VIRGIL, L`INTENDITORE La mia vita è stata, fino ad oggi, un lungo

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VIRGIL, L`INTENDITORE La mia vita è stata, fino ad oggi, un lungo
VIRGIL, L’INTENDITORE
La mia vita è stata, fino ad oggi, un lungo rapporto con il vino. Il giorno
della nascita di un nuovo concittadino, al mio paesello, si usa festeggiare
bevendo abbondanti quantità di dolcetto o barbera: avete già capito che sono
piemontese. Mio padre Nicola, il giorno in cui, appena finita la guerra sono
nato, per festeggiare offrì da bere a tutti i compaesani. Io sono nato alle 7,56
del mattino e alle 8,23 erano presenti, nella piola del paese, tutti e 15 gli
uomini, tra celibi e maritati (compresi il sindaco, il medico, il messo
comunale e il parroco) mentre le donne, 16 in tutto che con l’aggiunta mia
madre arrivavano a 17, (questo mostrava un soprappiù rispetto agli uomini),
erano tutte a casa mia per assistere al parto. Dopo diversi pintoni di vino
fatto in casa, il sindaco, colto da un barlume di lucidità, disse a mio padre:
“Nico, guarda che devi registrarlo”. Il primo cittadino chiamò il messo
comunale, che era anche l’impiegato dell’anagrafe e, tutti e tre barcollanti, si
recarono in municipio.
“Allora – chiese il messo – come lo chiamiamo il giovane rampollo?”
“Come mio nonno buonanima!” disse risoluto mio padre. Il nonno si
chiamava Virginio. Nella sbronza generale il messo fece un piccolo errore e
scambiò una lettera e scrisse Virgilio. Quel piccolo sbaglio avrebbe
cambiato la mia vita. Gli anni della mia giovinezza erano quelli nei quali i
nomi degli attori americani venivano italianizzati. Fu così che John Wayne
divenne Giovanni Vaine e io, Virgilio Pautasso, divenni per tutti Virgil.
Come? Elementare. Il giorno del mio 3° compleanno i miei genitori e i loro
amici (nel frattempo gli uomini del paese erano diventati 21 perché erano
ritornati 6 soldati dalla prigionia, ma le donne erano sempre 17, fatto che
creava non pochi problemi perché la lista delle nubili, o zitelle per quelle
più attempate, si stava assottigliando), festeggiarono il mio compleanno con
biscotti e dolcetto fatto in casa. Ogni donna portò un chilo di biscotti e ogni
uomo portò qualche bottiglia. Qui le memorie paesane divergono, perché,
mentre sui biscotti le donne seppero essere molto precise, sul vino gli
uomini non riuscirono a ricostruire le effettive quantità bevute. Comunque
torniamo al fattaccio. Alla fine della festa, i miei genitori stavano salutando
tutti i compaesani mentre io, quatto quatto, svuotai tutti i fondi di bicchiere,
non proprio tutti, perché alcuni li diedi al gattino che avevo ricevuto in
regalo proprio quel giorno. In poche parole la prima volta che dovetti
sopportare i postumi di una ciucca avevo tre anni. La mamma, che
chiaramente essendo sobria fu la prima ad accorgersi che io e il gatto
eravamo fradici, si allarmò. Alla festa c’era anche il medico del paese, un
rubicondo signore dal naso rosso, che come diagnosi farfugliò qualche
parola che poteva più o meno suonare così: “Il vino fa buon sangue. Tuo
figlio Virgil – disse a mio padre – è come Giovanni Vaine: più beve e più
spara meglio!” Il medico, in evidente stato confusionale, ci impiegò almeno
un minuto nel cercare di pronunciare il mio nome. Alla fine optò per una
versione abbreviata: Virgil appunto. Da quel giorno io fui Virgil
l’americano.
In campagna il vino non mancava mai, neanche alle feste di noi ragazzi.
Una sera, uno dei miei compari, portò ad una festa un vinaccio mal venuto.
Decidemmo che era un vino da bestie. Andammo quindi sotto la canonica,
svegliammo le galline e il gallo del parroco e glielo ficcammo in gola.
L’omelia della domenica successiva fu la prima ad essere ascoltata con tanta
attenzione (a dire il vero fu anche l’ultima) perché il parroco, don Gianni,
illustrò i dettagli di come, tutti quelli che gli avevano sbronzato le galline,
sarebbero finiti all’inferno con le chiappe perennemente in fiamme. I nostri
genitori capirono immediatamente che eravamo stati noi. Effettivamente le
mie chiappe bruciarono per un paio di giorni come se fossero state
all’inferno, dopo le cinghiate di mio padre. Nessuno mi toglierà però mai
dalla testa le immagini del gallo sbronzo che cantava chicchirichì alle 3 del
mattino e il parroco con i mutandoni che ci sparava con la doppietta a sale.
Il vino mi fece compagnia anche nella giovinezza. Erano gli anni 60 e venne
il giorno della visita militare per il servizio di leva obbligatorio. L’addetto
all’assegnazione delle destinazioni mi disse: “Virgilio Pautasso, dato che lei
si chiama Virgilio, la mando a fare il CAR a Cagliari perché dicono che la
porta dell’inferno di Dante sia da quelle parti”. Non so bene se le sue
interpretazioni si rifacevano ad un critico letterario o al dio Bacco, di certo
l’alito puzzava della peggior scolatura di piatti in commercio. Non solo io
fui vittima di quell’ufficiale, anche altri miei amici finirono chissà dove a
causa delle sue allucinazioni alcoliche. Per farla breve? Io ero l’unico
piemontese che fosse mai andato a fare l’addestramento a Cagliari. Nel giro
di un mese, però, feci amicizia con tutti e da Virgil l’americano, divenni
Virgil il piemontese e, proprio per via delle mie origini, fui considerato un
intenditore di vini. Chiariamoci, io sapevo solo distinguere il dolcetto del
nonno da quello di mio papà o il barbera del sindaco da quello del messo.
