddittorie dovrebbero essere rifiutate nella logica della
falsificazione, ma con esse si potrebbero gettare via punti di vista che contribuiscono
ad arricchire l’interpretazione di un fenomeno.
Un’impostazione molto utilizzata in economia fa capo al convenzionalismo (o
strumentalismo), secondo cui la buona teoria si distingue per la sua capacità di
effettuare previsioni valide. In tal senso le teorie sono da considerarsi convenzioni
piuttosto che rappresentazioni della realtà e il problema della demarcazione si
risolve attribuendo validità scientifica alle teorie che consentono di calcolare con
affidabile approssimazione lo stato futuro di alcuni fenomeni. Possiamo far rientrare
in questa corrente la presa di posizione epistemologica di Milton Friedman che
definì come compito dell’economia positiva quello di procurare un sistema di
generalizzazioni utilizzabili per formulare previsioni corrette (Friedman, 1953). La
validità della teoria va valutata per l’esattezza, la portata e la coerenza delle
previsioni (ibidem). A differenza di quanto sostengono altri autori9, secondo
Friedman da una buona impostazione positiva possono dedursi efficaci effetti
normativi: il tema fu ripreso anche nella sua Nobel Lecture del 1976, dove
affermava che “la conoscenza scientifica positiva, che ci consente di prevedere le
conseguenze di una possibile decisione, costituisce certamente una precondizione
del giudizio normativo secondo cui quella decisione è più o meno desiderabile”
(Friedman, 1976, 256). Volendo portare un esempio, se si accetta che esiste una
correlazione tra la quantità di moneta messa in circolazione e l’inflazione
(definizione positiva) ne possono derivare interessanti prescrizioni di carattere
normativo in chiave di politica economica (tenere sotto controllo l’immissione di
moneta). Rientrano in questo tipo di logica molti modelli econometrici mirati a
calcolare il risultato sulle variabili dipendenti di alcuni movimenti delle variabili
indipendenti10. La propensione a sviluppare modelli previsivi si sta diffondendo
anche nelle discipline manageriali: Boisot e MacMillan, ad esempio, stanno
implementando un modello in grado di simulare il mutamento delle coordinate
all’interno di un certo settore in funzione delle caratteristiche della conoscenza
posseduta dagli agenti economici (Boisot-MacMillan-Han-Eun, 2003; CanalsBoisot-Mac Millan, 2004).
In alcune teorizzazioni dell’economia d’impresa, si avverte anche una certa
adesione al relativismo, che affronta il tema del demarcazionismo confutando
l’esistenza di una verità assoluta o, almeno, respingendo la possibilità che la realtà
sia conoscibile o interamente conoscibile. Esistono molte versioni diverse di questo
indirizzo di pensiero che coinvolge temi che vanno spesso oltre la disputa
epistemologica11. Di particolare significato è la posizione di anarchismo
epistemologico propugnata da Paul Feyerabend (1973; 1995), il quale, negando
9
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Sen sostiene che la metodologia dell’economia positiva ha portato ad eludere l’analisi
normativa (Sen, 2004, 13-14).
I modelli econometrici più avanzati cercano di spiegare fenomeni meno chiaramente
correlati da relazioni semplici, ma spesso fanno fatica ad inglobare comportamenti
caratterizzati da incertezza, interrelazione e retroazione.
Si pensi all’attuale dibattito religioso, che tocca spesso il tema del relativismo morale.
CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI
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l’esistenza di un’opinione migliore di un’altra, non solo disconosce la possibilità di
avere un criterio di demarcazione oggettivo, ma provocatoriamente afferma che
l’anarchico epistemologico può difendere - usando ogni mezzo - una propria tesi,
pur essendo convinto che essa non costituisca affatto la verità. In questa concezione
la verità è l’opinione del vincitore che utilizza la retorica12, l’emozione, la forza di
gruppi organizzati e ogni altro strumento possa risultare utile per far prevalere la sua
tesi13. Si possono riportare in qualche modo all’impostazione relativistica le teorie
che, specialmente in ambito organizzativo, utilizzano approcci contingenti
(Lawrence-Lorsch, 1967; Galbraith, 1973), nei quali viene negata la possibilità di
giungere a conclusioni di vasto raggio senza tradire in qualche modo la località e la
temporalità dei casi in studio14.
Infine, sono anche ben visibili casi in cui la scienza economica ha risolto il
problema del demarcazionismo affidando - più o meno implicitamente - il giudizio
di scientificità alla comunità accademica, secondo un’impostazione definita
autoritarismo elitario che si rifà soprattutto all’opera di Kuhn (1979)15. Secondo
quest’indirizzo di pensiero, la demarcazione viene effettuata dalle scuole disciplinari
che - in un certo momento storico - attribuiscono dignità scientifica ad un
paradigma dominante, assumendo una certa visione del mondo16. Possiamo
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15
16
Faccipieri evidenzia che il concetto di retorica non gode di una buona reputazione perché
nella concezione comune implica la volontà di convincere con l’uso abile del linguaggio
piuttosto che con la forza delle argomentazioni. Nella realtà egli sottolinea che esistono
diverse forme di retorica e, in particolare, esiste una retorica propria della scienza che
mira alla persuasione “attraverso e non a prescindere” dal valore della tesi sostenuta
(Faccipieri, 1993, 15-16).
Il sistema della conoscenza, secondo la visione di Feyerabend, può svilupparsi solo
lungo sentieri di non conformità, ricercando controdeduzioni per le teorie affermate o
per ciò che appaiono fatti acclarati. La risposta al tema del demarcazionismo viene data
da Feyerabend utilizzando il criterio di incommensurabilità che nega la possibilità di
confronto tra teorie rivali. A tale principio Feyerabend accompagna due corollari: quello
della tenacia, che in contrapposizione alle tesi falsificazioniste, consiglia di non
abbandonare la teoria anche in presenza di fenomeni contraddittori (cita al proposito le
scoperte di Galileo che potettero affermarsi soprattutto grazie alla sua passione e alla sua
caparbietà) e quello della proliferazione, che auspica sempre la compresenza di
molteplici teorie su un certo tema, anche incoerenti tra di loro.
Va precisato che le richiamate teorie organizzative non giungono alla conclusione
estrema dell’impostazione relativista che porterebbe a definire l’inutilità della ricerca di
principi guida per la progettazione dell’organizzazione: anzi, nel presupposto che la
migliore organizzazione non è definibile in assoluto, ma dipende dalle caratteristiche
dell’ambiente, sia Galbraith che Lawrence e Lorsch ricercano correlazioni tra tipologie
di ambienti e strutture organizzative ottimali. Sul tema si veda, tra gli altri, Scott, 1994,
117-119.
Lakatos (1995, 37) riporta a questa impostazione anche il pensiero di Polanyi e di
Merton.
Un paradigma diventa dominante (superando la fase della “pre-scienza”, in cui esistono
molteplici teorie concorrenti) allorquando vi aderisce un numero ampio di studiosi.
Durante la fase successiva (definita da Kuhn di “scienza normale”) la teoria viene
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IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE
descrivere come paradigma dominante l’impostazione macroeconomica keynesiana
che soppiantò - con un processo analogo a quello descritto da Kuhn per le
rivoluzioni scientifiche - la Legge di Say (Pheby, 1991, 81 e ss.). Paradigmi
dominanti in economia d’impresa sono stati nel tempo il sistema fordista, la
pianificazione strategica, la produzione flessibile e, oggigiorno, l’economia della
conoscenza e il knowledge management.
2.2 Il “pluralismo metodologicamente fondato”: possibili direzioni per la
ricerca in economia
L’economia con la quale noi oggi ci interfacciamo è fondata sulla complessità.
Quest’ultima non ha soltanto una natura fenomenologica (in quanto sono
oggettivamente più complessi i fenomeni che in essa si muovono: i mercati, le
imprese, le tecnologie, i consumatori, ecc.), ma ha anche un carattere
epistemologico, nel senso che da più parti viene contestata l’esistenza di un’unica
possibilità interpretativa e conoscitiva dei fenomeni oggetto di studio, ammettendo,
piuttosto, la compresenza di diversi schemi di spiegazione complementari o,
finanche, contraddittori. La complessità organizzata (von Hayek, 1974, 209) o
complessità strutturata (Luhmann, 1990, 450) tipica della disciplina economica
deriva dalla presenza di sistemi che variano non solo in funzione dei singoli
elementi che li compongono e delle loro frequenze relative, ma anche delle modalità
con cui tali elementi vengono connessi tra loro (von Hayek, 1974, 209). La tipicità
delle relazioni ha valore strutturale, in quanto le combinazioni prescelte
rappresentano una riduzione selettiva delle infinite possibili combinazioni
(Luhmann, 1990, 450) e appaiono come definitorie del sistema.
Tentare di vincere la complessità sistemica tipica delle strutture con cui
lavoriamo (morfologie articolate nel governo delle imprese, configurazioni reticolari
d’impresa, settori che collassano tra di loro) attraverso il metodo cartesiano di
scomposizione analitica dei fenomeni risulta impossibile in quanto tali sistemi si
definiscono nella propria identità grazie alla loro specifica complessità (potremmo
dire: alla particolarità di relazione che si genera tra gli elementi che ne fanno parte) e
il frazionamento farebbe perdere loro le proprietà che sono proprie del sistema e non
degli elementi che lo compongono: “…l’organizzazione impone dei vincoli che
inibiscono talune potenzialità che si trovano nelle varie parti…ma nel contempo il
tutto organizzato è qualcosa di più della somma delle parti, perché fa emergere
qualità che senza una tale organizzazione non esisterebbero” (Morin, 1997, 51).
affinata. Successivamente, se emergono anomalie che la teoria prevalente non riesce più
a spiegare, la comunità scientifica abbandona - in un processo che Kuhn identifica come
“rivoluzione scientifica” - l’approccio precedentemente diffuso, per assumere una nuova
prospettiva di osservazione della realtà. Tale scuola di pensiero viene definita
autoritarismo elitario in quanto attribuisce alla comunità scientifica il compito della
demarcazione: sarà quest’ultima attraverso l’adesione al nuovo paradigma a sancirne il
carattere di scientificità: “così c’è una giuria, ma non una legge” (Lakatos, 1995,37).
CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI
13
Se si accetta questa premessa, si deve procedere alla ricerca di statuti
epistemologici compatibili con tale complessità che ammettano l’impossibilità di un
totale dominio della ragione umana sulla realtà, che lascino spazio alla incertezza,
alla multidimensionalità e che guardino agli oggetti dei nostri studi come a macchine
non banali, “indeterminate analiticamente, dipendenti dalla storia e, perciò,
imprevedibili” (von Foerster, 1997, 131). In tal senso ci sia consentito anche di
dissentire parzialmente da Goshal quando afferma che l’elemento costruttivo
basilare nelle scienze sociali - e quindi nel management - è l’azione individuale
guidata da una certa intenzione (Goshal, 2005, 78). Nella realtà, pur essendo
l’intenzionalità (intesa nel senso, precedentemente definito, di tensione verso un
obiettivo) alla base dell’azione umana e, quindi, anche dell’azione economica, le
relazioni sistemiche ed intersistemiche che si generano, nei fenomeni che noi
studiamo, a valle di tale intenzionalità molto frequentemente producono
conseguenze assolutamente non intenzionali. Così le scelte strategiche (intenzionali)
dei concorrenti su un mercato generano, a seguito delle reazioni causa-effetto e dei
relativi feed-back retroattivi, equilibri sistemici spesso molto distanti da quelli
auspicati da tali singole intenzionalità. Si potrebbe quindi dire - con Hayek - che
“l’analisi delle conseguenze inintenzionali delle azioni umane intenzionali
costituisce lo specifico, unico ed esclusivo compito delle scienze sociali” (Antiseri,
2003, 35)17.
