1. In limine litis Questo contributo si colloca ai margini di

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1. In limine litis Questo contributo si colloca ai margini di
FRANCO CREVATIN
IL LIGNAGGIO DELLA GALLINA
CLASSIFICAZIONE E SAPERI
*
Grau, teurer Freund, ist alle Theorie,
und grün des Lebens goldner Baum.
GOETHE Faust
1. In limine litis
Questo contributo si colloca ai margini di alcune delle grand theories correnti ed è non di rado eterodosso.
Sarebbe ingeneroso dire che la grand theory, appunto perché tale, segua il diritto amministrativo romano
che prescriveva de minimis non curat praetor, tuttavia è lecito sospettarlo. Viviamo in un’epoca curiosa,
nella quale l’estrema specializzazione (sub-)disciplinare produce un volume ingovernabile di informazioni e
di ipotesi, peraltro di dispari qualità, che convive con antiche dicotomie (natura : cultura, uomo : ambiente)
ed altrettanti σκἀνδαλα1 (intellettualismo vs utilitarismo, universalismo vs relativismo, innatismo vs emergentismo) che rendono disagevole il persorso; la difficoltà è aggravata dall’uso solo apparentemente simile
delle parole nelle scienze umane. Tutto ciò emerge chiaramente nello studio della classificazione degli animali, ma vale per quasi tutti gli ambiti di indagine. La classificazione (§ 4) è un modo di organizzare la conoscenza, ma non è la conoscenza pur essendone parte: sarebbe come limitarsi a leggere il menu e pensare di
aver pranzato. Nella pratica di ricerca viene dato usualmente largo spazio alla lingua, perché è dall’uso linguistico elicitato (“lo scarafaggio è un insetto”) che si recuperano classi e tassonomie; la cosa sembra ovvia,
e lo sarà pure, tuttavia è problematica.
Sono molte, dunque, le teorie che si confrontano, eppure il fine è unico, capire l’Uomo, un’impresa che non
avrà mai fine; è bene ricordare le parole di Q. Aurelio Simmaco (Relat. 3, 10) Aequum est, quidquid omnes
colunt, unum putari. Eadem spectamus astra, commune caelum est, idem nos mundus involvit. Quid interest, qua quisque prudentia verum requirat? Uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum.
2.1 Lingua come tecnica
Non c’è manuale o saggio che non parta dal riconoscimento dell’importanza della lingua, possederla è
quanto prioritariamente caratterizza gli esseri umani. Ammesso che si abbiano idee chiare e discrete su cosa sia la lingua, ci si pone legittimamente il problema dei rapporti che intercorrono tra la lingua stessa, il
pensiero, la cultura. È legittimo, dicevo, ma prima di tutto bisogna riconoscere che la lingua è una tecnica,
raffinata sin che si vuole ma pur sempre una tecnica, uno strumento perfettibile (o passibile di impoverimento)2 che serve a fare determinate cose, a comunicare, a mentire, a negoziare il proprio e altrui comportamento e altro ancora. In quanto tecnica la lingua non è un’ideologia, la può esprimere e non tramite
l’organizzazione del lessico – che, semmai, può esserne solo fattispecie indicativa – bensì tramite narrazioni
e dialogo.
Con la tecnica-lingua si può parlare di fatti culturali, qualunque cosa si voglia intendere con questa terribile
parola, così come si può parlare del tempo che fa ed è altrettanto ovvio che segni e significati linguistici (al*
This paper has been conceived and written in the framework of the FIRB project “Aree di Transizione Linguistiche e
Culturali in Africa - Linguistic and Cultural Zones of Transition in Africa” (ATrA), funded by the Italian Ministry of Education, Univ. and Research (MIUR). Gli esempi che cito vengono dale mie ricerche sul campo (Sakasú / Kpetebonu; Côte
d’Ivoire; lingua Bawlé); ad essi associo qualche caso tratto dalla personale consapevolezza della vita in un paesino agricolo dell’Istria, Buie, dove sono nato. Ringrazio di cuore la Collega Patrizia Del Puente per aver accettato di inserire
questo mio lavoro nel contesto delle importanti ricerche da lei dirette per l’Atlante Linguistico della Basilicata: è ben
vero che la categorizzazione e la dialettologia vanno a braccetto, ma lo stesso non si può dire per la generosa terra lucana e l’Africa.
1
Nel senso di inciampi, trappole.
2
L’idea della perfettibilità / degrado della tecnica lingua può, a torto, suscitare imbarazzo: si tenga in effetti conto che
tutte le lingue / le diverse fasi di una lingua sono equipollenti, ossia soddisfano appieno i bisogni dei parlanti, sono i bisogni che mutano e possono accrescersi o impoverirsi in ambiti diversi dell’universo culturale. Dottismi, prestiti, neoformazioni sono le cicatrici più evidenti di questi mutamenti.
tre parole terribili) abbiano spesso una referenza ‘culturale’, il punto delicato – e discutibile – è se la lingua
contribuisca in maniera determinante a costruire e/o fino a che punto a rendere espliciti e comunicabili
mondi / micro-mondi culturali, il che è dire ben di più che la lingua è profondamente inserita nella vita sociale e culturale. A mio parere c’è il rischio della retorica e della confusione nelle parole che usiamo, la lingua non costruisce cultura così come non costruisce società, semplicemente rende verbalizzabili alcuni loro
aspetti e lo fa servendosi, appunto da tecnica, degli strumenti che ha: se non sono sufficienti per i suoi scopi specifici, nell’interazione sociale ne creerà di nuovi, ne riadatterà di vecchi, eliminerà gradualmente
quanto non è più adeguato – e mi si passi l’indebita personalizzazione della ‘lingua’ come agente. Si dirà che
è impensabile tener separate lingua e cultura, poiché l’una non esiste se non in relazione con l’altra (in definitiva la lingua è un attributo culturale), e si invocherà il fatto – indubitabile – che la competenza comunicativa è prioritariamente competenza culturale: questo tuttavia non implica la corrispondenza 1 : 1 tra le
due, perché qualunque tecnica è economica e dunque si ripropone il massimo risultato col minimo dispendio. Da una terminologia – e mi limito all’aspetto lessicale della lingua come tecnica – non si desume un
mondo perché la lingua non è una nomenclatura, lingua e cultura hanno tassi evolutivi e tempi di innovazione diversi e non sarebbe pensabile di capire, poniamo, la struttura della parentela studiandone semplicemente le designazioni.3
2.2 C’è un ulteriore fatto da tener presente, ossia che la verbalizzazione, che comunque è molto più ampia
e flessibile della semplice lessicalizzazione (si può parlare di un ‘referente’ anche se non ci sono parole per
definirlo), non copre affatto tutti i saperi,4 non copre infatti gli schemi di molte azioni anche banali (come
legarsi la stringa delle scarpe), non copre parti importanti dell’habitus5, ossia stile di vita, aspettative, valori,
preferenze di un gruppo sociale: si sa, si condivide, non c’è bisogno né di spiegare né di parlare ed il sapere
viene acquisito vivendo o, nel caso delle azioni, per ostensione e partecipe imitazione. Dovrebbe dunque
essere chiaro che un approccio linguistico all’antropologia della conoscenza pone molti più problemi di
quanti non ne risolva.6
3.1 Antropologia della conoscenza
Come sappiamo? e Come impariamo? sono domande che ci poniamo da sempre e che negli ultimi decenni
sono state poste in un nuovo modo: se tradizionalmente si partiva dall’antitesi natura : cultura, insistendo
su quest’ultima, oggi si ammette che «knowledge-making is a dynamic process arising directly from the indissoluble relations that exist between minds, bodies, and environment».7 In questo mutamento hanno avuto un ruolo determinante una serie di riflessioni teoriche (e di acquisizioni sperimentali) dovute a quello che
comunemente viene definito l’embodiment cognitivo:8 la cognizione avviene nel mondo reale e l’ambiente
è parte del sistema cognitivo; la cognizione, anche nelle sue dimensioni percettiva e senso-motoria, è strettamente connessa all’azione. L’ambiente in tutte le sue componenti fornisce all’Uomo non solo un flusso ininterrotto di stimoli, ma anche affordance, ossia possibilità di azioni secondo l’intenzione dell’agente;9 è
3
C’è un aspetto del rapporto lingua : pensiero che sicuramente dipende dalla tecnica-lingua, ossia l’articolazione del
pensiero stesso e mi riferisco non all’ovvia verbalizzazione bensì alla sua linearità di fondo; la lingua, si rammenterà, è
appunto caratterizzata dalla linearità.
4
Rinvio a «Non detto, indicibile, impensabile: appunti di linguistica culturale», in F. DALZIEL, S. GESUATO, M.T. MUSACCHIO,
edd., A Lifetime of English Studies. Essays in honour of Carol Taylor Torsello, Il Poligrafo, Padova 2012, pp. 675-695.
5
P. BOURDIEU, Esquisse d'une théorie de la pratique, Droz, Genève 1972.
6
Si veda ad es. la rassegna di M. R. CRICK, «Anthropology of Knowledge», in “Annual Review of Anthropology” 11, 1982,
pp. 287-313. La rivista “Ethnos” ha dedicato al tema un numero speciale, 70, 2 (2005).
7
T. H. J. MARCHAND, «Making knowledge: explorations of the indissoluble relation between minds, bodies, and environment», in “Journal of the Royal Anthropological Institute” n.s. 16, 2010, Suppl., p. 2. L’intero volume ospita contributi
sul medesimo tema.
8
Rinvio in generale a F. E. MASCIA-LEES, ed., A Companion to the Anthropology of the Body and Embodiment, WileyBòackwell, London 2011; T. ZIEMKE, J. ZLATEV, R. M. FRANK, edd., Body, language, and mind. Volume 1, Embodiment,
Mouton de Gruyter, Berlin 2007; A. CLARK, Being There. Putting Brain, Body, and World Together Again, Bradford
Books, MIT Press 1998.
