Il libro - DropPDF

Transcript

Il libro - DropPDF
Il libro
I giorni dell’eternità è l’appassionante conclusione dell’epica trilogia “The Century”,
dedicata al Novecento, nella quale Ken Follett segue il destino di cinque famiglie
legate tra loro: una americana, una tedesca, una russa, una inglese e una gallese.
Dai palazzi del potere alle case della gente comune, le storie dei protagonisti si
snodano e si intrecciano nel periodo che va dai primi anni Sessanta fino alla caduta
del Muro di Berlino, passando attraverso eventi sociali, politici ed economici tra i
più drammatici e significativi del cosiddetto “Secolo breve”: le lotte per i diritti
civili in America, la crisi dei missili di Cuba, la Guerra fredda, le prime sfide per la
conquista dello spazio come simbolo di superiorità tra le due superpotenze, gli
omicidi dei fratelli Kennedy e di Martin Luther King, il Vietnam, lo scandalo del
Watergate, ma anche i Beatles e la nascita del rock’n’roll.
Quando Rebecca Hoffmann, insegnante della Germania Est, scopre di essere stata
spiata per anni dalla Stasi prende una decisione che avrà pesanti conseguenze sulla
sua famiglia.
In America, George Jakes, figlio di una coppia mista, rinuncia a una promettente
carriera legale per entrare al dipartimento di Giustizia di Robert Kennedy e
partecipa alla dura battaglia contro la segregazione razziale. Cameron Dewar,
nipote di un senatore del Congresso, non si lascia scappare l’occasione di fare
spionaggio per una causa in cui crede fermamente, ma solo per scoprire che il
mondo è molto più pericoloso di quanto pensi.
Dimka Dvorkin, giovane assistente di Nikita Chrušcëv, diventa un personaggio di
spicco proprio mentre Stati Uniti e Unione Sovietica si ritrovano sull’orlo di una
crisi che sembra senza via d’uscita.
I giorni dell’eternità è l’affascinante racconto di un’epoca ricca di svolte la cui eco si
fa ancora sentire ai giorni nostri, gli anni della contestazione e dei grandi
movimenti di massa, anni in cui la lotta per la supremazia tra blocco sovietico e
blocco occidentale, con il pericolo ricorrente di un conflitto nucleare apocalittico,
ha influenzato la vita di milioni di persone.
Con il tocco di un vero maestro, Ken Follett ci porta in un mondo che pensavamo
di conoscere, ma che ora non ci sembrerà più lo stesso.
L’autore
Ken Follett è nato a Cardiff nel 1949 e
vive a Londra con la moglie Barbara. Laureatosi in filosofia all’University College
di Londra, ha lavorato come giornalista. La sua straordinaria carriera di scrittore
inizia nel 1978 con La cruna dell’Ago. Uguale successo mondiale hanno poi ottenuto
i successivi romanzi: Triplo, Il codice Rebecca, L’uomo di Pietroburgo, Sulle ali delle
aquile, Un letto di leoni, I pilastri della terra, Notte sull’acqua, Una fortuna pericolosa, Un
luogo chiamato libertà , Il terzo gemello,Il martello dell’Eden, Codice a zero, Le gazze
ladre, Il volo del calabrone, Nel bianco, Mondo senza fine e i primi due titoli della nuova
trilogia “The Century” (La caduta dei giganti e L’inverno del mondo), che sono stati a
lungo al primo posto nelle principali classifiche.
In Italia, tutti i suoi romanzi sono pubblicati da Mondadori.
www.ken-follett.com
Ken Follett
I giorni dell’eternità
I giorni dell’eternità
A tutti coloro che combattono per la libertà,
in particolar modo a Barbara
Personaggi
AMERICANI
Famiglia Dewar
Cameron Dewar
Ursula “Beep” Dewar, sua sorella
Woody Dewar, suo padre
Bella Dewar, sua madre
Famiglia Peškov-Jakes
George Jakes
Jacky Jakes, sua madre
Greg Peškov, suo padre
Lev Peškov, suo nonno
Marga, sua nonna
Famiglia Marquand
Verena Marquand
Percy Marquand, suo padre
Babe Lee, sua madre
CIA
Florence Geary
Tony Savino
Tim Tedder, in pensione, collabora come freelance
Keith Dorset
Altri
Maria Summers
Joseph Hugo, FBI
Larry Mawhinney, Pentagono
Nelly Fordham, vecchia fiamma di Greg Peškov
Dennis Wilson, assistente di Bobby Kennedy
Skip Dickerson, assistente di Lyndon Johnson
Leopold “Lee” Montgomery, reporter
Herb Gould, giornalista televisivo di This Day
Suzy Cannon, reporter di cronaca rosa
Frank Lindeman, proprietario di una rete televisiva
Personaggi storici
John F. Kennedy, 35º presidente degli Stati Uniti
Jackie, sua moglie
Bobby Kennedy, suo fratello
Dave Powers, assistente del presidente Kennedy
Pierre Salinger, addetto stampa del presidente Kennedy
reverendo Martin Luther King, Jr, presidente della Southern Christian Leadership
Conference
Lyndon B. Johnson, 36º presidente degli Stati Uniti
Richard Nixon, 37º presidente degli Stati Uniti
Jimmy Carter, 39º presidente degli Stati Uniti
Ronald Reagan, 40º presidente degli Stati Uniti
George H.W. Bush, 41º presidente degli Stati Uniti
INGLESI
Famiglia Leckwith-Williams
Dave Williams
Evie Williams, sua sorella
Daisy Williams, sua madre
Lloyd Williams, deputato, suo padre
Eth Leckwith, nonna di Dave
Famiglia Murray
Jasper Murray
Anna Murray, sua sorella
Eva Murray, sua madre
Musicisti dei Guardsmen e dei Plum Nellie
Lenny, cugino di Dave Williams
Lew, batterista
Buzz, bassista
Geoffrey, chitarra solista
Altri
Earl Fitzherbert, detto “Fitz”
Sam Cakebread, amico di Jasper Murray
Byron Chesterfield (nome d’arte di Brian Chesnowitz), manager musicale
Hank Remington (nome d’arte di Harry Riley), pop star
Eric Chapman, dirigente di una casa discografica
TEDESCHI
Famiglia Franck
Rebecca Hoffmann
Carla Franck, madre adottiva di Rebecca
Werner Franck, padre adottivo di Rebecca
Walli Franck, figlio di Carla
Lili Franck, figlia di Werner e Carla
Maud von Ulrich, madre di Carla (nata Lady Maud Fitzherbert)
Hans Hoffmann, marito di Rebecca
Altri
Bernd Held, professore
Karolin Koontz, cantante folk
Odo Vossler, pastore protestante
Personaggi storici
Walter Ulbricht, primo segretario del Partito socialista unificato di Germania
(SED, comunista)
Erich Honecker, successore di Ulbricht
Egon Krenz, successore di Honecker
POLACCHI
Stanislaw “Staz” Pawlak, ufficiale dell’esercito
Lidka, fidanzata di Cam Dewar
Danuta Gorski, attivista di Solidarnosc
Personaggi storici
Anna Walentynowicz, gruista
Lech Walesa, capo del sindacato Solidarnosc
generale Jaruzelski, primo ministro
RUSSI
Famiglia Dvorkin-Peškov
Tanja Dvorkina, giornalista
Dmitrij Dvorkin, detto “Dimka”, assistente del Cremlino, fratello gemello di Tanja
Nina, fidanzata di Dimka
Anja Dvorkina, madre di Tanja e Dimka
Grigorij Peškov, nonno di Tanja e Dimka
Katerina Peškova, nonna di Tanja e Dimka
Vladimir Peškov, detto “Volodja”, zio di Tanja e Dimka
Zoja, moglie di Volodja
Altri
Daniil Antonov, redattore dei servizi speciali alla TASS
Pëtr Opotkin, caporedattore dei servizi speciali alla TASS
Vasilij Enkov, dissidente
Natal’ja Smotrova, funzionaria del ministero degli Esteri
Nik Smotrov, marito di Natal’ja
Evgenij Filipov, assistente del ministro della Difesa Rodion Malinovskij
Vera Pletner, segretaria di Dimka
Valentin, amico di Dimka
maresciallo Michail Pušnoj
Personaggi storici
Nikita Chrušcëv, primo segretario del Partito comunista dell’Unione Sovietica
Andrej Gromyko, ministro degli Esteri sotto Chrušcëv
Rodion Malinovskij, ministro della Difesa sotto Chrušcëv
Aleksej Kosygin, presidente del Consiglio dei ministri
Leonid Brežnev, successore di Chrušcëv
Jurij Andropov, successore di Brežnev
Konstantin Cernenko, successore di Andropov
Michail Gorbacëv, successore di Cernenko
ALTRE NAZIONI
Paz Oliva, generale cubano
Frederik Bíró, politico ungherese
Enok Andersen, contabile danese
Prima parte
MURO
1961
1
Rebecca Hoffmann fu convocata dalla polizia segreta in un piovoso lunedì del
1961.
Il mattino cominciò come al solito. Il marito l’accompagnò al lavoro con la sua
Trabant 500 marrone. Le vecchie e gradevoli strade del centro di Berlino
mostravano ancora gli squarci creati dai bombardamenti durante la guerra, tranne
nei punti in cui i nuovi edifici in cemento armato spuntavano come denti finti male
assortiti. Hans guidava e rifletteva sul suo lavoro. «I tribunali sono al servizio dei
giudici, degli avvocati, della polizia, del governo… di tutti, tranne che delle vittime
dei reati» disse. «Ci si può aspettare una cosa del genere nei paesi capitalisti
occidentali, ma in quelli comunisti i tribunali dovrebbero essere al servizio del
popolo. I miei colleghi non sembrano rendersene conto.» Hans lavorava al
ministero di Giustizia.
«Siamo sposati da quasi un anno, ti conosco da due e non ho ancora incontrato
nessuno dei tuoi colleghi» disse Rebecca.
«Ti annoierebbero a morte» si affrettò a ribattere Hans. «Sono tutti avvocati.»
«Ci sono anche delle donne?»
«No. Non nella mia sezione, almeno.» Hans lavorava nel reparto amministrativo:
nomine di giudici, ruoli delle udienze, gestione dei tribunali.
«Mi piacerebbe comunque conoscerli.»
Hans era un uomo forte che aveva imparato a trattenersi. Rebecca lo guardò e nei
suoi occhi notò un familiare lampo di rabbia provocato dalla sua insistenza. Hans
si controllò con uno sforzo di volontà. «Organizzerò qualcosa. Magari una sera
potremmo andare tutti a bere qualcosa in un bar.»
Hans era stato il primo uomo che Rebecca avesse giudicato all’altezza di suo
padre. Era sicuro di sé e autoritario, ma l’ascoltava sempre. Aveva un buon
impiego – non molti disponevano di un’auto di proprietà nella Repubblica
Democratica Tedesca – e chi lavorava per il governo di solito era un comunista
integralista, ma Hans, sorprendentemente, condivideva lo scetticismo politico di
Rebecca. E, come il padre di Rebecca, era alto, bello e ben vestito. Era l’uomo che
lei aveva aspettato da sempre.
Solo una volta, durante il fidanzamento, aveva avuto dei dubbi su di lui, ma per
pochissimo tempo. Erano rimasti coinvolti in un piccolo incidente stradale. Era
stata tutta colpa dell’altro automobilista, uscito da una strada laterale senza fare
attenzione. Cose del genere succedevano tutti i giorni, ma Hans si era infuriato in
modo eccessivo. Nonostante i danni riportati dai due veicoli fossero stati minimi,
aveva chiamato la polizia, mostrato agli agenti la sua tessera del ministero di
Giustizia e fatto arrestare l’altro automobilista per guida pericolosa.
In seguito si era scusato con Rebecca per avere perso il controllo. Lei era rimasta
spaventata dalla vena vendicativa di Hans ed era stata quasi sul punto di mettere
fine alla loro storia. Ma lui le aveva spiegato che in quell’occasione era fuori di sé
a causa delle pressioni al lavoro, e Rebecca gli aveva creduto. Quella fiducia era
risultata ben riposta: Hans non aveva più avuto reazioni del genere.
Si frequentavano ormai da un anno, ed erano sei mesi che dormivano insieme quasi
tutti i fine settimana, quando Rebecca si era domandata come mai lui non le avesse
ancora chiesto di sposarlo. Non erano due ragazzini: lei all’epoca aveva ventotto
anni e lui trentatré. Così era stata lei a fargli la proposta. Hans era rimasto stupito,
ma aveva detto di sì.
Fermò l’auto davanti alla scuola dove insegnava Rebecca. Era un edificio moderno
e bene attrezzato: i comunisti prendevano molto sul serio l’istruzione. Fuori dai
cancelli, cinque o sei degli alunni più grandi fumavano in piedi sotto un albero.
Ignorando le loro occhiate, Rebecca baciò Hans sulle labbra e scese dall’auto.
I ragazzi la salutarono educatamente, ma lei sentì i loro occhi bramosi di
adolescenti sul proprio corpo mentre attraversava il cortile della scuola sollevando
schizzi dalle pozzanghere.
Rebecca proveniva da una famiglia politicizzata. Suo nonno era stato deputato
socialdemocratico al Reichstag, il parlamento nazionale, fino a quando Hitler si era
impadronito del potere. Sua madre era stata consigliere comunale, sempre per i
socialdemocratici, durante la breve democrazia postbellica di Berlino Est. Ma
la DDR ora era una tirannia comunista e Rebecca non trovava alcun senso
nell’impegnarsi in politica. Di conseguenza convogliava tutto il suo idealismo
nell’insegnamento e sperava che la generazione successiva sarebbe stata meno
dogmatica, più sensibile e più intelligente.
In sala professori controllò l’orario affisso in bacheca. Quel giorno quasi tutte le
sue lezioni erano state raddoppiate: due gruppi di studenti stipati in un’unica aula.
Rebecca insegnava russo, ma avrebbe dovuto tenere anche una lezione di inglese.
Lei non parlava quella lingua, benché ne avesse un’infarinatura grazie alla nonna
inglese, Maud, ancora energica e vivace a settant’anni.
Era la seconda volta che le veniva chiesto di tenere una lezione di inglese e
Rebecca cominciò a chiedersi quale testo utilizzare. Nel primo caso si era servita di
un volantino distribuito ai soldati americani, ai quali veniva spiegato come
comportarsi con i tedeschi. I ragazzi lo avevano trovato divertentissimo e avevano
anche imparato parecchio. Magari quel giorno Rebecca avrebbe potuto scrivere
sulla lavagna il testo di una canzone che conoscevano tutti – per esempio The Twist,
trasmessa di continuo dalla radio delle forze armate americane – e chiedere alla
classe di tradurlo in tedesco. Non sarebbe stata una lezione convenzionale, ma era
il meglio che lei potesse fare.
La scuola era disperatamente sotto organico per quanto riguardava gli insegnanti:
metà del corpo docente era emigrato in Germania Ovest, dove gli stipendi erano
superiori di trecento marchi al mese e la gente era libera. In quasi tutti gli istituti
della Germania Est era la stessa storia. E non riguardava solo gli insegnanti. I
medici potevano raddoppiare i loro guadagni trasferendosi in Occidente. La madre
di Rebecca, Carla, era capo infermiera in un grande ospedale di Berlino Est e si
strappava i capelli per la scarsità di medici e personale. Lo stesso avveniva
nell’industria e perfino nelle forze armate. Era una crisi nazionale.
Mentre Rebecca scribacchiava il testo di The Twist su un blocco per appunti,
cercando di ricordare il verso che parlava di “ my little Sis”, “la mia sorellina”, in
sala professori entrò il vicepreside. Bernd Held era probabilmente il migliore
amico di Rebecca, al di fuori della famiglia. Slanciato e con i capelli scuri, aveva
quarant’anni e una cicatrice che gli attraversava la fronte, ricordo di un frammento
di shrapnel che lo aveva colpito mentre difendeva le alture di Seelow negli ultimi
giorni di guerra. Bernd insegnava fisica, ma condivideva l’interesse di Rebecca per
la letteratura russa. Un paio di volte la settimana mangiavano i loro panini insieme
durante la pausa pranzo. «Ascoltate tutti» disse Bernd. «Cattive notizie, temo.
Anselm se n’è andato.»
Ci fu un mormorio di sorpresa. Anselm Weber era il preside. Era anche un
comunista leale, i presidi dovevano esserlo. Ma, a quanto pareva, i suoi principi
erano stati travolti dal fascino della prosperità e della libertà della Germania Ovest.
«Prenderò io il suo posto» proseguì Bernd «finché non sarà nominato un nuovo
preside.» Rebecca e ogni altro insegnante della scuola sapevano che quell’incarico
avrebbe dovuto essere di Bernd, se fossero state le capacità a contare davvero. Ma
lui era stato escluso perché si rifiutava di iscriversi al SED, il Partito di unità
socialista: in tutto e per tutto, nome a parte, il Partito comunista.
Per la stessa ragione, nemmeno Rebecca sarebbe mai diventata preside. Anselm
l’aveva pregata di iscriversi al partito, ma la cosa era fuori questione. Per Rebecca
sarebbe stato come entrare in un manicomio e fingere che tutti gli altri ospiti
fossero sani di mente.
Mentre Bernd spiegava in dettaglio l’organizzazione d’emergenza, Rebecca si
chiese quando la scuola avrebbe avuto il suo nuovo preside. Di lì a un anno?
Quanto sarebbe durata quella crisi? Nessuno lo sapeva.
Prima di iniziare le lezioni, controllò la sua casella di posta. Era ancora vuota.
Forse anche il postino si era trasferito in Germania Ovest.
La lettera che le avrebbe sconvolto la vita era in viaggio.
Durante la prima lezione discusse del poema russo Il cavaliere di bronzo con un
nutrito gruppo di diciassettenni e diciottenni. Era una lezione che teneva ogni anno
fin da quando aveva cominciato a insegnare. Come sempre, guidò gli studenti
nell’analisi sovietica ortodossa, spiegando che il conflitto tra interesse personale e
dovere pubblico veniva risolto, da Puškin, a favore del pubblico.
All’ora di pranzo si portò il suo sandwich nell’ufficio del preside e si sedette alla
grande scrivania, di fronte a Bernd. Lanciò un’occhiata allo scaffale di busti in
ceramica dozzinali: Marx, Lenin e Walter Ulbricht, il leader della DDR. Bernd seguì
il suo sguardo e sorrise. «Anselm è un furbastro. Per anni ha finto di essere un vero
sostenitore del comunismo, e adesso… via! Scomparso.»
«Tu non hai mai la tentazione di andartene?» domandò Rebecca. «Sei divorziato,
non hai figli… non hai legami.»
Bernd si guardò intorno, quasi chiedendosi se qualcuno potesse sentirlo, poi si
strinse nelle spalle. «Ci ho pensato… chi non lo ha fatto?» ammise. «E tu? Tuo
padre lavora a Berlino Ovest, no?»
«Sì. Ha una fabbrica che produce televisori. Ma mia madre è decisa a restare qui,
nell’Est. Dice che dobbiamo risolvere i nostri problemi, non evitarli fuggendo.»
«L’ho conosciuta. È una tigre.»
«È vero. E la casa in cui abitiamo appartiene alla sua famiglia da generazioni.»
«E cosa mi dici di tuo marito?»
«È devoto al suo lavoro.»
«Quindi non devo preoccuparmi di perderti. Bene.»
«Bernd…» cominciò Rebecca. Poi esitò.
«Sputa il rospo.»
«Posso farti una domanda personale?»
«Naturalmente.»
«Tu hai lasciato tua moglie perché aveva una relazione?»
Bernd si irrigidì, ma poi rispose: «Sì, è così».
«Come lo hai scoperto?»
Bernd fece una smorfia, come per un’improvvisa fitta di dolore.
«Ti dispiace che te lo abbia chiesto?» domandò ansiosa Rebecca. «È troppo
personale?»
«Non mi dispiace dirlo a te. L’ho affrontata e lei ha ammesso tutto.»
«Ma cosa ti aveva insospettito?»
«Tanti piccoli particolari e…»
Rebecca lo interruppe. «Il telefono che squilla, tu rispondi, c’è qualche secondo di
silenzio e poi la persona dall’altra parte riattacca.»
Bernd annuì.
Rebecca continuò. «Tuo marito strappa un appunto e fa sparire i pezzetti di carta
nel water. Nei fine settimana viene convocato a una riunione imprevista. La sera
passa due ore a scrivere qualcosa che non vuole farti vedere.»
«Oh, accidenti.» Il tono di Bernd era triste. «Stai parlando di Hans.»
«Ha un’amante, giusto?» Rebecca posò il sandwich: non aveva appetito. «Dimmi
sinceramente cosa pensi.»
«Mi dispiace moltissimo.»
Una volta Bernd l’aveva baciata. Era successo quattro mesi prima, l’ultimo giorno
del trimestre d’autunno. Si stavano salutando e augurando buon Natale quando lui
le aveva afferrato un braccio, aveva chinato la testa e l’aveva baciata sulle labbra.
Rebecca gli aveva chiesto di non farlo più, aggiungendo che le sarebbe piaciuto
continuare a essere sua amica. Quando erano tornati a scuola a gennaio, entrambi
avevano finto che non fosse successo niente. Qualche settimana dopo, Bernd le
aveva addirittura confidato di avere un appuntamento con una vedova della sua età.
Rebecca non voleva incoraggiare false speranze, ma Bernd era l’unica persona con
la quale potesse parlare, a parte i familiari, che lei però non voleva far preoccupare,
per lo meno non ancora. «Ero così sicura che Hans mi amasse.» Gli occhi le si
riempirono di lacrime. «E io lo amo.»
«Forse ti ama anche lui. È solo che certi uomini non sanno resistere alle
tentazioni.»
Rebecca non sapeva se Hans trovasse soddisfacente la loro vita sessuale. Non si
era mai lamentato, ma facevano l’amore più o meno una volta alla settimana, e a
lei sembrava poco per una coppia appena sposata. «Tutto quello che voglio è una
famiglia mia, come quella di mia madre, una famiglia in cui tutti si amano, si
sostengono e si proteggono a vicenda. Pensavo di poterla avere con Hans.»
«Forse puoi ancora averla» disse Bernd. «Una relazione non significa
necessariamente la fine del matrimonio.»
«Il primo anno?»
«È un brutto segno, sono d’accordo.»
«Cosa devo fare?»
«Devi parlare con lui. Chiederglielo. Può darsi che ammetta, oppure che neghi, ma
in ogni caso saprà che tu sai.»
«E poi?»
«Tu cosa vuoi? Hai intenzione di divorziare?»
Rebecca scosse la testa. «No, non me ne andrei mai. Il matrimonio è una promessa.
Non puoi mantenere una promessa solo quando ti fa comodo. Devi mantenerla
anche contro le tue inclinazioni. È questo che significa.»
«Io ho fatto il contrario. Sicuramente mi disapprovi.»
«Io non ti giudico, così come non giudico nessun altro. Parlo solo per me stessa.
Amo mio marito e voglio che mi sia fedele.»
Il sorriso di Bernd era pieno di ammirazione, ma anche di rimpianto. «Spero che il
tuo desiderio si realizzi.»
«Sei un buon amico.»
Suonò la campanella della prima lezione del pomeriggio. Rebecca si alzò in piedi e
incartò di nuovo il sandwich. Non lo avrebbe mangiato, né allora né in seguito, ma,
come a molti di coloro che avevano vissuto in tempo di guerra, le faceva orrore
buttare via il cibo.
Si tamponò gli occhi umidi con un fazzoletto. «Grazie per avermi ascoltato» disse.
«Non ti sono stato di grande conforto.»
«Invece sì.» Rebecca uscì.
Fuori dall’aula dove avrebbe tenuto la lezione di inglese, si rese conto di non avere
preparato il testo di The Twist. Comunque faceva l’insegnante da abbastanza tempo
per essere in grado di improvvisare. «Chi di voi conosce una canzone intitolata The
Twist?» chiese ad alta voce, varcando la soglia.