In questo scenario un’opzione alla quale si può ragionevolmente aspirare e che
costituisce la tesi intorno al quale intendiamo lavorare è quella di un pluralismo
metodologicamente fondato che accolga la molteplicità dei punti di vista, rispetti la
varietà metodologica nella generazione teoretica e restituisca dignità alla
soggettività dell’osservatore. Ciò non implica, peraltro, necessariamente percorrere
il terreno del relativismo, accogliendo - nel nome della pluralità - opinioni fondate
su irragionevoli fantasticherie. Utilizzando i contributi di studiosi delle scienze
sociali che hanno approfondito il tema del metodo in contesti di complessità
(Gadamer, 1983; Morin, 1983, 1984; Weber, 1974), è possibile essere
metodologicamente guidati anche all’interno di una concezione epistemologica postpositivista. Senza avere la pretesa di disegnare lo statuto della nuova epistemologia,
ma piuttosto raccogliendo gli spunti che da più parti sembrano ormai consolidarsi,
abbiamo provato in modo costruttivo a delineare i principali tratti degli indirizzi di
ricerca da intraprendere.
L’obiettivo delle teorie non è di rivelare la verità, ma di attivare una possibile
visione del mondo.
Il processo di costruzione delle teorie può essere assimilato alla navigazione
notturna di una nave con il radar (Weick, 1989, 519-520). Gli oggetti che potrebbero
entrare in collisione (ad esempio gli scogli) sono individuati attraverso una
variazione nelle emissioni sonore del radar. Le possibili strade da percorrere sono
tracciate attraverso un criterio selettivo che evita i percorsi in cui vi sono variazioni
17
Sul tema si veda anche Infantino, 2003, 165 e ss.
14
IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE
nelle emissioni sonore del radar. Il cammino è guidato da una rappresentazione
dell’ambiente e non dall’ambiente medesimo. Per esprimere lo stesso concetto sono
state utilizzate altre metafore. Alcuni (Ciappei, 2006, 239) hanno paragonato le
nostre potenzialità di conoscenza a ciò che vediamo riflesso in uno specchio: non è
la verità, ma contiene qualcosa di vero, con un maggior o minore grado di
deformazione a seconda dei casi. Goshal, riprendendo Roethlisberger (1977),
afferma che la teoria può essere un bastone per aiutare la formazione di significato
durante il cammino (Goshal, 2005, 81).
Un processo di segmentazione dei mercati, ad esempio, per quanto accurato e
metodologicamente articolato, non ricostruisce una concreta divisione in gruppi di
quei consumatori. I segmenti sono categorie interpretative strumentalmente
utilizzate dall’uomo per cercare di decodificare la varietà esistente nel consumo, ma
il mondo non è, nella realtà fattuale, diviso in segmenti (e neppure in mercati). I
segmenti sono rappresentazioni di chi, da osservatore, si pone nella condizione di
proiettare una certa immagine di quei potenziali acquirenti e, se le scelte sono
metodologicamente corrette, tale rappresentazione può contribuire ad attivare una
visione imprenditoriale, che è, e resta, di carattere strategico, ossia fondata su un
processo di selezione e ritenzione di alcune tra le infinite opzioni possibili.
La strategia ci consente di avanzare tra ciò che è incerto e aleatorio, di servirci
delle informazioni che si producono e di formulare conseguenti schemi di azione
durante il percorso (Morin, 1997, 59). La strategia è, in tale accezione, assimilabile
al senso luhmanniano, inteso “come un surplus di rimandi ad altre possibilità
dell’esperire e dell’agire” (Luhmann, 1990, 148): non un cerchio che si chiude, ma
piuttosto l’incessante manifestarsi di nuove probabilità. E la ricerca segue - allo
stesso modo - un processo di (ininterrotto e perpetuo) rilancio a rinnovate visioni.
Ne consegue una concettualizzazione della conoscenza non come graduale
avvicinamento asintotico alla verità completa ed oggettiva, ma come progressivo
arricchimento, attraverso un potenziale continuo rinvio all’apertura di nuovi scenari.
Pertanto lo schema di generazione teoretica si origina da una riduzione selettiva
guidata dal senso che attualizza alcune possibilità, rimandandone altre. L’infinita
libertà della scelta potrebbe dar vita ad un processo entropico se non fosse guidata,
come diremo in un punto successivo, da una struttura metodologica che consente di
dare significato al percorso che si sta compiendo. Il processo di selezione e
ritenzione di alcune alternative cognitive tra le tante possibile non preclude, né
rigetta le possibilità non esplorate che restano latenti, virtualmente fruibili per
tragitti successivi.
L’atto cognitivo non dipende solo dall’oggetto osservato, ma anche dalle
caratteristiche del soggetto osservante.
La pretesa oggettività dell’osservazione sembra essere un mito destinato a
tramontare. Immaginare un soggetto assolutamente distante e imparziale rispetto
all’atto cognitivo, in grado di astrarsi perfettamente dalle sue mappe intellettuali,
dalle sue conoscenze pregresse, dall’influenza dal contesto socio-culturale in cui si
muove, dai suoi stimoli e dalle sue motivazioni è una finzione che contrasta con
CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI
15
l’accettazione della realtà. Ogni osservatore, in quanto essere umano, ha un
orizzonte “che abbraccia e comprende tutto ciò che è visibile da un certo punto”
(Gadamer, 1983, 352) e l’orizzonte del presente non si costruisce “in modo
indipendente e separato dal passato” (ivi, 356). Ne deriva l’istanza di reintegrare
l’osservatore all’interno del sistema di conoscenza18 e, al tempo stesso, accettare la
molteplicità dei punti di vista come una ricchezza piuttosto che come una
imperfezione da eliminare.
Ovviamente la questione non investe solo la relazione che si instaura tra chi
studia l’impresa (soggetto osservatore) e l’impresa stessa (oggetto osservato), ma
coinvolge anche il rapporto che si genera tra l’impresa (in qualità di osservatore) e i
contesti che essa decifra (mercati, consumatori, tecnologie, ecc. nella qualità di
oggetti osservati). L’interpretazione di un certo ambiente produce comportamenti
conseguenti - ad esempio in chiave di scelte strategiche - che a loro volta generano
realtà fattuali. Volendo fare un esempio, la nascita delle configurazioni reticolari di
impresa (che ha reso più complessa la visuale decodificativa dell’economista) si è
affermata anche grazie ad un atto cognitivo da parte delle aziende stesse: queste
ultime, osservando la necessità di rispondere alle istanze del consumo
contemporaneo con competenze non presenti all’interno di una sola azienda, hanno
dato vita ad alleanze tra più imprese in possesso di abilità complementari.
Ne consegue che la complessità non è solo nella natura delle cose, ma anche
nelle rappresentazioni che ne forniamo (Le Moigne, 1997, 98), le quali - in un
incessante circolo di costruzione e interpretazione - a loro volta generano nuovi
fenomeni da sottoporre ad osservazione.
Occorre valorizzare la reciproca contaminazione - già in atto - tra le
metodologie delle scienze della natura e quelle delle scienze sociali.
Se la molteplicità di approcci è potenzialità di arricchimento, non occorre, a
nostro avviso, rifiutare aprioristicamente gli input epistemologici e metodologici che
ci vengono dalle scienze esatte. Questa scelta implicherebbe sostituire una ipotesi
universale (quella dettata dal positivismo, che pretende di estendere il metodo delle
scienze esatte alle scienze sociali) con un’altra, altrettanto assoluta - e pertanto in
contraddizione con la nostra tesi di fondo - mirata ad eliminare il tentativo di
riscontro empirico o l’ausilio delle scienze quantitative. Se la misurazione e la
quantificazione vengono depotenziate della pretesa di definire la Verità, possono
fornire utili spunti per attivare processi cognitivi. D’altronde, possiamo rilevare
anche una contaminazione in senso opposto: nelle scienze fisiche si osservano
avanzamenti della conoscenza fondati su metodologie non sperimentali19, diventano
18
19
“Uno dei paradigmi, se così si può dire, delle teorie della complessità è quello che viene
definito la reintegrazione dell’osservatore nella descrizione. Questo significa che le
proprietà degli oggetti osservati sono funzione non tanto o non solo degli oggetti stessi,
ma sono funzione in primo luogo dell’osservatore” (Vicari, 1992, 119). Sul tema si veda
anche Paoli, 2006, 105 e ss.
La teoria della relatività venne provata empiricamente sono molti anni dopo che Einstein
l’avesse compiutamente elaborata sulla base della sola intuizione filosofica.
16
IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE
centrali principi riferiti a fenomeni naturali in cui si ammette l’incertezza20 e assume
importanza il ruolo costruttivo del non equilibrio21. Nel momento in cui le scienze
della natura si spingono a mettere in discussione i propri fondamenti epistemologici
e a produrne di nuovi (Bocchi, 1985, 420), appare evidente una convergenza tra
metodologie originariamente considerate distanti22 e una probabile benefica
contaminazione che non deve escludere nulla, se non la pretesa di conoscere la
complessità del reale nella sua totalità.
Pertanto, pur condividendo l’insofferenza verso la pretesa di conoscenza legata
all’adozione dei metodi utilizzati nelle scienze esatte, non siamo dell’opinione che la
misurazione debba essere espulsa dalle potenziali strumentazioni di cui si serve la
scienza economica23. Se si rinuncia all’ambizione di arrivare, attraverso la
valutazione quantitativa, alla validazione di una legge universale, la misurazione può
fornire importanti contributi per giungere a costruzioni teoretiche che attivino
visioni interpretative e generino rimandi di conoscenza.
La coesistenza di più punti di vista e l’impossibilità di dominio totale della
conoscenza sulla realtà non implicano la rinuncia al “metodo”.
Sulla base delle riflessioni fin qui svolte, appare chiara la rinuncia all’ideale di
una scienza onnipotente e l’accettazione consapevole della limitatezza della
conoscenza umana. Condividiamo appieno l’affermazione di Ghoshal seconda la
quale “l’unica alternativa a qualsiasi forma di assolutismo ideologico è il pluralismo
intellettuale” (Ghoshal, 2005, 66). Crediamo nell’arricchimento che proviene alla
scienza dalla coesistenza di punti di vista differenziati, conseguenza di particolari
prospettive di osservazione, di diversi bagagli culturali, di specifiche motivazioni di
analisi. Non pensiamo che esista un metapunto di vista dal quale poter fare sintesi o
giudicare le differenze e le contrapposizioni, in quanto tali diversità sono costitutive
dei domini cognitivi degli specifici punti di vista (Ceruti, 1997, 39).
20
21
22
23
Il principio di indeterminazione di Heisenberg, principio fondamentale della meccanica
quantistica, stabilisce che non è possibile conoscere simultaneamente posizione e
quantità di moto di una particella.
La teoria delle strutture dissipative, che vivono lontane dall’equilibrio, è valsa un premio
Nobel per la chimica a Ilya Prigogine nel 1977.
La tesi della potenziale vicinanza tra le scienze naturali e le scienze sociali, in verità, fu
già proposta da Friedman in apertura della sua già citata Nobel Lecture del 1976: egli
afferma che in entrambi i casi non esiste una conoscenza oggettivamente certa, ma solo
ipotesi sperimentali, rispetto alle quali “possiamo nutrire maggiore o minore fiducia in
relazione a fattori quali l’ampiezza di esperienze che abbracciano…e il numero dei casi
in cui sono sfuggiti ad una possibile confutazione” (Friedman, 1976, 254).
Va chiarito che, nonostante l’avversione verso la pretesa di conoscenza, anche von
Hayek - all’interno della scuola austriaca - fu meno radicale di quanto, ad esempio, non
lo fosse von Mises sul ruolo dell’economia matematica (sul tema si veda Pheby, 1991,
164-167). von Hayek chiarisce che la matematica permette di descrivere in termini
generali - attraverso un sistema di equazioni - un fenomeno anche quando non si
conoscono i valori numerici che esso assume (von Hayek, 1974, 210).
CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI
17
Tale pluralismo, però, se non ha pregiudiziali delimitazioni, non significa
neppure arbitrio soggettivo o immaginaria inventiva; esso resta rapportato ai dati che
sono deducibili dal progressivo approfondimento della questione in studio, dati che
vengono selezionati e processati in funzione degli obiettivi cognitivi del ricercatore
con il supporto del raziocinio e delle conoscenze pregresse e attraverso l’utilizzo di
un metodo weberianamente inteso. Secondo l’insegnamento del sociologo tedesco24,
infatti, nella consapevolezza della inconoscibilità del divenire del mondo nella sua
interezza - che egli definisce “infinità priva di senso” (Weber, 1974, 96) - occorre
recuperare il concetto di cultura come concetto di valore25: in tale accezione la
cultura effettua la selezione - guidata metodologicamente dagli obiettivi cognitivi
del ricercatore - degli elementi della realtà che diventano significativi in funzione
delle idee di valore posta a base dell’attività cognitiva (ivi, 90). In tal senso, nelle
ricerche metodologicamente fondate, si raccomanda la chiara esplicitazione degli
obiettivi cognitivi, in quanto solo questa esplicitazione può portare alla condivisione
da parte dei terzi della particolare prospettiva di osservazione e consente di valutare
la coerenza dei passaggi sequenziali che vengono progressivamente posti in essere.
In altri termini, la ridondanza dei dati provenienti dalla realtà fenomenica impedisce
di fare riferimento ad essi come ad una garanzia assoluta di oggettività: la cernita tra
la infinità di informazioni disponibili è diretta da “criteri che non sono universali e
necessari, ma che sono essi medesimi il risultato di una scelta” (Rossi, 1974, 25).
In tale ottica, il metodo non è riducibile ad una successione prefissata di azioni,
ma ad una serie di scelte che si ripropongono ad ogni successivo passaggio del
cammino di ricerca: tali passaggi appaiono come un crocevia, in cui ogni volta
occorre decidere in quale direzione muoversi. La scelta di valore compiuta a monte
fornisce i parametri per orientare la scelta e ne costituisce il presupposto. “Da ciò
non discende ovviamente che la ricerca delle scienze della cultura possa dar luogo
soltanto a prodotti i quali siano soggettivi nel senso che valgono per l’uno e non per
l’altro. Ciò che cambia è piuttosto il grado in cui interessano l’uno e non l’altro”.
(Weber, 1974, 100).
È metodologicamente fondato, in questa logica, procedere mediante astrazioni
concettuali, accentuando alcuni elementi della realtà: si addiviene così all’idealtipo
weberiano, che lo stesso autore definisce un’utopia (ivi, 108), in quanto accentua
unilateralmente alcuni punti di vista, connettendo fenomeni diffusi e discreti, segnali
più o meno deboli, in un quadro interpretativo unitario. Questo quadro ideale non
può essere ritrovato integralmente nella realtà, ma costituisce un punto di
riferimento utile per poter verificare “la maggiore o minore distanza della realtà da
quel quadro ideale” (ibidem).
24
25
Come è noto, Weber respinse sia l’affermazione positivista che reclamava
l’importazione delle metodologie proprie delle scienze naturali nell’ambito delle scienze
sociali, sia la dottrina storicistica che dichiarava l’impossibilità di pervenire a fondate
generalizzazioni (Coser, 1997, 265).
“La relazione ai valori viene a designare la particolare direzione dell’interesse
conoscitivo che muove la ricerca, vale a dire lo specifico punto di vista da cui questa si
pone, delimitando il proprio campo” (Rossi, 1974, 24-25).
18
IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE
Così, ad esempio, una volta costruito l’idealtipo del fordismo, si può definire in
che misura i caratteri di una certa impresa, in un determinato momento storico,
possono essere considerati come propri della fabbrica fordista. In tal senso
potremmo considerare idealtipica anche la relazione principal-agent descritta dalla
teoria dell’agenzia, salvo a riconoscere - come si dirà nel prosieguo del presente
intervento - che questa rappresentazione (teoricamente giustificata secondo i canoni
del tempo in cui è stata per la prima volta descritta) appare in molti casi distante
dalla realtà della governance contemporanea e in qualche caso poco utile per
definire strumenti di intervento.
3. Limiti interpretativi della teoria dell’agenzia
Da quanto precede, può affermarsi che i processi legati alla cognizione ed al
trasferimento di conoscenza non possono collocarsi, nelle nostre scienze, all’interno
di logiche deterministiche, ma piuttosto in altre di tipo pluralistico dove convivono
diversi punti di vista. Ci si trova, infatti, di fronte a fenomeni complessi che
presentano caratteri molteplici e addirittura contradditori tra loro. Lo sforzo di
semplificazione, pertanto, non premia chi voglia porsi obiettivi di comprensione
ampia.
Nel considerare il tema della corporate governance, un esempio lampante di
tale complessità fenomenologica è rappresentata dalla proprietà delle imprese che,
specie nelle realtà di maggiori dimensioni, non è interpretabile come un blocco
unitario, ma come espressione di interessi ed obiettivi articolati. Lo stesso può dirsi
per il management, con la conseguenza che tali categorie rappresentano una pluralità
di tendenze che danno vita a relazioni tra loro complesse e tutt’altro che lineari.
La teoria dell’agenzia, nel rappresentare una semplice contrapposizione tra
principal-agent, identificati ineluttabilmente come azionista e manager, risolve in
una connessione causale il tema della corporate governance, trascurando la
complessità innanzi evidenziata, sottovalutando l’operazione di coproduzione e
propagazione del valore da parte delle diverse componenti dell’impresa in una
economia fondata sulla conoscenza. Inoltre, non può essere sottaciuto il ruolo del
contesto esterno che riverbera all’interno dell’impresa, proprio attraverso ognuna
delle componenti sin qui discusse - manager ed azionisti - altri interessi, altri modi
di pensare e di essere, che necessariamente vanno ad influenzare l’assetto
complessivo dell’impresa.
Un tentativo di inquadrare la corporate governance entro tale scenario è stato
effettuato più di recente da Zingales. L’autore ha sostenuto che la corporate
governance può definirsi facendo riferimento a due ottiche diverse: una interna,
come sistema di assegnazione del potere decisionale, progettato per ovviare
all’impossibilità di concludere contratti completi tra i diversi stakeholder; l’altra
esterna, come insieme di regolamentazioni, istituzioni e procedure concepite per
proteggere gli investitori da comportamenti opportunistici di imprenditori e
manager, assicurando l’adeguato ritorno del capitale investito e condizionando
CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI
19
l’attività di questi ultimi attraverso una serie di meccanismi e incentivi. Elementi
comuni tra ottica interna ed esterna sono l’oggetto, rappresentato dagli stakeholder
aziendali, e l’obiettivo, che risiede nella promozione di correttezza, trasparenza e
responsabilità nell’attività dell’impresa.
La definizione di Zingales sembra molto coerente con ciò che di seguito verrà
sostenuto: il riferimento alla problematiche dei contratti incompleti consente di
rendere lo sforzo del ricercatore più versatile e, dunque, più aderente alle dinamiche
evolutive del contesto economico attuale, favorendo una maggiore predisposizione
da parte dell’osservatore a saper individuare la molteplicità dei soggetti componenti
l’impresa, le loro relazioni e l’evolvere del rilievo che le singole componenti e le
singole relazioni possono registrare nel tempo e tra diverse imprese. Difatti la
posizione dei contrattualisti, da un lato, pone implicitamente al centro
dell’attenzione le diverse e variegate componenti umane dell’impresa, portatrici di
risorse a cui corrispondono interessi da tutelare; dall’altro, ne segnala i rischi di
comportamenti opportunistici, come derivata della stessa incompletezza
contrattuale, e dunque la difficoltà di riuscire a valorizzare o meno tali risorse al fine
del processo di creazione del valore.
Inoltre, collocare in un’ottica esterna all’impresa il ruolo dei finanziatori, offre
lo spunto, anche forse al di là delle reali intenzione dell’autore, per delineare uno
scenario dove le logiche finanziarie rappresentano una delle componenti non
direttamente, cioè non internamente, coinvolte nell’azione amministrativa. E ciò
sembra coerente anche con una qualificazione della cosiddetta proprietà che è
sempre più diffusa in organismi di grande dimensione - per es. i fondi di
investimento - che hanno il problema di definire il rendimento, che sanno dialogare
con chi si occupa della gestione, ma che rimangono lontani dal cuore organizzativo
decisionale dell’impresa (Monks and Minow, 2001). Fondi di investimento che oggi
tendono anche ad acquisire la maggioranza del capitale ma nel contempo ad affidarsi
all’attività di un gestore imprenditore.
A tale quadro interpretativo non si sottrarrebbe neanche la piccola impresa, che
vede oggi fondare la propria capacità competitiva sempre meno sul bagaglio di
conoscenze dell’imprenditore-fondatore e sempre più sul suo intreccio con
conoscenze che provengono da manager e da altre imprese. Anche qui la convivenza
di diverse esperienze e know-how rende più complessa la struttura di governance e,
dunque, avvalora la dinamica contrattuale come chiave interpretativa. Sul piano
della proprietà, pur permanendo in gran parte del nostro sistema produttivo la
sovrapposizione tra proprietà e controllo, è sempre più evidente come siano limitate
le capacità di crescita del modello proprietario chiuso e come, in tal senso, figure
quali i venture capitalist o i business angel rappresentino per la piccola impresa un
confronto con il mondo della finanza del capitale di rischio sempre più necessario,
anche se non per questo necessariamente desiderato. In questo senso, la piccola
impresa rappresenterebbe un punto di un continuum - il ciclo di vita dell’impresa che la porterà necessariamente ad assetti proprietari più complessi là dove le sue
dimensioni aumentino consistentemente.
20
IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE
La posizione di Zingales trae spunto da riflessioni teoriche consolidate,
rappresentando un tentativo di sintesi tra loro. Come è noto, le differenze dei temi
trattati dalla corporate governance in letteratura sono riconducibili ai due prevalenti
assetti del capitalismo moderno: il primo, da cui muove proprio la teoria
dell’agenzia, che ha lo scopo di indagare le modalità di allineamento degli interessi
di management e shareholder, che è chiaramente rappresentato dal capitalismo di
tipo anglo-sassone; il secondo, che si muove in una prospettiva più ampia incentrata
sulla gestione dei rapporti tra tutti gli stakeholder dell’impresa, che promana da
esperienze capitalistiche più vicine al mondo europeo o giapponese.
Altre definizioni prendono le mosse da questi due assunti iniziali e ne subiscono
l’evidente condizionamento; tuttavia, a prescindere da evidenti diversità in termini
di principi ispiratori, le due impostazioni originali hanno a che fare con
problematiche similari: gli assetti proprietari, i sistemi di controllo e incentivazione,
la struttura finanziaria.
Tenendo conto di quanto sin qui detto, sembra ovvio concordare anche con le
considerazioni sviluppate da altri autori (Lazonick and O’Sullivan, 2000) per i quali,
alla base della corporate governance, vi è fondamentalmente la definizione della
relazione tra l’allocazione delle risorse e la performance economica dell’impresa. In
altri termini, gli assetti di governo dell’impresa, definendo un potere decisionale e il
sistema di regole connesse al suo esercizio, nei fatti definiscono le premesse per la
definizione dei criteri di investimento e dunque del livello di profittabilità e delle
prospettive di sviluppo delle imprese.
3.1 Pilastri logici della teoria dell’agenzia
La critica di Ghoshal si confronta con il primo dei due impianti considerati – la
teoria dell’agenzia – e ciò lo conduce anche a mettere in discussione i modelli
didattici invalsi nelle business school americane. Sarebbe però facile ritenere che
Ghoshal opti per una più ampia considerazione dei rapporti esistenti tra impresa e
stakeholder, nei fatti concludendo con la superiorità di questa teoria rispetto a quella
elaborata a partire dal contributo storico di Jensen e Meckling. In realtà, un’analisi
più attenta consente di approfondire meglio la tesi dell’economista indiano e di
isolare delle relazioni che dovrebbero in futuro essere comuni alle logiche
considerate, consentendo anche di identificare una convergenza dei due assetti
capitalistici da cui originano le due teorie.