9
Si vedranno J. J. GIBSON, The Ecological Approach to Visual Perception, Lawrence Erlbaum Associates, Hillsdale 19863;
H. HEFT, Ecological Psychology in Context, ibid. 2001.
stato sostenuto con buoni argomenti che l’ambiente può esser considerato l’interfaccia semiotica tra organismi, Uomo incluso, e risorse, esso fornisce segnali che vengono trasformati in segni. Queste prospettive,
qui riassunte all’estremo, rendono poco accettabile la dicotomia natura : cultura e ne minano alla base la
distinzione ontologica, perché non esiste, se non come astrazione filosofica o da laboratorio, un Uomo che
agisca e pensi distinto dall’ambiente.10 L’acquisizione della conoscenza avviene in contesti specifici per esperienza diretta o per condivisione – in altre parole, parlandone – con il gruppo sociale e, com’è ovvio che
sia, è un sapere che evolve, che può restare vago,11 definirsi o esser lasciato decadere. Vedremo oltre il tema della vaghezza come fatto cognitivo, per ora basta notare che in molte società tradizionali il sapere si
costituisce non in base a istruzioni formali, bensì come sommatoria di eventi, esperienze proprie ed altrui,
conversazioni, è un sapere informale costituitosi in maniera altrettanto informale. Una corrente interpretativa, il costruttivismo, che alla fin fine rinviene al fortunato costruttivismo sociale di Berger e Luckmann12, e
soprattutto alcuni ambienti antropologici13 hanno molto insistito sulla cultura e sulla trasmissione di essa
come strutture simboliche ben formate attraverso le quali, una volta acquisite, il reale sarebbe conosciuto;
in altre parole, ci sarebbe una ‘realtà’ parallela, costruita dalla mente con la quale verrebbe raffrontato il
reale che così può essere (ri)conosciuto. Forse in questa sintesi estremizzo le ascendenze platoniche
dell’ipotesi e non rendo sufficiente giustizia del fatto indubitabile che per conoscere al di là dell’evento è
necessario astrarre e generalizzare, tuttavia non è scorretto indicare i limiti di un approccio intellettualistico
che rischia di guardare al mondo come ad una realtà di seconda istanza, almeno per quel che riguarda la
conoscenza. A maggior ragione i limiti diventano evidenti nel momento in cui si guarda alla lingua come allo
strumento privilegiato per accedere al sapere e alla conoscenza:14 sarebbe come credere che la mia rubrica
telefonica rifletta struttura e natura dei rapporti sociali che intrattengo.15 La prospettiva ‘intellettualistica’
tende a mio parere a enfatizzare un fatto indubitabile, ossia che ontogeneticamente l’Uomo si forma in una
nicchia fisica e sociale preesistente all’individuo, una nicchia costituita da segni e prodotti culturali che vanno gradualmente assunti, sperimentati e usati; l’apprendimento del mondo fisico e sociale è sempre una
progressiva conquista, una scoperta che affianca e integra l’apprendimento socioculturale e l’imitazione.
Insomma, non è ragionevole guardare alla nicchia e ai processi cognitivi sottovoalutando l’attore che agisce
all’interno del mondo.16
3.2 Trasmissione del sapere
Il tema è molto complesso17 e ha almeno due aspetti, interrelati ma diversi, ossia cosa viene trasmesso (con
tutto ciò che questo implica) e le modalità della trasmissione; a questi si correlano ulteriori temi,
10
Rinvio per tutti a PH. DESCOLA, L’écologie des autres. L’anthropologie et la question de la nature, Ed. Quae, Paris
2011; Par-delà nature et culture, Gallimard, Paris 2005.
11
Un esempio tra i tanti viene offerto da R. WILLERSLEV, «Spirits as ‘ready to hand’: A phenomenological analysis of Yukaghir spiritual knowledge and dreaming», in “Anthropological Theory” 4, 2004, pp. 395-428.
12
P. L. BERGER, TH. LUCKMANN, The Social Construction of Reality. A Treatise in the Sociology of Knowledge, Penguin Books, London 1966.
13
Opportune critiche ad es. in P. BOYER, «Cognitive constraints on cultural representations: Natural ontologies and religious ideas», in L. A. HIRSCHFELD, S. A. GELMA, edd., Mapping the mind: Domain specificity in cognition and culture, Cambridge Univ. Press 1994, pp. 391–411.
14
Si vedano le giudiziose riserve in T. INGOLD, ed., Key Debates in Anthropology, Routledge, London – New York 1996,
p. 122 ss.
15
È mia opinione che il privilegio attribuito alla lingua abbia origini che vanno oltre l’ovvietà che è appunto la lingua lo
strumento fondamentale di comunicazione e di interazione sociale: in definitiva la linguistica è stata la prima disciplina
umanistica a darsi uno statuto scientifico, sottraendosi all’incommensurabilità dell’estetica e della filosofia. A partire
dalla filologia storico comparativa, la linguistica ha fornito modelli autorevoli alle scienze umane, dallo strutturalismo
praghese a quello jakobsoniano
16
Rinvio con empatia a J. LAVE, E. WENGER, Situated Learning. Legitimate Peripheral Participation, Cambridge Univ.
Press 1991.
17
Sintesi e bibliografia in U. SCHÖNPFLUG, ed., Cultural transmission: psychological, developmental, social, and methodological aspects, Cambridge Univ. Press, 2009. Confesso di essere insensibile nei confronti della metafora evoluzione
genetica : evoluzione culturale, perché i geni sono qualcosa di definito e non hanno un corrispettivo identificabile nella
cultura; in effetti, ed in ottima compagnia, considero la memetica una pseudo-scienza.
l’antropologia dell’educazione18 e la valutazione culturale dell’intelligenza / del sapere, e infine il contributo
delle neuroscienze alla memoria e all’apprendimento umano.19 Come si vede, si naviga in un mare procelloso e si rischia il naufragio.
La premessa ovvia – e talora sorprendentemente sottovalutata – è che aspettative e modalità
d’apprendimento sono culturalmente determinate e che dunque nelle società tradizionali esse sono molto
diverse da quelle delle società che conoscono la scuola, ossia l’istituzione, di qualunque tipo essa sia, che
gestisce la trasmissione formale di saperi formalizzati; in breve, noi ricercatori proveniamo dalla scuola e rischiamo di immettere nei nostri metodi aspettative e abitudini tipiche della scuola stessa. A titolo di esempio ricordo lo stile cognitivo delle genti australiane di Miligimbi studiato da S. A. Harris: esso è caratterizzato da «five major learning strategies (…): learning through real-life performance rather than practice in contrived settings; the mastering of context-specific skills rather than abstract, generalisable principles; learning through observation and imitation rather than through oral or written verbal instruction; learning
through personal trial-and-error as opposed to verbally mediated demonstrations; and an evident orientation to wards people rather than tasks,information or systems».20 Questi tratti, in effetti molto diffusi, fanno capire chiaramente che una visione dell’acquisizione della conoscenza mirata prevalentemente sui processi psicologici e cognitivi è parziale se trascura il fondante rapporto nell’apprendimento tra l’individuo e il
contesto sociale, culturale e ambientale; anche le motivazioni si iscrivono nel medesimo rapporto, perché
volte a soddisfare necessità, azioni e bisogni. Nelle culture tradizionali sapere e saper fare hanno di norma
una diretta ricaduta applicativa e una funzione sociale direttamente riconoscibile, il fabbro impara ad esser
fabbro e a preparare lame e zappe, la ‘scuola’ invece è pre-condizione, per così dire, della ricaduta applicativa. La ‘scuola’ stessa ha alcune caratteristiche ricorrenti, ossia insegna a produrre testi all’interno di una
più o meno ampia pluralità disciplinare e ciò ha conseguenze considerevoli: produrre testi, per copiatura,
tramite modelli o composizione che sia, favorisce l’articolazione del pensiero; il carattere di pre-condizione
e la pluridisciplinarità portano gradualmente alla decontestualizzazione di molte operazioni mentali: ciò è
chiaro nella didattica, i cui esempi e problemi posti non sono contestuali, spesso non sono reali bensì imitano la realtà affinché gli studenti applichino in effetti regole decontestualizzate.21 Vedremo oltre perché
questi fatti sono importanti.
Nelle società tradizionali infine non si parla di qualunque argomento con qualunque persona22, alcuni temi
sono esclusi nei rapporti di genere23 o con i ragazzi,24 e di temi come feticci e magia / stregoneria non si parla mai volentieri, almeno in Africa occidentale, meno che mai con estranei. È dunque sempre pericoloso ed
irrealistico immaginare un parlante ideale ed un sapere uniformemente chiaro e condiviso. Più in generale,
ha perfettamente ragione J. Lave quando sostiene che «(...) There is a reason to suspect that what we call
cognition is in fact a complex social phenomenon. The point is not so much that arrangements of knowledge
in the head correspond in a complicated way to the social world outside the head, but that they are socially
organized in such a fashion as to be indivisible. ‘Cognition’ observed in everyday practice is distributed –
18
Sintesi e bibliografia in B. A. U. LEVINSON, M. POLLOCK, edd., A companion to the anthropology of education, WileyBlackwell, Chichester 2011; D. F. LANCY, J. BOCK, S. GASKINS, edd., The anthropology of learning in childhood, AltaMira
Press, Lanham 2010; P. ERNY, Ethnologie de l'education, P.U.F., Paris 1981.
19
A. S. BENJAMIN, J. S. DE BELLE, B. ETNYRE, T. A. POLK, edd., Human Learning. Biology, Brain, and Neuroscience, Elsevier,
Amsterdam 2008; J. H. BYRNE, ed., Learning and Memory: a Comprehensive Reference, ibid. 2008.
20
Cito da L. Z. KLICH, «Aboriginal cognition and psychological nescience», in J. W. BERRY, S. H. IRVINE, edd., Human abilities in cultural context, Cambridge Univ. Press 1988, p. 438.