La conoscevano tutti.
Rebecca andò alla lavagna e afferrò un gessetto. «Quali sono le parole?»
I ragazzi cominciarono a cantare tutti insieme.
Sulla lavagna, Rebecca scrisse: “Come on, baby, let’s do the twist”. Poi domandò:
«Cosa significa in tedesco?».
Per un po’ dimenticò i suoi problemi.
Trovò la lettera nella sua casella di posta all’intervallo di metà pomeriggio. La
portò con sé in sala professori e, prima di aprirla, si preparò un caffè istantaneo.
Appena iniziato a leggere, versò il caffè dalla tazza.
L’intestazione dell’unico foglio era “Ministero della Sicurezza dello Stato”. Era il
nome ufficiale della polizia segreta: quello ufficioso era Stasi. La lettera era
firmata da un certo sergente Scholz, il quale le ordinava di presentarsi nel suo
ufficio al quartier generale per rispondere ad alcune domande.
Rebecca asciugò il caffè sul pavimento e si scusò con i colleghi, fingendo che non
fosse successo niente, poi andò in bagno e si chiuse a chiave in uno dei box. Aveva
bisogno di riflettere prima di confidarsi con qualcuno.
Tutti nella DDR sapevano di quelle lettere, e tutti avevano paura di trovarne una
nella posta. Averla ricevuta significava che Rebecca aveva fatto qualcosa di
sbagliato, forse qualcosa di banale, ma che comunque aveva richiamato
l’attenzione dei sorveglianti. Lei sapeva, da quello che diceva la gente, che
proclamare la propria innocenza non sarebbe servito a nulla. I poliziotti si
sarebbero dimostrati sicuri della sua colpevolezza, altrimenti perché interrogarla?
Suggerire la possibilità di un errore equivaleva a mettere in dubbio la loro
competenza, e ciò costituiva un altro reato.
Rileggendo la lettera, notò che l’appuntamento era fissato per le cinque di quel
pomeriggio.
Cosa aveva fatto? La sua famiglia era fortemente sospetta, ovvio. Suo padre,
Werner, era un capitalista con una fabbrica che il governo della DDR non poteva
toccare perché si trovava a Berlino Ovest. Sua madre, Carla, era una nota
socialdemocratica. Sua nonna, Maud, era la sorella di un conte inglese.
Tuttavia era già da un paio d’anni che le autorità non importunavano la sua
famiglia, e Rebecca aveva immaginato che il matrimonio con un funzionario del
ministero di Giustizia avesse garantito a tutti loro una patente di rispettabilità.
Evidentemente non era così.
Aveva commesso qualche reato? Possedeva una copia dell’allegoria
anticomunista La fattoria degli animali di George Orwell, cosa considerata illegale.
Suo fratello minore, il quindicenne Walli, suonava la chitarra e cantava canzoni di
protesta americane come This Land Is Your Land . Rebecca ogni tanto andava a
Berlino Ovest per vedere mostre di pittura astratta. Per quanto riguardava l’arte, i
comunisti erano conservatori come matrone vittoriane.
Mentre si lavava le mani, si guardò allo specchio. Non aveva una faccia
spaventata. Vide un naso dritto, un mento forte e intensi occhi castani. I capelli
scuri e ribelli erano pettinati severamente all’indietro. Era alta e statuaria, e alcuni
dicevano che incuteva soggezione. Poteva affrontare una classe di turbolenti
diciottenni e ridurla al silenzio con una sola parola.
Ma era spaventata. A terrorizzarla era la consapevolezza che la Stasi poteva fare
qualsiasi cosa. I suoi uomini non erano soggetti a vincoli, e lamentarsi del loro
comportamento era di per sé un crimine. Quel pensiero le fece venire in mente
l’Armata rossa alla fine della guerra. In Germania, i soldati sovietici erano stati
lasciati liberi di rubare, violentare e uccidere, e avevano trasformato quella libertà
in un’orgia di indicibili barbarie.
L’ultima lezione della giornata di Rebecca fu sulla costruzione della forma passiva
nella grammatica russa e si rivelò un disastro, forse la peggiore che lei avesse mai
fatto da quando aveva ottenuto l’abilitazione all’insegnamento. Gli studenti non
poterono evitare di accorgersi che qualcosa non andava e, in modo quasi
commovente, le vennero incontro, arrivando addirittura a darle suggerimenti
quando si smarriva e non trovava la parola giusta. Con l’appoggio della scolaresca,
Rebecca riuscì ad arrivare alla fine.
Al termine delle lezioni, Bernd era chiuso nell’ufficio del preside con alcuni
funzionari del ministero dell’Istruzione, presumibilmente per discutere di come
riuscire a tenere la scuola aperta con metà del personale. Rebecca non voleva
andare al quartier generale della Stasi senza avvertire nessuno, nel caso avessero
deciso di trattenerla, così scrisse un biglietto per Bernd, informandolo della
convocazione.
Poi salì su un autobus e viaggiò lungo le strade bagnate fino a Normannenstraße,
nella zona periferica di Lichtenberg.
Il quartier generale della Stasi era un brutto palazzo di uffici appena costruito. I
lavori non erano ancora terminati e c’erano bulldozer nel parcheggio e ponteggi a
un’estremità dell’edificio. Aveva un aspetto tetro sotto la pioggia, ma non sarebbe
sembrato molto più allegro nemmeno con il sole.
Quando varcò la soglia, Rebecca si chiese se sarebbe mai uscita di lì.
Attraversò il vasto atrio, consegnò la sua lettera al banco del ricevimento e fu
scortata al piano di sopra. Il livello della paura salì insieme all’ascensore. Rebecca
emerse in un corridoio tinteggiato in un’angosciosa sfumatura giallo senape. Venne
fatta entrare in una stanzetta spoglia, arredata con un tavolo dal piano di plastica e
due scomode sedie di metallo. Nella stanza aleggiava un pungente odore di
vernice. La sua scorta se ne andò.
Rimase a sedere da sola per cinque minuti, tremando. Avrebbe voluto essere una
fumatrice: forse una sigaretta l’avrebbe calmata. Si sforzò di non piangere.
Entrò il sergente Scholz. Rebecca ipotizzò che fosse un po’ più giovane di lei,
forse sui venticinque anni. Aveva con sé un fascicolo sottile. Si sedette, si schiarì la
voce, aprì la pratica e aggrottò la fronte. Rebecca pensò che stesse cercando di
darsi importanza e si chiese se quello fosse il suo primo interrogatorio.
«Lei insegna alla scuola secondaria politecnica Friedrich Engels» disse.
«Sì.»
«Dove abita?»
Rebecca rispose, ma era perplessa. La polizia segreta non conosceva il suo
indirizzo? Questo forse spiegava come mai la lettera le fosse arrivata a scuola e
non a casa.
Dovette fornire i nomi e l’età dei genitori e dei nonni.
«Lei sta mentendo!» esclamò in tono tronfio Scholz. «Dice che sua madre ha
trentanove anni e lei ne ha ventinove. L’ha forse partorita a dieci anni?»
«Sono stata adottata» rispose Rebecca, sollevata di poter dare una spiegazione
innocente. «I miei veri genitori sono morti alla fine della guerra, quando la nostra
casa è stata centrata in pieno da una bomba.» All’epoca Rebecca aveva tredici
anni. Le granate dell’Armata rossa piovevano ovunque, la città era in rovina e lei
era sola, disorientata e terrorizzata. Adolescente e formosa, era stata scelta per
essere violentata da un gruppo di soldati. L’aveva salvata Carla, che si era offerta
al posto suo. Ma quell’esperienza terribile l’aveva comunque segnata, rendendola
esitante e nervosa riguardo al sesso. Se Hans era insoddisfatto, era sicuramente
colpa sua.
Rabbrividì e cercò di scacciare quel ricordo. «Carla Franck mi ha salvato da…»
Rebecca tacque, appena in tempo. I comunisti negavano che i soldati dell’Armata
rossa avessero commesso stupri, anche se ogni donna che nel 1945 si era trovata
nel settore tedesco occupato dai sovietici conosceva la terribile verità. «Carla mi ha
salvato» ripeté, tacendo i particolari scabrosi. «In seguito, lei e Werner mi hanno
adottata legalmente.»
Scholz stava scrivendo tutto. Non doveva contenere molto quella pratica, pensò
Rebecca. Ma qualcosa c’era. Se Scholz sapeva così poco della sua famiglia, cosa
aveva suscitato il suo interesse?
«Lei è un’insegnante di inglese.»
«No, non è così. Io insegno russo.»
«Sta mentendo di nuovo.»
«Non sto mentendo, così come non ho mentito prima» ribatté seccamente Rebecca.
La sorprendeva scoprirsi a parlare a quell’uomo con un tono di sfida. Non era più
spaventata. Ma forse era un atteggiamento troppo temerario. “Scholz può anche
essere giovane e inesperto” si disse “ma ha comunque il potere di rovinarmi la
vita.” «Io sono laureata in lingua e letteratura russa» riprese, tentando un sorriso
amichevole. «Sono a capo del dipartimento di russo della mia scuola, ma metà dei
nostri insegnanti è passata in Occidente e siamo costretti a improvvisare. È per
questo che la settimana scorsa ho tenuto due lezioni di inglese.»
«Quindi avevo ragione! E nelle sue lezioni lei avvelena il cervello dei ragazzi con
la propaganda americana.»
«Oh, accidenti» gemette Rebecca. «Si tratta dei consigli ai soldati americani?»
Scholz lesse da un foglietto di appunti. «Qui dice: “Tenete a mente che
nella DDRnon c’è libertà di parola”. Questa non è forse propaganda americana?»
«Ho spiegato agli studenti che gli americani hanno un ingenuo concetto
premarxista della libertà» rispose. «Immagino che il suo informatore abbia
dimenticato di segnalare questo punto.» Si chiese chi fosse la spia. Doveva trattarsi
di uno studente, o forse di un genitore che era stato informato della lezione. La
Stasi aveva più spie dei nazisti.
«Qui dice anche: “A Berlino Est non chiedete informazioni agli agenti di polizia. A
differenza dei poliziotti americani, quelli della DDR non sono lì per aiutarvi”. Cosa
mi dice di questo?»
«Non è forse vero?» ribatté Rebecca. «Da ragazzo, lei ha mai chiesto a un Vopo di
indicarle la strada per la stazione della metropolitana?» I Vopo erano gli agenti
della Volkspolizei, la polizia della DDR.
«Non poteva trovare qualcosa di più adatto da insegnare ai ragazzi?»
«Perché non viene lei nella nostra scuola a tenere una lezione di inglese?»
«Io non parlo inglese!»
«Neppure io!» gridò Rebecca. Si pentì immediatamente di avere alzato la voce.
Scholz però non era arrabbiato. Anzi, sembrava un po’ intimorito. Era chiaramente
privo di esperienza. Ma Rebecca non doveva lasciarsi prendere la mano. «Neppure
io» ripeté, più calma. «Di conseguenza devo improvvisare di volta in volta,
utilizzando qualsiasi materiale in lingua inglese riesca a trovare.» Pensò che fosse
arrivato il momento di mostrare un po’ di falsa umiltà. «È chiaro che ho commesso
un errore e me ne scuso, sergente.»
«Lei sembra una donna intelligente» disse Scholz.
Rebecca socchiuse gli occhi. Era una trappola? «Grazie per il complimento»
replicò in tono neutro.
«Abbiamo bisogno di persone intelligenti, soprattutto donne.»
Rebecca era confusa. «Per cosa?»
«Per tenere gli occhi aperti, vedere cosa succede, farci sapere quando qualcosa non
va.»
Rebecca era sbalordita. Dopo un momento, domandò incredula: «Mi sta chiedendo
di diventare un’informatrice della Stasi?».
«È un lavoro importante, di grande responsabilità civica» disse il sergente. «Ed è
un lavoro vitale nelle scuole, dove si forma il pensiero dei giovani.»
«Capisco.» In realtà ciò che Rebecca capiva era che quel giovane agente della
polizia segreta aveva combinato un pasticcio. Aveva verificato il suo operato al
lavoro, ma non sapeva niente della sua famigerata famiglia. Se Scholz avesse
indagato sulle sue origini, non l’avrebbe mai contattata.
Rebecca riusciva a immaginare come fosse successo. Hoffmann era uno dei
cognomi tedeschi più comuni e Rebecca non era un nome insolito. Un principiante
poco avveduto poteva facilmente commettere l’errore di indagare sulla Rebecca
Hoffmann sbagliata.
Scholz riprese a parlare. «Ma le persone che svolgono questo lavoro devono essere
completamente sincere e degne di fiducia.»
Quell’affermazione era così paradossale che Rebecca per poco non scoppiò a
ridere. «Sincere e degne di fiducia?» ripeté. «Per spiare gli amici?»
«Assolutamente sì.» Scholz sembrò non cogliere l’ironia. «E ci sono dei vantaggi.»
Abbassò la voce. «Lei diventerebbe una di noi.»
«Non so cosa dire.»
«Non deve decidere subito. Vada a casa e ci pensi. Ma non ne parli con nessuno.
Tutto questo deve restare segreto, ovviamente.»
«Ovviamente.» Rebecca cominciava a sentirsi sollevata. Scholz avrebbe presto
scoperto che lei era inadatta ai suoi scopi e avrebbe ritirato la proposta. Ma di
certo, a quel punto, non avrebbe potuto riprendere a insinuare che lei fosse una
propagandista dell’imperialismo americano. Forse sarebbe uscita incolume da
quella vicenda.
Scholz si alzò in piedi e Rebecca lo imitò. Possibile che la sua visita al quartier
generale della Stasi si concludesse così bene? Sembrava troppo bello per essere
vero.
Scholz le tenne cortesemente la porta aperta e poi l’accompagnò lungo il corridoio
giallo senape. Vicino all’ascensore, cinque o sei uomini della Stasi discutevano in
modo animato. Uno di loro le era sorprendentemente familiare: alto, con le spalle
larghe, leggermente curvo, indossava un abito di flanella grigio chiaro che Rebecca
conosceva bene. Lo fissò senza capire mentre si avvicinava all’ascensore.
Era Hans, suo marito.
Perché si trovava lì? Il primo, terribile pensiero di Rebecca fu che anche lui
dovesse essere interrogato. Ma un momento dopo si rese conto, dall’atteggiamento
del gruppo, che Hans non veniva trattato come un individuo sospetto.
Allora perché era lì? Il cuore le batteva forte per la paura, ma di cosa?
Pensò che forse il lavoro al ministero di Giustizia richiedesse ogni tanto la sua
presenza in quel luogo. Poi sentì uno del gruppo dirgli: «Ma, con tutto il rispetto,
tenente…». Rebecca non afferrò il resto della frase. Tenente? I funzionari civili
non avevano gradi militari… a meno che non facessero parte della polizia.
Poi Hans la vide.
Rebecca osservò le emozioni che gli passarono sul viso: gli uomini erano facili da
leggere. All’inizio Hans aggrottò la fronte nell’espressione perplessa di chi vede
qualcosa di familiare in un contesto estraneo. Poi, quando assimilò la realtà di ciò
che stava vedendo, spalancò gli occhi per la sorpresa e socchiuse la bocca. Ma fu
l’espressione successiva quella che più colpì Rebecca: le guance gli si
imporporarono per la vergogna e Hans distolse lo sguardo con un’inequivocabile
aria colpevole.
Rebecca restò in silenzio per qualche istante, cercando di elaborare la scena.
Continuando a non capire ciò che stava vedendo, disse: «Buon
pomeriggio,tenente Hoffmann».
Scholz sembrò perplesso e spaventato. «Lei conosce il tenente?»
«Molto bene» rispose Rebecca, sforzandosi di mantenere il controllo mentre un
terribile sospetto iniziava a farsi strada dentro di lei. «Sto cominciando a chiedermi
se non mi tenga sotto sorveglianza già da un po’ di tempo.» Ma era impossibile…
o no?
«Davvero?» chiese Scholz stupidamente.
Rebecca fissò con durezza il marito, aspettando la reazione alla sua congettura,
sperando che scoppiasse a ridere e le desse subito una spiegazione in grado di
sgombrare ogni dubbio. Hans aveva la bocca aperta, come sul punto di parlare, ma
Rebecca capì che non aveva alcuna intenzione di dirle la verità: anzi, pensò, aveva
l’espressione di chi tenti disperatamente di improvvisare una storia e non riesca a
inventare qualcosa di plausibile.
Scholz stava per scoppiare in lacrime. «Io non lo sapevo!»
Continuando a fissare Hans, Rebecca disse: «Sono sua moglie».
L’espressione di Hans cambiò di nuovo e, mentre il senso di colpa si trasformava
in collera, il suo viso diventò una maschera di rabbia. Poi finalmente parlò, ma non
a Rebecca. «Chiudi quella bocca, Scholz.»
A quel punto Rebecca capì, e il mondo le crollò addosso.
Troppo sbalordito per attenersi all’ordine di Hans, Scholz si rivolse a Rebecca:
«Lei è quella Frau Hoffmann?».
Hans si mosse con la velocità dettata dalla furia. Sferrò un potente destro che colpì
Scholz in pieno viso. Il giovane agente barcollò all’indietro, con le labbra
sanguinanti. «Stupido idiota» sibilò Hans. «Hai appena mandato all’aria due anni
di lavoro sotto copertura.»
“Le strane telefonate, le riunioni improvvise, gli appunti strappati…” rifletté
Rebecca. Hans non aveva un’amante.
Era molto peggio.
Era come inebetita, ma sapeva che quello era il momento giusto per scoprire la
verità, mentre tutti erano ancora scossi e confusi, prima che cominciassero a
mentire e a inventare storie per giustificarsi. Si sforzò di restare concentrata e, in
tono freddo, domandò: «Mi hai sposato solo per spiarmi, Hans?».
Lui la guardò senza rispondere.
Scholz si voltò e si allontanò a passo incerto lungo il corridoio. Hans ordinò:
«Andate a prenderlo». L’ascensore arrivò al piano e Rebecca entrò nella cabina
mentre Hans gridava: «Arrestate quell’idiota e sbattetelo in cella!». Si voltò per
parlare a sua moglie, ma le porte dell’ascensore si chiusero e Rebecca premette il
pulsante del pianterreno.
Attraversò l’atrio con le lacrime che le impedivano quasi di vedere. Nessuno le
rivolse la parola: senza dubbio in quel posto era normale vedere gente piangere.
Attraversò il parcheggio battuto dalla pioggia e raggiunse la fermata dell’autobus.
Il suo matrimonio era una finzione. Non riusciva a crederci. Aveva dormito con
Hans, lo aveva amato, lo aveva sposato e, per tutto quel tempo, lui l’aveva
ingannata. L’infedeltà poteva essere considerata un errore occasionale, ma Hans le
aveva mentito fin dall’inizio. Di certo aveva cominciato a frequentarla al solo
scopo di spiarla.
Senza dubbio non aveva mai avuto la minima intenzione di sposarla.
Probabilmente, all’inizio, aveva pensato a un semplice flirt, solo un modo per
insinuarsi in casa sua. L’inganno aveva funzionato fin troppo bene. La proposta di
matrimonio che lei gli aveva fatto doveva averlo scioccato. Forse era stato costretto
a prendere una decisione: lasciarla, e mettere fine alla sorveglianza, oppure
sposarla e continuare il lavoro. Forse i suoi capi lo avevano addirittura obbligato al
matrimonio. Come aveva potuto Rebecca farsi raggirare in quel modo?
Arrivò l’autobus e lei salì. Con gli occhi bassi, andò a sedersi in fondo e si coprì la
faccia con le mani.
Ripensò al periodo del corteggiamento. Quando gli aveva parlato dei problemi che
le avevano creato difficoltà nelle precedenti relazioni – il suo femminismo, il suo
anticomunismo, lo stretto legame con Carla –, Hans aveva sempre reagito nel
modo giusto. Lei aveva creduto che avessero le stesse idee, quasi miracolosamente.
Non le era mai passato per la mente che lui stesse recitando.
L’autobus arrancava lento attraverso il panorama di vecchie macerie e nuovo
cemento verso il Mitte, il centro città. Rebecca cercò di concentrarsi sul proprio
futuro, ma non ne fu capace. Riusciva solo a riandare con la mente al passato.
Ripensò al giorno delle nozze, alla luna di miele e al suo anno di matrimonio,
vedendo tutto come una commedia che Hans aveva recitato. Lui le aveva rubato
due anni, e quel pensiero la fece talmente arrabbiare che smise di piangere.
Ricordò la sera in cui gli aveva chiesto di sposarla. Stavano passeggiando nel
Volkspark a Friedrichshain e si erano fermati davanti all’antica Märchenbrunnen,
la “fontana delle favole”, per guardare le tartarughe scolpite nella pietra. Lei
indossava un abito blu, il colore che le donava maggiormente, e Hans una giacca di
tweed nuova: riusciva sempre a trovare bei capi, nonostante la DDR fosse una landa
desolata per quanto riguardava la moda. Tra le braccia di Hans si era sentita sicura,
protetta, amata. Voleva un uomo per sempre, e Hans era quell’uomo. “Sposiamoci”
gli aveva detto con un sorriso. Lui l’aveva baciata e aveva risposto: “Che idea
meravigliosa”.
“Sono stata un’idiota” pensò furente. “Una stupida idiota.”
Ora, però, si spiegava una cosa: il rifiuto di Hans ad avere figli. Aveva detto che
prima voleva un’altra promozione e una casa tutta per loro. Non vi aveva mai
accennato prima del matrimonio, e Rebecca ne era rimasta sorpresa, data la loro
età: lei aveva ventinove anni e lui trentaquattro. Ora conosceva il vero motivo.
Quando scese dall’autobus, era sopraffatta dalla collera. Camminò veloce nel vento
e sotto la pioggia fino alla vecchia villetta in cui viveva. Dall’ingresso intravide,
attraverso la porta aperta del soggiorno, sua madre che conversava seria con
Heinrich von Kessel, il quale dopo la guerra era stato consigliere comunale
socialdemocratico insieme a lei. Rebecca passò rapidamente, senza salutare. Sua
sorella Lili, di dodici anni, stava facendo i compiti al tavolo della cucina. Rebecca
sentì le note del pianoforte a coda in salotto: suo fratello Walli stava suonando un
blues. Salì al piano di sopra, dove si trovavano le due stanze che condivideva con
Hans.
La prima cosa che vide entrando fu il modellino di Hans. Suo marito ci lavorava da
un anno, cioè da quando si erano sposati. Era una riproduzione in scala della Porta
di Brandeburgo, fatta con fiammiferi e colla. Tutti i conoscenti di Hans dovevano
conservare i fiammiferi usati. Il modellino, ormai quasi ultimato, troneggiava su un
tavolo al centro della stanza. Completato l’arco centrale e le due ali laterali, Hans
ora stava lavorando alla quadriga sulla sommità, molto più difficile da realizzare.
“Doveva annoiarsi” pensò Rebecca con amarezza. Indubbiamente quel progetto era
stato un modo per passare le serate che era costretto a trascorrere con una donna
che non amava. Il loro matrimonio era come quel modellino di fiammiferi: una
fragile copia di un matrimonio vero.
Andò alla finestra e guardò la pioggia. Dopo un minuto, una Trabant 500 marrone
si fermò accanto al marciapiede. Ne scese Hans. Come osava presentarsi a casa?
Rebecca spalancò la finestra, incurante degli scrosci che si riversavano all’interno,
e gridò: «Vattene!».
Hans si fermò sul marciapiede e alzò la testa.
Gli occhi di Rebecca si posarono su un paio di scarpe da uomo sul pavimento,
accanto a lei. Erano state fatte a mano da un vecchio calzolaio che Hans era
riuscito a scovare. Rebecca ne afferrò una e la scagliò contro il marito. Un buon
lancio e, anche se Hans provò a scansarsi, la scarpa lo colpì alla testa.
«Sei una pazza scatenata!»