Tale analisi può essere articolata rispondendo a due quesiti riguardanti quelli
che appaiono i pilastri centrali del problema dell’agenzia ed in particolare:
-
perché vi è un principal e perché quest’ultimo lo si identifica nella figura
dell’azionista?
perché il manager cade in comportamento opportunistici?
Le risposte a tali quesiti, che hanno degli evidenti tratti di interconnessione tra
loro, possono essere date attraverso una ricostruzione storico-teorica del pensiero
sull’impresa. Infatti, l’evoluzione del capitalismo industriale può proficuamente
CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI
21
essere utilizzata quale griglia interpretativa per ripercorrere i mutamenti che hanno
interessato la natura e le caratteristiche del soggetto imprenditoriale e con essa le
problematiche della corporate governance.
Originariamente, la centralità della figura dell’imprenditore è dovuta
fondamentalmente alle sue tre prerogative: egli conosce il proprio mestiere, sa
coordinare e organizzare le altre risorse produttive, dispone di capitali propri e li
investe nella propria impresa. Egli dunque dispone delle conoscenze necessarie,
frutto di sue precedenti esperienze o attività, ed è colui che rischia in proprio. Anzi
la disponibilità delle conoscenze necessarie, gli consente di analizzare il rischio,
rendendolo meno avverso a questo rispetto a quanto non accada per altri. Egli
persegue il proprio interesse, cioè il profitto dell’impresa, che rappresenta l’obiettivo
esclusivo.
Tali considerazioni, sul piano epistemologico, consentono di dare una
interpretazione razionale e standard dell’impresa che si muove in un quadro di
conoscenze ritenute sufficienti per orientarne lo sviluppo, con un vettore di obiettivi
semplice e chiaro. In più, una dimensione contenuta della struttura organizzativa non
impone un’analisi critica degli assetti di governo che sono tutti incentrati
sull’imprenditore, che è la sintesi del comando più efficace poiché - come detto
innanzi - egli sa e rischia. E dirige. Inoltre la dimensione del proprio capitale è
coerente con la dimensione del business.
Alla fine del diciannovesimo secolo lo sviluppo dei macchinari e della
dimensione industriale fanno superare il concetto del capitalista imprenditore. Le
sue capacità patrimoniali e professionali iniziano a risultare limitate. Lo sviluppo
oligopolistico di alcuni comparti accelera tale processo. Si abbassa il rapporto tra
capitale investito dall’imprenditore e capitale controllato, che comunque implica una
contrazione dell’autonomia che aveva caratterizzato l’agire dei primi imprenditori. Il
potere di governo aziendale perde in molti casi il suo carattere di unitarietà,
dovendosi ridistribuire tra chi è dedito allo svolgimento del processo gestionale e
coloro che sono i fornitori delle risorse finanziarie necessarie ad alimentarlo. È da
queste premesse che nasce l’impresa manageriale, che vede la dissociazione tra
soggetto proprietario e funzione imprenditoriale, il primo portatore di istanze
tipicamente reddituali, la seconda intesa quale modalità di svolgimento del potere di
disposizione sulle risorse, potere derivante da una legittimazione che può travalicare
le attribuzioni statuite sotto il profilo formale dall’ordinamento giuridico (il
proprietario dispone dei propri beni).
La complessità della struttura dell’impresa ne determina un ampliamento dei
propri confini. Attraverso il processo di delega il potere viene attribuito a soggetti
non proprietari, che posseggono competenze specialistiche, senza tuttavia assurgere
al ruolo di risorse critiche. Le risorse finanziarie provengono da mercati finanziari
che si articolano sempre meglio, in alcuni Paesi, o dalle banche o dallo Stato in altri.
Da qui prende le mosse la dicotomia tra mercato anglo-sassone e mercato renano.
La teoria economica registra tali mutamenti proponendo un superamento della
concezione tradizionale di stampo neo-classico: all’imprenditore-impresa viene a
sostituirsi l’impresa organizzazione. L’idealtipo di tale concezione fa riferimento
22
IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE
alla corporation manageriale di stampo anglo-sassone, che vede il suo tratto
fondamentale nella sua capacità di controllare oligopolisticamente tanto le
dinamiche esterne quanto l’evoluzione del progresso tecnico. Tale modello di
impresa rappresenta il punto di convergenza delle modalità operative di gestione di
un complesso industriale, verso cui si ritiene nel tempo debbano tendere tutte le
formule imprenditoriali. In tale ambito, avrebbe poco senso distinguere tra piccola e
grande impresa, nel senso che le specificità della piccola - per esempio, la non
dissociazione tra proprietà e controllo - spariscono man mano che la propria
dimensione aumenta.
La corporate governance nasce in tal contesto. Se interpretiamo con tale
termine la regolamentazione del potere di decisione nelle imprese ed il connesso
potere di allocazione delle risorse all’interno della stessa, si deriva che è nella
complessità organizzativa che è giusto procedere a definire delle regole. È in questo
tipo di impresa che d’altronde si delinea la tendenziale dissoluzione del soggetto
imprenditoriale: la proprietà non detiene più integralmente il potere di disposizione.
Con Berle e Means si inaugura un filone di studi che intercetta il nuovo confronto
tra azionista e manager; con loro la figura del manager viene introdotta nel dibattito
teorico consegnando, anche se in nuce, l’analisi della dicotomia tra gli obiettivi
diversi che guidano il comportamento delle due categorie che appaiono al vertice
dell’impresa, appunto gli azionisti ed i manager. E sarà questa semplice dicotomia
ad orientare per anni il pensiero teorico, e che sarà da base alla stessa teoria
dell’agenzia.
Tra le due categorie di soggetti si identifica una relazione di tipo lineare, dove il
proprietario, che in quanto tale dovrebbe utilizzare il bene, appropriarsi del suo
rendimento e soprattutto avere il diritto di modificarne la forma e la posizione, vede
nel manager il proprio delegato, che attraverso gradi di libertà crescenti delle sue
azioni, soprattutto in via direttamente proporzionale alla dimensione dell’impresa,
può indirizzare la stessa impresa verso obiettivi diversi e addirittura contrastanti. È il
manager che può in tal senso allontanare la funzione dell’impresa verso ciò che la
teoria riconosce essere il suo obiettivo primario, la massimizzazione del profitto, o
come verrà definito in seguito la ricchezza dell’azionista. La variabile indipendente
della relazione lineare identificata è il comportamento del manager che, con le sue
scelte, in un contesto di asimmetria, produce effetti sul patrimonio del proprietario.
E se il patrimonio del proprietario, o meglio il suo rendimento - cioè la variabile
dipendente - non evolve secondo il principio della massimizzazione, bisogna trovare
dei metodi per far convergere il comportamento del manager verso tale obiettivo.
La linearità della relazione e la semplificazione degli obiettivi d’impresa che si
sovrappongono a quelli del suo proprietario, sono, dunque, i pilastri logici su cui si
basa la teoria dell’agenzia, prescindendo, come si dirà in seguito, dalla diversità che
si può riscontrare tra le figure di azionista nonché dalla diversità della figura del
manager. Il principal è il proprietario ed è il suo patrimonio che va tutelato, poiché è
questa la risorsa critica per l’impresa fordista - le risorse manageriali in una
economia più semplice di quella odierna si caratterizzano per la loro fungibilità e
sostituibilità sul mercato - e perché sopporta il rischio dell’impresa. In tale dibattito
CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI
23
ha poco interesse valutare quale contributo di imprenditorialità permanga nelle mani
dell’azionista o, all’opposto, quale sia il rischio di finanziarizzazione delle imprese
sollevato a suo tempo da Schumpeter: il principal è l’azionista e l’agent può non
rispettare gli interessi del primo.
La teoria dominante della corporate governance ha le sue radici in questa
logica di fondo e si incarna in modello convenzionale dove controllo e
rendicontazione sono garantiti da un sistema verticale gerarchico. A sua volta, la
gerarchia sottende un contesto dove è importante evidenziare chi risulta all’interno e
chi all’esterno dell’organizzazione, ragion per cui la burocrazia deve essere
caratterizzata da rigidi confini interni ed esterni (Devanna e Tichy, 1990). Infine,
sotto il profilo della competitività, ingenti dosi di investimenti fisici - pertanto ad
alta valenza finanziaria - consentono di costruire posizioni oligopolistiche proprio
partendo dell’impostazione marginalista, che vede la profittabilità ridursi nel lungo
tempo a causa dell’entrata di altri competitor. Il perdurare delle performance
dell’impresa non dipende pertanto dalle sue specificità, od anche dal suo tipo di
governance, ma dalla sua capacità di occupare il mercato. Ancora una volta, il
capitale assume una posizione centrale all’interno delle condizioni di sviluppo
dell’impresa.
È alla luce di queste considerazioni che può rispondersi al primo dei due
quesiti posti: il principal è l’azionista poiché dispone delle risorse critiche - il
capitale - ed è colui che sostiene il rischio ultimo. La sua proprietà deve essere
tutelata: egli ha il potere di disporne, di godere del relativo rendimento, di
modificarla. Il manager, che comunque non dispone di conoscenze critiche, ha solo
il compito di sostituirsi all’azionista nella gestione di beni complessi - gli impianti dentro i quali risiede il vero vantaggio competitivo dell’impresa.
A ben vedere, va osservato che durante questa fase storica, i soggetti con i quali
il sistema imprenditoriale entra in contatto non sono soltanto gli stakeholder legati
da vincoli di natura finanziaria, ma anche quei soggetti con i quali la stessa impresa
intrattiene rapporti di carattere contrattuale, fornitori di quelle risorse che
necessitano allo svolgimento della gestione. L’impresa è dunque il luogo dove si
scambiano delle risorse, piuttosto che un insieme di mezzi finanziari che acquistano
altre risorse, fisiche - per lo più - e umane.
L’importanza di una interpretazione dell’impresa come una forma particolare di
mercato interno, caratterizzato da contratti di scambio tra numerosi soggetti è
riconosciuta in primis da Coase (1947), il quale si discosta dai grandi temi dibattuti
dagli economisti suoi contemporanei, per trattare il problema dell’integrazione
produttiva in un’ottica di costi transazionali, riprendendo una categoria di analisi
proposta qualche anno prima da Commons (1934). Egli, infatti, considera l’impresa
alla stregua di un semplice artificio giuridico, nel senso che essa è un luogo alternativo al mercato - nel quale possono esplicarsi rapporti negoziali tra diversi
prestatori di risorse. Il confine tra l’interno e l’esterno diventa pertanto sfumato e
variabile nel tempo, in funzione delle valutazione di efficienza di volta in volta
effettuate (tali valutazioni sono fatte in base a calcoli tipicamente transazionali).
24
IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE
Sotto questo profilo, emerge con chiarezza il legame con il successivo
contributo di Alchian e Demsetz (1972), i quali elaborano una vera e propria teoria
dei diritti di proprietà, sottolineando come ciascuno dei soggetti che compone
l’impresa riesca, attraverso i contratti che disciplinano la propria partecipazione, a
soddisfare più efficacemente i propri interessi. Rispetto al ricorso al mercato, infatti,
esiste una maggiore possibilità di controllo delle prestazioni svolte, il cui costo (di
tipo organizzativo) risulta inferiore all’incremento di produttività assicurato da un
contesto organizzato.