21
A molti di noi verranno in mente i ridicoli problemi della scuola elementare, con vasche da bagno da riempire, rubinetti che gettano una certa quantità di acqua al minuto e lo scarico aperto che ne perde costantemente una parte;
questa tipologia di problemi è nota già nella matematica egiziana antica, v. M. Clagett, Ancient Egyptian Science. A
Source Book, 3: Ancient Egyptian Mathematics, Memoirs of the American Philosophical Society 232, Philadelphia
1999, p. 75.
22
Sull’etnografia della comunicazione rinvio a M. SAVILLE-TROIKE, The ethnography of communication: an introduction,
Blackwell, Oxford 20033.
23
Ad esempio «I percorsi della parola presso i Bawlé: un caso di etnografia della comunicazione», in “Incontri Linguistici” 10, 1985, pp. 115-121.
24
Il che dipende dalla logica dell’educazione tradizionale. Per l’Africa vanno ricordati gli ottimi lavori di P. ERNY, come
L'enfant et son milieu en Afrique noire: essais sur l'éducation traditionnelle, Harmattan, Paris 1988.
stretched over, not divided among – mind, body, activity and culturally organized settings which include other actors».25
3.3 Modalità narrativa e modalità decontestualizzata
Saremmo portati a pensare che la conoscenza abbia di necessità a che fare con condizioni di verità, so che il
mondo è fatto così, oppure non lo so. In realtà il sapere è quasi sempre graduale, si sa più o meno precisamente e la vaghezza, anche quando non dipende dal modo in cui si è acquistato il sapere (v. sopra), è un
tratto largamente concomitante.26 La vaghezza e la gradualità possono ridursi o scomparire in asserzioni dichiarative che implicano condizioni binarie di verità, “[so che] Montevideo è una città”, ma il mio sapere su
Montevideo si riduce al fatto, appunto che è una città, il resto sono aspettative categoriali (avrà strade,
piazze, marciapiedi): è un sapere, quest’ultimo, che non va sottovalutato, ma neppure sovrastimato. Il sapere del quale ci serviamo non ha una forma definitoria, bensì una narrativa, è la narrazione la modalità più
naturale e comune per trasmettere significati e condividere esperienze e la narrativa – così come la conoscenza – non è mai priva di uno specifico punto di vista.27 È proprio della narrazione essere contestuata, avere un contesto reale o verosimile, esattamente il contrario della modalità definitoria che prescinde da
qualunque contesto. La narrazione può assumere l’aspetto di una microstoria, così se non voglio o non so
definire – poniamo – cosa sia il ‘rancore’ potrò dire “è quando uno ti fa del male senza nessun motivo e tu
allora sei arrabbiato con lui” e una microstoria è la struttura di molti proverbi, in particolare del wellerismo,28 e di tanti modi di dire. Le spiegazioni che ci vengono fornite sul campo dagli informatori, anche
quando riguardano fatti specifici, hanno sempre forma narrativa; l’informatore evita la decontestualizzazione e le definizioni, pur accettandole quando vengono proposte dall’indagatore. Questi fatti hanno grande importanza e nulla hanno a che fare con l’antico e screditato topos della pretesa incapacità delle culture
‘primitive’ di attingere l’astratto, e sono noti da tempo grazie alle ricerche di L. S. Vygotsky e di A. R. Luria.29
Tale cognizione situata, legata a un contesto concreto e di forma narrativa, comporta la preferenza per operazioni processuali pratiche, situazionali, di esperienza pratica legata all’azione rispetto a operazioni categoriche generali, una limitata disponibilità a trarre inferenze da formulazioni verbali o di logica classificatoria che evadano la normalità comunicativa del gruppo sociale: si badi, non è che il parlante / informatore
non sia capace di attingere modalità complesse di pensiero, semplicemente queste ultime non gli interessano, non ne vede l’utilità, le considera un rompicapo forse interessante e spesso ridicolo.30 Un amico di
Kpetebonu (Côte d’Ivoire; lingua bawlé), l’unico scolarizzato dei miei informatori abituali, mi diede un giorno un prezioso insegnamento: avevo sottoposto ai presenti una serie di semplici esperimenti di categorizzazione modellati su quelli di Luria, ottenendo gli stessi risultati e riscontrando la stessa ‘sordità’ al sillogismo della logica classica (su questo fatto tornerò oltre). Avevo istruito i presenti a proporre l’eliminazione
di un elemento che non andasse d’accordo con gli altri per qualche ragione e il caso prevedeva le immagini
di un albero, di un cespuglio, di una macchia d’erbe e di un uccello. Tutti concordarono immediatamente
sul fatto che stavano bene tutti assieme e che nulla andava eliminato; il mio amico rimase silenzioso e dopo
un po’ disse «Se vuoi che pensi come un Bianco, allora va eliminato l’uccello, perché non è una pianta, ma se
25
J. LAVE, Cognition in practice: mind, mathematicsand culture in everyday life, Cambridge Univ. Press 1988, p. 1.
L. C. BURNS, Vagueness: an investigation into natura1 languages and the sorites paradox, Kluwer Academic Publ.,
1991; di impostazione più linguistica è G. W. SASSOON, Vagueness, gradability and typicality: the interpretation of adjectives and nouns, Brill, Leiden2013.
27
J. BRUNER, Actual Minds, Possible Worlds, Harvard Univ. Press 1987; The Narrative Construction of Reality, Chicago
Univ. Press 1991.
28
Una sintesi è offerta da P. GRZYBECH in W. A. KOCH, ed., An Encyclopaedia of Simple Text-Types in Lore and Literature,
Brockmeyer Vlg., Bochum 1994 s.v. wellerism; l’autore insiste prevalentemente sui tipi europei e questo riduce l’utilità
della sua presentazione.
29
Cognitive Development. Its Cultural and Social Foundations, Harvard Univ. Press 1976; sul pensiero di Vygotsky si
vedranno H. DANIELS, Vygotsky and research, Routledge, Oxford 2008; P. E.LANGFORD, Vygotsky’s developmental and
educational psychology, Psychology Press, New York 2005; C. RATNER, Vygotsky's sociohistorical psychology and its contemporary applications, Springer, New York 1991; J. V. WERTSCH, Vygotsky and the social formation of mind, Harvard
Univ. Press 1985.
30
Si vedano le conclusioni di Luria, cit. n. prec., p. 161 ss.
26
vuoi che io pensi come è nostra abitudine, allora certo che stanno tutti bene assieme. Dove mai vorresti trovare un uccello se non su un albero o in un cespuglio o in una macchia d’erba?».
Non si tratta dunque di immaginare o di proporre diverse ‘mentalità’31, bensì di prendere atto che ci sono
diversità di aspettative e di preferenze (non di capacità) semplicemente perché ci sono diversi modi di essere nel mondo, di farne parte.
3.4 ‘Mentalità’ «primitiva» e l’«intelligenza»
Gli accorgimenti tipografici mostrano quanto io sia in disaccordo con me stesso nell’usare questi termini,
ma i problemi non si dissolvono tabuizzandone le etichette. L’ultimo studioso ad essersi occupato di mentalità primitiva è stato Ch. R. Hallpike,32 che appunto per questo è stato spesso accusato ridicolmente di essere un restauratore di L. Levy-Brühl e peggio ancora. La tesi di fondo dello studioso è che le tesi sullo sviluppo cognitivo proposte da J. Piaget contribuiscano in maniera determinante a chiarire modalità del pensiero
proprie di molte società tradizionali. Il primo problema è di ordine molto generale, ossia l’etichetta mentalità primitiva / pensiero primitivo sussume molto e non precisa niente: si intende facilmente che primitivo va
riferito a tutti coloro che “non sono noi”, e si lascia imprecisato cosa sia il “noi”, anche se per tacito consenso si intende un appartenente alla cultura euro-atlantica di buona scolarizzazione, un “noi” che dunque esclude margini molto consistenti delle nostre stesse culture. In secondo luogo la teoria di Piaget richiede
revisioni non sempre marginali33 e soprattutto un’applicazione che tenga conto dell’esistenza di stili cognitivi culturalmente specifici, come ci ha insegnato la psicologia interculturale.34 Hallpike ha raccolto moltissimo materiale di grande interesse, tuttavia l’aver mirato ai processi gli ha fatto trascurare il fatto che «Cultural differences in cognition reside more in cognitive styles than in the existence of a process in one cultural
group and its absence in another».35 Lo stile cognitivo implica semplicemente la scelta di alcuni processi rispetto ad altri pure disponibili. Quanto sopra si è detto circa la modalità narrativa e la contestualizzazione
rientra appunto in un tipo di stile cognitivo ampiamente diffuso. Come è noto, esiste un’ampia serie di studi
sul contributo che l’alfabetizzazione possa dare allo sviluppo culturale, da J. Goody a B. Street ed altri studiosi, tuttavia altro è lo sviluppo culturale altro quello cognitivo: in un celebre saggio S. Scribner e M. Cole36
hanno mostrato, sulla base di ricerche in Liberia, che non è la scrittura in sé a produrre sviluppo cognitivo,
bensì la scolarizzazione. Su questo fatto c’è una notevole concordanza, la scuola è l’ambiente più favorevole per lo sviluppo del pensiero formale, essa non crea forse nuovi processi cognitivi «but provides the
training to generalize (transfer) existing processes to a wide range of situations. In other words, it produces
a theoretic cognitive style».37 Lo stile cognitivo teoretico si oppone a quello empirico, tipico (ma non esclusivo) di molte culture tradizionali e basato sull’analogia e l’esperienza vissuta; è interessante notare che la
sopra citata sordità al sillogismo scompare quando le premesse dello stesso si riferiscono a fatti propri
dell’esperienza culturale dell’informatore.
31
Parola orrenda che disgraziatamente ha avuto una certa fortuna; v. G. E. R. LLOYD, Demistifying Mentalities, Cambridge Univ. Press 1990.
32
On Primitive Society, and other forbidden topics, AuthorHouse, Bloomington 2011; The Foundations of Primitive
Thought, Clarendon Press, Oxford 1980.
33
TH. KESSELRING, «The Mind’s Staircase Revised», in U. MÜLLER, J. I. M. CARPENDALE, L. SMITH, edd., The Cambridge companion to Piaget, Cambridge Univ. Press 2009, pp. 372-399.