Walli e Lili spalancarono la porta e si fermarono sulla soglia a fissare la sorella
maggiore come se fosse diventata un’altra persona, cosa che probabilmente era
vera.
«Ti sei sposato per ordine della Stasi!» urlò Rebecca dalla finestra. «Chi di noi due
è pazzo?» Gli lanciò contro anche l’altra scarpa, ma mancò il bersaglio.
«Cosa stai facendo?» chiese Lili spaventata.
Walli ridacchiò e disse: «Roba da matti, gente».
Due passanti si fermarono a guardare e un vicino di casa comparve sullo scalino
dell’ingresso, osservando colpito la scena. Hans li fissò tutti con odio. Era un uomo
orgoglioso e per lui era una vera agonia essere ridicolizzato così in pubblico.
Rebecca si guardò intorno, cercando qualcos’altro da scagliare contro il marito. Le
cadde l’occhio sul modellino della Porta di Brandeburgo.
Poggiava sopra un pannello di compensato. Rebecca lo sollevò. Era pesante, ma
poteva farcela.
«Oh!» esclamò Walli.
Rebecca portò il modellino alla finestra.
«Non ci provare! È mio!» gridò Hans.
Rebecca posò la base di compensato sul davanzale. «Mi hai rovinato la vita, tu,
scagnozzo della Stasi!» urlò.
Una donna rise, uno sghignazzo sprezzante e beffardo che risuonò al di sopra il
rumore della pioggia. Hans avvampò di rabbia e si guardò intorno, cercando di
individuare il colpevole, ma non ci riuscì. Che si ridesse di lui era la forma
peggiore di tortura.
«Rimetti a posto il mio modellino, puttana!» ruggì. «Ci ho lavorato per un anno!»
«E io ho lavorato per un anno sul nostro matrimonio.» Rebecca sollevò il
modellino.
«È un ordine!» urlò Hans.
Rebecca spinse il modellino fuori dalla finestra e lo lasciò cadere.
A metà del volo, l’oggetto si capovolse, la base rivolta verso l’alto e la quadriga di
sotto. Sembrò impiegare un secolo per arrivare a terra e per un momento Rebecca
si sentì sospesa nel tempo. Poi il modellino si schiantò sul cortile lastricato davanti
a casa, con un rumore simile a quello di un foglio che si accartocci. I fiammiferi
schizzarono a pioggia verso l’esterno, quindi ricaddero sparpagliandosi sulle pietre
bagnate. La base di compensato giaceva al suolo, tutto ciò che c’era stato sopra
distrutto.
Hans fissò la scena per qualche istante, a bocca aperta per lo shock. Poi si riprese e
puntò un dito contro Rebecca.
«Ascoltami bene» disse, e la voce era così gelida che lei, di colpo, ebbe di nuovo
paura. «Te ne pentirai, te lo giuro. Tu e la tua famiglia. Ve ne pentirete per il resto
della vita. È una promessa.»
Quindi risalì in auto e se ne andò.
2
A colazione, la madre di George Jakes servì pancake ai mirtilli, pancetta e grits,
una specie di porridge. «Se mangio tutta questa roba, dovrò passare alla categoria
pesi massimi» disse George, che pesava settantasette chili ed era stato una star dei
pesi welter nella squadra di lotta di Harvard.
«Mangia sano e abbondante e lascia perdere la lotta» disse la madre. «Non ti ho
tirato su per farti diventare uno stupido atleta fanatico.» Si sedette di fronte al figlio
al tavolo della cucina e versò i cornflakes in una ciotola.
George non era uno stupido, e lei lo sapeva. Stava per laurearsi alla facoltà di legge
di Harvard. Aveva dato gli esami finali ed era sicuro, per quanto poteva esserlo, di
averli superati. Ora si trovava nella modesta abitazione di sua madre nella contea
di Prince George, nel Maryland, alla periferia di Washington. «Voglio solo restare
in forma» disse lui. «Magari allenerò la squadra di lotta di una scuola superiore.»
«Questa potrebbe essere una buona idea.»
George la guardò con tenerezza. Un tempo Jacky Jakes era stata carina, lui lo
sapeva: aveva visto alcune sue fotografie da adolescente, quando aspirava a
diventare una stella del cinema. L’aspetto di sua madre era ancora giovanile: aveva
quel tipo di pelle color cioccolato scuro che non raggrinzisce con l’età. “Good black
don’t crack” dicevano le donne negre. “Il nero vero non fa rughe.” Ma la bocca che
in quelle vecchie foto si apriva in larghi sorrisi ora piegava gli angoli verso il basso
in un’espressione di severa determinazione. Jacky non era mai diventata un’attrice.
Forse non ne aveva mai avuto la possibilità: i pochi ruoli riservati alle negre di
solito andavano a bellezze dalla carnagione più chiara. In ogni caso la sua carriera
era finita ancora prima di cominciare quando, a sedici anni, era rimasta incinta di
George. Si era procurata quel viso scavato dalle preoccupazioni crescendo da sola
il figlio per i suoi primi anni di vita, lavorando come cameriera, vivendo in una
minuscola abitazione dietro Union Station e inculcando in lui l’etica del duro
lavoro, dell’istruzione e della rispettabilità.
«Ti voglio bene, mamma» disse George «ma parteciperò comunque al Freedom
Ride.»
Jacky serrò le labbra in segno di disapprovazione. «Hai venticinque anni. Puoi fare
quello che ti pare.»
«No, non faccio quello che mi pare. Ho sempre discusso con te ogni decisione
importante che ho preso. E probabilmente continuerò così.»
«Tanto non fai quello che ti dico.»
«Non sempre. Ma sei ancora la persona più intelligente che io abbia mai
conosciuto, compresi tutti quelli di Harvard.»
«Cerchi di ammorbidirmi con l’adulazione» disse Jacky, ma George vide che era
compiaciuta.
«Mamma, la Corte suprema ha stabilito che la segregazione sugli autobus
interstatali e nelle stazioni dei bus è incostituzionale, ma i sudisti sfidano la legge.
Dobbiamo fare qualcosa!»
«E in che modo pensi che possa servire questo vostro viaggio in autobus?»
«Saliremo a bordo qui a Washington e ci dirigeremo a sud. Prenderemo posto
davanti, attenderemo nelle sale d’aspetto riservate ai bianchi e chiederemo di
essere serviti nei ristoranti per soli bianchi. E se qualcuno protesterà diremo che la
legge è dalla nostra parte e che sono loro i criminali e i sobillatori.»
«Figliolo, io so che hai ragione. Non devi convincere me. Conosco la costituzione.
Ma cosa pensi che succederà?»
«Immagino che prima o poi verremo arrestati. Ci sarà un processo e noi potremo
sostenere la nostra causa davanti al mondo.»
Jacky scosse la testa. «Spero davvero che ve la caviate così facilmente.»
«Cosa vuoi dire?»
«Tu sei cresciuto da privilegiato» rispose la madre. «Almeno dopo che il tuo padre
bianco è ricomparso nelle nostre vite quando avevi sei anni. Tu non sai com’è il
mondo per la maggior parte della gente di colore.»
«Vorrei che non lo avessi detto.» George si sentì ferito: quell’accusa, che gli
veniva rivolta anche dagli attivisti neri, lo irritava molto. «Avere un nonno bianco
e ricco che mi paga gli studi non mi rende cieco. So come vanno le cose.»
«Allora, forse saprai che farti arrestare potrebbe non essere la cosa peggiore. E se
la situazione diventasse violenta?»
George sapeva che sua madre aveva ragione: forse i Freedom Riders avrebbero
rischiato più del carcere. Ma voleva rassicurarla. «Ho fatto un corso di resistenza
passiva» disse. Tutti coloro che erano stati selezionati per il Freedom Ride erano
esperti attivisti dei diritti civili e avevano seguito un programma di addestramento
speciale che includeva esercizi con giochi di ruolo. «Un bianco che fingeva di
essere un razzista del Sud mi ha dato dello sporco negro, mi ha spinto e strattonato,
trascinandomi fuori dalla stanza senza che io opponessi resistenza… Io l’ho
lasciato fare, anche se avrei potuto buttarlo fuori dalla finestra con una mano sola.»
«Chi era quel bianco?»
«Un attivista dei diritti civili.»
«Quindi non era una situazione reale.»
«Naturalmente no. Recitava una parte.»
«Okay» disse Jacky, e dal tono di voce George capì che sua madre intendeva
esattamente il contrario.
«Andrà tutto bene, mamma.»
«Non dirò una parola di più. Hai intenzione di mangiare quei pancake?»
«Guardami» disse George. «Abito di mohair, cravatta stretta, capelli corti e scarpe
così lucide che potrei usarle come specchio per farmi la barba.» Era solito vestirsi
in modo elegante, ma i Riders avevano ricevuto istruzioni di esibire un aspetto
ultrarispettabile.
«Stai benissimo, a parte quell’orecchio a cavolfiore.» Era a causa della lotta che
l’orecchio destro di George era deformato.
«Chi mai vorrebbe fare del male a un ragazzo di colore così simpatico?»
«Tu non hai idea» ribatté Jacky, all’improvviso arrabbiata. «Quei bianchi sudisti,
loro…» Con sgomento di George, gli occhi di sua madre si riempirono di lacrime.
«Oh, Dio, ho solo tanta paura che ti uccidano!»
George allungò un braccio sul tavolo e le prese una mano. «Starò attento, mamma,
te lo prometto.»
Jacky si asciugò gli occhi con il grembiule. George mangiò un po’ di pancetta,
tanto per farle piacere, ma non aveva appetito: era più in ansia di quanto lasciasse
vedere. Sua madre non stava esagerando. Alcuni attivisti dei diritti civili si erano
opposti all’idea del Freedom Ride sostenendo che avrebbe potuto provocare
violenze.
«Starai parecchio tempo su quell’autobus» disse Jacky.
«Tredici giorni, da qui a New Orleans. Faremo tappa tutte le sere per riunioni e
manifestazioni.»
«Cosa ti porti da leggere?»
«L’autobiografia di Gandhi.» George voleva saperne di più su quel personaggio, la
cui filosofia aveva ispirato le tattiche non violente dei movimenti di protesta per i
diritti civili.
Jacky prese un libro da sopra il frigorifero. «Forse troverai questo un po’ più
divertente. È un bestseller.»
Madre e figlio avevano sempre condiviso i libri. Il padre di Jacky era stato
professore di letteratura in un college per negri e lei amava leggere fin
dall’infanzia. Da bambino, George aveva letto insieme a sua madre le storie dei
Bobbsey Twins e degli Hardy Boys, anche se tutti gli eroi erano bianchi. Ora si
passavano regolarmente i libri che avevano apprezzato di più. George guardò
quello che aveva tra le mani. La copertina di plastica trasparente gli diceva che era
stato preso in prestito dalla biblioteca pubblica locale. Il buio oltre la siepe. «Ha
appena vinto il premio Pulitzer, vero?»
«Ed è ambientato in Alabama, dove stai andando tu.»
«Grazie.»
Pochi minuti dopo George salutò la madre con un bacio, uscì di casa con una
valigetta e salì su un autobus diretto a Washington. Scese alla stazione Greyhound
in centro, nel cui caffè si era riunito un gruppetto di attivisti dei diritti civili.
George conosceva alcuni di loro dalle lezioni di addestramento: erano un mix di
bianchi e neri, uomini e donne, vecchi e giovani. Oltre a una decina di Riders,
erano presenti anche alcuni organizzatori del CORE, il Congress of Racial Equality,
che promuoveva i diritti civili e l’uguaglianza razziale, un paio di giornalisti della
stampa negra e qualche sostenitore. Il CORE aveva deciso di dividere il gruppo in
due metà; una sarebbe partita dalla stazione degli autobus Trailways sul lato
opposto della strada. Non c’erano cartelli di protesta né telecamere: tutto era così
tranquillo da risultare rassicurante.
George salutò un bianco dagli occhi azzurri sporgenti. Era Joseph Hugo, un suo
compagno alla facoltà di legge. Insieme avevano organizzato un boicottaggio della
tavola calda dei grandi magazzini Woolworth a Cambridge, nel Massachusetts. La
catena Woolworth rispettava l’integrazione nella maggior parte degli Stati, ma era
segregazionista nel Sud, come il servizio degli autobus. Joe, però, trovava sempre
il modo di sparire subito prima di un confronto e George lo aveva etichettato come
un codardo benintenzionato. «Vieni con noi, Joe?» chiese, cercando di eliminare lo
scetticismo dalla voce.
Joe scosse la testa. «Sono qui solo per augurarvi buona fortuna.» Era solito fumare
lunghe sigarette al mentolo con il filtro bianco e ne stava picchiettando
nervosamente una sul bordo di un portacenere di latta.
«Peccato. Tu sei del Sud, giusto?»
«Birmingham, Alabama.»
«Ci definiranno agitatori venuti da fuori. Sarebbe stato d’aiuto avere sul nostro
autobus uno del Sud per provare che si sbagliano.»
«Non posso, ho da fare.»
George non insistette. Lui stesso era già abbastanza spaventato. Se avesse
cominciato a discutere dei pericoli, forse si sarebbe convinto a non andare. Passò lo
sguardo sul gruppo. Fu contento di vedere John Lewis, uno studente di teologia
dall’aspetto tranquillo e autorevole; era uno dei fondatori dello Student Nonviolent
Coordinating Committee, il più radicale dei gruppi per i diritti civili.
Il capo della spedizione chiese silenzio e cominciò una breve dichiarazione per la
stampa. Mentre lui stava parlando, George vide scivolare all’interno del caffè un
bianco alto sui quarant’anni che indossava un abito di lino spiegazzato. Era bello,
anche se pesante, ma il viso mostrava il rossore tipico del bevitore. Sembrava un
normale passeggero e nessuno gli prestò attenzione. Andò a sedersi accanto a
George, gli passò un braccio intorno alle spalle e lo strinse brevemente.
Era il senatore Greg Peškov, il padre di George.
Il loro legame era noto a molti, soprattutto nel mondo politico di Washington, però
mai riconosciuto pubblicamente. Greg non era l’unico ad avere un segreto del
genere. Il senatore Strom Thurmond aveva pagato il college a una figlia della
domestica di colore della sua famiglia: si mormorava che la ragazza fosse frutto di
una relazione con il senatore, cosa che non impediva a Thurmond di essere un
feroce segregazionista. Quando Greg era comparso nella vita di George, un
perfetto estraneo per il figlio di sei anni, aveva chiesto di essere chiamato “zio”. I
due non avevano mai trovato un eufemismo migliore.
Greg era egoista e inaffidabile ma, a modo suo, teneva al figlio. Da adolescente,
George aveva attraversato una lunga fase di risentimento nei suoi confronti, ma poi
era arrivato ad accettare Greg per quello che era, concludendo che mezzo padre era
comunque meglio di niente.
«George» disse Greg a bassa voce «sono preoccupato.»
«Anche la mamma.»
«Cosa ti ha detto?»
«Lei pensa che i razzisti del Sud ci uccideranno tutti.»
«Io non credo che succederà, però potresti perdere il tuo impiego.»
«L’avvocato Renshaw ha detto qualcosa?»
«Diavolo, no, non sa niente di questa storia, non ancora. Ma se ti farai arrestare lo
verrà a sapere presto.»
Renshaw, che era originario di Buffalo, era un amico d’infanzia di Greg e socio
anziano del prestigioso studio legale Fawcett Renshaw di Washington. L’estate
precedente, Greg aveva procurato a suo figlio un impiego estivo nello studio e,
come avevano sperato entrambi, quell’occupazione temporanea aveva portato
all’offerta di un’assunzione a tempo pieno dopo la laurea. Era un bel colpo: George
sarebbe stato il primo negro a lavorare in quello studio con mansioni diverse da
quelle di addetto alle pulizie.
«I Freedom Riders non infrangono la legge.» Nella voce di George c’era una punta
di irritazione. «Anzi, noi cerchiamo di farla rispettare. I criminali sono i
segregazionisti. Mi sarei aspettato che un avvocato come Renshaw lo capisse.»
«Lo capisce, però non può assumere una persona che abbia avuto problemi con la
polizia. Credimi, sarebbe lo stesso se tu fossi bianco.»
«Ma noi siamo dalla parte della legge!»
«La vita è ingiusta. I tuoi giorni da studente sono finiti: benvenuto nel mondo
reale.»
In quel momento il capo del gruppo annunciò: «Per favore, andate tutti a comprare
il biglietto e controllate il vostro bagaglio».
George si alzò in piedi.
«Non riuscirò a dissuaderti, vero?» chiese Greg.
Aveva un’aria così demoralizzata che George fu tentato di rinunciare. Ma non
poteva. «No, ho deciso» rispose.
«Allora, per favore, cerca almeno di stare attento.»
George era commosso. «Sono fortunato ad avere persone che si preoccupano per
me» disse. «Lo so.»
Greg gli strinse il braccio e se ne andò in silenzio.
George si mise in fila con gli altri allo sportello e acquistò un biglietto per New
Orleans. Raggiunse l’autobus e consegnò la sua valigetta perché venisse caricata
nel vano bagagli. Sulla fiancata dell’autobus c’erano l’immagine di un grande
levriero e lo slogan: È UNA TALE COMODITÀ PRENDERE IL BUS… E LASCIARE LA GUIDA A
NOI. George salì a bordo.
Un organizzatore gli indicò un posto davanti. Ad altri venne detto di sedersi a
coppie interrazziali. L’autista non prestò alcuna attenzione ai Riders e i passeggeri
normali sembrarono solo blandamente incuriositi. George aprì il libro che gli aveva
dato sua madre e lesse la prima riga.
Un attimo dopo l’organizzatore mandò una delle donne a sedersi vicino a George.
Lui la salutò con un cenno del capo. Era contento. L’aveva già incontrata un paio
di volte e gli era simpatica. Si chiamava Maria Summers. Era vestita con un
semplice abito estivo di cotone grigio chiaro, accollato e dalla gonna ampia. La sua
pelle aveva lo stesso colore caldo e scuro di quello della madre di George, il naso
era grazioso e appiattito e le labbra facevano venire voglia di baci. George sapeva
che la ragazza frequentava la facoltà di legge a Chicago e che, come lui, stava per
laurearsi, per cui probabilmente avevano la stessa età. Riteneva che Maria fosse
non solo intelligente, ma anche determinata. Doveva esserlo se era riuscita a
entrare alla facoltà di legge superando due handicap: essere donna e nera.
George chiuse il libro mentre l’autista metteva in moto e partiva. Maria abbassò lo
sguardo e disse: «Il buio oltre la siepe. L’estate scorsa ero a Montgomery, in
Alabama».
Montgomery era la capitale dello Stato. «Cosa ci facevi là?» chiese George.
«Mio padre è avvocato e un suo cliente aveva citato in giudizio lo Stato. Durante le
vacanze lavoravo per papà.»
«Avete vinto?»
«No. Ma non voglio che tu smetta di leggere per me.»
«Stai scherzando? Posso leggere in qualunque altro momento. Quando mai a un
tizio in autobus capita di avere di fianco una ragazza carina come te?»
«Oh, santo cielo» disse Maria. «Mi avevano avvertito che sei un adulatore.»
«Ti svelerò il mio segreto, se vuoi.»
«Okay, di che si tratta?»
«Sono un tipo sincero.»
La ragazza rise.
«Ma, per favore, non divulgare la notizia» aggiunse George. «Mi rovinerebbe la
reputazione.»
L’autobus attraversò il Potomac ed entrò in Virginia sulla Route 1. «Adesso sei nel
Sud, George» disse Maria. «Hai paura?»
«Ci puoi scommettere.»
«Anch’io.»
La strada era uno squarcio dritto e sottile in mezzo a chilometri e chilometri di
foresta verde primaverile. Attraversarono cittadine dove gli uomini avevano così
poco da fare che si fermavano a osservare il passaggio dell’autobus. George non
guardò molto fuori dal finestrino. Venne a sapere che Maria era cresciuta in una
famiglia di stretta osservanza religiosa e che suo nonno era un predicatore. Lui le
confessò che andava in chiesa soprattutto per fare piacere a sua madre e Maria
ammise che per lei era la stessa cosa. Chiacchierarono per tutto il tempo fino a
Fredericksburg, ottanta chilometri di strada.
I Riders si fecero silenziosi quando l’autobus entrò nella storica cittadina dove
ancora vigeva la supremazia bianca. La stazione Greyhound si trovava tra due
chiese in mattoni rossi con le porte bianche, ma nel Sud la cristianità non era
necessariamente un’indicazione attendibile. Quando il veicolo si fermò, George
vide i bagni e rimase sorpreso nel constatare che, sopra le porte, non c’erano i
cartelli SOLO BIANCHI e SOLO NERI.
I passeggeri scesero e sbatterono le palpebre nel sole. Osservando con più
attenzione, George notò spazi più chiari sopra le porte dei bagni e dedusse che gli
avvisi segregazionisti dovevano essere stati tolti da poco.
I Riders misero comunque in atto il loro piano. Per prima cosa, un organizzatore
bianco entrò nello squallido bagno sul retro, chiaramente previsto per i negri. Ne
uscì illeso, ma quella era la parte più facile. George si era già offerto volontario
come persona di colore che avrebbe sfidato le regole. «Ci siamo» disse a Maria, ed
entrò nel bagno pulito e tinteggiato di recente il cui cartello SOLO BIANCHI era stato
senza dubbio appena rimosso.
In bagno c’era un giovanotto bianco che si stava pettinando il ciuffo alto sulla
fronte. Lanciò un’occhiata a George nello specchio, però non disse nulla. George
era troppo spaventato per fare pipì, ma non poteva semplicemente uscire, così si
lavò le mani. Il giovane se ne andò ed entrò un uomo più anziano, che si chiuse in
un box. George usò l’asciugamano a rullo poi, non essendoci altro da fare, uscì.
Gli altri stavano aspettando. George si strinse nelle spalle. «Niente. Nessuno ha
cercato di fermarmi, nessuno ha fatto commenti.»
«Io ho chiesto una Coca-Cola al banco e la cameriera me l’ha servita» disse Maria.
«Credo che qualcuno qui abbia deciso di evitare problemi.»
«Andrà così fino a New Orleans?» chiese George. «Si comporteranno come se
niente fosse e poi, appena ce ne saremo andati, imporranno di nuovo la
segregazione? Questo, in pratica, ci farebbe mancare il terreno sotto i piedi!»
«Non preoccuparti» disse Maria. «Conosco quelli che governano l’Alabama e,
credimi, non sono così intelligenti.»
3
Walli Frank stava suonando il piano nel salotto di sopra. Lo strumento era uno
Steinway a coda che suo padre teneva accordato per la nonna Maud. Il ragazzo
stava ripassando il riff di A Mess of Blues, un disco di Elvis Presley. Era in do, e ciò
rendeva tutto più facile.
La nonna stava leggendo i necrologi sul “Berliner Zeitung”. A settant’anni, la sua
figura era snella e dritta nell’abito blu scuro di cachemire. «Suoni bene quel tipo di
musica» disse, senza alzare gli occhi dal quotidiano. «Oltre agli occhi verdi, hai
ereditato anche il mio orecchio. Tuo nonno Walter, al quale devi il nome, non è
mai riuscito a suonare il ragtime, che riposi in pace. Ho cercato di insegnarglielo,
ma era senza speranza.»
«Tu suonavi il ragtime?» Walli era sorpreso. «Io ti ho sempre sentito suonare solo
musica classica.»
«Il ragtime ci ha evitato di morire di fame quando tua madre era bambina. Dopo la
Prima guerra mondiale, suonavo in un club che si chiamava Nachtleben, proprio
qui a Berlino. Ogni sera venivo pagata con miliardi di marchi, che bastavano
appena per comprare il pane. Ma a volte ricevevo mance in valuta straniera e con
due dollari potevamo vivere bene per una settimana.»
«Cavolo.» Walli non riusciva a immaginare quella sua nonna dai capelli d’argento
suonare il piano in un nightclub e accettare mance.