Tuttavia, la conseguenza naturale di tale teoria - di indubbio rilievo per ciò che
si vuol dimostrare - è rappresentata dalla considerazione che gli shareholder non
sono gli unici investitori nel business; lo sono anche i manager (e forse qualche
employee), i quali apportano la propria capacità lavorativa, il proprio know-how, e
quanto più tale bagaglio risulta rilevante per l’impresa e quanto più l’investimento
fatto dal lavoratore nella stessa impresa risulta specific, tanto più risulta necessario
un loro coinvolgimento nel governo dell’impresa. Infatti, la condizione di debolezza
contrattuale in cui il fornitore di know-how si troverebbe, sarebbe quella di aver
fatto un forte investimento, specific rispetto all’impresa, senza poter tutelare tale
investimento con un coerente potere di decisione strategica sulla stessa. La natura
incompleta dei contratti e le asimmetrie informative indurrebbero colui che
chiamiamo a tal punto lavoratore, collocato nella note condizioni di hold-up e di
lock-in individuate da Williamson26, di rivendere ad un prezzo equo sul mercato la
propria professionalità, in quanto - si ripete - specific rispetto all’impresa di
provenienza. In altri termini, il potere di governare l’impresa rimarrebbe nelle mani
di coloro - gli azionisti - che sono in una migliore condizione di uscita dall’impresa
perché, come afferma Ghoshal, è più semplice vendere azioni che ricollocare la
propria professionalità sul mercato del lavoro, poiché quest’ultima è meno fungibile
di semplici titoli mobiliari. Ciò condurrebbe a fenomeni di free riding, e dunque, ad
un uso inefficiente del capitale umano. Il potenziamento o meno del processo di
convergenza dei contributi di ognuno degli agenti al consolidamento dell’impresa
stessa sarebbe, dunque, in funzione di come i diritti proprietari si distribuiscono
all’interno dell’impresa (e dunque su chi ricopre la carica di residual claimant).
Tali tesi sulla natura dell’impresa vengono ulteriormente esplicitate nelle opere
di Grossman, Hart e Moore, i quali sostengono che la soluzione più efficiente per i
sistemi produttivi è quella che vede in posizione baricentrica i soggetti che
apportano i diritti di sfruttamento delle risorse, che sono quelli cioè che si
caratterizzano per il maggior costo di sostituzione e il massimo contributo in termini
di valore. I cardini della loro teoria sono tre: in primo luogo, va considerata
l’incompletezza contrattuale, cioè l’impossibilità di disciplinare integralmente i
contenuti di una prestazione all’interno di un contratto, che aumenta di pari passo
con il crescere della complessità della prestazione fornita, stante la maggiore
26
La risposta del lavoratore alle condizioni di hold-up e di lock-in si incentra nel fenomeno
del free-riding, che implica una condizione di disimpegno nei confronti dell’impresa di
appartenenza.
CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI
25
difficoltà a verificarne gli esiti27. La seconda ipotesi formulata attiene alla
eterogeneità degli individui e dei capitali, i quali - per le peculiarità che li
caratterizzano - sono difficilmente sostituibili. In terzo luogo, è necessario tener
conto dell’importanza dell’innovazione e degli investimenti in capitale umano quali
fattori propulsori dello sviluppo economico. Il terzo punto, si collega chiaramente
alle considerazioni già sviluppate dalla Penrose qualche anno prima. Anche
Hansmann afferma che altri soggetti potrebbero candidarsi ad essere principal per
ragioni di efficienza (Hasmann, 1996), appunto perché hanno realizzato investimenti
specifici nell’impresa o perchè portatori di risorse relativamente scarse (Aoki, 2004).
Ovviamente, ciò può essere realizzato se il capitale umano voglia assumere
l’incertezza della propria remunerazione piuttosto che, invece, rendersi disponibile,
per ridurre la stessa incertezza, ad accettare un ruolo ridotto sul piano decisionale e
conseguentemente su quello della remunerazione (Blair, 1995).
Il contesto competitivo degli ultimi anni, caratterizzato da una progressiva
crescita di importanza dei meccanismi di relazione inter-aziendale, determina un
ulteriore mutamento: emerge, infatti, la necessità non solo di perseguire in un’ottica
sistemica il contemperamento dei diversi interessi in gioco ma anche di ricercare,
secondo un approccio evolutivo, una convergenza strategica sui progetti da
realizzare congiuntamente, anche tra soggetti imprenditoriali distinti, almeno in
apparenza. Lo scenario attuale impone, dunque, al soggetto di governo di assumere
una posizione baricentrica, alla ricerca di un punto di aggregazione attorno cui
catalizzare le energie e le risorse creative dei soggetti esterni attivamente coinvolti a
vario titolo nell’attività imprenditoriale: tali soggetti garantiscono il loro apporto sia
in funzione della posizione di stakeholder - compartecipando cioè alla realizzazione
di un attività innovativa, pur nell’ambito di una propria autonomia strategica
progettuale - che della conseguente posizione di riskholder.
Il sistema d’impresa va dunque considerato anche e soprattutto quale luogo di
incontro e confronto di soggettività differenziate, endogene ed esogene al sistema
stesso, ciascuna portatrice di un proprio progetto e di un propria dotazione
conoscitiva. Nella conoscenza si riconosce la risorsa cardine di un mondo altamente
competitivo e interconnesso28.
27
28
Naturalmente, al massimo della complessità vanno collocate le risorse di conoscenza le
quali, secondo Polanyi (1958), presentano una componente tacita che in quanto tale mal
si presta ad essere sottoposta a processi di verifica e valutazione.
L’economia della conoscenza è contraddistinta, come più di recente rileva Foss (2005),
da quattro fondamenti: i sistemi di ICT, che rappresentano i driver centrali della
diffusione delle conoscenze; l’enfasi posta sulla conoscenza piuttosto che
sull’informazione, circostanza che implica un crescente rilievo del capitale umano nei
processi di selezione, interpretazione e aggregazione delle informazioni; la convinzione
che la conoscenza stia divenendo sempre più diffusa, circostanza che dimostra la
difficoltà che la stessa sia catturata da qualcuno che la disponga a sostegno delle proprie
posizioni di rendita e la necessità di operare in un quadro di interazione con altre imprese
ed altri agenti, all’esterno ed all’interno dell’impresa; infine, strutture organizzative
26
IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE
Drucker traccia in via ancora più radicale la modifica che l’impresa del futuro
segnerà rispetto a quella del passato (Drucker, 2001). Ed in particolare sottolinea la
modifica del ruolo del fattore lavoro. Egli enfatizza la modifica del ruolo di manager
ed impiegati che si trasformano in professional, personale di alta capacità, meno
avverso al rischio di quanto avvenisse in passato e, dunque, disponibile al
cambiamento di lavoro, cosciente del proprio potenziale intellettivo e del proprio
bagaglio culturale, che sa assumere nel proprio interesse lavori presso diverse
imprese. Saper catturare questa forma di capitale rappresenta una sfida importante
per le imprese.
Tale prospettiva riduce le condizioni di dipendenza del manager - o dell’esperto
- dall’azionista analizzate dalla teoria e tende a modificare i rapporti contrattuali tra
le due risorse. Se il manager, il dipendente o il ricercatore diventano dei
professional, allora l’accordo con l’impresa deve esprimere un maggior grado di
equilibrio tra le parti: vanno, infatti, negoziati non solo i livelli di remunerazione, ma
anche il grado di compartecipazione alle decisioni di sviluppo dell’impresa che
possa compromettere l’investimento fatto. Tale riequilibrio è strettamente connesso
all’esigenza di garantire un’esperienza lavorativa che possa promuovere il
curriculum vitae del professional - che poi diviene l’elemento di nuova negoziazione
in sede di cambiamento del posto di lavoro - senza arrecare danni allo stesso
attraverso un sistema di decisioni troppo sbilanciato a favore dell’impresa. Tutto ciò
implica un riequilibrio delle posizioni, che non potrà non modificare gli assetti di
governance dell’impresa.
Secondo lo studioso americano, sarà dunque sempre più necessario sviluppare
meccanismi di potenziamento e tutela della creatività e dell’imprenditorialità interna
(anche attraverso effettivi spin-off)29. Vi potranno, inoltre, essere ancora proprietà
concentrate, ma il futuro sarà nelle mani delle alleanze, delle joint-venture, dei
know-how agreement. Entro tale scenario si collocherà la figura di un nuovo
manager come prima delineato.
Alla luce di queste ultime riflessioni, non può non affermarsi nuovamente
l’utilità della teoria dei contratti che offre lo strumento per leggere l’impresa come il
risultato di un contributo di risorse diverse tra loro. Implicitamente scema il ruolo
fondamentale del capitale: si avvalora la possibilità di poter invertire la logica
assiomatica dove il ruolo del residual claimant sia riconosciuto all’azionista
proprietario, ma può ipotizzarsi che tale funzione debba spettare a coloro che
apportano le risorse critiche per l’impresa, critiche per il prodotto che offrono, per il
settore in cui operano, per la fase storica in cui vivono. Ciò implica che se coloro
che cedono risorse critiche all’impresa sono in grado di influenzare i livelli di
ritorno, a prescindere dal ruolo di azionista o meno, il loro coinvolgimento dovrebbe
rappresentare un significativo incentivo per far gestire la stessa in maniera efficiente
(Hart and Moore, 1990).
29
decentrate e piatte, tali da rendere l’impresa disposta a muoversi con autonomia e
velocità.
Al riguardo si veda il contributo originale di Sorrentino, 1996.
CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI
27
Si fa anche un passo in avanti sulla relazione diretta tra il ruolo di residual
claimant, il soggetto che sopporta il rischio finale e l’azionista. A quest’ultimo
veniva riconosciuto, in passato, il ruolo di decisore ultimo, poiché era non solo il
detentore della risorsa critica per definizione - il capitale - ma anche colui che
rischiava per tutti. Nel momento in cui si ammette che tutti gli stakeholder rischiano,
anche di più di quanto avviene per l’azionista capitalista, cade l’ultimo velo. Il
residual claimant può essere anche un soggetto diverso dall’azionista, là dove
alcune circostanze lo impongano nel rispetto degli obiettivi dell’impresa.
Il mancato riconoscimento di tale ruolo può essere alla base di comportamenti
opportunistici da parte del manager, o comunque da parte di colui che disponendo
delle risorse critiche, cosciente di tale circostanza, o sostenendo un rilevante
investimento in termini di tempo e professionalità impegnata, si senta di fatto
escluso dalla direzione strategica dell’impresa e, soprattutto, dalla gestione del
residuo. La divergenza tra obiettivi della proprietà e dell’esperto non nascerebbe da
una particolare inaffidabilità di quest’ultimo, ma più semplicemente dal mancato
riconoscimento del ruolo fondamentale di quest’ultimo e dal rischio cui è sottoposta
la sua attività.
Volendo semplificare, il rapporto tra il capitale ed il lavoro, i cui offerenti
sicuramente appaiono ancora oggi gli stakeholder più importanti, può vedere,
pertanto, un diverso tipo di principal all’interno dell’impresa. In altri termini, la
relazione lineare che la teoria dell’agenzia sottintendeva e che vedeva nel
management la variabile indipendente da porre sotto controllo nell’interesse
dell’azionista, può almeno essere interpretata in linea biunivoca, cioè anche inversa.
Ciò sul piano metodologico, già consente di confermare la posizione critica di tipo
epistemologico proposta da Ghoshal. La linearità della relazione ipotizzata dal
problema dell’agenzia si basava su concetti di natura fisica, cioè su relazioni causali
che alla luce di quanto detto si rivelano insufficienti sul piano interpretativo. E come
se si ammettesse che la mela di Newton che cade dall’albero per merito della forza
di gravità, possa d’un tratto risalirvi.
Tra azionista e management, dunque, il principal può esser l’uno o l’altro, e,
dunque, il campo di osservazione così come i metodi di controllo applicati alla
relazione possono apparire di dubbio esito se non partono da questa considerazione
di fondo.
A prescindere dal valore della conoscenza, e dunque del capitale umano, che
più avanti sarà meglio messo in luce, si commetterebbe comunque un errore
sostituendo alla gerarchia del capitale quella del lavoro. Entrambe le risorse
partecipano al processo di consolidamento dell’impresa a titolo diverso rispetto al
passato.