34
Rimando ad opere generali come K. D. KEITH, ed., Cross-cultural psychology: contemporary themes and perspectives,
Wiley-Blackwell, Chichester 2011; F. J. R. VAN DE VIJVER, A. CHASIOTIS, S. M. BREUGELMANS, edd., Fundamental questions in
cross-cultural psychology, Cambridge Univ- Press 2011; J. W. BERRY et al., edd., Handbook of Cross-Cultural Psychology,
3 voll., Allyn & Bacon, Boston 1980. Sul tema particolare v. P. R. DASEN, R. C. MISHRA, «Cultural differences in cognitive
styles», in B. R. KAR, ed., Cognition and brain development: converging evidence from various methodologies, American
Psychological Association, Washington 2014, pp. 231-249; P. R. DASEN, «Emics and etics in cross-cultural psychology:
towards a convergence in the study of cognitive styles», in T. M. S. TCHOMBE et al., edd., Cross-cultural psychology: An
Africentric perspective, Design House, Limbe 2012, pp. 55-73.
35
P. R. DASEN, R. C. MISHRA, Development of geocentric spatial language and cognition, Cambridge Univ Press. 2010, p.
13.
36
The Psychology of Literacy, Harvard Univ. Press 1981.
37
P. R. DASEN, «Culture, cognition and learning», in A. BAME NSAMENANG, TH. M.S. TCHOMBE, edd., Handbook af African
Educational Theories and Practices, HDRC, Bamenda 2011, p.171.
Formale : decontestuato e analogico /esperienziale : narrativo sono processi sostanzialmente coincidenti
che si incontrano in qualsiasi società storica e dunque non connotano una cultura particolare, nel ‘noi’ sono
presenti lettori di tarocchi e astrologi, nel ‘loro’ pensatori come Ogotemmeli e i marinai polinesiani.38
Alla persistente fortuna della categoria della ‘mentalità primitiva’ ha contribuito probabilmente un errore di
prospettiva. Lo stile cognitivo si realizza in una nicchia costituita dall’interazione di molteplici fattori,39 valori religiosi e cosmologici, rapporti sociali, interazione nell’ambiente, conoscenze dirette ed esperite e conoscenze non verificabili, per cui anche se i processi cognitivi sono gli stessi e sono disponibili all’individuo,
mutano considerevolmente le preferenze, le priorità e le aspettative; scelte perfettamente razionali possono esser fatte sulla base di convincimenti che noi sappiamo essere errati e sarebbe gravemente fuorviante
considerare l’errore frutto prioritario dell’irrazionalità o di un pensiero pre-operatorio. Insomma, non esistono, allo stato attuale delle nostre conoscenze, processi mentali ‘primitivi’.
Anche la valutazione sociale di cosa sia l’intelligenza dipende dalla stessa nicchia ecologica complessiva alla
quale appartengono gli stili cognitivi ed anche in questo caso gli orientamenti possono esser incommensurabili. Su questo tema esistono buoni studi specifici40 e se si esclude l’impatto della scuola è facile notare
che l’intelligenza viene considerata in termini adattivi, di capacità di agire socialmente in maniera corretta
piuttosto che come creatività del singolo.
4.1 Le categorie in generale
Cognizione equivale a categorizzazione: non potremmo conoscere, riconoscere e memorizzare se non ci
servissimo di tale fondamentale strumento,41 perché saremmo sommersi da un’ingestibile mole di informazioni scollegate; l’astrazione e la differenziazione del percetto42 sono la base della categorizzazione e sono
procedimenti innati come la categorizzazione stessa. L’acquisizione e la fondazione (grounding) di molte categorie è sensomotoria e dunque sono ‘embodied’ (v. sopra) e frutto di esperienza fatta su qualità fisiche
(affordance; v: GIBSON, cit. n. 7) presenti nell’ambiente.43 Oltre all’esperienza, le categorie possono esser
acquisite via (in)formazione tramite la lingua e costruite tramite la cultura e proprio perché le categorie sono di norma sottodeterminate, ossia connotate da un numero di tratti comunque insufficiente per riconoscerle con certezza, la loro costruzione può essere spesso imprevedibile.
È buon senso ammettere che le categorie della conoscenza hanno una funzione primaria, quella di consentire all’uomo di (soprav)vivere, di sapere cosa si deve evitare, cosa si può mangiare, ciò che si può utilizzare,
con chi ci si può unire per generare e tutto questo non in astratto, bensì nella nicchia ambientale e sociale
38
M. GRIAULE, Dieu d'eau: entretiens avec Ogotemmêli, Éditions du Chêne, Paris 1948; K. R. HOWE, Vaka moana: voyages of the ancestors. The discovery and settlement of the Pacific, Univ. of Hawai'i Press 2007.
39
Cfr. DASEN, MISHRA cit. n. 32.
40
Ad es. P. R. DASEN, «The cross-cultural study of intelligence: Piaget and the Baoulé», in “International Journal of
Psychology” 19, 1984, pp. 407-434. Sul tema ho scritto, indipendentemente, in R. Ambrosini et al., edd., Scríbthair a
ainm n-ogaim. Scritti in memoria di Enrico Campanile, Pacini, Pisa 1997, p. 280 ss.; E. L. GRIGORENKO, et al., «The organisation of Luo conceptions of intelligence: A study of implicit theories in a Kenyan village», in "International Journal of
Behavioral Development" 25, 2001, pp. 367-378.
41
Tinvio all’opera di insieme curata da H. COHEN e CL. LEFEBVRE, Handbook of Categorization in Cognitive Sciences, Elsevier, Amsterdam 2005.
42
Si vedano A. M. BORGHI, F. BINKOFSKI, Words as Social Tools: An Embodied View on Abstract Concepts, Springer, New
York Heidelberg 2014;S. HARNAD in L. NADEL. ed., Encyclopedia of Cognitive Science, Macmillan, London 2002, s.v. Categorical Peception.
43
Ci sono categorie per le quali abbiamo una predisposizione innata, è il caso della categoria del colore: rinvio a D. ROBERSON, «Color categories are culturally diverse in cognition as well as in language», in “Cross-Cultural Research" 39,
2005, pp. 56-71; C. P. BIGGAM et al., edd., New directions in colour studies, Benjamins, Amsterdam 2011: R. E. MACLAURY, G. V. PARAMEI, D. DEDRICK, edd., Anthropology of color: interdisciplinary multilevel modeling, ibid. 2007; N. J. PITCHFORD, C. P. BIGGAM, edd., Progress in Colour Studies, I. Language and culture; II: Psychological aspects, ibid. 2006; C.
L. HARDIN, L. MAFFI, edd., Color categories in thought and language, Cambridge Univ. Press 1007. È cosa nota, ma vale la
pena ridirla: la categoria del colore, celebre per gli studi di B. Berlin e P. Kay (Basic color terms: their universality and
evolution. Univ. of California Press 1969), presenta alcune regolarità comparative che dipendono dalla sensibilità
dell’occhio umano a certe lunghezze d’onda e dalla maggiore o minore facilità di differenziare il percetto fisico nelle
sezioni dello spettro, v. V. LORETO, A. MUKHERJEE, F, TRIA, «On the origin of the hierarchy of color names», in “Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America” 109, 2012, n. 18.
nella quale l’individuo ed il gruppo vivono. Tale Sitz im Leben rende poco comprensibile la siacussione se
l’uomo classifichi solo quanto gli serve o se invece classifichi tutto quanto l’ambiente gli offre, si confondono piani diversi di questioni: utilità vs pericolosità è la ragione di fondo, che però non esclude la salienza di
ulteriori realtà dell’ambiente, dunque si classifica soprattutto (ma non esclusivamente) ciò che serve. Per
convincersene basta pensare alla quantità di nomi popolari di fiori esistono nei dialetti italiani e la pressoché totale assenza in molte lingue africane, per noi il fiore è da tempi antichi offerta e decorazione, in Africa
il fiore è semplicemente un’erbaccia.44
Si può dire che la categorizzazione è in generale funzionale all’azione che si vuole intraprendere,45 tuttavia
le categorie possono assumere forme molto diverse, tassonomie (x è un tipo di y), categorie di ruolo (soldato : sergente : capitano) e relazionali (ad es. ‘ponte’ presuppone lo scavalcamento di una ‘strada’, di un
‘fiume’ ecc.). Queste differenze, pur importanti in se stesse, vanno valutate in rapporto al genere classificato, perché – ed è cosa nota – altro è classificare animali altro oggetti: l’oggetto ha una funzione precisa e
implica di necessità un’azione, non di rado un’azione culturalmente connotata,46 l’animale o la pianta invece sembrano configurarsi, almeno in quanto categoria di base (ad es. il ‘cane’) come un genere naturale.
Qui si tocca un punto delicato e molto discusso, perché molta filosofia del linguaggio, da Kripke a Putnam, e
molto cognitivismo hanno visto i generi naturali come istanze di essenzialismo: il genere, sia esso inanimato
(‘acqua’, ‘oro’) o animato (‘cane’, ‘quercia’), pur con delle differenze tra i due tipi, sarebbe tale perché avrebbe un’«essenza» che lo caratterizza.47 Nonostante le finezze esegetiche e filosofiche, la proposta mi pare difficilmente accettabile per due ragioni. Si sostiene che sperimentalmente emergerebbe che gli informatori ragionano in termini di ‘essenza’ pur non essendo consapevoli dell’esistenza di tale qualità, ma tale
attribuzione è culturalmente molto impegnativa, va ben oltre risultanze di laboratorio sperimentale ed inoltre è condizionante definirla con un nome che ha, nella nostra cultura, una storia filosofica che parte da Aristotele. In alcune culture tale ipotesi sarebbe difficilmente percorribile: per i Bawlé, quanto meno nella distinzione tra genere naturale animato ed inanimato: per i Bawlé (Côte d’Ivoire) le piante non sono animate,
non hanno ‘vita’ ( gwa) e si designa in maniera diversa l’ombra proiettata da un animale / uomo da quella
di un albero / rilievo e sim.