Entrò sua sorella. Lili aveva quasi tre anni meno di lui e in quel periodo Walli non
sapeva bene come trattarla. Fin da quando riusciva a ricordare, Lili era sempre
stata una spina nel fianco, come un ragazzino, ma più sciocca. Ultimamente, però,
era diventata più ragionevole e, a complicare le cose, ad alcune delle sue amiche
era cresciuto il seno.
Walli voltò le spalle al piano e afferrò la chitarra. L’aveva acquistata l’anno prima
in un banco dei pegni a Berlino Ovest. Probabilmente era stata impegnata da un
soldato americano in cambio di un prestito che poi non aveva mai ripagato. La
chitarra era una Martin e, sebbene fosse costata poco, a Walli sembrava un ottimo
strumento. Riteneva che né il titolare del banco dei pegni né il soldato si fossero
resi conto del suo vero valore.
«Senti questa» disse a Lili, e cominciò a cantare un motivo delle Bahamas
intitolato All My Trials. Il testo era in inglese. Walli aveva sentito la canzone sulle
stazioni radio occidentali: era popolare tra i gruppi folk americani. Gli accordi
minori la rendevano malinconica e Walli era soddisfatto del dolente
accompagnamento fingerpicking, pizzicato, che lui eseguiva.
Quando finì, la nonna Maud alzò gli occhi dal giornale e disse in inglese: «Il tuo
accento è davvero terribile, Walli caro».
«Mi dispiace.»
La nonna tornò al tedesco. «Però canti bene.»
«Grazie.» Walli si rivolse alla sorella. «Che cosa pensi della canzone?»
«È un po’ triste» rispose Lili. «Forse mi piacerà di più quando l’avrò ascoltata
qualche altra volta.»
«Allora non va bene» fece Walli. «Voglio suonarla questa sera al Minnesänger.» Si
riferiva a un locale di musica folk e che si trovava in una laterale del
Kurfürstendamm, a Berlino Ovest. Il nome significava “trovatore”.
Lili era colpita. «Suonerai al Minnesänger?»
«È una serata speciale. Ci sarà una gara e chiunque potrà esibirsi. Il vincitore
otterrà un ingaggio regolare.»
«Non sapevo che i locali notturni facessero cose del genere.»
«Di norma non le fanno. Questo è un caso unico.»
«Non dovresti essere un po’ più vecchio per entrare in un posto come quello?»
chiese la nonna Maud.
«Sì, ma ci sono già stato.»
«Walli sembra più grande della sua età» osservò Lili.
«Mmh.»
«Tu però non hai mai cantato in pubblico» disse Lili a suo fratello. «Sei nervoso?»
«Ci puoi scommettere.»
«Dovresti suonare qualcosa di più allegro.»
«Credo che tu abbia ragione.»
«Cosa ne dici di This Land Is Your Land ? A me piace molto.»
Walli la suonò e Lili cantò con lui.
Mentre stavano ancora cantando, entrò la sorella maggiore, Rebecca. Walli
l’adorava. Dopo la guerra, i loro genitori avevano lavorato disperatamente giorno e
notte per riuscire a dare da mangiare alla famiglia, e spesso Rebecca aveva dovuto
prendersi cura di Walli e Lili. Era come una seconda madre, però meno severa.
E aveva un tale coraggio! Walli l’aveva guardata quasi con timore reverenziale
gettare fuori dalla finestra il modellino in fiammiferi di suo marito. A lui Hans non
era mai piaciuto ed era segretamente felice che se ne fosse andato.
Tutti i vicini non facevano che parlare di come Rebecca, senza saperlo, avesse
sposato un agente della Stasi. La notizia aveva conferito a Walli un certo status a
scuola: nessuno aveva mai immaginato che ci fosse qualcosa di speciale nei
Franck. Le ragazze, in particolare, erano affascinate dall’idea che per quasi un
anno tutto ciò che era stato detto e fatto in casa sua era stato riferito alla polizia.
Anche se si trattava di sua sorella, Walli si rendeva conto che Rebecca era una
donna stupenda. Aveva un fisico strepitoso e un viso adorabile su cui si leggeva
gentilezza ma anche forza. In quel momento, però, Walli si accorse che sua sorella
aveva l’aspetto di una persona a cui fosse appena morto qualcuno. Smise di
suonare e chiese: «Cos’è successo?».
«Sono stata licenziata.»
La nonna Maud posò il giornale.
«Ma è una pazzia!» esclamò Walli. «I ragazzi della tua scuola dicono che sei
l’insegnante migliore!»
«Lo so.»
«Perché ti hanno fatto fuori?»
«Credo che sia la vendetta di Hans.»
Walli ripensò alla reazione di Hans quando aveva visto il modellino fracassato, le
migliaia di piccoli fiammiferi sparpagliati sull’asfalto bagnato. “Te ne pentirai”
aveva gridato, alzando lo sguardo attraverso la pioggia. Walli aveva considerato
quella frase come una spacconata, ma se ci avesse riflettuto un momento avrebbe
capito che un agente della polizia segreta aveva effettivamente il potere di dare
seguito a una minaccia del genere. “Tu e la tua famiglia” aveva aggiunto Hans, e
Walli era compreso nella maledizione. Rabbrividì.
«Ma non sono alla disperata ricerca di insegnanti?» chiese la nonna Maud.
«Bernd Held è sconvolto» disse Rebecca. «Ma ha ricevuto ordini dall’alto.»
«E ora cosa farai?» domandò Lili.
«Mi troverò un altro lavoro. Non dovrebbe essere difficile. Bernd mi ha dato delle
referenze eccezionali. E ogni scuola della DDR è a corto di insegnanti, perché
tantissimi si sono trasferiti in Occidente.»
«Dovresti trasferirti anche tu» disse Lili.
«Dovremmo trasferirci tutti in Occidente» aggiunse Walli.
«La mamma non lo farà mai, lo sapete» replicò Rebecca. «Sostiene che dobbiamo
risolvere i nostri problemi, non evitarli fuggendo.»
In quel momento entrò il padre di Walli, che indossava un abito blu con panciotto,
fuori moda ma elegante.
«Buonasera, Werner caro» lo salutò la nonna Maud. «Rebecca ha bisogno di un
drink. È stata licenziata.» La nonna diceva spesso che qualcuno aveva bisogno di
un drink. Poi ne avrebbe bevuto uno anche lei.
«So già di Rebecca» ribatté Werner seccamente. «Ho appena parlato con lei.»
Era di cattivo umore: doveva esserlo, per rivolgersi così poco gentilmente a sua
suocera, che ammirava e alla quale voleva bene. Walli si chiese cosa mai avesse
fatto inquietare il vecchio.
Lo scoprì presto.
«Walli, vieni nel mio studio. Voglio parlarti.» Werner varcò la porta a due battenti
che dava nel salotto più piccolo, trasformato in studio. Walli lo seguì. Suo padre si
sedette alla scrivania. Walli sapeva di dover restare in piedi. «Un mese fa abbiamo
avuto una conversazione sul fumo» cominciò Werner.
Walli si sentì subito in colpa. Aveva cominciato a fumare per sembrare più grande,
ma poi gli era piaciuto davvero e ormai era un’abitudine.
«Avevi promesso di smettere» continuò Werner.
A parere di Walli, che fumasse oppure no non erano affari di suo padre.
«Hai smesso?»
«Sì» mentì Walli.
«Non lo sai che ti rimane addosso l’odore?»
«Immagino di sì.»
«Ho avvertito l’odore di fumo su di te appena sono entrato in salotto.»
Walli si sentì un idiota. Era stato scoperto a raccontare una bugia infantile. Questo,
però, non lo rendeva meglio disposto nei confronti del padre.
«Quindi, so che non hai smesso» riprese Werner.
«Allora perché me lo hai chiesto?» Walli odiò la nota petulante che aveva sentito
nella propria voce.
«Speravo che mi dicessi la verità.»
«Speravi di cogliermi in fallo.»
«Credilo pure, se vuoi. Immagino che tu abbia un pacchetto di sigarette in tasca.»
«Sì.»
«Mettilo sulla scrivania.»
Walli estrasse il pacchetto dalla tasca dei pantaloni e lo scagliò con rabbia sul
piano. Suo padre lo prese e lo lasciò cadere con indifferenza in un cassetto. Le
sigarette erano Lucky Strike, non le scadenti f6 che si producevano in Germania
Est. E il pacchetto era quasi pieno.
«Resterai in casa tutte le sere per un mese» disse suo padre. «Almeno non te ne
andrai in giro per bar dove non fanno che suonare il banjo e fumare.»
Walli sentì lo stomaco contrarsi per il panico. Si sforzò di mantenere la calma e
mostrarsi ragionevole. «Non il banjo: la chitarra. E non posso assolutamente
restare chiuso in casa per un mese.»
«Non essere ridicolo. Farai come ti dico.»
«Va bene» cedette Walli, disperato. «Ma non a partire da questa sera.»
«A partire da subito.»
«Ma io questa sera devo andare al Minnesänger!»
«È esattamente il tipo di posto dal quale voglio che tu stia lontano.»
Il vecchio era impossibile! «Resterò a casa tutte le sere per un mese a partire da
domani, okay?»
«La quarantena non verrà modificata per adattarsi ai tuoi programmi. Altrimenti si
vanificherebbe lo scopo. La punizione è pensata proprio per crearti difficoltà.»
Quando Werner era di quell’umore, non era possibile smuoverlo dalla sua
decisione, ma Walli era fuori di sé per la frustrazione e ci provò comunque. «Tu
non capisci! Questa sera devo partecipare a una gara al Minnesänger: è
un’occasione unica.»
«Non intendo posticipare la tua punizione per permetterti di suonare il banjo!»
«È la chitarra, vecchio scemo! La chitarra!» Infuriato, Walli si precipitò fuori.
Ovviamente le tre donne nella stanza accanto avevano sentito tutto. «Oh, Walli…»
disse Rebecca.
Walli afferrò la chitarra e uscì dal salotto.
Scese da basso senza avere un’idea particolare in testa, provava solo rabbia.
Tuttavia, non appena vide la porta d’ingresso, seppe cosa fare. Con la chitarra in
mano, uscì di casa e sbatté il portone con tanta violenza da far tremare l’edificio.
Al piano di sopra si spalancò una finestra e Walli sentì suo padre gridare: «Rientra
in casa, mi hai sentito? Torna immediatamente o ti ritroverai in guai anche
peggiori».
Walli continuò a camminare.
All’inizio era solo arrabbiato, ma dopo un po’ cominciò a sentirsi euforico. Aveva
sfidato suo padre e gli aveva dato addirittura del vecchio scemo! Si diresse verso
ovest, camminando baldanzoso. Ma ben presto l’eccitazione sfumò e cominciò a
chiedersi quali sarebbero state le conseguenze. Suo padre non prendeva alla
leggera la disobbedienza. Imperava su figli e dipendenti e si aspettava che tutti si
adeguassero. Ma cosa avrebbe fatto? Ormai Walli era troppo grande per essere
sculacciato. Poco prima suo padre aveva cercato di chiuderlo in casa come in una
prigione, ma non ci era riuscito. A volte minacciava di fargli interrompere gli studi
e metterlo a lavorare in azienda, ma Walli la considerava una falsa minaccia: suo
padre si sarebbe sentito a disagio con un adolescente pieno di risentimento che
vagava nella sua preziosa fabbrica. In ogni caso, aveva la sensazione che il vecchio
si sarebbe inventato qualcosa.
La strada che stava percorrendo passava da Berlino Est a Berlino Ovest all’altezza
di un incrocio. Tre Vopo, i poliziotti della DDR, chiacchieravano e fumavano
all’angolo. Erano autorizzati a bloccare e interrogare chiunque attraversasse quel
confine invisibile. Non avevano certo la possibilità di fermare tutti, dato che ogni
giorno transitavano parecchie migliaia di persone, compresi molti Grenzgänger,
berlinesi dell’Est che lavoravano nel settore occidentale per salari più alti, pagati
nei preziosi marchi tedeschi della Repubblica federale. Il padre di Walli era
un Grenzgänger, anche se lavorava per il proprio profitto e non per uno stipendio.
Lo stesso Walli attraversava il confine almeno una volta alla settimana, in genere
per andare con gli amici al cinema a Berlino Ovest, dove proiettavano film
americani sexy e violenti, molto più eccitanti delle favole predicatorie delle sale
cinematografiche comuniste.
In pratica i Vopo fermavano chiunque richiamasse la loro attenzione. Le famiglie
al completo, genitori e figli, venivano quasi sempre controllate perché sospettate di
volersene andare dalla DDR definitivamente, specie se avevano bagagli. Gli altri
soggetti che ai Vopo piaceva tormentare erano gli adolescenti, in particolare quelli
che indossavano capi occidentali alla moda. Molti ragazzi di Berlino Est
appartenevano a bande ostili all’establishment: la Texas Gang, la Jeans Gang, i fan
berlinesi della Elvis Presley Appreciation Society e altre. Odiavano la polizia e la
polizia odiava loro.
Walli indossava semplici pantaloni neri, una maglietta bianca e una giacca a vento
marrone. Pensava comunque di avere un aspetto fico, di assomigliare un po’ a
James Dean, ma non a un membro di una gang. Tuttavia la chitarra poteva
richiamare l’attenzione. Era il massimo simbolo di quella che veniva definita la
“non cultura americana”, addirittura più di un fumetto di Superman.
Walli attraversò la strada, attento a non guardare i Vopo. Con la coda dell’occhio
gli sembrò di vedere uno di loro che lo osservava. Ma nessuno gli disse nulla e,
senza fermarsi, passò nel mondo libero.
Lungo il lato meridionale del parco, prese un tram diretto al Ku’damm. La cosa
migliore di Berlino Ovest, pensò, era che tutte le ragazze indossavano i collant.
Raggiunse il Minnesänger Club, una cantina in una laterale del Ku’damm dove
servivano birra leggera e hot dog. Era in anticipo, ma il locale si stava già
riempiendo. Walli parlò con il giovane proprietario, Danni Hausmann, e aggiunse
il proprio nome all’elenco dei concorrenti. Ordinò un birra senza che il barista gli
chiedesse l’età. C’erano molti ragazzi con la chitarra come lui, quasi altrettante
ragazze e poche persone più anziane.
La gara iniziò un’ora dopo. Ogni esibizione prevedeva due canzoni. Alcuni
concorrenti erano principianti senza speranza che strimpellavano semplici accordi,
ma Walli rimase costernato sentendo che c’erano anche numerosi chitarristi più
abili di lui. Molti di loro imitavano lo stile degli artisti americani di cui copiavano
il repertorio. Tre uomini vestiti come il Kingston Trio cantaronoTom Dooley e una
ragazza con i capelli neri lunghi e la chitarra cantò The House of the Rising
Sun esattamente come Joan Baez, ottenendo applausi calorosi e grida di
approvazione.
Una coppia più anziana in velluto a coste si esibì in una canzone che parlava della
campagna, Im Märzen der Bauer, accompagnandosi con la fisarmonica. Era musica
folk, ma non il genere di folk che voleva il pubblico. I due ricevettero un applauso
ironico, ma erano fuori moda.
Walli, sempre più impaziente, stava aspettando il suo turno quando venne
avvicinato da una bella ragazza. Gli succedeva spesso. Pensava di avere un viso
particolare, con i suoi zigomi alti e gli occhi a mandorla, quasi fosse stato per metà
orientale, ma in molte lo trovavano attraente. La ragazza, che si presentò come
Karolin, sembrava avere un anno o due più di lui. Era bionda, e i lunghi capelli
lisci con la riga in mezzo incorniciavano un viso ovale. All’inizio Walli pensò che
fosse come tutte le altre cantanti folk, ma Karolin aveva un grande e caldo sorriso
che fece saltare qualche battito al suo cuore. «Dovevo partecipare alla gara con mio
fratello, che suona la chitarra, ma lui mi ha piantato in asso… Immagino che non ti
andrebbe di fare coppia con me, vero?»
Il primo impulso di Walli fu di rifiutare. Aveva un suo repertorio di canzoni e
nessuna prevedeva duetti. Ma Karolin era incantevole e a lui serviva un motivo per
continuare a parlare con lei. «Dovremmo fare delle prove» disse dubbioso.
«Potremmo andare fuori. Tu quali canzoni avevi in mente?»
«Avevo pensato di fare All My Trials e This Land Is Your Land .»
«E cosa ne diresti di Noch einen Tanz?»
Non faceva parte del suo repertorio, ma Walli conosceva il motivo e sapeva che era
facile da suonare. «Non ho mai pensato a una canzone comica» rispose.
«Al pubblico piacerebbe. Tu potresti cantare la parte dell’uomo, quando lui dice a
lei di tornarsene a casa dal marito ammalato, io canterei “un altro ballo soltanto” e
alla fine potremmo fare insieme l’ultimo verso.»
«Proviamo.»
Uscirono dal locale. Era quasi estate e c’era ancora luce. Si sedettero su un gradino
dell’ingresso e provarono la canzone. Le due voci si intonavano bene e Walli
improvvisò un’armonia sull’ultimo verso.
Karolin aveva una voce pura da contralto che Walli pensò potesse risultare
eccitante e, come secondo numero, suggerì per contrasto una canzone triste. La
ragazza bocciò All My Trials perché troppo deprimente, ma le piacque Nobody’s Fault
but Mine, un lento spiritual. Quando la provarono, a Walli venne la pelle d’oca.
Un soldato americano che stava entrando nel locale sorrise e, in inglese, esclamò:
«Santo cielo, i Bobbsey Twins!».
Karolin scoppiò a ridere e disse a Walli: «A quanto pare ci assomigliamo: tutti e
due siamo biondi con gli occhi verdi. Chi sono i Bobbsey Twins?».
Walli non aveva fatto caso al colore degli occhi della ragazza e si sentì lusingato
che lei invece avesse notato i suoi. «Mai sentiti nominare» rispose.
«Comunque sia, mi sembra un bel nome per un duo. Come gli Everly Brothers.»
«Abbiamo bisogno di un nome?»
«Sì, se vinciamo.»
«Okay. Torniamo dentro. Dev’essere quasi il nostro turno.»
«Un’altra cosa» disse Karolin. «Quando facciamo Noch einen Tanz, ogni tanto
dovremmo guardarci e sorridere.»
«Okay.»
«Come se stessimo insieme, capisci? Farà un bell’effetto in scena.»
«Certo.» Non sarebbe stato difficile sorridere a Karolin come se fosse stata la sua
ragazza.
Rientrarono mentre una bionda strimpellava la chitarra, cantando Freight Train. Non
era bella come Karolin, però era carina, anche se in un modo più banale. Poi un
virtuoso della chitarra si esibì in un complicato blues fingerpicking. E finalmente
Danni Hausmann chiamò il nome di Walli.
Si sentiva teso davanti al pubblico. Quasi tutti i chitarristi avevano tracolle
ricercate, invece lui non si era mai preoccupato di procurarsene una e il suo
strumento era appeso al collo con un pezzo di spago. In quel momento, di colpo,
desiderò avere la tracolla.
«Buonasera, noi siamo i Bobbsey Twins» annunciò Karolin.
Walli suonò un accordo, cominciò a cantare e si rese conto che della tracolla non
gli importava più niente. La canzone era un valzer, che lui suonava con
disinvoltura. Karolin si atteggiava a prostituta sfacciata e Walli rispondeva al gioco
da rigido tenente prussiano.
Il pubblico rideva.
A quel punto a Walli accadde una cosa strana. Nel locale c’erano appena un
centinaio di persone e il suono che emettevano era solo una risatina collettiva di
gradimento, ma in lui suscitò una sensazione che non aveva mai provato, un po’
come la scossa del primo tiro di sigaretta.
Il pubblico rise ancora molte volte e, alla fine della canzone, applaudì
fragorosamente.
A Walli l’applauso fece ancora più effetto.
«Gli piacciamo!» disse Karolin in un sussurro eccitato.
Walli attaccò Nobody’s Fault but Mine, pizzicando le corde d’acciaio con le unghie
per rafforzare l’effetto drammatico delle malinconiche settime, e nel locale si fece
silenzio. Karolin cambiò e si trasformò in una donna disperata. Walli studiò il
pubblico. Nessuno parlava. Una donna aveva le lacrime agli occhi e Walli si chiese
se avesse vissuto ciò che Karolin stava cantando.
Quella muta concentrazione era addirittura meglio delle risate.
Alla fine il pubblico applaudì e chiese un’altra canzone.
La regola era due brani a testa, perciò Walli e Karolin scesero dal palco, ignorando
le richieste di bis, ma Hausmann disse loro di tornare in scena. I ragazzi non
avevano provato una terza canzone e si guardarono in preda al panico. Poi Walli
domandò: «Conosci This Land is Your Land ?» e Karolin annuì.
Il pubblico si unì al canto, costringendo Karolin ad alzare la voce. La potenza
vocale della ragazza sorprese Walli. Lui entrò in controcanto e le due voci si
librarono alte sopra il rumore del pubblico.
Quando finalmente scesero dal palco, Walli si sentiva esaltato. Gli occhi di Karolin
splendevano. «Siamo stati grandi! Sei meglio di mio fratello.»
«Hai una sigaretta?» chiese Walli.
Rimasero seduti a fumare per l’ora di gara successiva.
«Per me, noi due siamo stati i migliori» dichiarò Walli.
Karolin, più cauta, disse: «Al pubblico è piaciuta la ragazza bionda che ha
cantato Freight Train ».
Venne annunciato il risultato.
I Bobbsey Twins erano secondi.
La vincitrice era la sosia di Joan Baez.
Walli era arrabbiato. «Non sa quasi suonare!» protestò.
Karolin la prese con più filosofia. «La gente ama Joan Baez.»
Il locale cominciò a svuotarsi e anche Walli e Karolin si avviarono verso la porta.
Walli era demoralizzato ma, mentre stavano già uscendo, Danni Hausmann li
fermò. Poco più che ventenne, indossava moderni capi casual: maglione nero a
collo alto e jeans. «Voi due potreste farmi mezz’ora lunedì prossimo?»
Walli era troppo sorpreso per reagire, ma Karolin rispose immediatamente:
«Certo!».
«Ma è l’imitatrice di Joan Baez che ha vinto» osservò Walli, che poi però si disse:
“Perché mi metto a discutere?”.
«Mi sembra che voi due abbiate i numeri per fare contento il pubblico per più di un
paio di pezzi» disse Danni. «Avete abbastanza canzoni per un’esibizione di
mezz’ora?»
Di nuovo Walli esitò e, di nuovo, fu Karolin a buttarsi: «Le avremo per lunedì».
A Walli venne in mente che suo padre aveva in programma di tenerlo segregato in
casa tutte le sere per un mese intero, ma decise di non parlarne.
«Grazie» disse Danni. «Voi sarete nella prima parte della serata, venti e trenta.
Dovete presentarvi qui alle sette e mezzo.»
Quando uscirono nella strada illuminata dai lampioni, i due ragazzi erano euforici.
Walli non aveva idea di come se la sarebbe cavata con suo padre, ma si sentiva
ottimista, sicuro che si sarebbe risolto tutto.
Risultò che anche Karolin abitava a Berlino Est. Salirono insieme sull’autobus e
cominciarono a discutere su quali pezzi avrebbero presentato la settimana
seguente. Erano moltissime le canzoni folk che conoscevano entrambi.
Scesero dall’autobus ed entrarono nel Tiergarten. Karolin corrugò la fronte e disse:
«Il tizio dietro di noi».
Walli si voltò a guardare. Alle loro spalle, a una distanza di trenta o quaranta metri,
un uomo con un berretto in testa camminava fumando una sigaretta. «Cos’ha che
non va?»
«Non era al Minnesänger?»
L’uomo evitò lo sguardo di Walli, che pure lo stava fissando. «Non mi pare»
rispose lui. «A te piacciono gli Everly Brothers?»
«Sì!»