Pensate che il vinsanto, che con i miei amici bevevamo di nascosto in
sacrestia, era per noi carico di sapori esotici perché arrivava dal paese vicino.
Io lasciai loro credere che fossi un esperto, in fondo quella parte mi piaceva.
Prima della fine di questa storia però sarei diventato veramente Virgil
l’intenditore.
La cosa andò in questo modo.
Finalmente ebbi una licenza, anche se solo di 2 giorni. Sabato e domenica a
casa. Non solo io ma anche altri due miei commilitoni. Sorpresa! Il venerdì
mattino tutti e tre convocati dal medico della caserma per un vaccino.
Risultato: tre giorni di riposo in infermeria e niente licenza. Che fare per
passare il tempo? Naturalmente bere e mangiare. Mandiamo uno della
nostra combriccola, uno che non era stato «punturato», a fare gli acquisti: un
sardo simpatico di nome Augusto. Lista della spesa: tre chili di tritata per
insalata di carne cruda, un chilo di aglio e 6 bottiglioni di vino.
Come arriva Augusto mi sfida: “Chi mi ha venduto il vino, mi ha detto che
questo Merlot è stato tagliato con un vino delle tue parti. Tu che sei
piemontese e dici di intenderti di vini, mi sai dire di che vino si tratta?”
Panico.
A questo punto ne andava della mia reputazione. Anche perché la
conoscenza di vini l’avrei affinata solo più avanti con l’età, e oggi qualche
cosa in più ne capisco. Me ne feci versare poco poco nella gavetta e
incominciai ad assaggiarlo come avevo immaginavo avrebbero fatto gli
esperti, il tutto mentre la mia mente frullava: “Allora – pensai - non ho mai
sentito che un vino piemontese venga usato per tagliare altri vini. Se
veramente è così, allora questo non è sicuramente un vino nobile. Scartiamo
nebbiolo, grignolino e barbaresco. Rimane il barbera e il dolcetto. Ma che
cavolo proprio a me dovevano fare questa domanda?”
Annuso, guardo, assaggio, annuso di nuovo e visto che le probabilità erano
del 50 per cento, sparo: “E’ sicuramente dolcetto”.
Stupore generale: “Bravo è proprio il dolcetto, ma da cosa l’hai capito”.
A questo punto, visto che l’onore era salvo, vai con le spiegazioni. Assumo
un tono affettato: “Già il colore mi aveva messo sulla strada. Il bouquet (per
me allora era poco più che un mazzo di fiori) mi ha lasciato perplesso, ma il
gusto prima, e il retrogusto poi non mi ha lasciato dubbi, è dolcetto”.
Da quel giorno io ero diventato Virgil l’intenditore. Il che aveva i suoi
vantaggi: tutti i commilitoni che dovevano comprare un vino, mi chiedevano
un parere e me lo facevano assaggiare prima di acquistarlo. Sai che
bevute!!!
Ma soprattutto, il giorno che il comandante della base seppe di queste mie
capacità enologiche, mi invitò a tutte le feste del circolo ufficiali come
assaggiatore. Un bel giorno il CAR finì e mi assegnarono ad un’altra
destinazione. “La pacchia è finita”, pensai. Non fu così. Perché? Perché il
mio comandante scrisse una lettera al comandante della caserma di
destinazione, il quale si inventò un compito che mai si era sentito
nell’Esercito Italiano: addetto alla cantina del circolo ufficiali. La caserma
era di vecchia data e aveva una cantina nella quale nessuno entrava ormai da
anni. Il giorno che scesi per la prima volta in quello scantinato pensai di
essere entrato in paradiso: c’erano bottiglie di ogni dove. Nei mesi
successivi, mi feci una vera e propria cultura di vini. I vini peggiori,
chiaramente, finivano alle feste del circolo ufficiali presentati come i
migliori, mentre quelli eccellenti erano appannaggio mio e di un piccolo
gruppo di adepti. La leva stava per finire e io decisi di fare firma. Altri tre
anni di servizio militare. Altri tre anni di cantina. In quel sotterraneo mi feci
la cultura che ho ancora oggi.
Da molti anni sono tornato al mio paesello, (ora ci sono 74 uomini e 46
donne: evidentemente il problema della carenza femminile non è risolto), ed
ho aperto una vineria: “Da Virgil, l’americano”. Sono passati i tempi delle
sbronze. Ora, per vivere, condivido la mia passione per il vino con i miei
clienti, facendo loro assaggiare le pregiate bottiglie della mia cantina.
Quando la mia vineria viaggia a pieno regime, il numero dei frequentatori
doppia quello degli abitanti del paese e anche i miei ben più giovani
compaesani, possono cercare di sistemarsi. Ogni tanto accade che qualche
mio vecchio commilitone venga a trovarmi per ricordare i bei tempi andati e
allora mi sento di nuovo chiamare: “Virgil l’intenditore”. I miei compaesani,
che ben conoscono la storia, ridacchiano gustandosi un buon dolcetto, e io
sorrido loro con sguardo malizioso.
Ve l’avevo detto: la mia vita è stata, fino ad oggi, un lungo rapporto con il
vino.
P.S. Mi raccomando, se qualcuno di voi conoscesse anche solo uno dei miei
vecchi commilitoni, per favore non gli dica che quel giorno ho tirato ad
indovinare…