4.2 Il significato
Alla fin fine, tutte le categorie presuppongono una relazione più o meno diretta, passero : uccello, ponte :
strada, e così via. Possiamo dire che questo va nella direzione di un’opinione ormai consolidata, il significato non corrisponde alla definizione di X, bensì all’insieme dei saperi su X, incluso il sapere linguistico morfosintattico sulla parola che designa X. Opporre enciclopedia a vocabolario è certamente operazione di buon
senso e, qualunque cosa esso sia, il significato non può esser pensato come qualcosa di circoscritto, definito
da confini precisi quasi fosse un oggetto. Naturalmente parlare del significato è come parlare dell’esistenza
di Dio ed ognuno ha la propria opinione, che ben inteso ritiene ragionevole. Cosa hanno in comune segni
linguistici come ˹CANE˺ / ‘kane e ‘perché’ o ‘però’? Regole d’uso, regole non definitorie bensì gradualmente
acquisite nell’interazione linguistica; se dunque il segno /per’o/ consente e dà aspettative morfosintattiche
in quanto consente l’accesso a regole presenti nella memoria linguistica, lo stesso avviene per ‘kane, nel
quale caso però alle regole di sapere linguistico (quella e non altra è la corretta articolazione, è un sostantivo, è di genere maschile, ecc.) si affianca il recupero dei saperi enciclopedici su ˹CANE˺. Possiamo lasciare ad
altri la discussione su concetti / rappresentazioni,48 soprattutto perché non si vede chiaramente in cosa il
concetto sarebbe preferibile, se non da un punto di vista filosofico, al prototipo / esemplare della ricerca
44
J. GOODY, The Culture of Flowers, Cambridge Univ. Press 1993.
Il celebre caso della ricca terminologia ***
46
Ho trattato alcuni casi in «Bawlé ways of thinking: generalizations and contextuality», in A. MINELLI, G. ORTALLI, G.
SANGA, edd., Animal Names, Istituto Veneto di Lettere, Scienze ed Arti, Venezia 2005, pp. 21-48 e in «Modi di pensare
pensare Bawlé: la costruzione narrativa delle categorie», in “Incontri Linguistici” 33, 2010, pp. 217-231. Cfr. anche W.
KEMPTON, The Folk Classification of Ceramics: A study of cognitive protorypes, Academic Press, London 1981.
47
Una sintesi ponderata è offerta da H. CLARK BARRETT, «On the Functional Origins of Essentialism», in “Mind & Society”
3, 2001, pp. 1-30; cfr. anche D. GEERAERTS, Theories of lexical semantics, Oxford Univ. Press 2009, p. 254 ss.
48
Per tutti v. G. L. MURPHY, The big book of concepts, The MIT Press, Cambridge MA 2002; R. BELOHLAVEK, G. J. KLIR, edd.,
Concepts and fuzzy logic, The MIT Press, Cambridge MA 2011.
45
cognitivistica:49 Ora non c’è dubbio che prototipo / esemplare, come le stesse categorie, sia sottodeterminato e che una parte dei tratti che lo caratterizzano siano in effetti propri di altre categorie, dunque il segno
linguistico attiva inevitabilmente una ricca gamma di connessioni. Ripeto, è poco sensato considerare il significato una sorta di preciso ‘oggetto’ pur se immateriale50 e ancor meno pensarlo circoscritto. Rimane
tuttavia un problema, e non certo minore: se, come pare assodato, il significato è fissato nella memoria
semantica da un sistema multimodale distribuito, e dunque senso-motorio, esperienziale, associativo ed
emotivo, non è ancora chiaro come il sistema consenta all’individuo di pensare il ‘concetto’ non come un
insieme disgiunto di tratti, bensì come un’unità.51 Da quanto oggi è dato di intravedere, la migliore strada
per avvicinarsi al significato è quella offerta dal symbol grounding delle reti neurali:52 è opportuno, quanto
meno a mio avviso, evitare di indagare il significato in termini prevalentemente linguistici, per quanto ciò
possa sembrare paradossale, perché il ‘significato’ ha ontogeneticamente preceduto il linguaggio, come ci
ha insegnato la zoosemiotica.
***
5. il micro-mondo
Questa rapida – forse troppo rapida – rassegna è parte della consapevolezza che si porta sul campo chi indaga lingue e culture non europee e tradizionali. Ma cosa si trova effetivamente in un assolato villaggio africano? Clifford Geertz scrisse che «Finding our feet, an unnerving business which never more than distantly succeeds, is what ethnographic research consists of as a personal experience» e credo che si potrebbe essere ancor più pessimisti. I cognitivisti hanno molto insistito negli ultimi anni sulla diversità degli stili
cognitivi53, sul diverso ruolo / accezione sociale dell’intelligenza, su specifiche competenze, tuttavia il fatto
fondamentale è che i miei interlocutori si sono formati e vivono in una nicchia ecologica e sociale che è loro
propria. Non dubito che molti processi cognitivi siano universali, identiche molte capacità, ma priorità, aspettative e preferenze sono spesso radicalmente diverse e dipendono da quel micro-mondo che si considera (e lo è) normale, che considera ovvie le proprie esperienze, di evidente buon senso i propri atteggiamenti. I cognitivisti ci hanno insegnato che la stessa percezione visiva è condizionata dall’ambiente al quale
si è abituati (v. n. 50) e ammettono che il diverso tipo di ambiente socio-culturale può influenzare il modo
in cui si guarda e si risolvono i problemi, in maniera olistica oppure in maniera analitica, con una forte o debole dipendenza dal contesto, per cui è buon senso riconoscere, anche senza invocare parole terribili come
‘cultura’, che la nicchia eco-sociale è il luogo dove si costituiscono i saperi con i caratteri specifici che essi
possono assumere. Certo, gli psicologi vorrebbero sulla base di statistiche e test di laboratorio poter dimostrare questo fatto in tutti i suoi particolari, gli antropologi e i linguisti possono far di meglio, possono semplicemente saperlo. Si potrebbe sostenere che questa mia è una riproposizione edulcorata di relativismo
prospettico venato di utilitarismo, personalmente credo che abbia ragione chi, come Tim Ingold,54 sostiene
che questo è semplicemente vivere, vivere il proprio mondo.
Come si collocano dunque in questo contesto le categorie della conoscenza? Proprio perché funzionali alla
sopravvivenza in uno specifico micro-mondo, non hanno tutte la stessa importanza e comunque non con49
E. MACHERY, Doing without Concepts, Oxford Univ. Press 2009. Non credo di dovermi estendere sul problema di prototipi, esemplari e teoria, tuttavia rinvio, almeno per le questioni più strettamente linguistiche, a J. R. TAYLOR, Linguistic
categorisation: prototypes inlinguistic theory, Oxford Univ. Press 19952. Probabilmente è superfluo, ma ricordo che il
prototipo è un modo cognitivo graduale di classificare, nel quale da un centro tipico e facilmente riconoscibile (ad es.
uccello > passero) si va gradualmente verso una periferia sempre meno caratterizzata (ad es. pinguino) e dai confini
confusi; l’esemplare, non molto dissimile dal prototipo, è un tipo memorizzato al quale vengono associati successivamente in maniera categoriale ulteriori casi giudicati simili.
50
Rinvio a C. SINHA, «Grounding, mapping and acts of meaning», in T. IANSSEN, G. REDEKER, edd., Cognitive Linguistics:
Foundations, Scope, and Methodology, Mouton de Gruyter, Berlin 1999, p. 223 ss.
51
K. MCRAE, M JONES, «Semantic Memnory», in D. REISBERG, The Oxford Handbook of Cognitive Psychology, Oxford Univ.
Press 2013.
52
V. I. BELPAEME et al., edd., Symbol Grounding, Benjamins Publ., Amsterdam 2009; M. DE VEGA et al., edd., Symbols and
Embodiment. Debates on meaning and cognition, Oxford Univ. Press 2009.
53
Y. MIYAMOTO, B. WILKEN, «Cultural Differences and Their Mechanisms », in D. REISBERG, cit. n. prec..
54
Being alive: essays on movement, knowledge and description, Routledge, London 2011.
servano la loro importanza (o se si preferisce, i tratti che le connotano) in qualunque contesto, proprio come avviente per i saperi in generale. Inoltre un elemento del reale spesso può esser classificato in modi diversi a seconda del contesto (un coltello può esser pensato come utensile o come arma) e attivare connessioni semantiche (e culturali) molto diverse.
Se questo è vero per i nostri interlocutori, è vero anche per noi, perché ci portiamo dietro condizionamenti
e metodi tipici della nostra cultura, soprattutto – direi – della nostra abitudine di persone scolarizzate appertenenti a società che favoriscono l’individualismo rispetto all’interdipendenza, il decontestuato al narrativo, il nostro intrinseco (e accademico) bisogno di ordine.55 Nell’interazione portiamo con noi la nostra abitudine all’uso linguistico, che, come vedremo presto, può essere fuorviante.