Senza smettere di camminare, Walli attaccò All I Have to Do Is Dream , strimpellando
la chitarra appesa al collo con lo spago. Karolin si unì con entusiasmo. Cantarono
insieme attraversando il parco. Poi Walli suonò Back in the USA, il successo di
Chuck Berry.
Stavano intonando a piena voce il ritornello, “I’m so glad living in the USA”, quando
Karolin si bloccò di colpo e disse: «Zitto!». Walli si rese conto che avevano
raggiunto il confine. Vide tre Vopo sotto un lampione osservarli malevoli.
Tacque immediatamente e sperò che avessero smesso di cantare in tempo.
Uno dei poliziotti, un sergente, guardò oltre Walli, che si voltò e vide l’uomo con il
berretto rivolgergli un breve cenno del capo. Il sergente si avvicinò ai due ragazzi e
disse: «Documenti». L’uomo con il berretto parlò in un walkie-talkie.
Walli aggrottò la fronte. A quanto pareva, Karolin aveva avuto ragione: erano stati
seguiti.
Gli venne in mente che forse dietro quel pedinamento poteva esserci Hans.
Possibile che fosse così meschino e vendicativo?
Sì, possibilissimo.
Il sergente esaminò la carta d’identità di Walli e disse: «Hai solo quindici anni.
Non dovresti essere fuori così tardi».
Walli si morse la lingua. Non aveva senso mettersi a discutere con quella gente.
Il sergente controllò la carta di Karolin. «Tu hai diciassette anni! Cosa ci fai con
questo bambino?»
Quell’osservazione ricordò a Walli lo scontro con suo padre. «Io non sono un
bambino» ribatté arrabbiato.
Il sergente lo ignorò. «Potresti uscire con me» disse a Karolin. «Io sono un uomo
vero.»
Gli altri due Vopo risero, apprezzando la battuta.
Karolin non disse nulla, ma il sergente insistette. «Cosa ne dici?» chiese.
«Lei deve essere fuori di testa» replicò calma la ragazza.
Il Vopo si offese. «Piuttosto maleducata come risposta.»
Walli l’aveva già notato in certi uomini. Se una ragazza li respingeva in modo
secco e deciso, si indignavano, ma qualsiasi altra risposta veniva interpretata come
un incoraggiamento. Cosa si supponeva dovesse fare una donna?
«Mi restituisca la carta d’identità, per favore» disse Karolin.
«Sei vergine?» domandò il sergente.
Karolin arrossì.
Gli altri due poliziotti ridacchiarono di nuovo.
«Dovrebbero metterlo sulla carta d’identità delle donne» continuò il sergente.
«Vergine, non vergine.»
«La pianti» intervenne Walli.
«Io sono gentile con le vergini.»
Walli si sentiva ribollire. «Quell’uniforme non le dà il diritto di molestare le
ragazze!»
«Ah, davvero?» Il sergente non restituì le carte d’identità.
Una Trabant 500 marrone si fermò accanto a loro e ne scese Hans Hoffmann. Walli
cominciò ad avere paura. Com’era possibile che fosse finito così nei guai? In fondo
non aveva fatto altro che cantare nel parco.
Hans si avvicinò e disse: «Fammi vedere quella cosa appesa al collo».
Walli raccolse abbastanza coraggio da chiedere: «Perché?».
«Perché sospetto che venga usata per contrabbandare propaganda capitalista e
imperialista nella Repubblica Democratica Tedesca. Dammela.»
La chitarra era così preziosa che Walli, per quanto spaventato, non obbedì. «E se
non lo faccio?» chiese. «Verrò arrestato?»
Il sergente strofinò le nocche della mano destra sul palmo della sinistra.
«Sì, dopo» rispose Hans.
Il coraggio di Walli si esaurì. Si passò lo spago sopra la testa e consegnò la chitarra
a suo cognato.
Hans impugnò lo strumento come per suonarlo, colpì le corde e cantò in inglese:
«You ain’t nothing but a hound dog ». “Non sei altro che un cane.”
I Vopo risero istericamente.
Anche i poliziotti ascoltavano musica pop alla radio, a quanto pareva.
Hans spinse la mano sotto le corde e infilò le dita nella buca, cercando di frugare
all’interno.
«Fai attenzione!» esclamò Walli.
La corda del mi cantino si spezzò con un secco ping.
«È uno strumento delicato!» insistette Walli, disperato.
La perquisizione di Hans era ostacolata dalle corde. «Qualcuno ha un coltello?»
chiese.
Il sergente infilò una mano all’interno della giacca ed estrasse un coltello dalla
lama larga. Di certo non faceva parte della dotazione standard, Walli ne era sicuro.
Hans cercò di tagliare le corde, che però erano più resistenti di quanto avesse
pensato. Riuscì a spezzare quelle del si e del sol, ma non quelle più spesse.
«Non c’è niente dentro!» disse Walli implorante. «Si capisce dal peso.»
Hans lo guardò, sorrise e poi calò con violenza il coltello, di punta, sulla tavola
armonica, vicino al ponticello.
La lama perforò di netto il legno, e Walli gridò di dolore.
Compiaciuto dalla reazione, Hans ripeté il gesto, crivellando di buchi la chitarra.
Con la superficie ormai indebolita, la tensione delle corde provocò il distacco del
ponticello, e del legno intorno, dal corpo dello strumento. Hans strappò di forza ciò
che restava della tavola armonica, mettendo in mostra l’interno della chitarra, come
una bara vuota.
«Niente propaganda» disse. «Congratulazioni: sei innocente.» Tese la chitarra
distrutta a Walli, che l’afferrò.
Sogghignando, il sergente restituì i documenti.
Karolin prese Walli per un braccio e lo trascinò via. «Vieni» disse a bassa voce.
«Andiamocene da qui.»
Walli si lasciò guidare dalla ragazza. Vedeva a malapena dove stava andando. Non
riusciva a smettere di piangere.
4
Il 14 maggio 1961 George Jakes salì a bordo di un autobus Greyhound ad Atlanta,
in Georgia. Era una domenica, la Festa della mamma.
Aveva paura.
Seduta accanto a lui c’era Maria Summers. Si mettevano sempre vicini. Era
diventata una cosa normale: tutti sapevano che il posto libero di fianco a George
era riservato a Maria.
Per nascondere il nervosismo, cominciò a parlare con la ragazza. «Allora, cosa
pensi di Martin Luther King?»
King era il capo della Southern Christian Leadership Conference, uno dei più
importanti gruppi per i diritti civili, che riuniva i leader cristiani degli Stati del Sud.
Lo avevano incontrato la sera precedente a cena, in un ristorante di Atlanta di
proprietà di neri.
«È un uomo straordinario» dichiarò Maria.
George non ne era così sicuro. «Ha detto cose meravigliose sui Freedom Riders,
però non è qui in autobus con noi.»
«Mettiti nella sua posizione» osservò Maria in tono ragionevole. «È il leader di un
altro gruppo per i diritti civili. Un generale non può diventare soldato semplice nel
reggimento di qualcun altro.»
George non aveva mai considerato quel punto di vista. Maria era molto
intelligente.
Se ne era un po’ innamorato. Cercava disperatamente un’occasione per rimanere
solo con lei, ma le persone che ospitavano i Riders a casa loro erano cittadini neri
seri e rispettabili, molti anche devoti cristiani, e non avrebbero mai permesso che le
loro camere per gli ospiti venissero utilizzate per amoreggiare. E Maria, per quanto
fosse attraente, si limitava a sederglisi accanto, chiacchierare con lui e ridere alle
sue battute. Non dava mai quei piccoli segnali fisici che rivelano la disponibilità di
una donna a essere più di un’amica: non gli sfiorava il braccio, non gli prendeva la
mano scendendo dall’autobus, non premeva il proprio corpo contro il suo in mezzo
alla folla. Non flirtava. A venticinque anni, era addirittura possibile che fosse
ancora vergine.
«Hai parlato a lungo con King» disse George.
«Se non fosse un predicatore, avrei scommesso che ci stava provando con me»
rispose Maria.
George non sapeva bene come reagire. Per lui non era affatto sorprendente che un
predicatore tentasse un approccio con una ragazza così incantevole. Ma, pensò,
Maria era un’ingenua per quanto riguardava gli uomini. «Anch’io ho parlato un po’
con King.»
«Cosa ti ha detto?»
George esitò. Erano state proprio le parole di King a spaventarlo. Decise di
rispondere comunque a Maria: aveva il diritto di sapere. «Secondo lui non ce la
faremo a uscire sani e salvi dall’Alabama.»
Maria impallidì. «Davvero ha detto così?»
«Sono le sue esatte parole.»
Adesso erano entrambi spaventati.
Il Greyhound uscì dalla stazione degli autobus.
Per i primi giorni, George aveva temuto che il Freedom Ride sarebbe stato troppo
pacifico. I passeggeri non mostravano alcuna reazione nel vedere persone di colore
sedute nei posti sbagliati e, a volte, si univano addirittura ai loro canti. E non era
mai successo niente quando i Riders avevano sfidato gli avvisi SOLO
BIANCHI e NERI nelle stazioni degli autobus. In alcune città gli avvisi erano perfino
stati cancellati con la vernice. George temeva che i segregazionisti avessero messo
a punto la strategia perfetta. Non c’erano mai problemi né alcuna pubblicità, e i
Riders di colore venivano serviti con cortesia nei ristoranti riservati ai bianchi.
Ogni sera scendevano dagli autobus e partecipavano indisturbati alle loro riunioni,
di solito in una chiesa, e passavano la notte nelle case dei simpatizzanti. Ma
George era sicuro che, non appena lasciavano una città, i cartelli tornavano al loro
posto e la segregazione ricominciava. E che il Freedom Ride sarebbe stato solo una
perdita di tempo.
Era una situazione davvero assurda. Fin da quando poteva ricordare, George si era
sentito ferito e infuriato dal continuo messaggio, a volte implicito ma spesso
espresso con chiarezza, secondo il quale lui era un essere inferiore. Non faceva
differenza che fosse più intelligente del novantanove per cento degli americani
bianchi. E neppure che fosse un uomo che lavorava sodo, educato e ben vestito.
Veniva guardato dall’alto in basso da bianchi squallidi, troppo stupidi o troppo
pigri per fare qualcosa di più complicato che versare da bere o pompare benzina.
Non poteva entrare in un grande magazzino, sedersi in un ristorante o presentare
domanda per un impiego senza domandarsi se sarebbe stato ignorato, se gli
avrebbero ordinato di andarsene o se l’avrebbero respinto a causa del suo colore.
Era qualcosa che lo faceva bruciare di risentimento. Ma ora, paradossalmente, era
deluso perché non stava succedendo.
Nel frattempo la Casa Bianca si mostrava incerta. Il terzo giorno del Ride, il
segretario alla Giustizia Robert Kennedy aveva tenuto un discorso all’università
della Georgia promettendo di imporre i diritti civili nel Sud. Ma tre giorni dopo suo
fratello, il presidente, aveva fatto marcia indietro ritirando il proprio appoggio a
due progetti di legge.
“È così che vinceranno i segregazionisti?” si era domandato George. “Evitando il
confronto e poi ricominciando a comportarsi come al solito?”
Non era andata in quel modo. La pace era durata soltanto quattro giorni.
Il quinto giorno del Ride uno dei partecipanti era stato arrestato per avere insistito
sul proprio diritto a farsi lucidare le scarpe.
La violenza era esplosa il sesto giorno.
Ne era stato vittima John Lewis, lo studente di teologia, attaccato da un gruppo di
delinquenti in una toilette per bianchi a Rock Hill, in South Carolina. Lewis si era
lasciato prendere a calci e pugni senza reagire. George non aveva assistito
all’incidente, e ciò probabilmente era stato un bene, dato che non sapeva se sarebbe
stato all’altezza dell’autocontrollo gandhiano di Lewis.
Aveva letto brevi resoconti dell’episodio sui quotidiani del giorno dopo, ma era
rimasto deluso nel constatare che la vicenda veniva messa in ombra dal volo
suborbitale di Alan Shepard, il primo americano nello spazio. “Chi se ne frega?”
aveva pensato acidamente George. Il cosmonauta sovietico Jurij Gagarin era stato
il primo uomo nello spazio, meno di un mese addietro. “I russi ci hanno battuto.
Un americano bianco può orbitare intorno alla Terra, ma un americano nero non
può entrare in un bagno.”
Poi, ad Atlanta, i Riders erano scesi dall’autobus accolti dagli applausi di
benvenuto di una piccola folla e il morale di George si era risollevato.
Ma quella era la Georgia, e ora erano diretti in Alabama.
«Perché King ha detto che non usciremo sani e salvi dall’Alabama?» chiese Maria.
«Gira voce che il Ku Klux Klan stia preparando qualcosa a Birmingham» rispose
cupo George. «A quanto pare, l’FBI è al corrente della cosa, ma non ha fatto niente
per impedirla.»
«E la polizia locale?»
«La polizia locale è nel maledetto Klan.»
«Cosa te ne pare di quei due?» Con un piccolo movimento del capo, Maria indicò i
posti dall’altra parte della corsia centrale, una fila dietro di loro.
George si voltò a guardare i due uomini massicci seduti fianco a fianco. «Cosa
vuoi dire?»
«Non senti odore di piedipiatti?»
George capì cosa intendeva. «Credi che siano dell’ FBI?»
«Gli abiti sono troppo dozzinali per due del Bureau. La mia ipotesi è che siano
agenti sotto copertura della polizia di Stato dell’Alabama.»
George era colpito. «Come hai fatto a diventare così furba?»
«Mia madre mi faceva mangiare la verdura. E mio padre fa l’avvocato a Chicago,
la capitale dei gangster.»
«Quindi cosa pensi che facciano quei due?»
«Non so bene, ma non credo che siano qui per difendere i diritti civili, giusto?»
George guardò fuori dal finestrino e vide un cartello che annunciava il passaggio
del confine con l’Alabama. Controllò l’orologio: erano le tredici. Il sole splendeva
in un cielo azzurro. “È un bel giorno per morire” pensò.
Maria voleva lavorare in politica o nella pubblica amministrazione. «I dimostranti
possono anche far sentire la loro voce, ma alla fine sono i governi a cambiare le
sorti del mondo» disse.
George rifletté sull’affermazione, chiedendosi se fosse d’accordo. Maria aveva
presentato domanda per un impiego presso l’ufficio stampa della Casa Bianca ed
era stata convocata per un colloquio, ma non aveva ottenuto il posto. “A
Washington non assumono molti avvocati neri” aveva detto in tono triste.
“Probabilmente resterò a Chicago ed entrerò nello studio legale di mio padre.”
Sull’altro lato della corsia, di fianco a George, sedeva una donna bianca di mezza
età in soprabito e cappello, con una grossa borsa bianca di plastica in grembo.
George le sorrise e le disse: «Bella giornata per viaggiare in autobus».
«Vado a trovare mia figlia a Birmingham» spiegò la donna, anche se non le era
stato chiesto nulla.
«Mi fa piacere. Io mi chiamo George Jakes.»
«Cora Jones. Il bambino di mia figlia dovrebbe nascere tra una settimana.»
«Il primo?»
«Il terzo.»
«Be’, lei mi sembra troppo giovane per essere già nonna, se posso permettermi.»
Mrs Jones fece un’espressione compiaciuta. «Ho quarantanove anni.»
«Non l’avrei mai detto!»
Un Greyhound che viaggiava in direzione opposta alla loro azionò i lampeggianti e
l’autobus dei Riders rallentò fino a fermarsi. Un bianco si avvicinò al finestrino
dell’autista e George lo sentì dire: «C’è una folla alla stazione degli autobus di
Anniston». L’autista rispose qualcosa che George non riuscì a cogliere. «State solo
attenti» si raccomandò l’uomo al finestrino.
L’autobus dei Riders ripartì.
«Cosa significa “una folla”?» chiese Maria in ansia. «Possono essere venti persone
o mille. Può essere un comitato di benvenuto o una teppaglia inferocita. Perché non
ci ha detto di più?»
George intuì che Maria mascherava la paura con l’irritazione.
Gli vennero in mente le parole di sua madre: “Ho solo tanta paura che ti uccidano”.
Alcuni del movimento sostenevano di essere pronti a morire per la causa della
libertà. George non era sicuro di voler diventare un martire. C’erano troppe cose
che voleva fare; come, per esempio, andare a letto con Maria.
Un minuto dopo entrarono a Anniston, una cittadina come tante altre nel Sud:
edifici bassi, strade disposte a griglia, polvere e caldo. C’era gente lungo i lati della
strada, come per una parata. Molti erano vestiti a festa, le donne con il cappellino, i
bambini ben lustrati. Senza dubbio erano stati in chiesa. «Cosa si aspettano di
vedere, persone con le corna?» disse George. «Eccoci qui, gente: autentici negri
nordisti, con tanto di scarpe e tutto il resto.» Parlava come rivolgendosi agli
spettatori, anche se poteva sentirlo solo Maria. «Siamo venuti a portarvi via tutti i
vostri fucili e a insegnarvi il comunismo. Dove vanno a nuotare le ragazze
bianche?»
Maria ridacchiò. «Se ti sentissero, non capirebbero che stai scherzando.»
In realtà George non stava scherzando: era più come fischiettare passando davanti
a un cimitero. Cercava di ignorare lo spasmo di paura che gli attanagliava lo
stomaco.
L’autobus entrò nella stazione, stranamente deserta. L’edificio sembrava chiuso e
sbarrato. A George fece venire i brividi.
L’autista aprì la portiera dell’autobus.
George non vide da dove arrivarono. All’improvviso circondarono l’autobus.
Erano bianchi, alcuni in abiti da lavoro, altri con il vestito della domenica.
Avevano con sé mazze da baseball, tubi metallici e catene di ferro. E urlavano.
Gran parte delle parole era incomprensibile, ma George colse espressioni di odio,
tra cui “Sieg Heil!”.
Il suo primo impulso fu di andare a chiudere la portiera dell’autobus. Scattò in
piedi, ma i due uomini che Maria aveva identificato come agenti di polizia furono
più veloci di lui e la serrarono con forza. “Forse sono qui per difenderci” si disse
George. “O forse stanno solo difendendo se stessi.”
Si guardò intorno dai finestrini. Non vide poliziotti. Come poteva la polizia locale
non sapere che una folla armata si era radunata alla stazione degli autobus?
Dovevano essere collusi con il Klan. Nessuna sorpresa.
Un attimo dopo gli uomini si lanciarono all’attacco dell’autobus. Il fragore
prodotto dalle catene e dai piedi di porco che ammaccavano la carrozzeria era
spaventoso. Un vetro andò in frantumi e Mrs Jones gridò. L’autista avviò il
motore, ma uno degli assalitori si distese a terra, davanti all’autobus. George pensò
che l’autista avrebbe potuto semplicemente passargli sopra, invece si fermò.
Un sasso ruppe un finestrino e George avvertì un dolore acuto alla guancia, come
la puntura di un’ape. Era stato colpito da una scheggia. Maria era seduta vicino a
un finestrino: era in pericolo. George l’afferrò per un braccio, tirandola verso di sé.
«Mettiti in ginocchio nella corsia!» le gridò.
Un uomo sghignazzante armato di tirapugni fece passare la mano dal finestrino di
Mrs Jones. «Si metta giù, qui con me!» urlò Maria. Fece abbassare la donna più
anziana accanto a sé e l’abbracciò protettiva.
Le urla erano sempre più alte. «Comunisti!» gridavano. «Vigliacchi!»
«Chinati, George!» disse Maria.
George non riusciva a decidersi a cedere davanti a quei teppisti.
All’improvviso il trambusto diminuì. I colpi sulle fiancate dell’autobus cessarono e
non ci furono più vetri rotti. George vide un agente di polizia.
“Era ora” pensò.
Il poliziotto faceva oscillare il manganello, ma si era messo a chiacchierare
amabilmente con l’uomo sorridente armato di tirapugni.
Poi George vide altri tre poliziotti. Avevano calmato la folla ma, notò con
indignazione, non stavano facendo altro. Si comportavano come se non fosse stato
commesso alcun reato. Parlavano tranquillamente con i teppisti, che sembravano
essere loro amici.
I due agenti, che erano tornati a sedersi ai loro posti, avevano un’espressione
confusa. George immaginò che avessero avuto l’incarico di spiare i Riders, ma che
non avessero preso in considerazione la possibilità di diventare loro stessi vittime
della violenza della folla. Erano stati costretti a schierarsi a fianco dei Riders per
legittima difesa. Forse avrebbero imparato a vedere le cose da un nuovo punto di
vista.
L’autobus si mosse. Attraverso il parabrezza, George vide che un poliziotto stava
sollecitando gli uomini a sgombrare la strada e che un altro faceva segno all’autista
di avanzare. Fuori dalla stazione, un’autopattuglia prese posizione davanti
all’autobus, facendogli strada per uscire dalla città.
George cominciò a sentirsi meglio. «Credo che l’abbiamo scampata» disse.
Maria si alzò in piedi, apparentemente illesa. Afferrò il fazzoletto dal taschino
della giacca di George e gli asciugò delicatamente il viso. Il cotone bianco si
arrossò di sangue. «È un brutto taglio» disse la ragazza.
«Sopravvivrò.»
«Ma non sarai più così carino.»
«Sono carino?»
«Lo eri, ma adesso…»
Quel momento di normalità non durò a lungo. George guardò la strada dietro di sé
e vide una lunga fila di automobili e pick-up che seguivano l’autobus. I veicoli
sembravano tutti carichi di uomini urlanti. George gemette. «No, non l’abbiamo
scampata.»
«A Washington, prima di salire sull’autobus, hai parlato con un ragazzo bianco»
disse Maria.
«Joseph Hugo. Frequenta giurisprudenza a Harvard. Perché?»
«Mi è sembrato di averlo visto fra i teppisti.»
«Joseph Hugo? No. Lui è dalla nostra parte. Devi esserti sbagliata.» Però gli venne
in mente che Hugo era originario dell’Alabama.
«Aveva gli occhi azzurri, sporgenti» disse Maria.
«Se è veramente tra gli aggressori, significa che per tutto questo tempo ha finto di
sostenere i diritti civili… per spiarci. Ma non può essere un informatore.»
«Sei sicuro?»
George guardò di nuovo dietro di sé.
Al confine della città, la scorta della polizia fece inversione di marcia, ma non gli
altri veicoli.
Gli uomini a bordo urlavano così forte da sovrastare il rumore dei motori.
Fuori città, in un lungo tratto deserto della Highway 202, due auto sorpassarono
l’autobus e poi rallentarono, costringendolo a frenare. L’autista tentò di superarle,
ma queste presero a scartare da un lato all’altro, bloccandogli la strada.
Pallidissima, Cora Jones tremava e stringeva la sua borsa di plastica come se fosse
stata un salvagente.
«Mi dispiace che l’abbiamo coinvolta in questa storia, Mrs Jones» disse George.
«Dispiace anche a me.»
Finalmente le auto davanti si spostarono di lato e l’autobus le superò. Ma le
traversie non erano finite: il convoglio continuava a seguirli. Poi George sentì un
suono familiare, una specie di pop. Quando l’autobus cominciò a sbandare, capì
che era scoppiato uno pneumatico. L’autista rallentò fino a fermarsi vicino a un
negozio di alimentari che si affacciava sulla strada. George ne lesse il nome:
Forsyth & Son.
L’autista saltò giù dall’autobus e George lo sentì dire: «Due gomme a terra?». Poi
l’uomo entrò nel negozio, presumibilmente per telefonare e chiedere aiuto.
George era teso come una corda di violino. Una gomma a terra era solo una
foratura, due erano un’imboscata.
Com’era prevedibile, le auto del convoglio si erano fermate e stavano scaricando
una decina di uomini che, nei loro abiti della festa, urlavano insulti agitando mazze
e bastoni, come selvaggi sul sentiero di guerra. George sentì lo stomaco contrarsi
di nuovo quando li vide correre verso l’autobus, brutte facce bianche stravolte
dall’odio. Capì perché gli occhi di sua madre si erano riempiti di lacrime quando
lei aveva parlato dei bianchi del Sud.