Nelle singole fattispecie esse possono assumere il ruolo di principal o agent;
esistono imprese dove il contenuto brain è elevato, dove quindi si può ammettere
che il lavoro possa assumere il diritto al controllo finale, e decida di distribuire il
residuo una volta remunerato il mercato delle risorse finanziarie, comprese quelle di
28
IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE
tipo equity; altre imprese dove, invece, la proprietà rimane gestore esclusivo del
residuo, una volta pagata la remunerazione del lavoro e reso il conto agli altri
stakeholder.
Il diverso ruolo assunto da capitale e lavoro, così come sin qui prospettato, può
cambiare anche lungo la vita della stessa impresa, che può dunque assumere
condizioni morfologiche diverse sul piano della governance e degli assetti
proprietari.
E in questo senso che può anche definirsi il passaggio dall’impresa manageriale
all’impresa progetto: i contenuti morfologici mutano con lo scorrere del tempo e
possono articolarsi anche per parte di essa, cioè per i singoli progetti ad essa
riconducibili. Dall’analisi che precede è possibile trarre delle considerazioni finali
che consentono di dare risposta alle domande poste.
L’evoluzione del capitalismo moderno ha visto - e vede comunque in parte
tuttora - la risorsa capitale al centro dell’impresa. Vi era, dunque, un solo soggetto
principal e questi era identificato nella figura dell’azionista, proprietario e detentore
del potere decisionale finale in quanto portatore delle risorse critiche e destinatario
del rischio ultimo dell’impresa.
La discussione sin qui articolata, ed in particolare il rinnovato ruolo della
conoscenza e dunque del capitale umano, consente se non altro di far ritenere che
può non essere sempre così, e che, pertanto, possono individuarsi altri tipi di
residual claimant ed altri tipi di principal.
Altro limite della teoria dell’agenzia è la considerazione della linearità della
relazione tra principal ed agent, che discende da una impostazione metodologica che
vedeva nella “rappresentazione scientifica” la possibilità di comprendere la realtà,
che appare invece complessa.
La relazione lineare, invece, è almeno di tipo biunivoco, e ciò consente di
sviluppare una critica per così dire interna alla struttura teorica in questione ed alla
sua impostazione metodologica di fondo.
Sottoposto a critica è anche il concetto di comportamento opportunistico del
manager. Tale critica può essere rivolta almeno da tre punti di vista: il primo, di tipo
filosofico astratto, nel senso che non possiamo assumere che gli uomini siano mossi
esclusivamente dal proprio interesse personale, e che in via subordinata, il proprio
interesse personale passi solo per la massimizzazione del proprio tornaconto
economico, inteso come profitto o come ricchezza.
In secondo luogo, sotto un profilo più teorico economico, considerando che il
comportamento opportunistico può derivare da una situazione di costrizione in cui
viene posto il manager, che vede il proprio sforzo non opportunamente valorizzato e
tutelato: l’analisi transazionale e gli studi di Williamson hanno opportunamente
evidenziato tali fattispecie. Infine, da un punto di visto logico, anche l’azionista può
assumere comportamenti opportunistici rispetto alla sua impresa.
E tale circostanza rende non degna di esclusiva attenzione la fattispecie che
debba essere il manager ad essere sottoposto a controllo, visto che lo dovrebbe
essere anche l’azionista il quale, nel bel mezzo di una strategia di sviluppo, può ad
esempio decidere di vendere l’impresa ad altri.
CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI
29
3.2 Ambiguità delle evidenze empiriche
L’analisi che precede ha segnato i limiti interpretativi della teoria dell’agenzia
all’interno di un articolato complesso di riflessioni teoriche. La conclusione che si è
tratta è che lo schema di governance che discende dalla teoria - pur in presenza di
limiti ampiamente illustrati - può non essere in assoluto sbagliato, semplicemente
perché può convivere con altre forme di governance che fanno riferimento a nuove
risorse che appaiono centrali per lo sviluppo dell’impresa moderna.
Prima di procedere a delle conclusioni, è bene far riferimento ai numerosi studi
che hanno analizzato il valore delle scelte di governance poste in relazione con le
performance dell’impresa ed al suo valore. Ciò consentirà di evidenziare
ulteriormente le difficoltà interpretative della teoria dell’agenzia, poiché gli esiti
delle varie analisi forniscono risultati contrastanti, anche a parità di ipotesi
sottoposte a test.
Per valutare quale sia la migliore struttura di governo (ammesso che ciò sia
possibile) la letteratura in materia si è concentrata principalmente sulle seguenti
variabili indipendenti: grado di concentrazione proprietaria, natura del soggetto di
controllo, natura del management, composizione e numerosità del board, sistemi di
controllo ed incentivazione; e sulle seguenti variabili dipendenti: valore dell’impresa
e performance.
La prima ipotesi spesso sottoposta a test dalle analisi empiriche è rappresentata
dalla relazione tra capitale concentrato, cioè presenza di un blockholder che possiede
una larga quota dei diritti proprietari, e performance dell’impresa. Secondo Shleifer
e Vishny (1997) la concentrazione della proprietà può contribuire a ridurre le
problematiche individuate dalla teoria dell’agenzia. Una proprietà concentrata,
contrariamente a quella diffusa, consente infatti di affrontare i compiti di
monitoraggio del management con maggiore efficacia, in quanto la dimensione
assoluta dei rendimenti rende possibile il superamento di più elevati costi di
monitoraggio. Vi sarebbe, inoltre, una maggiore motivazione al controllo proprio in
presenza dei larghi capitali investiti nell’impresa. La stessa cosa non sarebbe
riscontrabile nella proprietà diffusa, come riportato dalla dottrina tradizionale, e ciò
renderebbe più liberi i manager di muoversi con maggiore autonomia, e dunque
anche in contrasto con gli obiettivi della proprietà. La stessa capacità sarebbe
presente nella impresa familiare non più di contenuta dimensione, che ha intrapreso
un programma di assunzione di manager esterni alla famiglia. Tali circostanze
indurrebbero a stabilire una relazione diretta tra concentrazione della proprietà e
performance dell’impresa.
Inoltre, la dimensione della quota posseduta dal grande azionista assumerebbe
maggiore rilevanza là dove i mercati finanziari non tutelino l’azionista di minoranza
e dove i mercati finanziari sono meno sviluppati.
In realtà numerose evidenze empiriche non confermano tali ipotesi. Ciò può
capitare per svariate ragioni: il grande azionista può avere solo propositi di
promozione della sua ricchezza personale (i cosiddetti “benefici privati”), comunque
diversi dallo sviluppo dell’impresa e dunque può non esercitare l’attività di controllo
30
IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE
o esercitarla in maniera non coerente con gli obiettivi anche di redditività (Lehmann,
Warning and Weigand 2004). Per esempio, in una impresa di una certa dimensione
dove però è fortemente presente la proprietà familiare, il grande azionista potrebbe
distogliere risorse dall’impresa garantendo benefici ai propri familiari, sottraendo
risorse allo sviluppo.
Sempre nell’impresa familiare, la volontà di detenere il controllo può indurre
l’azionista di maggioranza a non coinvolgere altri investitori, rinunciando a superare
in tal modo problemi di razionamento del capitale che pure intercettano la politica di
investimento dell’impresa. Possono a riguardo immaginarsi anche problemi connessi
alla successione (Burkart, Panuzi and Shleifer, 2002) oppure al comportamento
dell’azionista molto attento alla propria impresa, che potrebbe essere più avverso al
rischio di quanto lo siano i manager (con ciò confutando l’ipotesi originaria di
Baumol) per effetto dell’eccessiva concentrazione dei propri interessi.
Ancora, il grande azionista, in presenza di un azionista di minoranza necessario
al potenziamento della struttura finanziaria, potrebbe trarre beneficio sviluppando
una relazione di agenzia tra principal di secondo tipo (Pedersen and Thomsen,
2003). In questo caso, il grande azionista potrebbe tentare di estrarre dei benefici
privati, sottraendo valore all’impresa al fine di non condividerlo con l’azionista di
minoranza. Non è provata neanche la relazione tra concentrazione della proprietà e
valore dell’impresa. Anzi, può succedere che il grande azionista, in presenza di
un’impresa di valore, possa essere incentivato a dismettere parte rilevante delle
quote azionarie, nei fatti abbandonando il controllo della propria impresa.
Bastano tali considerazioni per osservare che una delle conseguenze derivanti
dalla teoria dell’agenzia (maggiore concentrazione, maggiori performance e/o
maggior valore) non sia per nulla provata. O, meglio, che siano possibili scenari
diversi da quelli verso i quali condurrebbe una accettazione acritica della stessa
teoria. Un’altra considerazione che può discendere dalla teoria dell’agenzia è quella
che riguarda l’eventuale superiorità dell’impresa familiare non solo tenendo conto
della concentrazione del capitale ma anche per la presenza dei familiari nel ruolo di
manager. Ciò eviterebbe, nei fatti, la dicotomia tra proprietà e controllo, attraverso
una stanza di compensazione di obiettivi e comportamenti alternativi rappresentata
dalla famiglia.
Le evidenze empiriche dimostrano che il controllo familiare può avere
sull’impresa controllata effetti per definizione contrastanti, anche nei mercati
europei continentali dove non domina il modello di tipo anglo-sassone. Dentro di
essa si confrontano, da un lato, un sistema proprietario chiuso, poco favorevole a
contribuzioni finanziarie esterne (shareholder non familiari), per paura di perdite di
controllo, da cui derivano spesso posizioni manageriali assegnate a familiari non
necessariamente in possesso delle relative competenze per assumere tali incarichi;
dall’altro, anche un maggior attaccamento alla propria impresa, una maggiore
attenzione al prodotto che spesso porta il nome della stessa famiglia.
CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI
31
I numerosi studi sull’argomento hanno confermato tali relazioni contrastanti30.
In realtà, il problema è più complesso di quanto esposto e non si limita alla sola
analisi della dicotomia pura tra family e non family business: risulta necessario,
infatti, valutare nel contempo se il valore per gli azionisti sia correlato all’essere
esposti esclusivamente al problema di agenzia di tipo I, cioè principal-agent, (nelle
imprese non family), esclusivamente al problema di agenzia di tipo II, cioè principalprincipal, (nel caso di soci appartenenti alla stessa famiglia, dove il CEO in carica
sia di emanazione familiare, ma dove siano anche presenti control-enhancing
mechanisms31 al fine di evitare prevaricazioni del socio di maggioranza, o più attivo
nell’impresa, rispetto a quello di minoranza, o più lontano dall’impresa), ad
entrambi i problemi di agenzia (nelle family business dove il CEO è un membro
esterno alla famiglia), a nessun problema di agenzia (nelle imprese familiari con
CEO di emanazione familiare dove la proprietà è largamente concentrata nelle mani
del fondatore).
In merito a tale tipologia di indagine si segnala il contributo di Villalonga ed
Amit (2004) che, analizzando le imprese Fortune 500 (nel periodo 1994-2000),
hanno tentato di determinare l’effetto della struttura proprietaria e del controllo nelle
mani delle famiglie, unitamente alla presenza di un membro della stessa nel ruolo di
CEO, sul valore delle imprese. I due studiosi hanno trovato che il valore più elevato
lo si riscontra nelle imprese dell’ultimo tipo (cioè quelle non soggette ad alcun tipo
di problema di agenzia) e che l’essere esposti all’agency problem II, una volta
attivati meccanismi di controllo, risulta essere più conveniente rispetto all’essere
esposti all’agency problem I. Tuttavia, tali risultati si stratificano a seconda del
livello di generazione familiare in cui si trova il business; difatti, la relazione tra
impresa familiare e valore appare molto positiva se il CEO in carica è il fondatore (o
se il fondatore occupa il ruolo di presidente); altrimenti vengono del tutto capovolti i
risultati facendo preferire le imprese di tipo non family (e quindi soggette al classico
agency problem I).