6. Gli animali
Gli animali sono partners della stessa nicchia dell’uomo e sono parte pressoché sempre dell’universo simbolico umano,56 possono essere utili o pericolosi, adatti alla dieta alimentare o inadatti, domestici o abitanti
dell’incultum, per cui non stupisce che essi siano inseriti in classificazioni di notevole ampiezza.57 Nelle lingue / culture esistono dunque tassonomie composte da vari ranghi, dal più generale (‘animale’; il capostipite), alle forme di vita (‘uccello’, ‘pesce’, ecc.), ai taxa generali (ad es. ‘cane’), agli specifici (ad es. ‘mastino’)
e ai varietali (ad es. ‘mastino napoletano’); universale è la distinzioni in ranghi gerarchizzati, tutto il resto è
linguisticamente e culturalmente variabile. In quasi tutte le lingue / culture ci sono categorie coperte, ossia
non definite linguisticamente, e più o meno numerosi taxa generali senza alcuna afferenza al rango superiore. È evidente che il sapere tassonomico riflette molto poveramente il sapere culturale sugli animali e
sull’ambiente, come gli antropologi hanno ampiamente accertato,58 ed è solo uno dei possibili ordinamenti
nei quali è inserito l’animale (animali domestici / selvatici, terrestri / acquatici, con sangue / senza sangue,
ecc.), altrettanto contestualmente importanti. Non è mancato chi ha invocato il sospetto di innatismo per la
classificazione degli animali come dominio del sapere,59 a mio parere un’ipotesi avanzata sull’onda di una
estensione fuori misura dell’innatismo;60 è ragionevole supporre che tale dominio, ammesso che esista au55
Il discorso sarebbe lungo e qui fuori luogo, mi limito ad affermare che il modello strutturalista è stato a lungo privilegiato, uno strutturalismo come costruzione e condizione dello spirito: pensare in termini di sistemi, spesso di origine
metodologica linguistica, ha portato all’aspettativa (e alla ricerca) di strutture equilibrate, di opposizioni binarie, di antinomie, a mio parere una nobile illusione, accompagnata da un bisogno di grand theory, che ha percorso il XX secolo
e che oggi è in affanno nella stessa linguistica. Certo, l’uomo cerca la coerenza, ma tollera la contraddizione, prepara
l’ordine ma ammette il disordine, vorrebbe forse esser preciso ma si accontenta dell’approssimazione: ammetto volentieri che questi sono convinvimenti personali, peraltro frutto dell’esperienza, altrettanto personale, sul campo, tuttavia credo che siano largamente condivisi da coloro che si sono messi in gioco vivendo l’alterità linguistica e culturale.
56
T. INGOLD, ed., What is an animal?, Routledge, London 1988; ci sono molti studi culturali d’area e per deformazione
professionale mi è caro rinviare a O. KELLER, Die antike Tierwelt, Engelmann Vlg., Leipzig 1909, 2 voll.
57
Mi limito a ricordare E. ANDERSON, D. PEARSALL, E. HUNN, N. TURNER, edd., Ethnobiology, Wiley-Blackwell, Hoboken
2011; R. ELLEN, “Indigenous Knowledge” and the Understanding of Cultural Cognition: The Contribution of Studies of
Environmental Knowledge Systems”, in D. B. KRONENFELD, G. BENNARDO, V. C. DE MUNCK, M. D. FISCHER, edd., A Companion
to Cognitive Anthropology, Wiley-Blackwell, Oxford 2011, pp. 290-313; S. ATRAN, D. L. MEDIN, The Native Mind and the
Cultural Construction of Nature, MIT Press 2008; R. ELLEN, Variation and Uniformity in the Construction of Biological
Knowledge Across Cultures, in H. SELIN, ed., Nature across cultures: views of nature and the environment in nonwestern cultures, Springer, Dordrecht 2003; J. N. BAILENS et al., A bird’s eye view: biological categorization and reasoning within and across cultures, in “Cognition” 84, 2002, pp. 1–53; D. L. MEDIN, S. ATRAN, edd., Folkbiology, MIT Press,
1999.
58
Sintesi in ELLEN, Variation, cit. n. prec.
59
N. Ross e C. Revilla-Minaya (in Ethnobiology, cit. n. 53, p. 337) hanno scritto: «The biggest argument in favor of a
shared domain of folkbiology comes from research into categorization. People appear to classify plants and animals in
similar ways, suggesting that our cognitive apparatus evolved in ways to detect the “lines and cracks” in the evolution
of species. In this account, folkbiology represents a domain of human cognition that specifically evolved to reason
about and to interact with the biological world. This would make folkbiology an innate cognitive faculty, like language
(according to some theories), naïve physics, and naïve psychology». Non sono I soli, tuttavia la proposta mi pare
irricevibile
60
Il paradigma innatistico è stato motivato dalle tesi linguistiche di N. Chomsky sulla grammatica universale che sarebbe appunto innata: quello che non vien detto è che tali tesi sono non solo nettamente minoritarie tra i linguisti, ma
tonomamente, abbia al fondo il riconoscimento del movimento come indice di un agente autonomo, si
muove dunque è vivo e può essere pericoloso.
È comune esperienza constatare che gli informatori giudicano spesso stupefacenti o ridicole le richieste
dell’indagatore sulla classificazione; che nelle loro risposte può esserci un largo margine di dissenso; non di
rado l’informatore fornisce risposte (apparentemente) paradossali; filiere tassonomiche coerenti convivono, come si è detto, con ampi spazi di taxa non affiliati: è ragionevole pensare che tutto ciò non sia il margine confuso di una realtà elegante e ben articolata, ma ne sia parte integrante.61
A Iove principium. Perché mai le richieste di affiliazione dovrebbero suonare ridicole o sorprendenti?62 Per
diverse ragioni, innanzi tutto perché l’argomento semplicemente non interessa e non se ne parla mai: conta
sapere dove si trova quell’animale,63 se sia commestibile o pericoloso, il resto è tipico della curiosità – non
condivisa – dei Bianchi. Per i miei informatori quanto pertiene al loro micro-mondo ed è ‘normale’ (ɔ ti sú)
non interessa, sono curiosità da bambino petulante, interessa invece ciò che non è normale e che quasi certamente ha una causa non manifesta e che va prudentemente indagata. Perché l’agama (betékù) sta al sole
e non si vede la sera? Perché è normale che sia così. Quando si chiede se x sia un tipo di y si utilizza una logica ed un modello genealogici, qual è l’àkpàswá, il lignaggio (anche il gruppo, la serie) di un determinato
animale, si chiede quale sia il lignaggio della gallina e anche ammesso che la domanda abbia un senso reale
nella lingua locale – e comunque suona ridicola –, si procede verso il riconoscimento di un campo lessicale
definitorio, proposizionale e la risposta – poniamo – “la gallina (akɔblà) è un tipo di uccello” ha sí una motivazione cognitiva, ma è solo una piccola parte della realtà soggiacente, una realtà che emerge invece narrativamente. Più di un informatore in effetti mi disse che la gallina era nn , parola che indica il mammifero di
villaggio la cui carne è commestibile e contemporaneamente la carne; non si trattava da parte loro di un
semplice caso di polisemia, bensì del riconoscimento implicito che la gallina era a parte, animale commestibile di villaggio prima ancora che uccello. Un informatore replicò alle mie insistenze tassonomiche dicendo
che sì, alla fin fine la gallina è un uccello, ma che questo non aveva importanza, esattamente quanto mi dissero amici Duala (Camerun), la gallina (wúba) è a parte, ha poco a che fare con gli uccelli. Insomma, il lignaggio della gallina, una semplice definizione, non è argomento di interesse, conta invece il fatto che essa
è il dono più comune per onorare un ospite, per chiedere scusa, per entrare in contatto tramite il sacrificio
con le Presenze invisibili, la carne più comune per preparare il condimento degli ignami. Con tutto ciò, la
gallina resta un uccello ed è quanto interessa noi, appartiene ad una tassonomia nella quale númà “uccello” è la forma di vita sovraordinata, gli informatori invece preferivano valorizzare tratti e caratteri contestuali.
Un altro caso. C’è un proverbio bawlé che dice à s m b nzé nj betékù “se non conosci il varano, guarda
l’agama”, dunque viene riconosciuta come ovvia la somiglianza tra i due rettili, eppure i due non potevano
esser messi assieme perché «c’è gente che mangia il varano, ma nessuno mangia le agame»; con un piccolo
sforzo si sarebbe potuto immaginare una categoria coperta (Ø > varano, lucertola, agama), ma questo avrebbe soddisfatto il mio desiderio di ordine, non i loro saperi.
Un ultimo caso. Il coccodrillo è stato classificato da un informatore, in disaccordo con gli altri, che comunque non avevano proposte alternative, come un kakaá. La parola indica qualcosa che fa ribrezzo e paura64
ed ha come prototipo l’insetto, il bruco o lo scarafaggio, classificazione inaccettabile, certo, che confliggeva
con habitat, dimensioni ed abitudini, ma non del tutto immotivata, perché il mio creativo amico aveva contestualmente privilegiato un tratto, il che è comunque significativo del senso che egli attribuiva alle mie richieste tassonomiche.65
che sono state contraddette più volte su base sperimentale (ad es. il preteso modulo innato di Grammatica Universale
evidentemente non sarebbe stato oggetto di evoluzione; non è affatto vero che l’infante soffra di povertà dello stimolo linguistico; ecc.), ma a queste critiche non si è mai risposto; ipse dixit.
61
Si vedrà ad esempio R. F. ELLEN, The cultural relations of classification:an analysis of Nuaulu animal categories from
Central Seram, Cambridge University Press 1993.
62
I casi che cito vengono da ricerche effettuate nella regione di Sakasú, Côte d’Ivoire, di lingua bawlé.
63
Gli animali che hanno qualche interesse sono classificati per habitat (sugli alberi, nell’acqua, del villaggio, della
brousse).
64
Nella lingua anyi, strettamente imparentata al bawlé, indica il fantasma, lo spauracchio.
65
Non va sottovalutata l’importanza dei tratti nella coscienza del parlante ed un esempio è costituito dall’evoluzione
semantica del lat. bestia. La voce latina aveva il senso generale di animale selvatico (Ulpiano, Dig. 3, 1, 1, 6 bestias …
È nel micro-mondo dunque che i processi si reificano, che si costituiscono i saperi, che si determinano preferenze e aspettative, quell’habitus che tanta parte ha nello stile cognitivo. Il micro-mondo non è isolato,
non è una monade, perché gli esseri umani da sempre hanno interagito con altri gruppi e dunque sono abituati all’alterità, tuttavia esso ha dei limiti, perché lo spazio è (anche) una categoria sociale; è cosa nota:66 i
Bawlé vedevano lo spazio secondo due prospettive tradizionali, nvl la proiezione spaziale di rapporti di parentela (oggi vale in generale “regione”) e m la proiezione dei rapporti sociali (oggi “mondo”). Il micromondo è il centro ‘normale’, tuttavia la normalità si stinge e si fa sempre più imprecisa quanto più si procede verso la periferia.