In testa al branco c’era un adolescente che sollevò un piede di porco sopra la testa
e frantumò allegramente un finestrino.
Un uomo tentò di salire sull’autobus. Uno dei due passeggeri bianchi corpulenti si
piazzò in cima ai gradini ed estrasse un revolver, confermando la teoria di Maria
secondo cui i due erano agenti in borghese. L’aggressore arretrò e il poliziotto
bloccò la porta.
George temette che potesse essere un errore. E se i Riders avessero avuto bisogno
di scendere rapidamente?
Fuori, gli uomini cominciarono a far oscillare l’autobus, come se volessero
rovesciarlo. Tutti urlavano: «Ammazziamo i negri! Ammazziamo i negri!». Le
donne sull’autobus stavano gridando. Maria si aggrappò a George in un modo che
a lui avrebbe fatto piacere se non avesse temuto per la propria vita.
Vide arrivare due agenti in uniforme e sentì crescere la speranza ma, con sua
grande rabbia, questi non fecero nulla per riportare l’ordine. Osservò gli agenti in
borghese a bordo dell’autobus: sembravano confusi e spaventati. Era chiaro che i
due in uniforme non sapevano dei loro colleghi sotto copertura. Evidentemente la
polizia dell’Alabama era anche disorganizzata, oltre che razzista.
George si chiese disperatamente cosa fare per proteggere Maria e se stesso.
Scendere dall’autobus e correre via? Sdraiarsi sul pavimento? Sottrarre la pistola a
uno dei due agenti e sparare a qualche bianco? Ogni possibilità sembrava peggiore
del non fare niente.
Fissò infuriato i due poliziotti all’esterno, che guardavano la scena come se non
stesse succedendo nulla di male. Erano tutori dell’ordine, per l’amor di Dio! Cosa
pensavano di fare? Se non facevano rispettare la legge, che diritto avevano di
indossare quell’uniforme?
Poi vide Joseph Hugo. Non c’era possibilità di errore: George conosceva bene
quegli occhi azzurri sporgenti. Hugo si avvicinò a uno dei poliziotti e gli parlò, poi
tutti e due scoppiarono a ridere.
Hugo era una spia.
“Se mai uscirò vivo da qui” si disse George “quel verme se ne pentirà.”
Gli uomini all’esterno urlarono ai Riders di scendere. George sentì qualcuno
gridare: «Venite qui a prendervi quello che vi spetta, amanti dei negri!». Ciò lo
convinse che era più al sicuro sull’autobus.
Ma non per molto.
Uno del gruppo era tornato alla sua auto, aveva aperto il bagagliaio e ora correva
verso l’autobus tenendo in mano qualcosa che bruciava. Attraverso un finestrino
rotto, scagliò all’interno una specie di fagotto in fiamme che, pochi secondi dopo,
esplose in un fumo grigio. Ma non si trattava semplicemente di un fumogeno: la
tappezzeria prese fuoco e, nel giro di pochi istanti, dense esalazioni nere
cominciarono a soffocare i passeggeri. Una donna urlò.
George sentì qualcuno strillare da fuori: «Bruciamo i negri! Friggiamoli!».
Tutti cercarono di uscire. La corsia centrale dell’autobus era stipata di persone che
boccheggiavano. Alcuni premevano per avanzare, ma sembrava esserci un blocco.
George gridò: «Scendiamo dall’autobus! Tutti fuori!».
Dalla parte anteriore qualcuno urlò: «La portiera non si apre!».
George ricordò che l’agente armato di pistola l’aveva bloccata per impedire agli
aggressori di salire. «Dobbiamo saltare dai finestrini!» gridò. «Forza!»
Salì in piedi sopra un sedile e, con un calcio, fece cadere all’esterno la maggior
parte del vetro che ancora restava. Poi si tolse la giacca e la sistemò sul bordo, in
modo da offrire un minimo di protezione dai frammenti ancora conficcati nel telaio
del finestrino.
Maria continuava a tossire, impotente. «Esco prima io» disse George «così ti
prendo al volo quando salti giù.» Afferrandosi allo schienale del sedile per
bilanciarsi, salì con i piedi sul bordo del finestrino, si piegò e saltò. Sentì la
camicia lacerarsi, impigliata in qualcosa di sporgente, ma non provò dolore e
concluse di non essersi ferito. Atterrò sull’erba che fiancheggiava la strada.
Spaventati, gli aggressori si erano allontanati dall’autobus in fiamme. George si
voltò e tese le braccia in alto, verso Maria. «Arrampicati come ho fatto io!» gridò.
Le scarpe della ragazza erano poco robuste, se paragonate alle sue oxford stringate,
e fu contento di avere sacrificato la giacca quando vide i piccoli piedi di Maria sul
bordo del finestrino. Era più bassa di lui, ma la sua figura femminile era più piena.
George fece una smorfia quando la vide passare a fatica dal finestrino e sfiorare
con il fianco un frammento di vetro, che però non le lacerò neppure il vestito. Un
attimo dopo, la ragazza gli cadde tra le braccia.
La resse senza problemi: Maria non era pesante e lui era in buona forma. La posò a
terra in piedi, ma la ragazza si lasciò cadere in ginocchio, boccheggiando in cerca
d’aria.
George si guardò intorno. I teppisti continuavano a tenersi a distanza. Lanciò
un’occhiata all’interno dell’autobus. In piedi nella corsia, Cora Jones tossiva,
girando su se stessa, troppo scioccata e disorientata per mettersi in salvo. «Cora,
venga qui!» gridò George. La donna sentì il proprio nome e lo guardò. «Passi dal
finestrino, come abbiamo fatto noi! L’aiuto io!» Cora sembrò capire. Con
difficoltà, e continuando a stringere con forza la sua borsa, si alzò in piedi sul
sedile. Esitò quando vide i frammenti di vetro intorno al telaio del finestrino, ma
indossava un soprabito pesante e sembrò decidere che uno strappo era un rischio
minore della morte per soffocamento. Mise un piede sul bordo. George allungò una
mano, le afferrò un braccio e tirò. A Cora si strappò il soprabito, ma lei non si ferì.
George la posò a terra. La donna avanzò barcollante, chiedendo acqua.
«Dobbiamo allontanarci dall’autobus!» gridò George a Maria. «Il serbatoio
potrebbe esplodere.» Però Maria era così scossa dalla tosse da non sembrare in
grado di muoversi. George le passò un braccio intorno alla schiena, l’altro dietro le
ginocchia e la sollevò. La portò verso il negozio di alimentari e la posò a terra
quando ritenne di trovarsi a una distanza di sicurezza.
Guardò dietro di sé e vide che l’autobus si stava svuotando in fretta. La portiera era
stata finalmente aperta e i passeggeri scendevano incespicando. Altri saltavano dai
finestrini.
Le fiamme aumentavano. Quando scese l’ultimo passeggero, l’interno del veicolo
era ormai una fornace. George sentì un uomo gridare qualcosa a proposito del
serbatoio e la teppaglia riprese quel grido, strillando: «Sta per esplodere! Adesso
sta per esplodere!». Tutti si allontanarono di corsa terrorizzati, sparpagliandosi in
direzioni diverse. Poi si sentì un forte rumore sordo, ci fu un’improvvisa e violenta
vampata di fiamme e il veicolo tremò per lo scoppio.
George era abbastanza sicuro che all’interno non fosse rimasto nessuno e pensò:
“Almeno non ci sono stati morti… non ancora”.
L’esplosione pareva aver placato la fame di violenza degli aggressori, i quali se ne
stavano fermi a guardare l’autobus che bruciava.
Una piccola folla di quella che sembrava gente del posto si era radunata davanti al
negozio di alimentari. Molti applaudivano i teppisti, ma poi una ragazza uscì
dall’edificio con un secchio d’acqua e dei bicchieri di plastica. Diede da bere a Mrs
Jones, poi a Maria che, riconoscente, scolò tutto d’un fiato un bicchiere d’acqua e
ne chiese un altro.
Le si avvicinò un giovane bianco dall’espressione preoccupata. Aveva una faccia
da roditore: fronte e mento sfuggenti, il naso appuntito, i denti sporgenti e i capelli
castano rossicci lisciati all’indietro con la brillantina. «Come ti senti, cara?» chiese
a Maria. Ma nascondeva qualcosa e, mentre lei stava per rispondere, sollevò un
piede di porco e poi lo calò, mirando alla testa della ragazza. George tese di scatto
un braccio per proteggere Maria e l’attrezzo lo colpì con violenza sull’avambraccio
sinistro. Il dolore fu tremendo, e George gridò. L’uomo sollevò di nuovo il piede di
porco. Nonostante il braccio ferito, George si scagliò contro di lui con la spalla
destra e lo colpì così forte da farlo quasi volare via.
Si voltò verso Maria e vide altri tre teppisti correre nella sua direzione,
chiaramente decisi a vendicare il loro amico con la faccia da topo. George aveva
sbagliato a pensare che i segregazionisti avessero già fatto il pieno di violenza.
Era abituato al corpo a corpo. Durante i primi anni di università aveva fatto parte
della squadra di lotta di Harvard, che poi era passato ad allenare. Ma quello non
sarebbe stato un incontro leale, basato sulle regole. E lui aveva un solo braccio
disponibile.
Era anche vero, però, che aveva frequentato le elementari nei bassifondi di
Washington e sapeva come battersi in modo sporco.
I tre puntavano su di lui affiancati, per cui George si spostò di lato. La mossa non
solo li allontanò da Maria, ma li fece voltare, costringendoli a procedere in fila.
Il primo dei tre sferrò un colpo selvaggio con una catena di ferro.
Quasi in un passo di danza, George saltò all’indietro e la catena lo mancò. Per via
dello slancio, il suo aggressore perse l’equilibrio. Mentre barcollava, George gli
mollò un calcio alle gambe, facendolo crollare a terra. L’uomo lasciò andare la
catena.
Il secondo assalitore inciampò sul primo. George fece un passo avanti, si voltò di
schiena e lo colpì in faccia con il gomito destro, sperando di slogargli la
mandibola. L’uomo emise un grido soffocato e stramazzò a terra, lasciando cadere
la sua leva per pneumatici.
Il terzo aggressore si fermò, improvvisamente spaventato. George fece un passo
verso di lui e gli sferrò un pugno in faccia con tutta la forza che aveva. Lo centrò in
pieno sul naso. Le ossa si frantumarono, il sangue sgorgò e l’uomo lanciò un urlo
di dolore. Era il colpo di maggior soddisfazione che George avesse mai inferto in
vita sua. Al diavolo Gandhi.
A quel punto risuonarono due spari e tutti si voltarono. Uno degli agenti in
uniforme aveva la pistola puntata in aria. «Okay, ragazzi, vi siete divertiti
abbastanza» disse. «Adesso andiamocene.»
George era furibondo. Divertiti? Quel poliziotto era stato testimone di un tentato
omicidio e parlava di divertimento? Stava cominciando a rendersi conto che in
Alabama un’uniforme di polizia non significava molto.
I teppisti tornarono alle loro auto. George si accorse con rabbia che nessuno dei
quattro poliziotti si prendeva il disturbo di annotare i numeri di targa e neppure i
nomi, anche se probabilmente conoscevano tutti.
Joseph Hugo era svanito.
Ci fu un’altra esplosione in ciò che restava dell’autobus e George immaginò che
provenisse da un secondo serbatoio. In ogni caso a quel punto nessuno era
abbastanza vicino da essere in pericolo. Poi le fiamme sembrarono esaurirsi da
sole.
C’erano parecchie persone distese a terra, molte delle quali respiravano ancora a
fatica dopo avere inalato il fumo. Altre perdevano sangue da ferite di vario tipo.
Alcuni erano Riders, altri normali passeggeri, bianchi e neri. George si reggeva con
la mano destra il braccio sinistro, premendoselo contro il fianco e cercando di
tenerlo ben fermo perché ogni movimento gli provocava dolori atroci. I quattro con
cui si era azzuffato si stavano aiutando a vicenda per tornare zoppicando alle loro
auto.
George riuscì a camminare fino al punto in cui si trovavano i poliziotti. «Serve
un’ambulanza» disse. «Forse due.»
Il più giovane degli agenti in uniforme lo guardò sprezzante. «Come, scusa?»
«Queste persone hanno bisogno di cure mediche. Chiami un’ambulanza!»
L’agente sembrò infuriarsi e George capì di avere commesso l’errore di dire a un
bianco cosa doveva fare. Ma il poliziotto più anziano cercò di rabbonire il collega:
«Lascia perdere, dài». Poi si rivolse a George: «Sarà qui tra poco, ragazzo».
Pochi minuti dopo arrivò un’ambulanza che aveva le dimensioni di un piccolo
autobus e i Riders cominciarono ad aiutarsi a vicenda per salire a bordo. Ma
quando si avvicinarono anche George e Maria, l’autista disse: «Voi no».
George lo guardò incredulo. «Cosa?»
«Questa è un’ambulanza per bianchi» tagliò corto l’autista. «Non carico negri.»
«Fesserie!»
«Non fare l’insolente con me, ragazzo.»
Un Rider bianco che si trovava già a bordo scese dall’ambulanza. «Lei deve
portare tutti in ospedale» disse all’autista. «Bianchi e neri.»
«Questa non è un’ambulanza per negri» ribadì ostinato l’autista.
«Be’, noi non ce ne andiamo senza i nostri amici.» E, uno per uno, i Riders bianchi
cominciarono a scendere dall’ambulanza.
L’autista venne colto alla sprovvista. George pensò che avrebbe fatto la figura
dell’idiota se fosse rientrato in ospedale senza pazienti a bordo.
L’agente più anziano si avvicinò. «È meglio che li carichi tutti, Roy.»
«Se lo dici tu» disse l’autista.
George e Maria salirono sull’ambulanza.
Mentre si allontanavano, George si voltò a guardare l’autobus. Non restava nulla, a
parte un filo di fumo e una carcassa annerita, con i montanti bruciacchiati del tetto
che spiccavano come le coste di un martire arso sul rogo.
5
Tanja Dvorkina partì da Jakutsk in Siberia – la città più fredda del mondo – la
mattina presto, subito dopo colazione. Volò a Mosca, distante circa cinquemila
chilometri, a bordo di un Tupolev Tu-16 dell’aviazione sovietica. La cabina era
stata pensata per ospitare cinque o sei militari e il progettista non aveva perso
tempo a preoccuparsi per la loro comodità: i sedili erano di alluminio forato e non
c’era alcun sistema di insonorizzazione. Il volo durò otto ore, compreso uno scalo
per fare rifornimento. Dato che Mosca era sei ore indietro rispetto a Jakutsk, Tanja
atterrò in tempo per un’altra colazione.
Era estate a Mosca, così si tolse il cappotto pesante e il colbacco. Prese un taxi per
raggiungere la Casa del governo, il palazzo di appartamenti riservato alla
privilegiata élite moscovita dove abitava con sua madre Anja e il fratello gemello
Dmitrij, che tutti chiamavano Dimka. Il loro era un appartamento grande, con tre
camere da letto, anche se sua madre sosteneva che era spazioso solo in base agli
standard sovietici: l’appartamento di Berlino dove aveva vissuto da bambina,
quando nonno Grigorij faceva il diplomatico, era molto più ampio.
Quella mattina la casa era deserta e silenziosa: sua madre e Dimka erano già usciti
per andare al lavoro. I loro soprabiti erano nell’ingresso, appesi ai chiodi piantati
dal padre di Tanja un quarto di secolo prima: l’impermeabile nero di Dimka e il
cappotto di tweed marrone della mamma lasciati a casa per il clima caldo. Tanja
appese il proprio accanto agli altri e portò la valigia in camera sua. Non si era
aspettata di trovare qualcuno in casa, ma provò comunque una punta di rammarico
per il fatto che sua madre non fosse lì a prepararle il tè e che Dimka non potesse
ascoltare le sue avventure in Siberia. Pensò di andare a trovare i nonni, Grigorij e
Katerina, che abitavano a un altro piano nello stesso edificio, ma decise che non ne
aveva il tempo.
Fece la doccia, si cambiò d’abito e poi prese un autobus per raggiungere la sede
della TASS. Tanja era una degli oltre mille giornalisti che lavoravano per l’agenzia
di stampa sovietica, ma non molti di loro se ne andavano in giro volando su jet
militari. Lei era una stella in ascesa, in grado di preparare reportage vivaci e
interessanti che, pur piacendo ai più giovani, seguivano rigorosamente la linea del
partito. Una qualità che presentava vantaggi e svantaggi: le venivano spesso
assegnati difficili incarichi di alto profilo.
In mensa mangiò una ciotola di kaša di grano saraceno con panna acida, poi andò
alla redazione in cui lavorava. Anche se era una promessa del giornalismo, non si
era ancora guadagnata un ufficio tutto suo. Salutò i colleghi, si sedette a una
scrivania, inserì fogli bianchi e carta carbone nella macchina per scrivere e
cominciò a battere sui tasti.
Il volo era stato troppo turbolento anche solo per buttare giù qualche nota, ma
Tanja aveva già elaborato nella mente i suoi articoli e adesso era in grado di
scrivere spedita, consultando ogni tanto il taccuino per i dettagli. Le istruzioni che
aveva ricevuto erano di incoraggiare le giovani famiglie sovietiche a emigrare in
Siberia per lavorare nel settore minerario e in quello delle trivellazioni, in grande
espansione: un compito non facile. I campi di prigionia fornivano moltissima mano
d’opera non specializzata, ma la regione aveva bisogno di geologi, ingegneri,
topografi, architetti, chimici e dirigenti. Nel suo articolo, tuttavia, Tanja lasciò da
parte gli uomini e scrisse delle loro mogli. Cominciò con una simpatica, giovane
madre di nome Klara che le aveva parlato con entusiasmo e umorismo di come
adattarsi a una vita a temperature molto al di sotto dello zero.
A metà mattina Daniil Antonov, il caposervizio a cui faceva riferimento Tanja,
raccolse i fogli dalla vaschetta sulla scrivania e cominciò a leggere. Era un uomo
minuto e i suoi modi gentili erano insoliti nel mondo del giornalismo. «Magnifico»
disse dopo un po’. «Quando avrò il resto?»
«Sto scrivendo più in fretta che posso.»
Antonov non se ne andò. «Mentre eri in Siberia, hai sentito qualcosa a proposito di
Ustin Bodian?» Bodian era un cantante d’opera che era stato sorpreso a
contrabbandare in Unione Sovietica due copie del Dottor Živago che si era procurato
mentre si esibiva in Italia. Ora si trovava in un campo di lavoro.
Il cuore di Tanja, che si sentì colta in flagrante, accelerò i battiti. Daniil sospettava
di lei? Era insolitamente intuitivo per essere un uomo. «No» mentì. «Perché me lo
chiedi? Tu hai sentito qualcosa?»
«No, niente.» Daniil tornò alla sua scrivania.
Tanja aveva quasi finito il terzo articolo quando Pëtr Opotkin si fermò di fianco
alla scrivania e cominciò a leggere, con una sigaretta che gli pendeva dalle labbra.
Massiccio e con una brutta carnagione, Opotkin era il caporedattore dei servizi
speciali. A differenza di Daniil, non era un vero giornalista, bensì un commissario,
nominato dai politici. Il suo compito era assicurarsi che i servizi non violassero le
linee guida del Cremlino e la sua unica qualifica per l’incarico era una rigida
ortodossia.
Lette le prime pagine di Tanja commentò: «Ti avevo detto di non scrivere niente
sul clima». Opotkin proveniva da un paese a nord di Mosca e aveva ancora
l’accento della Russia settentrionale.
Tanja sospirò. «Pëtr, la serie di articoli riguarda la Siberia. La gente sa già che lì fa
freddo. Nessuno ci cascherebbe.»
«Ma questo pezzo è tutto sul clima.»
«È su una giovane moscovita piena di risorse che sta crescendo la sua famiglia in
condizioni difficili… e che sta vivendo una grande avventura.»
Daniil si unì alla conversazione. «Tanja ha ragione, Pëtr» disse. «Se evitiamo
qualsiasi accenno al freddo, la gente dirà che l’articolo è una stronzata e non
crederà più a una sola parola.»
«Non mi piace» ribadì ostinato Opotkin.
«Devi ammettere che Tanja fa sembrare tutto eccitante» insistette Daniil.
Opotkin sembrò riflettere. «Forse hai ragione» ammise e lasciò cadere le pagine
nel vassoio. «Sabato sera darò una festa a casa mia» disse a Tanja. «Mia figlia si è
diplomata. Mi chiedevo se a te e a tuo fratello farebbe piacere venire.»
Opotkin era un arrampicatore sociale di scarso successo che dava feste
mortalmente noiose. Tanja sapeva di poter parlare anche per conto di suo fratello.
«Sarei venuta molto volentieri, e sono sicura che sarebbe venuto volentieri anche
Dimka, ma sabato è il compleanno di nostra madre. Mi dispiace tanto.»
Opotkin sembrò offeso. «Peccato» disse e se ne andò.
Quando Opotkin fu abbastanza lontano da non sentire, Daniil le chiese: «Non è il
compleanno di tua madre, vero?».
«No.»
«Controllerà.»
«Così capirà che ho inventato una scusa gentile perché non volevo andare.»
«Dovresti andare alle sue feste.»
Tanja non voleva lasciarsi coinvolgere in quella conversazione. Aveva cose più
importanti in mente. Doveva scrivere i suoi articoli, uscire da lì e andare a salvare
la vita di Ustin Bodian. Ma Daniil era un buon capo e aveva una mentalità liberale,
così represse l’impazienza. «A Pëtr non importa se io partecipo o no alla sua festa»
disse. «A lui interessa mio fratello, che lavora per Chrušcëv.» Tanja era abituata a
gente che cercava di farsela amica solo a causa della sua famiglia influente. Suo
padre prima di morire era stato colonnello del KGB, la polizia segreta, e lo zio
Volodja era un generale dei servizi segreti dell’Armata rossa.
Daniil possedeva la perseveranza del giornalista. «Pëtr ce l’ha data vinta con gli
articoli sulla Siberia. Dovresti dimostrargli la tua gratitudine.»
«Odio le sue feste. I suoi amici si ubriacano e allungano le mani sulle mogli
altrui.»
«Non voglio che ti porti rancore.»
«Perché dovrebbe?»
«Tu sei molto affascinante.» Daniil non ci stava provando: viveva con un amico e
Tanja era sicura che fosse uno di quegli uomini che non si sentivano attratti dalle
donne. Il suo tono era pratico. «Sei bella, piena di talento e, quel che è peggio,
giovane. Per Pëtr non sarà difficile arrivare a odiarti. Sforzati di essere un po’ più
gentile con lui.» Si allontanò.
Tanja si rese conto che probabilmente Daniil aveva ragione, ma decise che ci
avrebbe pensato più tardi. Riportò l’attenzione sulla macchina per scrivere.
A mezzogiorno andò a prendere in mensa un’insalata di patate con aringhe in
salamoia e mangiò alla scrivania.
Appena terminato il terzo articolo, consegnò i fogli a Daniil. «Vado a casa a
dormire» annunciò. «Per favore, non telefonare.»
«Bel lavoro. Riposati.»
Tanja mise il suo taccuino nella borsa a tracolla e uscì dall’edificio.
Doveva assicurarsi di non essere seguita. Era stanca e quindi avrebbe potuto
commettere più facilmente degli errori. Era preoccupata.
Superò la fermata del suo autobus, camminò per diversi isolati fino alla fermata
precedente della stessa linea e fu lì che salì. Un percorso insensato, che però le
permetteva di capire se qualcuno la stesse seguendo.
Non vide nessuno.
Scese vicino a un grande palazzo prerivoluzionario, ora ristrutturato e suddiviso in
appartamenti. Fece il giro dell’isolato, ma a quanto pareva nessuno stava
sorvegliando l’edificio. In ansia, fece un altro giro per essere sicura, poi entrò nel
lugubre atrio e salì la scala di marmo crepato fino all’appartamento di Vasilij
Enkov.