Più di recente, Barontini e Caprio (2005), analizzando in prima battuta le
performance delle imprese family in Europa, hanno confermato il positivo effetto
del controllo familiare sulle stessa. Tuttavia, tale effetto diviene negativo
allorquando, articolatosi l’assetto proprietario tra più membri della famiglia, risulti
necessario dar vita a sistemi di maggiore controllo tra gli azionisti. In tale
fattispecie, gli studiosi hanno riscontrato il citato effetto negativo sulle performance
in termini di ROA e di q di Tobin. Dove l’evidenza empirica europea e quella
statunitense non collimerebbero starebbe nell’effetto sulle performance che
30
31
Analizzando le imprese statunitensi, Holderness e Sheehan (1988) trovarono che le
imprese a proprietà familiare presentavano una q di Tobin inferiore alle imprese non
family, mentre Anderson e Reeb (2003) constatarono l’opposto. Spostando l’attenzione
anche verso altri mercati, i risultati empirici sono non sempre convergenti, si pensi ai
lavori di Morck (2000), Claessens e Laeven (2003), Cronqvist e Nilsson (2002) e
Bertrand, Johnson, SamphantharaK e Schoar (2004).
Si fa riferimento a meccanismi quali: dual-share classes, pyramids, cross-holdings,
voting agreements tali da creare un cuneo tra diritti di voto e diritti sui cash flow.
32
IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE
avrebbero i discendenti dei fondatori. In Europa, infatti, parrebbe che questi ultimi
non avrebbero un effetto troppo negativo sulle performance da far preferire le
imprese non family alle family business, cosa che invece si riscontrava nella ricerca
di Villalonga ed Amit.
Passando alla realtà italiana, tipicamente fondata sul family business, i due
autori italiani notano come il nostro Paese sia quello con la più alta percentuale di
CEO di emanazione familiare tra i discendenti del fondatore e sia nel contempo
l’unico Paese dove si è riscontrato un effetto negativo del controllo familiare sul
ROA e sul valore delle imprese32.
Nell’analisi del caso dell’impresa familiare italiana, assumono importanza
anche ulteriori elementi di indagine come la numerosità dei membri del board33 e la
presenza al suo interno di consiglieri indipendenti in grado di apportare conoscenze
e varietà di idee che compensino eventuali carenze dei rappresentanti familiari, la
cui presenza nel board è tuttavia funzionale per il mercato per il loro maggiore
contributo in termini di controllo (Corbetta e Minichilli, 2005).
In tutti questi casi, appare evidente come risulti necessario guardare alla
complessità delle relazioni, senza fidarsi di ipotesi di tipo macro poste a monte della
verifica empirica. Ciò che sembra potersi concludere è ancora una volta la necessità
di trovare un equilibrio tra il capitale e le capacità degli employees: un equilibrio che
consenta anche all’impresa familiare di allargare il campo del potere decisionale a
rappresentanti non appartenenti alla proprietà originaria, in ossequio al rinnovato
ruolo del capitale umano.
In ordine alla tipologia di shareholder e sulle sue funzioni di controllo, va
segnalata l’interessante analisi svolta da Pedersen e Thomsen (2003) che hanno
riscontrato una relazione moderatamente positiva tra le performance reddituali e la
presenza rilevante di un investitore finanziario nel pacchetto azionario. Il dato
potrebbe essere valutato sotto diversi punti di vista. In primo luogo, l’azionista
finanziario non può procedere a fenomeni di espropriazione nei confronti di altri
azionisti, in quanto normalmente sottoposto a controlli di tipo istituzionale più
stringenti di quanto può succedere ad un qualsiasi azionista privato. In più, un
investitore istituzionale, la cui strategia è anche quella di distribuire il proprio
patrimonio su più imprese, riconosce i limiti della propria competenza nella gestione
del business ed è quindi più aperto a concedere autonomia al management ed a
tutelare la valorizzazione del suo bagaglio professionale. L’azionista finanziario,
inoltre, ha una sua solidità finanziaria, dispone di grandi risorse, almeno
relativamente all’impresa in cui ha investito, e dunque può attendere lo sviluppo
dell’investimento (è cioè meno wealth-constrained). Infine, a sua volta, è un gestore
di risorse per terzi: la propria ricchezza non dipende dalla possibilità di estrarre
benefici privati, ma dal rendimento delle azioni in sé, che gli consente di remunerare
32
33
Laddove in Norvegia e Svizzera si è riscontrato, rispettivamente un effetto negativo sul
valore, ma positivo sul ROA e viceversa, ed in tutti gli altri Paesi un effetto positivo su
entrambe le variabili dipendenti.
Si dimostra che un cda di maggiori dimensioni è correlato positivamente con le
performance del mercato azionario.
CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI
33
i capitali che prende in gestione. Circa quest’ultimo aspetto, l’osservazione empirica
dimostra che in alcuni casi l’investitore istituzionale, dovendo gestire delle
aspettative di rendimento definite ex ante, una volta soddisfatta tale condizione, è
disposto a distribuire l’eventuale “extra-profitto” a coloro che hanno gestito
l’impresa, rafforzando il loro rapporto fiduciario con l’impresa.
Per quanto concerne la soluzione del problema di agency I, infine, le evidenze
empiriche riguardanti l’adozione della “managerial ownership” sono anch’esse
ambigue e contrastanti. In letteratura si trovano quattro principali orientamenti circa
la relazione tra adozione della managerial ownership ed il valore delle imprese.
Jensen e Meclking (1976) per primi auspicavano l’utilizzo di questo strumento;
Demsetz (1983) riteneva che non vi fosse alcun effetto diretto tra l’adozione di
questa soluzione ed il valore d’impresa; Stulz (1988) riteneva al contrario che
l’effetto dato dall’avere un manager azionista fosse negativo; Mork (1988), infine,
asseriva la non monotonicità della relazione che, secondo l’autore, assumeva segno
diverso in relazione al grado di partecipazione. In letteratura esiste evidenza
empirica a sostegno di tutte le ipotesi illustrate (si pensi ai lavori di Agrawal 1987,
Cho 1998, Demsetz e Lehn 1988 e Mork 1988).
Dalla breve rassegna riguardante l’analisi empirica, emerge palesemente la
disomogeneità dei risultati, che non permette di trarre conclusioni incontrovertibili
circa la relazione tra struttura di governo e performance aziendali, e men che meno
avvalorano le ipotesi discendenti dalle assunzioni della teoria dell’agenzia.
Emergono però, in linea generale, alcuni risultati degni di considerazione.
In primo luogo, si è visto come alla concentrazione proprietaria (in Europa
come in U.S.A.) si accompagni un positivo riscontro sul valore dei titoli; si evince
poi che il capitalismo familiare è in realtà apprezzato dal mercato, soprattutto se
accompagnato dalla presenza del fondatore in qualità di CEO. Per quanto concerne
il board of director, l’elevata numerosità e la presenza di consiglieri esterni è vista
di buon occhio dagli investitori (a testimonianza del fatto che, alla governabilità e
alla snellezza dei processi decisionali, sia preferibile porre in essere costruttive
controversie nel board tali da alimentare un processo decisionale più lento, ma anche
più consapevole).
3.3
Altri limiti interpretativi
contemporanea
della
teoria
dell’agenzia.
L’impresa
La relazione tra azionista e manager non è di tipo lineare o, almeno, lo è in via
biunivoca: tale considerazione ha consentito innanzi di definire la parzialità
interpretativa della teoria dell’agenzia. In realtà, la natura dell’impresa
contemporanea è ancora più complessa di quanto la semplice biunivocità identificata
possa far ritenere. Nell’impresa attuale, esistono conflitti non solo tra le categorie di
base individuate - azionisti e manager - ma tra diversi tipi di azionisti e diversi tipi di
manager. In più, non possono essere dimenticate le relazioni intercorrenti tra
imprese, nei vari tipi di sistemi reticolari.
34
IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE
Come opportunamente sottolineato da Child e Rodrigues, lo studioso del
problema dell’agenzia non può non tener conto della double agency e della multiple
agency (Child and Rodrigues, 2003). La prima si verifica quando differenti gruppi di
soggetti nell’impresa pongono in essere decisioni di rilevante impatto anche ai livelli
più bassi della gerarchia aziendale. Nei livelli sottostanti il top management, altri
manager o comunque dipendenti della società si occupano delle fasi implementative
dei piani aziendali definiti. In queste situazioni possono replicarsi le stesse relazioni
identificate dalla teoria dell’agenzia, con la differenza che le posizioni principal e
agent sono distribuite esclusivamente tra manager. Tutti i fenomeni identificati tra
azionisti e manager si replicano: asimmetrie informative, contratti incompleti,
problemi di controllo ed incentivazione, tentativi di appropriarsi di posizioni di
rendita che derivano da barriere conoscitive (Milgrom and Roberts, 1994). Come
pure può avvenire che ognuna delle relazioni individuate possa presentarsi in
maniera inversa rispetto alla ipotizzata scala gerarchica. E quanto più la diffusione
della conoscenza si propaga tra manager evoluti e capaci, tanto più possono essere
loro a trovarsi nella condizioni di principal rispetto al top management.
Per multiple agency, Child e Rodrigues identificano una situazione in cui due
soggetti, azionisti o manager, danno vita ad una relazione di agenzia sia come
principal che come agent e contemporaneamente nei due ruoli. Un esempio classico
di multiple agency lo si riscontra allorché due imprese costituiscono una jointventure. In tal caso, la molteplicità dei rapporti di agenzia può derivare dalla
considerazione di tre fattori: vi sono più proprietari e ciascuno di loro ha il diritto di
richiedere che i propri interessi siano rispettati; considerato che ogni impresa partner
assicura all’alleanza risorse complementari di tipo tangibile ed intangibile, tra di loro
ognuna diviene principal ed agent per l’altra ed allo stesso tempo; infine, i manager
delle imprese alleate si comporta come agent per i propri principal.
I due fenomeni commentati fanno solo intravedere il complesso reticolo di
relazioni che attraversa l’impresa, al di dentro di essa e al di fuori. Ed il fenomeno si
accentua là dove si rafforza il ruolo delle risorse di conoscenza ed aumenta il tasso
di dispersione di esse internamente ed esternamente ai confini aziendali. Il tentativo
di controllo di tale reticolo diviene estremamente difficile e l’eccesso di controllo
come risposta alla complessità della realtà da controllare riduce la capacità di
incisività dell’azione manageriale che rischia, tra l’altro, di impiegare il proprio
tempo a controllare piuttosto che ad identificare il percorso di sviluppo dell’impresa.
Inoltre, si ripete, più aumenta il grado di dipendenza dello sviluppo dell’impresa da
capacità e competenze non in possesso di coloro che tradizionalmente definiamo il
gruppo di comando (azionisti e top management) più il grado di complessità
aumenta. Le logiche di decentramento, naturale conseguenza prevista dall’analisi
transazionale, come risposta all’azzeramento dei vantaggi derivanti
dall’internalizzazione dovuti all’incremento dei costi di coordinamento e controllo,
non esauriscono l’analisi e la comprensione del fenomeno: nella valorizzazione e
nella autonomia delle risorse umane interne ed esterne ai confini tradizionali
dell’impresa può nascondersi il fondamento dello sviluppo.
CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI
35
La fase di controllo è dunque rivolta a tutti i livelli dell’impresa, è condivisa dai
portatori delle competenze critiche, non è solo finance oriented e deve essere
riflesso di un clima di trasparenza e equità.
In tale scenario, bisogna essere consapevoli che coloro che chiamavamo agenti
possono divenire del tutto autonomi. E tale consapevolezza da un lato rende ormai
obsoleta la visione della teoria dell’agenzia, dall’altro richiede principi nuovi che
consentano di immaginare nuove forme di governance entro nuove forme di
strutture organizzative.
4. Orientamenti per la ricerca futura
Questa relazione non poteva ovviamente esaurire il tema della corporate
governance: la complessità e la rilevanza dell’argomento non lo consentiva.