L’idea di micro-mondo è in definitiva la specificazione della teoria della costruzione della nicchia culturale,
una teoria nata nella biologia evolutiva67 e accolta da alcuni studiosi di altre discipline:68 «Niche construction occurs when an organism modifies the functional relationship between itself and its environment by actively changing one or more of the factors in its environment, either by physically perturbing these factors or
by relocating to expose itself to different factors»69 ed è inevitabile che quando si parla di esseri umani la
costruzione della nicchia avvenga anche su basi sociali e culturali. È inevitabile, dicevo, perché l’essere umano, animale socio-culturale per definizione, deve darsi regole per stare in gruppo, deve avere aspettative
ragionevoli e condivise per sopravvivere nell’ambiente di cui è parte. I problemi della costruzione della nicchia culturale consistono nella diversità di opinioni sulla concezione che alcune scuole di pensiero hanno
della cultura e della trasmissione del sapere e mi riferisco in particolare alle tesi neo-darwiniane
dell’evoluzione / selezione sociale e culturale,70 peraltro spesso duramente criticate.71 L’utilizzo di concetti
come quello di ‘meme’, dato come fatto assodato ma in effetti ipostasi metaforica del gene sul piano semantico e della memoria, portano a trascurare che nel micro-mondo il sapere è acquisito per partecipazione, per esperienza senso-motoria, per sperimentazione, che si costituisce nell’interazione sociale, che si
modifica costantemente, con poche o nessuna istruzione verbalizzata, insomma è un sapere che si vive non
che si recepisce fatto e finito come in una lezione scolastica.72
Ho detto che il micro-mondo non è una monade, aggiungo che non è affatto inaccessibile – la relativistica73
intraducibilità del diverso è largamente un falso mito: rischia però di divenirlo se intellettualisticamente
(ancora una volta: scolasticamente) si pensa che «una sedia è pur sempre una sedia» e ‘sedia’ resta semplicemente la glossa italiana per il Bawlé bjâ (v. nota 46), mentre la ‘sedia’ è tale in uno specifico micromondo. E lo stesso è vero per le categorie, perché i processi generali della conoscenza né nascono né si realizzano nel vuoto bensì nella vita.
7. Narrazioni di relazioni
accipere debemus ex feritate magis, quam ex animalis genere. Documentazione in ThesLingLat II, p. 1935 ss.), in genere pericoloso e nel parlato (sono ricostruibili forme come besta [> francese bête] e bestius [spagn. bicho] ammetteva
prototipi diversi nelle diverse regioni dell’Impero: solo in questo modo infatti si spiegano parole come il franc. biche
“cerbiatta” (+ selvatico), l’italiano biscia (+ selvatico, pericoloso, forse già tardo-latino), rispetto al grigionese beša “pecora” (cfr. LEI s.v.). Gli esempi sarebbero stati facilmente moltiplicabili.
66
Si vedano ad es. le sintesi di J. MIDDLETON, The Lugbara of Uganda, Holt-Rinehart-Winston, New York 1965, p. 15 ss.;
P. SPENCER, Time, space, and the unknown: Maasai configurations of power and providence, Routledge, London 2005.
67
K. N. LALAND, M. J. O’BRIEN, «Cultural Niche Construction: An Introduction», in “Biological Theory” 6, 2011, pp. 191202.
68
R. BOYD, P J. RICHERSONB, J. HENRICH, «The cultural niche: Why social learning is essential for human adaptation», in
“Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America” 108, 2011, Supplement 2, pp.
10918-10925; J. R. KENDAL, «Cultural niche construction and human learning environments: investigating socio-cultural
perspectives», in “Biological Theory" 6, 2011, pp. 241-250.
69
K. N. LALAND in M. PAGEL, ed., Encyclopedia of Evolution, Oxford Univ. Press 2002, s.v. Niche Construction, p. 822.
70
Per tutti rinvio a W. G. RUNCIMAN, The Theory of Cultural and Social Selection, Cambridge Univ. Press 2009.
71
T. INGOLD, «The trouble with ‘evolutionary biology’», in “Anthropology Today” 23, 2007, p. 13 ss.
72
Alla bibliografia sopra citata aggiungo B. ROGOFF, The Cultural Nature of Human Development, Oxford Univ. Press
2003 e il bel lavoro comparativo di K. MACDONALD, «Cross-cultural Comparison of Learning in Human Hunting», in
"Human Nature" 18, 2007, pp. 386-402.
73
Sul relativismo ha scritto una buona sintesi di impronta filosofica M. BAGHRAMIAN, Relativism, Routledge, London
2004.
L’uomo pensa e si riflette nel micro-mondo, vi si riconosce parte costitutiva, in breve il micro-mondo è anche un aspetto dell’auto-percezione dell’identità. Il micro-mondo è altresì Umwelt (nel senso attribuitogli
da von Uexküll)74, è ‘casa’ che consente aspettative e prevede azioni. Così come l’artefatto – la sedia, si è
detto – è parte del micro-mondo e in esso acquista il suo significato, allo stesso modo lo è la lingua, che è
un’attività del micro-mondo prima ancora di essere qualcosa nella testa di chi la parla, ammesso che
quest’ultima espressione abbia un significato preciso.75 E, in effetti, così come quella sedia non è la nostra
sedia, nonostante ci si sieda sopra (quasi) allo stesso modo, né la SEDIA, l’uso della lingua in una cultura orale tradizionale non è affatto il nostro modo di usarla e – aggiungo – di concepirla. Quanto pertiene alla natura dialogica della lingua – perché è ovvio che la lingua è dialogo, interazione, non monologo – si trova ovunque (la costruzione dialogica del significato, la costruzione culturale e comunicativa del contesto, la negoziazione identitaria, ecc.), anche se in forme che possono essere diverse, ma ciò che non si trova, né si
potrebbe trovare se non come prodotto della ‘scuola’ e dalla consuetudine con la lingua scritta, è il frequente ricorso alla decontestualizzazione, alla pratica definitoria, all’unsponsored language, per usare
un’espressione coniata da R. Harris (cit. nota prec.), ossia ad affermazioni generali prive di punto di vista
personale. In un bel lavoro I. Micheli ha trascritto parte delle sue numerose interviste con un guaritore e
cacciatore Kulango76 ed in esse si trova un’unica espressione che non è lontana da una definizione, ossia
Yégo h kpayɔ “Dio è / fa la kp.”, la forza agente che pervade l’universo, creature e piante. La spiegazione e
l’argomentazione sono di norma in forma narrativa e l’affermazione generale è frequentemente in forma di
massima o di proverbio, insomma si narra il proprio sapere, non si descrive. Ho ricordato sopra le celebri ricerche di Luria (cit. n. 27) a proposito dell’importanza del contesto e ho ricordato l’accertata sordità dei non
scolarizzati al sillogismo classico: ebbene tale sordità dipende anche dal fatto che esso si configura come
unsponsored language, percepito dal parlante come un’affermazione dialogica e se essa esce dalla sua esperienza concreta egli di non avere elementi per passare dalle premesse alla conclusione. Certo, il parlante
in una cultura orale è capace di affermazioni definitorie e se le usa solo raramente è perché è abituato ad
una costruzione dialogica del significato, ad una modalità del sapere che è narrazione di relazioni. La narrazione presuppone sempre un punto di vista, per cui la costruzione del significato è anche negoziazione;
d’accordo, la gallina resta un uccello, “e allora?” – come disse un mio amico.
La narrazione ripercorre in maniera rapsodica le relazioni del sapere in generale e del significato in particolare ed è sensibile al contesto, non tutto è ugualmente importante, non tutto è compresente. È così, a mio
parere, che si iscrivono nel micro-mondo le categorie.
8. Con Dante
Quando Ulisse sprona i suoi compagni a compiere l’ultimo viaggio egli così riassume l’eterno manifesto del
cammino umano: Considerate la vostra semenza: | fatti non foste a viver come bruti ! ma per seguir virtute
e canoscenza (Inf. 26, 120-122). Tuttavia Dante anche avverte per bocca di Virgilio State contenti umana
gente, al quia; ! ché, se potuto aveste veder tutto, ! mestier non era parturir Maria (Purg. 3, 37-39). Non
siamo alla Fine della Storia e la conoscenza dell’Uomo non sarà mai completamente attingibile – almeno è
lecito pensarlo e sperarlo. Le nuove vie di indagine che si sono aperte negli ultimi decenni promettono sensibili progressi, soprattutto la teoria dei sistemi adattivi complessi e le neuroscienze. Le due prospettive
hanno in comune l’attenzione per la piena collocazione dell’uomo nel mondo:77 embodiment, emergenza,
74
Streifzuge durch die Umwelten von Tieren und Menschen : ein Bilderbuch unsichtbarer Welten; Bedeutungslehre,
Rowohlt, Hamburg 1956. Cfr. anche K. BENEDIKTSSON, K. A.LUND, edd., Conversations with landscape, Ashgate Publ., Farnham
2010; A. FARINA, ed., Ecology, Cognition and Landscape. Linking Natural and Social Systems, Springer, Dordrecht 2010.
75
Non posso diffondermi qui sul tema, certo però che sono sempre più alte e forti le voci di linguisti che non si riconoscono in una visione intellettualistica della lingua distinta dal mondo, v. ad es. R. HARRIS, Rationality and the Literate
Mind, Routledge, London – New York 2009; P. LINELL, Rethinking language, mind, and world dialogically: interactional
and contextual theories of human sense-making, Information Age Publ., Charlotte 2009; The Written Language Bias in
Linguistics. Its nature, origins and transformations, Routledge, London – New York 2005.
76
Figlio della radice. Djedwa Yao Kuman, guaritore e cacciatore Kulango, Ediz. Univ. Trieste 2011.