Proprio mentre stava per inserire la chiave nella serratura, la porta si aprì e le
comparve davanti una bionda slanciata sui diciotto anni. Vasilij era dietro la
ragazza. Tanja imprecò dentro di sé. Era troppo tardi per correre via o fingere di
essere diretta a un altro appartamento.
La bionda esaminò Tanja con una dura occhiata, valutandone la pettinatura, la
figura e l’abbigliamento. Poi baciò Vasilij sulla bocca, lanciò un ultimo sguardo di
trionfo a Tanja e scese le scale.
Vasilij aveva trent’anni, ma gli piacevano le ragazze giovani, le quali gli si
concedevano sempre perché era alto e affascinante, con bei lineamenti cesellati,
folti capelli scuri, sempre un po’ troppo lunghi, e languidi occhi castani da
seduttore. Tanja lo ammirava per una serie di ragioni completamente diverse:
Vasilij era intelligente, coraggioso e uno scrittore di classe mondiale.
Entrò nel suo studio e lasciò cadere la borsa su una sedia. Vasilij lavorava come
sceneggiatore alla radio ed era disordinato per natura. La scrivania era ingombra di
carte e sul pavimento c’erano pile di libri. Sembrava che stesse lavorando a un
adattamento radiofonico di Piccoli borghesi, la prima commedia di Maksim Gor’kij.
La gatta grigia di Vasilij, Mademoiselle, dormiva sul divano. Tanja la cacciò via e
si sedette al suo posto. «Chi era quella puttanella?» domandò.
«Mia madre.»
Nonostante l’irritazione, Tanja scoppiò a ridere.
«Mi dispiace che tu l’abbia trovata qui» disse Vasilij, anche se non sembrava
molto rammaricato.
«Sapevi che oggi sarei venuta.»
«Pensavo che arrivassi più tardi.»
«Mi ha visto in faccia. E nessuno dovrebbe sapere che esiste un collegamento fra
noi due.»
«Quella ragazza lavora ai grandi magazzini GUM. Si chiama Varvara. Non
sospetterà niente.»
«Per favore, Vasilij, fa’ che non succeda mai più. Quello che facciamo è già
abbastanza pericoloso. Non dovremmo correre ulteriori rischi. Puoi scoparti
un’adolescente quando vuoi.»
«Hai ragione, e non succederà più. Vado a prepararti il tè. Hai l’aria stanca.»
Vasilij si diede da fare con il samovar.
«Sì, sono stanca, ma Ustin Bodian sta morendo.»
«Accidenti. Di cosa?»
«Polmonite.»
Tanja non era amica di Bodian, ma lo aveva intervistato prima che si cacciasse nei
guai. Oltre ad avere un talento straordinario, era un uomo cordiale e di buon cuore.
Quale artista sovietico ammirato in tutto il mondo, aveva vissuto una vita di grandi
privilegi, ma era comunque stato capace di arrabbiarsi pubblicamente per le
ingiustizie imposte a chi era meno fortunato di lui. Era quella la ragione per cui lo
avevano spedito in Siberia.
«Lo fanno ancora lavorare?» chiese Vasilij.
Tanja scosse la testa. «Non è più in grado. Ma non lo ricoverano in ospedale. Se ne
sta semplicemente disteso sulla sua branda tutto il giorno e continua a peggiorare.»
«L’hai visto?»
«Accidenti, no. È stato già abbastanza pericoloso chiedere sue notizie. Se fossi
andata al campo di prigionia, mi avrebbero trattenuta là.»
Vasilij le porse il tè e lo zucchero. «Non riceve cure mediche?»
«No.»
«Hai idea di quanto gli resti da vivere?»
«No. Adesso sai tutto quello che so io.»
«Dobbiamo divulgare la notizia.»
Tanja era d’accordo. «L’unico modo per salvargli la vita è rendere pubblico il suo
stato di salute e sperare che il governo abbia la decenza di sentirsi in imbarazzo.»
«Facciamo uscire un’edizione speciale?» chiese Vasilij.
«Sì. Oggi.»
Vasilij e Tanja realizzavano insieme un notiziario illegale di un solo foglio
intitolato “Dissidenza”, nel quale riferivano sulla censura, le dimostrazioni, i
processi e i detenuti politici. Nel suo ufficio a Radio Mosca, Vasilij disponeva di
un proprio ciclostile, che di solito veniva usato per riprodurre i copioni. In segreto,
Vasilij ciclostilava cinquanta copie di ogni numero di “Dissidenza”. Quasi tutti
coloro che ne ricevevano una copiavano a loro volta i testi con la macchina per
scrivere, o anche a mano, e il notiziario si diffondeva a macchia d’olio. Quel
sistema di pubblicazione clandestino, che in russo si chiamava samizdat, era molto
diffuso: interi romanzi erano stati distribuiti nello stesso modo.
«Scrivo io.» Tanja andò alla credenza e tirò fuori un grande scatolone pieno di cibo
secco per gatti. Tuffò le mani tra i croccantini e sollevò una macchina per scrivere
protetta dalla custodia. Era quella che usavano per “Dissidenza.”
La scrittura a macchina era unica, come la grafia. Ogni macchina per scrivere
aveva le proprie caratteristiche. Le lettere non erano mai perfettamente allineate:
alcune erano un po’ più alte, altre fuori centro. I singoli caratteri si usuravano o si
danneggiavano in modi diversi e particolari. Di conseguenza gli esperti della
polizia erano in grado di individuare la corrispondenza tra una determinata
macchina per scrivere e il suo prodotto. Se “Dissidenza” fosse stato battuto sulla
stessa macchina dei copioni di Vasilij, qualcuno avrebbe potuto accorgersene, per
cui Vasilij aveva rubato un vecchio esemplare dall’ufficio programmazione, se lo
era portato a casa e lo aveva sepolto sotto il cibo per gatti per nasconderlo a
un’occhiata casuale. Una perquisizione approfondita avrebbe scovato la macchina
per scrivere, ma se fosse arrivata una perquisizione approfondita Vasilij sarebbe
stato comunque finito.
Nello scatolone c’erano anche fogli della speciale carta cerata per ciclostile: le
matrici. La macchina per scrivere era priva di nastro: i tasti perforavano la matrice
e il ciclostile agiva facendo passare l’inchiostro attraverso i profili dei caratteri.
Tanja scrisse un servizio su Bodian sottolineando che il segretario generale Nikita
Chrušcëv sarebbe stato personalmente responsabile se uno dei più grandi tenori
dell’Unione Sovietica fosse morto in un campo di prigionia. Riassunse i punti
principali del processo Bodian per attività antisovietiche, citando l’appassionata
difesa della libertà artistica fatta dal cantante. E, per allontanare i sospetti da se
stessa, accreditò in modo fuorviante le informazioni sulla malattia di Bodian a un
immaginario melomane del KGB.
Quando ebbe finito, tese due matrici a Vasilij. «Sono stata concisa.»
«La concisione è sorella del talento. Lo ha detto Cechov.» Lui lesse lentamente
l’articolo, poi annuì in segno di approvazione. «Vado subito a Radio Mosca per
fare le copie» disse. «Poi dovremmo portarle in piazza Majakovskij.»
Tanja non restò sorpresa, ma si sentì a disagio. «È sicuro?»
«Naturalmente no. Non è certo un evento culturale organizzato dal governo.
Proprio per questo quella piazza fa al caso nostro.»
All’inizio dell’anno giovani moscoviti avevano cominciato a ritrovarsi
informalmente intorno alla statua del poeta Vladimir Majakovskij. Alcuni
leggevano componimenti ad alta voce, richiamando altra gente e dando vita a un
festival permanente della poesia. Certe opere declamate dal monumento
esprimevano una critica indiretta al governo.
Un fenomeno del genere sarebbe durato dieci minuti sotto Stalin, ma Chrušcëv era
un riformatore. Il suo programma comprendeva un limitato grado di tolleranza
culturale e fino a quel momento non era stata presa alcuna misura contro le letture
di poesie. Ma la liberalizzazione procedeva facendo due passi avanti e uno
indietro. Il fratello di Tanja diceva che dipendeva dalla popolarità di Chrušcëv:
cioè se lui se la stava cavando bene e si sentiva politicamente forte oppure se
incontrava ostacoli e temeva un colpo di Stato da parte dei suoi nemici
conservatori al Cremlino. Qualunque fosse la ragione, non c’era modo di prevedere
ciò che avrebbero fatto le autorità.
Tanja era troppo stanca per pensarci e si disse che qualsiasi altro luogo sarebbe
stato altrettanto pericoloso. «Mentre sei alla radio, io dormo un po’.»
Andò in camera. Le lenzuola erano spiegazzate: Tanja immaginò che Vasilij e
Varvara avessero trascorso la mattinata a letto. Tirò su il copriletto, si tolse gli
stivali e si distese.
Era stanca fisicamente, ma la mente era attivissima. Benché avesse paura, voleva
comunque andare in piazza Majakovskij. “Dissidenza” era una pubblicazione
importante, nonostante la stampa dilettantesca e la circolazione limitata:
dimostrava che il governo comunista non era onnipotente. Dimostrava ai dissidenti
che non erano soli. Leader religiosi in lotta contro le persecuzioni leggevano di
cantanti folk arrestati per le loro canzoni di protesta, e viceversa. Invece di sentirsi
una voce solitaria in una società monolitica, il dissidente si rendeva conto di essere
parte di una grande rete, migliaia di persone che volevano un governo diverso e
migliore.
E “Dissidenza” poteva salvare la vita a Ustin Bodian.
Finalmente Tanja si addormentò.
Fu svegliata da qualcuno che le accarezzava una guancia. Aprì gli occhi e vide
Vasilij disteso al suo fianco. «Lascia perdere» gli disse.
«Questo è il mio letto.»
Tanja si mise a sedere. «Io ho ventidue anni… troppi per poterti interessare.»
«Per te farò un’eccezione.»
«Quando vorrò entrare in un harem, te lo farò sapere.»
«Per te rinuncerei a tutte le altre.»
«Figurati.»
«Lo farei, davvero.»
«Forse per cinque minuti.»
«Per sempre.»
«Facciamo sei mesi e potrei ripensarci.»
«Sei mesi?»
«Visto? Se non riesci a restare casto per mezzo anno, come puoi promettere di
esserlo per sempre? Ma che accidente di ora è?»
«Hai dormito per tutto il pomeriggio. Non alzarti: mi svesto e mi infilo a letto con
te.»
Tanja si alzò. «Dobbiamo andare.»
Vasilij rinunciò. Era probabile che non avesse parlato seriamente: era solo che si
sentiva obbligato a provarci con le ragazze. Avendo fatto il suo numero, ora non ci
avrebbe più pensato, almeno per un po’. Porse a Tanja un piccolo fascio di circa
venticinque fogli, stampati su entrambe le facciate con caratteri leggermente
sbavati: le copie del nuovo numero di “Dissidenza”. Si passò una sciarpa rossa di
cotone intorno al collo, nonostante il clima mite. Pensava gli desse un’aria da
artista. «Allora muoviamoci» disse.
Tanja lo fece aspettare mentre andava in bagno. Il viso nello specchio la guardò
con due intensi occhi azzurri, incorniciati dai capelli biondo chiaro dal taglio corto
e sbarazzino. Inforcò gli occhiali da sole e si legò sopra i capelli un’anonima
sciarpa marrone. Adesso era una giovane donna qualunque.
Andò in cucina, ignorando Vasilij che batteva il piede impaziente, e riempì un
bicchiere con l’acqua del rubinetto. La bevve tutta e annunciò: «Sono pronta».
Camminarono fino alla stazione della metropolitana. Il treno era gremito di
lavoratori che tornavano a casa. Scesero alla stazione Majakovskij sull’Anello dei
giardini. Non si sarebbero trattenuti a lungo in zona: non appena avessero
distribuito tutte e cinquanta le copie del nuovo notiziario, se ne sarebbero andati.
«Ricorda: se dovesse esserci qualche problema» disse Vasilij «noi due non ci
conosciamo.» Si separarono e riemersero in superficie a distanza di un minuto uno
dall’altra. Il sole era basso e la giornata estiva si stava rinfrescando.
Vladimir Majakovskij era stato non solo un poeta di statura internazionale, ma
anche un bolscevico, e l’Unione Sovietica era orgogliosa di lui. La sua eroica
statua si ergeva per sei metri al centro della piazza che portava il suo nome.
Parecchie centinaia di persone passeggiavano sull’erba; erano per lo più giovani,
alcuni vestiti in stile vagamente occidentale, in blue jeans e maglioni a collo alto.
Un ragazzo con un berretto in testa stava vendendo un suo romanzo: i fogli erano
copie carbone, forate lungo un margine e tenute insieme da uno spago. Il titolo
era Crescere all’indietro. Una ragazza con i capelli lunghi aveva una chitarra con sé,
ma non dava segni di volerla suonare; forse lo strumento era un accessorio, come
una borsetta. C’era un unico agente in uniforme, ma quelli della polizia segreta
erano ridicolmente vistosi con le loro giacche di pelle, indossate nell’aria mite solo
per nascondere le armi. Tanja comunque evitò di incontrare i loro sguardi: non
erano poi così divertenti.
A turno, i poeti si alzavano in piedi e recitavano una o due poesie a testa. Erano
quasi tutti uomini, ma c’era anche qualche donna. Un ragazzo dal sorriso malizioso
lesse un brano su un maldestro agricoltore che cercava di radunare e dirigere un
gruppo di oche e il pubblico si rese subito conto che si trattava di una metafora: il
Partito comunista che cercava di organizzare la nazione. Ben presto tutti iniziarono
a ridere fragorosamente, tutti tranne gli uomini del KGB, che sembravano solo
perplessi.
Tanja cominciò a muoversi inosservata tra il pubblico, ascoltando distrattamente
una poesia di angoscia adolescenziale nello stile futurista di Majakovskij. Estraeva
dalla tasca un foglio alla volta e, con discrezione, lo faceva scivolare in mano a
chiunque avesse un aspetto amichevole. Teneva anche d’occhio Vasilij, che stava
facendo la stessa cosa. Quasi subito si sentirono esclamazioni di shock e
preoccupazione mentre la gente cominciava a parlare di Bodian: in un contesto
come quello, quasi tutti sapevano chi era e perché era stato imprigionato. Tanja
distribuiva i fogli con la massima velocità possibile, ansiosa di liberarsene prima
che i poliziotti avessero sentore di quello che stava succedendo.
Un uomo dai capelli corti che sembrava un ex militare si piazzò davanti al
pubblico e, invece di recitare una poesia, cominciò a leggere ad alta voce l’articolo
su Bodian. Tanja ne fu contenta: la notizia si stava diffondendo più rapidamente di
quanto avesse sperato. Ci furono grida di indignazione quando l’uomo arrivò al
punto in cui si denunciava che Bodian non riceveva cure mediche. Ma gli uomini
in giacca di pelle percepirono il cambiamento di atmosfera e si fecero più attenti.
Tanja vide uno di loro parlare con urgenza in un walkie-talkie.
Le erano rimasti cinque fogli, e le stavano bruciando nella tasca.
Gli agenti della polizia segreta si erano tenuti ai margini della folla, ma ora si
fecero avanti, convergendo sull’oratore. L’uomo agitò con aria di sfida la sua copia
di “Dissidenza”, gridando informazioni su Bodian mentre i poliziotti si
avvicinavano. Diversi spettatori si ammassarono intorno al basamento della statua,
rendendo più difficile la loro avanzata. Gli uomini del KGB reagirono facendosi più
rudi e spintonando la gente per aprirsi un varco. Era così che cominciavano le
rivolte. Tanja arretrò nervosamente verso il margine esterno della folla. Aveva
ancora una copia di “Dissidenza”. La lasciò cadere a terra.
In quel momento comparvero sei poliziotti in uniforme. Chiedendosi spaventata da
dove arrivassero, Tanja guardò l’edificio più vicino sull’altro lato della strada e
vide altri agenti precipitarsi fuori dal portone: dovevano essere rimasti nascosti
all’interno, in attesa di essere eventualmente chiamati in azione. Impugnarono i
manganelli e si fecero strada in mezzo alla ressa, colpendo in modo indiscriminato
la gente. Tanja vide Vasilij che si voltava e si allontanava, avanzando nella calca
con la maggiore rapidità possibile. Fece lo stesso anche lei. Poi un’adolescente in
preda al panico le sbatté contro con violenza, facendola cadere a terra.
Per un momento Tanja rimase intontita. Quando la visione le si schiarì, vide altre
persone che correvano. Si mise in ginocchio, ma le girava la testa. Qualcuno
inciampò su di lei, rimandandola lunga distesa. Poi, all’improvviso, Vasilij
l’afferrò con entrambe le mani e la sollevò. Tanja rimase sorpresa: non si sarebbe
mai aspettata che lui mettesse a rischio la propria sicurezza per aiutarla.
In quel momento un poliziotto colpì Vasilij alla testa con il manganello e lui crollò.
Il poliziotto si inginocchiò, gli portò le braccia dietro la schiena e lo ammanettò
con gesti rapidi ed esperti. Vasilij alzò lo sguardo, incontrò quello di Tanja e con le
labbra mimò: “Scappa!”.
Tanja si voltò e cominciò a correre, ma un istante dopo si scontrò con un poliziotto
in uniforme, che la prese per un braccio. Lei cercò di liberarsi, gridando:
«Lasciami andare!».
Il poliziotto strinse ulteriormente la presa e disse: «Sei in arresto, puttana».
6
La Sala Nina Onilova del Cremlino doveva il proprio nome a una donna
mitragliere caduta durante l’assedio di Sebastopoli. Su una parete c’era la foto in
bianco e nero incorniciata di un generale dell’Armata rossa che posava la medaglia
dell’Ordine della Bandiera rossa sulla sua tomba. La foto era appesa sopra un
caminetto di marmo, sporco e macchiato come le dita di un fumatore. In tutta la
sala, elaborate decorazioni in stucco incorniciavano rettangoli di vernice più
chiara: erano i punti dove un tempo erano stati appesi altri quadri, e ciò indicava
che le pareti non erano più state imbiancate dall’epoca della rivoluzione. Forse un
tempo quel locale era stato un salone elegante. Ora era arredato con tavoli da
mensa uniti a formare un lungo rettangolo e una ventina di sedie a buon mercato.
Sui tavoli c’erano portacenere di ceramica che davano l’impressione di venire
svuotati quotidianamente, ma mai lavati.
Dimka Dvorkin entrò nella sala con un turbine nella mente e un nodo allo stomaco.
Era quello il luogo in cui si tenevano abitualmente le riunioni degli assistenti dei
ministri e dei segretari che formavano il Presidium del Soviet supremo, l’organo di
governo dell’URSS.
Dimka era un assistente di Nikita Chrušcëv, primo segretario e presidente del
Presidium, ma aveva comunque la sensazione che non avrebbe dovuto trovarsi lì.
Mancavano poche settimane al vertice di Vienna. Sarebbe stato il primo
spettacolare incontro tra Chrušcëv e John Kennedy, il nuovo presidente americano.
L’indomani, nel corso del più importante Presidium dell’anno, i leader
dell’URSS avrebbero deciso la strategia da adottare al vertice. Quel giorno gli
assistenti si riunivano per prepararsi. Era un incontro di pianificazione di un
incontro di pianificazione.
Il rappresentante di Chrušcëv doveva esporre il pensiero del capo in modo che gli
altri assistenti potessero preparare i rispettivi superiori per il giorno seguente.
Aveva anche il compito segreto di scoprire qualsiasi opposizione latente alle idee
di Chrušcëv e, se possibile, demolirla. Era suo solenne dovere fare in modo che la
discussione dell’indomani si svolgesse senza problemi per il leader.
Dimka conosceva bene le idee di Chrušcëv a proposito del summit, ciò nonostante
sentiva di non essere in grado di cavarsela in quella riunione. Era il più giovane e il
più inesperto degli assistenti di Chrušcëv. Era uscito dall’università solo un anno
prima e non aveva mai partecipato a un incontro pre-Presidium: era troppo alle
prime armi. Ma dieci minuti prima la sua segretaria, Vera Pletner, lo aveva
informato che uno degli assistenti anziani era malato e che gli altri due avevano
appena avuto un incidente d’auto per cui lui, Dimka, avrebbe dovuto sostituirli.
Dimka aveva ottenuto l’impiego di assistente di Chrušcëv per due ragioni.
Innanzitutto era sempre stato il migliore in ogni corso di studi che avesse
frequentato, dall’asilo all’università. In secondo luogo, suo zio era generale. Non
sapeva quale dei due fattori contasse di più.
Al mondo esterno il Cremlino presentava una facciata monolitica, ma in realtà era
un campo di battaglia. La presa di Chrušcëv sul potere non era forte. Comunista
nel cuore e nell’anima, il segretario era però anche un riformatore che vedeva i
difetti del sistema sovietico e voleva mettere in pratica idee nuove. Ma i vecchi
stalinisti del Cremlino non erano ancora sconfitti. Erano sempre all’erta, attenti a
qualsiasi opportunità per indebolire Chrušcëv e revocare le sue riforme.
La riunione era informale: gli assistenti bevevano tè e fumavano, senza giacca e
con la cravatta allentata. Erano per lo più uomini, ma c’era anche qualche donna.
Dimka individuò un viso amico: Natal’ja Smotrova, assistente del ministro degli
Esteri Andrej Gromyko. Sui venticinque anni, era una ragazza attraente malgrado
lo scialbo abito nero. Dimka non la conosceva bene, ma aveva parlato con lei
diverse volte. Le si sedette accanto. Natal’ja sembrò sorpresa di vederlo.
«Konstantinov e Pajari hanno avuto un incidente d’auto» spiegò Dimka.
«Sono feriti?»
«Niente di grave.»
«E Alkaev?»
«In malattia, fuoco di Sant’Antonio.»
«Brutta cosa. E così sei tu il rappresentante del capo.»
«Sono terrorizzato.»
«Te la caverai benissimo.»
Dimka si guardò intorno. Sembravano tutti in attesa di qualcosa. A bassa voce,
chiese a Natal’ja: «Chi presiede la riunione?».
Uno dei presenti lo sentì. Era Evgenij Filipov, che lavorava per il ministro della
Difesa, il conservatore Rodion Malinovskij. Filipov aveva meno di quarant’anni
ma, con il suo abito postbellico sformato e la camicia grigia di flanella, vestiva
come un uomo molto più anziano. Ripeté a voce alta e in tono sprezzante la
domanda di Dimka: «Chi presiede la riunione? Tu, naturalmente. Sei l’assistente
del presidente del Presidium, no? Forza, comincia, studentello».
Dimka si sentì arrossire. Per un momento rimase senza parole, poi gli venne
un’ispirazione e disse: «Grazie allo straordinario volo spaziale del maggiore Jurij
Gagarin, il compagno Chrušcëv arriverà a Vienna con le congratulazioni del
mondo ancora echeggianti nelle orecchie». Il mese precedente, Gagarin era stato il
primo essere umano a effettuare un volo orbitale a bordo di una navicella, battendo
gli americani per poche settimane con una clamorosa impresa scientifica e
propagandistica a favore dell’Unione Sovietica, e di Nikita Chrušcëv.
Gli assistenti intorno al tavolo applaudirono e Dimka cominciò a sentirsi meglio.
Poi Filipov parlò di nuovo. «Il primo segretario farebbe meglio a farsi echeggiare
nelle orecchie il discorso inaugurale del presidente Kennedy.» Sembrava incapace
di esprimersi senza una nota di scherno. «Nel caso i compagni seduti intorno a
questo tavolo lo abbiano dimenticato, Kennedy ci ha accusato di progettare la
dominazione del mondo e ha promesso solennemente di fermarci a qualunque
costo. Dopo tutti i gesti amichevoli che abbiamo fatto… poco saggiamente, a
parere di alcuni compagni esperti… Kennedy non avrebbe potuto chiarire meglio
le sue intenzioni aggressive.» Alzò un braccio e puntò un dito verso il soffitto,
come un maestro di scuola. «Da parte nostra, c’è un’unica risposta possibile:
accrescere la nostra forza militare.»