Rilevanza che è ben presente a tutti noi: appare evidente che su tale tema più che su
altri si deve confrontare la comunità scientifica poiché esso riverbera le sue
connessioni sulla natura e le forme del capitalismo futuro ed in certa misura sulle
logiche di convivenza che contraddistingueranno anche i nostri prevedibili assetti
sociali. Alla luce di ciò, trarre delle conclusioni consente, da un lato, di focalizzare
ancora meglio le tesi esposte e, dall’altro, a procedere ad alcune loro estensioni che
potranno essere oggetto di ulteriori approfondimenti e studi.
I)
Come tutte le teorie che celano in sé tentativi di estensione di metodi scientifici
all’analisi di contesti sociali, la teoria dell’agenzia cade in un eccesso di
semplificazione. La realtà è molto più complessa e le relazioni da essa
individuate non riescono a rappresentarla compiutamente; è anche vero che il
contesto storico a cui quella teoria faceva riferimento consentiva di effettuare
delle semplificazioni senza correre grossi rischi. Il capitale era al centro della
capacità competitiva dell’impresa, l’azionista era colui che rischiava di più. E
non è escluso che tale paradigma conti ancora nell’analisi dei sistemi produttivi
attuali. Tuttavia, l’economia contemporanea pone al centro dell’impresa il
capitale umano che non solo può diventare risorsa critica, ma come detto
innanzi, si espone al rischio di non veder valorizzato il proprio investimento,
tanto più rischioso perché specifico e poco ricollocabile sul mercato, tanto più
elevato quanto più rilevano nella creazione del valore la conoscenza,
l’innovazione e l’esperienza. Se criticità delle risorse ed esposizione al rischio
ultimo erano le categorie logiche su cui riposava la leadership dell’azionista e,
dunque, il suo essere residual claimant, se ciò può essere riconosciuto anche al
detentore della conoscenza, manager o dipendente - in altri termini chi non
investe per lo più capitale finanziario -, allora anche soggetti del genere possono
assumere il ruolo del residual clamaint. Così come appare che comportamenti
opportunistici possono essere assunti sia da azionista che manager, ognuno nei
confronti dell’altro ed ognuno nei confronti dell’impresa di appartenenza; anche
sul piano dell’opportunismo, non vi è una esclusiva del manager: opportunista
36
IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE
può divenire anche l’azionista e, paradossalmente, anch’egli può essere
soggetto a controllo.
II) Le evidenze empiriche non confortano neanche le posizioni interpretative che
discendono direttamente e indirettamente dalla teoria dell’agenzia. La relazione
diretta tra proprietà concentrata e performance, che derivava da una valutazione
comparata tra costi di controllo, efficacia relativa di questi ultimi e rendimento,
non è sempre comprovata, soprattutto perché le categorie considerate - azionisti
e manager - non esprimono uniformità di indirizzi ed obiettivi, non tanto tra
loro quanto al loro interno.
Anche l’impresa familiare vede ridimensionarsi il ruolo tradizionale che gli è da
tempo riconosciuto; la riduzione dei rischi di dicotomia tra obiettivi tra membri
della stessa famiglia - che riduceva i costi di agenzia e che, dunque, dava
impulso alla sua capacità competitiva ed alle sue performance in termini relativi
- non può non confrontarsi con il rischio di un’altra dicotomia: tra obiettivi
dell’impresa ed obiettivi della famiglia. Non può non osservarsi, inoltre, che
tale dicotomia sia spesso un freno molto più rilevante allo sviluppo di quanto
possa apparire la tradizionale divergenza tra i fini di proprietari e manager. Ciò
trova consistenza soprattutto nella considerazione che nell’impresa familiare, di
solito di non elevate dimensione, la proprietà non sia contendibile e che,
dunque, venga meno l’unica ipotesi di modifica degli assetti - cioè la sua
scalabilità per dirla a’ la Marris - che consenta di modificare l’approccio verso i
manager, verso i mercati e così via. La chiusura del modello proprietario porta
alla conseguenza che se bisogna avallare il peso dell’esperto, tutelare il suo
investimento attraverso un coinvolgimento effettivo nella direzione strategica,
cioè condurre a termine il processo di avvaloramento dei professional di cui si è
detto innanzi, tale esigenza non trova spazio proprio per merito della chiusura
che i rapporti familiari esercitano su tale processo. E questo può rappresentare
un cuneo ineliminabile allo sviluppo, poiché viene bloccato il processo di
travaso di nuove conoscenze e nuovi know-how nel patrimonio aziendale. In
altri termini, il modello proprietario chiuso, tipico dell’impresa familiare, si
interporrebbe alla crescita non tanto e non solo per problemi di capacità
finanziaria - come tradizionalmente riconosciuto - quanto per l’impossibilità di
comprendere le nuove risorse della conoscenza e cioè il capitale umano non
proveniente dalla famiglia. Tali tendenze si rafforzano là dove modelli culturali
e sociali consolidano la chiusura intellettuale al confronto con altre esperienze
lavorative e spinge a chiedersi se non sia in tale ambito che bisogna ritrovare in
buona parte i motivi che non spingono alcune aree geografiche a svilupparsi.
III) L’analisi delle evidenze empiriche ha isolato anche la figura dell’investitore
finanziario, rintracciando una moderata correlazione positiva tra la presenza di
tale investitore e le performance dell’impresa. L’economia contemporanea offre
anche un altro spunto a sostegno della tesi commentata. Le imprese oggi si
confrontano con mercati più ampi e più volubili; investimenti sempre più
elevati devono essere realizzati sia nell’ampliamento del raggio di azione sia
nell’innovazione di prodotto. Le risorse finanziarie - che pure necessitano -
CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI
37
possono superare le disponibilità di azionisti imprenditori che hanno comunque
a che fare con il vincolo di bilancio della propria famiglia o connesso alle
proprie personali aspettative. L’organizzazione del capitalismo moderno
attraverso la costituzione di fondi di investimento, banche e banche d’affari,
venture capitalist, consente di immaginare che la copertura dell’investimento
possa essere ottenuta in qualche maniera dall’esterno dell’impresa e,
soprattutto, in misura maggiore rispetto a coloro che svolgono funzioni che
tradizionalmente definiamo imprenditoriali e/o manageriali. Dall’esterno, nel
senso qui accolto, proverrebbe non solo il capitale di debito ma anche quello
cosiddetto di rischio, che avrebbe la caratteristica di essere più paziente, di
assumere - appunto - un rischio maggiore connesso ad un maggior rendimento,
senza che ciò però implichi una partecipazione alla gestione, né diretta né
indiretta. D’altronde, l’organismo gestore di risorse finanziarie è a sua volta
un’impresa ed è specializzato nel diversificare i rischi in una logica, nel
migliore dei casi, industrial-finanziaria. Al vertice dell’impresa si troverebbe,
dunque, colui che dispone del know-how necessario: al mercato finanziario
rimarrebbe il rispetto delle aspettative di rendimento ed il rispetto dei termini
contrattuali, con un grado di controllo di tipo diverso rispetto a quello ipotizzato
dalla relazione principal-agent. Volendo accettare ancora le categorie logiche
della teoria dell’agenzia, il principal non sarebbe il proprietario ma un
investitore attento alle performance, che asseconda un progetto proposto da un
esperto gestore, che ha la convinzione di non permanere nella detenzione delle
azioni per sempre, ma che dismetterà tali azioni entro un certo arco temporale.
Questa visione implicherebbe una cesura netta tra capitale finanziario e capitale
di conoscenza e consentirebbe di fare chiarezza almeno in alcuni contesti,
lasciando al possessore della conoscenza la responsabilità dell’impresa - a tutela
del suo investimento specific - e nel contempo l’obbligo di rispettare i termini
contrattuali definiti con il mercato finanziario.
IV) Naturalmente assetti del genere non possono essere assorbenti della variegata
realtà: al ricercatore spetta solo l’esigenza di annoverarli tra le tante ipotesi di
lavoro da analizzare, secondo l’impostazione di pluralismo metodologico
considerata all’inizio della relazione. Se però si ammette la possibilità di poter
alternare il capitale finanziario o quello di conoscenza al vertice della struttura
d’impresa, allora possono essere rivisti anche i principi ispiratori delle attività
di controllo.
Sembra di poter dire che l’articolata strumentazione di controllo che nei vari
Paesi si cerca di adottare per tutelare il ruolo di tutti gli stakeholder nei
confronti di chi decide nell’impresa, muova da un obiettivo che è quello di
evitare che chiunque sia nella posizione di prendere decisioni possa ricavarne
benefici privati, contrari all’interesse dell’impresa e, dunque, dell’ente da cui
dipende la loro carriera, la dimensione dei loro risparmi e così via. D’altronde,
se chi decide, decide contro l’interesse di coloro a cui è legato lo sviluppo
dell’impresa, rischia di decidere anche contro il proprio interesse, naturalmente
nel caso in cui nell’impresa risieda la prospettiva di crescita del suo bagaglio
38
IL MANAGEMENT COME SCIENZA SOCIALE
professionale e patrimoniale. Per cui, se decide contro l’interesse dell’impresa escluse ipotesi di tipo puramente criminoso - lo fa perché ritiene che la stessa
impresa o non valorizza il proprio investimento o perché i propri benefici
personali non risiedono dentro di essa. E ciò può succedere non solo nel caso di
un manager infedele ma, come visto, anche nel caso di un azionista che non ha
interesse a promuovere l’impresa di cui è proprietario. Se è così, il problema si
incentra non tanto nell’immaginare articolate procedure di controllo ma nella
possibilità di avere regole che garantiscano la rimozione del vertice, a favore di
chi la pensa in maniera opposta o in via preventiva o in un tempo comunque
breve e comunque utile ad evitare danni irreparabili all’impresa. Il problema
risiede nel costruire un sistema di strutture organizzative e di regole interne (ed
anche esterne - si pensi all’insieme del sistema giuridico) in grado di
permettere, di assecondare l’eventuale avvicendamento. Non solo tra azionisti e
manager, ma anche tra manager.
V) Ha poco significato, entro l’ambito interpretativo delineato, dire chi deve
decidere: lavoro e capitale si continueranno a confrontare durante la storia del
capitalismo, assumendo un ruolo principale a seconda delle contingenze, e forse
una volta trovato un assetto efficace, questo potrà subire delle modifiche,
poiché possono mutare le condizioni di contesto. Anche in tal caso propendere
per una gerarchia del lavoro o per una gerarchia del capitale non rappresenta il
problema centrale. L’obiettivo è quello di individuare volta per volta chi
rappresenta la risorsa critica e rischia di più e garantire che sia lui a governare.
Tuttavia, ciò che riusciamo a percepire oggi è la forza della conoscenza e
dunque del capitale umano e ciò ci spinge a credere che per troppo tempo,
anche nel nostro Paese, abbiamo ritenuto che la proprietà di un’impresa potesse
giustificare la leadership anche di rilevanti complessi aziendali anche se i
proprietari non disponevano delle competenze necessarie; possiamo dissociare
effettivamente la proprietà, l’investimento del capitale personale dalla figura
dell’imprenditore, possiamo ritenere possibile che le tre prerogative
dell’imprenditore (investimento personale, conoscenza del proprio mestiere e
capacità di coordinamento) possano ridursi a due, consentendo di definire
imprenditore anche colui che non investe nell’impresa i propri capitali;
d’altronde, come lo stesso Fazzi già asseriva (Ciappei-Brichieri, 2005):
(all’imprenditore sono riconosciuti)”..compiti propri da assolvere nell’azienda,
che non gli derivano da essere o meno il proprietario” ed ancora “il capitale
privato ed il rischio economico non caratterizzano più la funzione
dell’imprenditore”.
Volendo estendere il ragionamento fatto, in realtà, quanto più la società civile è
ingessata nei suoi meccanismi di sviluppo, nelle imprese come nelle altre istituzioni,
tanto più diviene difficile premiare lo sforzo di chi sa, di chi conosce. Ovviamente
tale ruolo lo si conquista sul campo, sul fronte dei risultati, sul fronte del libero
mercato.
CLELIA MAZZONI - MARIO MUSTILLI
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