77
B. BAARS, N. GAGE, Fundamentals of Cognitive Neuroscience, Elsevier-Academic Press, Amsterdam 2013; G. R. SEMIN,
E. R. SMITH, edd., Embodied Grounding. Social, Cognitive, Affective, and Neuroscientific Approaches, Cambridge Univ.
Press 2008.
nicchia, esperienzialità senso-motoria, pregressa e continua, sono ormai prospettive di importanza consolidata. La logica dei sistemi adattivi complessi ha ormai sostituito quella dello strutturalismo classico e anche
il guardare alla lingua come ad un insieme strutturato di forme e regole astratte è diventato sempre più
problematico, perché la lingua è nel mondo, è uno strumento per agire non monologicamente nel mondo.
Se è vero che conoscere è categorizzare, è altrettanto vero che categorizzare è funzione dell’azione nel
mondo, per cui guardare alle categorie stesse come ad un oggetto circoscritto o ad una forma intellettuale
altrettanto definita è immiserire la loro natura processuale, di costante, rinnovata e modificabile esperienza: per questi motivi il lignaggio della gallina non interessa ai miei informatori, così come poco interessa il
sapere definitorio. È ben vero che il dato del reale appartiene ad una categoria, spesso a più categorie correlate, ma, come si è detto, l’appartenenza ad una categoria è solo una parte del sapere e per contro il significato ha natura enciclopedica.
Paiono opportune alcune considerazioni, in parte sopra anticipate. Si è abituati a discutere il problema del
significato in termini linguistici (la semiotica è non di rado un’ulteriore apertura di orizzonti di indagine basata tuttavia sulla logica della linguistica) e questo è curioso, poiché il significato precede il linguaggio, come
provano le ricerche in ambito zoosemiotico78 sui primati non umani.79 Anche prescindendo dai fondamentali studi sulle capacità comunicative di bonobo e scimpanzè80, è molto probabile che i primati superiori abbiano capacità di generalizzare e categorizzare il percetto fisico81; non solo, è stata documentata in natura
la capacità di alcune scimmie di articolare morfologicamente e sintatticamente i loro richiami.82 Il significato
dunque c’è ed è costituito dalla generalizzazione / astrazione di un dato esperienziale, per cui il problema è
come esso si configuri nella memoria e nel recupero della memoria stessa. Negli esseri umani si usa distinguere tra memoria semantica e memoria episodica,83 mentre per gli animali non umani, che pur si mostrano cognitivamente consapevoli delle differenze di collocazione spazio-temporale,84 non si usa parlare di
memoria semantica, mentre peraltro sono note le loro competenze semantiche. Sia come sia, per gli esseri
umani il confine tra memoria semantica e memoria episodica – quanto è stato vissuto ed esperito – è molto
incerto e, a dire il vero, non potrebbe essere che così, dato che il semantico si basa larghissimamente
78
D. MARTINELLI, A Critical Companion to Zoosemiotics. People, Paths, Ideas, Springer, Dordrecht 2010; W. A. HILLIX, D.
M. RUMBAUGH, Animal Bodies, Human Minds: Ape, Dolphin, and Parrot Language Skills, Kluwer Academic, New York
2004; I. M. PEPPERBERG, The Alex studies: cognitive and communicative abilities of grey parrots, Harvard Univ. Press
2002;.
79
M. TOMASELLO, A Natural History of Human Thinking, Harvard Univ. Press 2014; E. V. LONSDORF, S. R. ROSS, T. MATSUZAWA, The mind of the chimpanzee: ecological and experimental perspectives, The University of Chicago Press 2010; L. ].
ROGERS, G. KAPLAN, Comparative vertebrate cognition: are primates superior to non-primates?, Springer, Dordrecht
2003; T. MATSUZAWA, ed., Primate Origins ofHuman Cognition and Behavior, Springer, Dordrecht 2001; D. POVINELLI, Folk
Physics for Apes. The chimpanzee’s theory of how the world works, Oxford Univ. Press 2000; M. TOMASELLO, The cultural
origins of human cognition, Harvard Univ. Press 1999 e Primate Cognition, Oxford Univ. Press 1997.
80
P. SEGERDAHL, W. FIELDS, S, SAVAGE-RUMBAUGH, Kanzi’s Primal Language. The Cultural Initiation of Primates into Language, Palgrave Macmillan, Houndsmills 2005; S. SAVAGE-RUMBAUGH, S. G. SHANKER, T. J. TAYLOR, Apes, Language, and the
Human Mind, Oxford Univ. Press 2001.
81
A differenza degli umani, verosimilmente non sono capaci di operare cognitivamente con ‘oggetti’ non osservabili
(cfr. J. VONK, D. J. POVINELLI, «Similarity and Difference in the Conceptual Systems of Primates: The Unobservability Hypothesis», in E. A. WASSERMAN, T. R. ZENTALL, edd., Comparative Cognition. Experimental Explorations of Animal
Intelligence, Oxford Univ. Press 2006, p. 363 ss.), il che pare ovvio, poiché la capacità umana proviene dall’uso della
lingua: gli esseri umani acquisiscono il sapere sia per esperienza diretta sia per “sentito dire”, nel dialogo, per informazione verbale, sempre e comunque qualcosa che non è osservabile direttamente e che si basa sull’uso linguistico.
82
PH. SCHLENKER et al., «Monkey Semantics: Two 'Dialects' of Campbell's Monkey Alarm Calls», in “Linguistics and Philosophy”, 2014 in st.; PH, SCHLENKER, «Monkey Semantics: Towards a Formal Analysis of Primate Alarm Calls», 2013 (n.d.);
K. OUATTARA, A. LEMASSONA, K. ZUBERBUHLER, «Campbell’s monkeys concatenate vocalizations into context-specific call sequences», in “Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America” 106, 2009; K. ZUBERBUHLER, «A syntactic rule in forest monkey communication», “Animal Behaviour” 63, 2002, pp. 293–299.
83
D. A. BALOTA, J. H . COANE, Semantic Memory, in J. H. BYRNE, ed., Learning and Memory: a Comprehensove Reference,
Elsevier, Amsterdam 2008, vol. 3, p. 511 ss.; K. K . SZPUNAR, K. B. MCDERMOTT, Episodic Memory: an Evolving Concept, ibid. p. 491 ss.
84
Cfr. WASSERMAN, cit. n. prec., sezione 3.
sull’esperienziale e che il grounding della cognizione è di conseguenza senso-motorio.85 Perché dunque il
significato non può avere natura vocabolaristica, definitoria? Semplicemente perché esso non ha una forma
definita ed è illusorio pensare di poterlo circoscrivere attraverso tratti o componenti semantiche: il significato vive di relazioni e dunque è sempre sotto-determinato, è sensibile al contesto e dev’essere negoziato
nel dialogo. Si diceva sopra che la natura del significato dei segni linguistici lessicali è diversa da quella dei
segni morfosintattici, dunque ‘cane’ rispetto a ‘però’, ma ciò non è di necessità vero. Se il sapere che soggiace a ‘però’ è una serie di possibilità d’uso, per cui la sequenza linguistica /p-e-r-‘ᴐ/ ha la funzione di elicitare le possibilità morfosintattiche in questione, la sequenza /k-‘a-n-e/ attiva relazioni e saperi su un ‘concetto’, sia esso prototipo, esemplare o teoria d’azione, sempre e comunque sotto-determinata: lo richiedono le possibilità fisiche della nostra memoria e l’economia della sua organizzazione.86 Certo, si deve riconoscere che (v. sopra nota 51) le neuroscienze cognitive dovranno tentare di chiarire come si configuri quella
che l’individuo percepisce come una sostanziale unità e non come un insieme disgiunto di saperi, ma fin
d’ora pare chiaro – quanto meno questo è il mio convincimento – che larga parte (o tutto?) quello che siamo stati abituati a considerare il “significato” è il prodotto di una funzione di richiamo rispetto ad un referente osservabile o non osservabile, ma non è il prius né logico né funzionale.
9. Congedo
Il lessico è una manchevole ed imprecisa mappa, sempre superata dai fatti, della cultura dei parlanti. Il linguista deve forzatamente partire da essa per addentrarsi nella Foresta Incantata (quella di Torquato Tasso e
Francesco Geminiani), ma farebbe bene a diffidarne. Il lessico visto come repertorio, con un’ipostasi intellettuale della parola in se stessa in quanto presenza fattuale, è abitudini di mente alfabetizzata, adusa alla
lingua scritta, dunque lontana dalla negoziazione dialogica. Nelle culture tradizionali, in Africa come
nell’ormai moribonda Italia contadina, la lingua è un’attività pratica condizionata da contesti e interlocutori: nel mio dialogo con gli amici Bawlé, nella mia ricerca di informazioni, io non sono osservatore, parte esterna ad un processo che avviene indipendente da me, sono invece parte condizionante del sistema di
scambio e ciò che vedo è solo uno dei molti possibili punti di vista prospettici. È facile immaginare quale
possa essere la situazione quando si indagano lingue e culture del passato e ormai scomparse.
I Bawlé hanno un proverbio che dice “be wuli mi wa” oni “m’a cɛ wa” ɔ
k , «“sono nato qui” e “sono
stato a lungo qui” non sono la stessa cosa», vivere è altra cosa che esserci e se qualcosa ho voluto dire in
questo contributo è proprio l’importanza cognitiva e culturale del vivere, perché cultura è anche ascoltare,
come nel mio paesini, la campana dell’Ave Maria dei Morti che segna la fine della giornata delle persone
per bene: come scrisse G. Belli in La bona famija
'na pisciatina, 'na sarvereggina,
e, in zanta pace, ce n'annamo a letto.
85
D. PECHER, R. A. ZWAAN, edd., Grounding Cognition. The Role of Perception and Action in Memory, Language, and
Thinking, Cambridge Univ. Press 2005.
86
Una bella e personale sintesi è offerta da A. DAMASIO, Self comes to mind : constructing the conscious brain,
Pantheon Books, New York 2010; la sintesi di riferimento è per ora V. S. RAMACHANDRAN, ed., Encyclopedia of the human brain, Academic Press, Amsterdam 2002 (4 vol.).