Dimka stava ancora pensando a come replicare quando Natal’ja lo batté sul tempo.
«È una corsa che non possiamo vincere» dichiarò in tono secco e pratico. «Gli Stati
Uniti sono più ricchi dell’Unione Sovietica e possono facilmente uguagliare
qualsiasi incremento delle nostre forze militari.»
Era più assennata del suo capo conservatore, concluse Dimka. Le lanciò
un’occhiata di gratitudine e riprese la parola. «Da cui la politica di coesistenza
pacifica di Chrušcëv, che ci consente di spendere meno in armamenti e di investire
invece nell’industria e nell’agricoltura.» I conservatori del Cremlino odiavano la
coesistenza pacifica. Per loro, la lotta contro l’imperialismo capitalista era una
guerra all’ultimo sangue.
Con la coda dell’occhio, Dimka vide entrare nella sala la sua segretaria, Vera, una
quarantenne brillante ed energica. Le fece segno di andarsene.
Filipov non si lasciava mettere a tacere così facilmente. «Non dobbiamo
permettere che una visione ingenua della politica mondiale ci induca a ridurre con
troppa fretta il nostro esercito» disse sprezzante. «Non possiamo certo sostenere
che stiamo vincendo sullo scenario internazionale. Guardate come ci sfidano i
cinesi. Questo ci indebolirà a Vienna.»
Dimka si chiese come mai Filipov si impegnasse tanto per dimostrare che lui era
uno stupido. All’improvviso si ricordò che Filipov aveva desiderato moltissimo un
impiego nell’ufficio di Chrušcëv… l’impiego che aveva avuto lui. «Così come la
baia dei Porci ha indebolito Kennedy» ribatté. Il presidente americano aveva
autorizzato un folle piano della CIA che prevedeva l’invasione di Cuba da un luogo
chiamato baia dei Porci: l’operazione era fallita e Kennedy era stato umiliato. «Io
credo che la posizione del nostro leader sia più forte.»
«In ogni caso, Chrušcëv ha fallito e…» Filipov tacque di colpo, rendendosi conto
che si stava spingendo troppo oltre. Quelle discussioni pre-incontro erano franche,
ma esistevano dei limiti.
Dimka colse al volo il momento di debolezza. «Dove ha fallito Chrušcëv,
compagno?» chiese. «Per favore, illuminaci.»
Filipov si affrettò a recuperare. «Abbiamo fallito il nostro principale obiettivo in
politica estera: una soluzione definitiva della situazione di Berlino. La Repubblica
Democratica Tedesca è il nostro posto di frontiera in Europa. I suoi confini
garantiscono quelli della Polonia e della Cecoslovacchia. Lo status ancora irrisolto
di Berlino è intollerabile.»
«Molto bene» disse Dimka e rimase sorpreso nel sentire una nota di sicurezza nella
propria voce. «Penso che abbiamo discusso a sufficienza di principi generali.
Prima di aggiornare la riunione, vi spiegherò il pensiero del primo segretario sul
problema.»
Filipov aprì la bocca per protestare contro la brusca interruzione, ma Dimka lo
bloccò.
«I compagni parleranno solo quando invitati dalla presidenza» annunciò, la voce
deliberatamente dura e autoritaria.
Tutti fecero silenzio.
«A Vienna, Chrušcëv dirà a Kennedy che non possiamo più aspettare. Abbiamo
avanzato proposte ragionevoli per regolare la situazione di Berlino e tutto ciò che
ci sentiamo ripetere dagli americani è che loro non vogliono cambiamenti.»
Intorno al tavolo in molti annuirono. «Se non accetteranno un piano, dirà
Chrušcëv, allora agiremo unilateralmente. E se gli americani cercheranno di
fermarci, risponderemo alla forza con la forza.» Ci fu qualche istante di silenzio.
Dimka ne approfittò per alzarsi in piedi e concludere: «Grazie per la vostra
partecipazione».
Natal’ja disse quello che tutti stavano pensando: «Questo significa che siamo
pronti a entrare in guerra con gli americani per Berlino?».
«Il primo segretario non crede che ci sarà una guerra» replicò Dimka, ripetendo la
risposta evasiva che Chrušcëv aveva dato a lui. «Kennedy non è pazzo.»
Mentre si allontanava dal tavolo, colse un’occhiata di Natal’ja, per metà di
sorpresa e per metà di ammirazione. Dimka non riusciva a credere di essere stato
così risoluto. Non era mai stato una mammoletta, ma quello era un gruppo di
uomini brillanti e potenti, e lui aveva tenuto loro testa. La sua posizione lo
agevolava: per quanto fosse un nuovo arrivato, la sua scrivania negli uffici del
primo segretario gli dava potere. E, paradossalmente, l’ostilità di Filipov gli era
stata utile: tutti riuscivano a comprendere la necessità di andare giù pesante con
qualcuno che cercava di indebolire il leader.
Vera lo aspettava agitata nell’anticamera. Era un’assistente politica esperta che non
si lasciava prendere dal panico senza ragione. Dimka ebbe un lampo d’intuizione.
«È per mia sorella, vero?» domandò.
Vera sembrò intimorita. Spalancò gli occhi. «Come fai a saperlo?» chiese, quasi
con timore reverenziale.
Non erano poteri soprannaturali: Dimka temeva già da un po’ di tempo che Tanja
sarebbe finita nei guai. «Cos’ha fatto?» chiese.
«È stata arrestata.»
«Oh, accidenti.»
Vera gli indicò un telefono sopra un tavolino: la cornetta era staccata e Dimka
l’afferrò. In linea c’era sua madre Anja. «Tanja è alla Lubjanka!» disse la donna,
usando l’abbreviazione che indicava il palazzo sede del KGB in piazza Lubjanka.
Anja era sull’orlo dell’isteria.
Dimka non era poi così sorpreso. Sia lui sia la sua gemella concordavano sul fatto
che in Unione Sovietica c’erano molte cose che non andavano, ma mentre lui
credeva che fossero necessarie delle riforme, Tanja pensava che il comunismo
dovesse essere abolito. Era un disaccordo intellettuale che non aveva alcuna
influenza sull’affetto reciproco. Tra di loro esisteva un profondo rapporto di
amicizia, ed era sempre stato così.
Chi manifestava idee come quelle di Tanja poteva essere arrestato… una delle cose
che non andavano. «Calmati, mamma. Io posso farla uscire» disse Dimka. Sperava
di essere in grado di provare quell’affermazione. «Sai cos’è successo?»
«Ci sono stati dei disordini a un incontro di poeti!»
«Scommetto che Tanja era in piazza Majakovskij. Se non c’è altro…» Non sapeva
cosa avesse combinato sua sorella, ma la sospettava di cose peggiori della poesia.
«Devi fare qualcosa, Dimka! Prima che loro…»
«Lo so.» Prima che cominciassero a interrogarla, intendeva dire sua madre. Dimka
avvertì un brivido di paura. La prospettiva di un interrogatorio nelle famigerate
celle sotterranee del quartier generale del KGB terrorizzava ogni cittadino sovietico.
Il primo istinto di Dimka fu di dire che avrebbe chiamato subito, ma poi decise che
una telefonata non era sufficiente. Doveva andare di persona. Esitò per un attimo:
se si fosse venuto a sapere che era andato alla Lubjanka per liberare sua sorella, la
carriera avrebbe potuto risentirne. Ma quel pensiero durò solo un istante. Tanja
veniva prima di lui, di Chrušcëv e di tutta l’Unione Sovietica. «Vado
immediatamente, mamma» disse. «Telefona allo zio Volodja e raccontagli cosa è
successo.»
«Ah, sì, buona idea! Mio fratello saprà cosa fare.»
Dimka riattaccò. «Chiama la Lubjanka» disse a Vera. «Spiega molto chiaramente
che stai telefonando dall’ufficio del primo segretario, il quale è preoccupato per
l’arresto dell’importante giornalista Tanja Dvorkina. Di’ che l’assistente del
compagno Chrušcëv sta andando da loro per chiedere spiegazioni e che non
devono fare niente prima del suo arrivo.»
Vera stava prendendo appunti. «Devo far venire un’auto?»
Piazza Lubjanka distava poco più di un chilometro dal complesso del Cremlino.
«Ho la mia moto: farò prima.» Dimka aveva il privilegio di possedere una
motocicletta Voskhod 175 con cambio a cinque marce e doppio tubo di
scappamento.
Mentre viaggiava in moto, pensò che aveva già intuito i probabili guai di Tanja
perché, paradossalmente, lei aveva smesso di raccontargli tutto. Di solito non
c’erano segreti fra loro, ed esisteva un’intimità che non condividevano con nessun
altro. Quando la madre non c’era ed erano soli in casa, Tanja non si faceva
problemi ad attraversare nuda l’appartamento per andare a prendere la biancheria
pulita nell’armadio riscaldato e Dimka andava in bagno senza preoccuparsi di
chiudere la porta. A volte gli amici di Dimka suggerivano ridacchiando che la loro
fosse una vicinanza di tipo erotico, ma in realtà era vero il contrario: potevano
essere così intimi solo perché non c’era alcuna scintilla sessuale.
Ma Dimka già da un anno aveva capito che Tanja gli stava nascondendo qualcosa.
Non sapeva di cosa si trattasse, però poteva immaginarlo. Non un ragazzo, ne era
sicuro: lui e sua sorella si raccontavano tutto delle rispettive vite sentimentali,
scambiandosi impressioni e consigli. Quasi sicuramente aveva a che fare con la
politica. L’unica ragione per cui Tanja poteva tenergli nascosto qualcosa era perché
voleva proteggerlo.
Si fermò davanti al temuto edificio, un palazzo di mattoni gialli costruito prima
della rivoluzione come sede centrale di una compagnia di assicurazioni. Il pensiero
di sua sorella imprigionata in quel posto lo fece sentire male. Per un attimo provò
un forte senso di nausea.
Parcheggiò la moto proprio davanti all’ingresso principale, si prese un momento
per riacquistare il controllo e poi entrò.
Il caposervizio di Tanja, Daniil Antonov, era arrivato prima di lui e discuteva
nell’atrio con un uomo del KGB. Antonov aveva una corporatura esile, e Dimka lo
aveva sempre considerato un tipo inoffensivo, ma in quel momento era molto
risoluto. «Voglio vedere Tanja Dvorkina, e la voglio vedere immediatamente» stava
dicendo.
L’uomo del KGB esibiva un’espressione di testarda ostinazione. «Questo potrebbe
non essere possibile.»
Dimka si inserì nella conversazione. «Lavoro nell’ufficio del primo segretario»
dichiarò.
L’uomo del KGB rifiutò di farsi impressionare. «E cosa fai là, ragazzo, prepari il
tè?» ribatté rude. «Come ti chiami?» Era una domanda intimidatoria: tutti avevano
il terrore di dare il proprio nome al KGB.
«Dmitrij Dvorkin, e sono qui per comunicarti che il compagno Chrušcëv è
personalmente interessato a questo caso.»
«Vaffanculo, Dvorkin» replicò l’uomo. «Il compagno Chrušcëv non sa proprio
niente di questo caso. Tu sei qui solo per togliere tua sorella dai guai.»
Dimka fu colto di sorpresa dalla rozza sicurezza dell’uomo. Pensò che fossero in
molti a cercare di liberare amici o parenti dal KGB vantando relazioni personali con
personaggi potenti. Ma rinnovò l’attacco. «Come ti chiami?»
«Capitano Mets.»
«Di cosa è accusata Tanja Dvorkina?»
«Aggressione a un funzionario di polizia.»
«Una ragazza ha picchiato uno dei vostri gorilla in giacca di pelle?» chiese Dimka
beffardo. «Prima deve avergli preso la pistola. Andiamo, Mets, non fare lo
stronzo.»
«Stava partecipando a un’adunata sediziosa, dove veniva fatto circolare materiale
antisovietico.» Mets porse a Dimka un foglio spiegazzato. «L’adunata è diventata
una sommossa.»
Dimka esaminò il foglio. Il titolo era “Dissidenza”. Aveva sentito parlare di quel
giornale sovversivo. Facile che Tanja c’entrasse. Quel numero particolare parlava
di Ustin Bodian, il cantante d’opera. Per un momento Dimka venne distratto dalla
scioccante accusa secondo la quale Bodian stava morendo di polmonite in un
campo di lavoro in Siberia. Poi ricordò che Tanja era tornata dalla Siberia proprio
quel giorno e si rese conto che doveva essere stata lei a scrivere il pezzo. Sua
sorella poteva essere in guai seri. «Volete accusare Tanja di essere stata in
possesso di questa roba?» domandò. Vide Mets esitare e aggiunse: «Io non ci
credo».
«Non avrebbe dovuto trovarsi là» disse Mets.
«È una giornalista, idiota» intervenne Daniil. «Stava seguendo l’evento, proprio
come facevano i vostri agenti.»
«La ragazza non è un’agente.»
«Tutti i giornalisti della TASS collaborano con il KGB, lo sai bene.»
«Non puoi provare che fosse là in veste ufficiale.»
«Invece sì, posso. Sono il suo caposervizio. L’ho mandata io.»
Dimka si chiese se fosse vero. Ne dubitava e provò gratitudine nei confronti di
Daniil, perché si esponeva in difesa di Tanja.
Mets cominciava a perdere un po’ di sicurezza. «Era con un uomo di nome Vasilij
Enkov, che aveva cinque copie di quel foglio in tasca.»
«Tanja non conosce nessun Vasilij Enkov» affermò Dimka. Poteva anche essere
vero: di certo lui non aveva mai sentito quel nome. «Se era una sommossa, come
fate a dire chi era con chi?»
«Devo parlare con i miei superiori» disse Mets e si voltò.
Dimka cercò di fare una voce dura. «Non metterci troppo» ringhiò. «Il prossimo
che vedrai arrivare dal Cremlino potrebbe non essere il ragazzo che prepara il tè.»
Mets scese una scala. A Dimka vennero i brividi. Tutti sapevano che nei sotterranei
c’erano le stanze degli interrogatori.
Poco dopo, Dimka e Daniil vennero raggiunti nell’atrio da un uomo più anziano.
Dalle labbra gli pendeva una sigaretta. La faccia era brutta e carnosa, con un mento
che sporgeva aggressivo. Daniil non sembrò contento di vederlo. Lo presentò come
Pëtr Opotkin, caporedattore dei servizi speciali.
Opotkin fissò Dimka con gli occhi semichiusi per evitare il fumo. «E così tua
sorella si è fatta arrestare a un’adunata sediziosa.» Il tono era arrabbiato, ma Dimka
percepì che sotto sotto Opotkin, per chissà quale ragione, era soddisfatto.
«A una lettura di poesie» lo corresse Dimka.
«Non fa molta differenza.»
«L’avevo mandata io» si inserì Daniil.
«Il giorno stesso in cui è rientrata dalla Siberia?» osservò scettico Opotkin.
«Non era un incarico vero e proprio. Le ho semplicemente suggerito di fare un
salto a vedere che cosa stava succedendo, nient’altro.»
«Non raccontarmi storie» disse Opotkin. «Stai solo cercando di proteggerla.»
Daniil sollevò il mento e lo sfidò con lo sguardo. «Non sei qui per questo anche
tu?»
Prima che Opotkin potesse rispondere, arrivò il capitano Mets. «Il caso è ancora
sotto esame» dichiarò.
Opotkin si presentò e mostrò a Mets la sua carta d’identità. «La questione non è se
Tanja Dvorkina debba essere punita o no, ma come» disse.
«Esattamente, signore» replicò Mets con deferenza. «Vuole seguirmi, per favore?»
Opotkin annuì e Mets gli fece strada scendendo la scala.
A bassa voce, Dimka domandò: «Opotkin non permetterà che la torturino, vero?».
«Era già infuriato con Tanja» osservò preoccupato Daniil.
«Perché? Pensavo che mia sorella fosse una buona giornalista.»
«È una giornalista brillante. Ma ha rifiutato l’invito di Opotkin a una festa a casa
sua sabato. Opotkin voleva anche te. A lui piacciono le persone importanti. Un
rifiuto è una cosa che lo urta parecchio.»
«Oh, merda.»
«Le ho detto che avrebbe dovuto accettare.»
«Davvero sei stato tu a mandarla in piazza Majakovskij?»
«No. Non potremmo mai pubblicare un servizio su un raduno così privo di
ufficialità.»
«Grazie per avere cercato di proteggere Tanja.»
«Figurati, è un dovere… ma credo che non stia funzionando.»
«Cosa pensi che succederà?»
«Potrebbe essere licenziata. Oppure, più probabilmente, spedita a lavorare in
qualche posto sgradevole, per esempio in Kazakistan.» Daniil aggrottò la fronte.
«Devo trovare un compromesso che possa soddisfare Opotkin, ma che non sia
troppo duro per Tanja.»
Dimka lanciò un’occhiata alla porta d’ingresso e vide entrare un uomo sui
quarantacinque anni con i capelli cortissimi dal taglio militare. Indossava
l’uniforme di generale dell’Armata rossa. «Finalmente, zio Volodja.»
Volodja Peškov aveva gli stessi occhi di un azzurro intenso di Tanja. «Cos’è
questa stronzata?» domandò irritato.
Dimka lo mise al corrente.
Aveva quasi concluso quando ricomparve Opotkin, che si rivolse a Volodja in tono
ossequioso. «Generale, ho discusso del problema di sua nipote con i nostri amici
del KGB, i quali si accontenteranno che mi occupi io della questione come di un
affare interno della TASS.»
Dimka sentì i muscoli rilassarsi per il sollievo. Poi si chiese se l’intero approccio di
Opotkin non avesse avuto il solo fine di dare l’impressione che stesse facendo un
favore a suo zio.
«Mi permetta un suggerimento» disse Volodja. «Lei potrebbe sottolineare la
gravità dell’incidente, senza incolpare nessuno, semplicemente trasferendo Tanja a
un’altra destinazione.»
Era la punizione a cui Daniil aveva accennato poco prima.
Opotkin annuì pensieroso, come valutando l’idea, anche se Dimka era sicuro che
avrebbe accettato con entusiasmo qualsiasi “suggerimento” del generale Peškov.
«Magari una sede all’estero» propose Daniil. «Tanja parla tedesco e inglese.»
Era un’esagerazione, Dimka lo sapeva. Tanja aveva studiato entrambe le lingue a
scuola, ma ciò non equivaleva a parlarle. Daniil stava cercando di salvare sua
sorella dall’esilio in qualche sperduta regione sovietica.
«E potrebbe continuare a lavorare per la mia redazione» continuò Daniil. «Mi
dispiacerebbe perderla, è troppo in gamba nei reportage.»
Opotkin sembrava dubbioso. «Non possiamo mandarla a Londra o a Bonn.
Sembrerebbe un premio.»
Era vero. Gli incarichi nei paesi capitalisti erano molto ambiti. Rimborsi spese e
indennità di trasferta erano colossali e, anche se il potere d’acquisto di quel denaro
non era paragonabile a quello che avrebbe avuto in URSS, i cittadini sovietici
vivevano molto meglio in Occidente che a casa loro.
«Berlino Est, magari, o Varsavia» suggerì Volodja.
Opotkin annuì. Un trasferimento in un altro paese comunista avrebbe avuto più
l’aria di una punizione.
«Sono felice che abbiamo potuto risolvere questo problema» disse Volodja.
«Sabato sera darò una festa» disse Opotkin a Dimka. «Ti farebbe piacere venire?»
Dimka pensò che sarebbe stato il sigillo all’affare. Annuì. «Tanja me ne ha
parlato» rispose con falso entusiasmo. «Ci saremo tutti e due. Grazie.»
Opotkin sorrise raggiante.
«Si dà il caso che io sappia di una posizione attualmente vacante in un paese
comunista» disse Daniil. «Abbiamo urgente bisogno di una persona laggiù. Tanja
potrebbe partire domani.»
«Dove?» chiese Dimka.
«A Cuba.»
Opotkin, ora in uno stato d’animo solare, disse: «Potrebbe essere accettabile».
“Sicuramente meglio del Kazakistan” pensò Dimka.
Mets ricomparve nell’atrio con Tanja al suo fianco. Il cuore di Dimka mancò un
battito: sua sorella sembrava pallida e spaventata, ma incolume. Mets parlò con un
misto di deferenza e di sfida, come un cane che abbaia perché ha paura. «Mi
permetto di raccomandare che in futuro la giovane Tanja si tenga alla larga dalle
letture di poesie.»
Volodja sembrò quasi sul punto di strangolare quell’idiota, ma si costrinse a
sorridere. «Un consiglio molto saggio, certamente.»
Uscirono tutti. Era già buio. Dimka disse alla sorella: «Sono in moto, ti porto a
casa».
«Sì, per favore» acconsentì lei. Era chiaro che voleva parlare con Dimka.
Volodja, che non riusciva a leggerle nel pensiero come Dimka, le propose: «Lascia
che ti accompagni in macchina, mi sembri troppo scossa per andare in moto».
Con sua sorpresa, Tanja rifiutò. «Ti ringrazio, zio, ma vado con Dimka.»
Volodja si strinse nelle spalle e salì sulla limousine ZIL in attesa. Daniil e Pëtr
salutarono.
Appena i due fratelli non furono più a portata d’orecchio degli altri, Tanja si
rivolse subito a Dimka, con un’espressione agitata. «Hanno detto qualcosa a
proposito di Vasilij Enkov?»
«Sì. Hanno detto che eri con lui. È vero?»
«Sì.»
«Oh, merda. Ma non è il tuo ragazzo, giusto?»
«No. Sai cosa gli è successo?»
«Aveva in tasca cinque copie di “Dissidenza”, per cui non uscirà tanto presto dalla
Lubjanka, anche se ha amici nelle alte sfere.»
«Maledizione! Credi che indagheranno su di lui?»
«Ne sono certo. Vorranno sapere se si limita a distribuire “Dissidenza” o se in
effetti è lui che lo pubblica, cosa che sarebbe molto più grave.»
«Perquisiranno il suo appartamento?»
«Sarebbero negligenti se non lo facessero. Perché? Cosa ci troveranno?»
Tanja si guardò intorno, ma non c’era nessuno vicino a loro. Abbassò comunque la
voce. «La macchina per scrivere con cui vengono fatte le matrici per
“Dissidenza”.»
«Be’, sono contento che Vasilij non sia il tuo ragazzo perché passerà i prossimi
venticinque anni in Siberia.»
«Non dire così!»
Dimka aggrottò la fronte. «Non sei innamorata di lui, va bene… ma non ti è
neppure del tutto indifferente.»
«Senti, Vasilij è un uomo coraggioso e un poeta meraviglioso, ma il nostro non è
un rapporto d’amore. Non l’ho mai neppure baciato. È uno di quegli uomini che
deve sempre avere un mucchio di donne diverse.»
«Come il mio amico Valentin.» Il compagno di stanza di Dimka all’università,
Valentin Lebedev, era un vero libertino.
«Esattamente come Valentin, sì.»
«Allora… quanto ti importa se perquisiscono l’appartamento di Vasilij e trovano
quella macchina per scrivere?»
«Mi importa molto. Pubblicavamo “Dissidenza” insieme. Ho scritto io il numero di
oggi.»
«Merda. È proprio quello che temevo.» Adesso Dimka conosceva il segreto che
sua sorella gli aveva tenuto nascosto per un anno.
«Dobbiamo andare subito a casa di Vasilij» disse Tanja. «Dobbiamo prendere
quella macchina per scrivere e liberarcene.»
Dimka fece un passo indietro. «Assolutamente no. Scordatelo.»
«Dobbiamo!»
«No. Rischierei qualunque cosa per te, e potrei rischiare molto per qualcuno che
ami, ma non ho intenzione di giocarmi l’osso del collo per quel tizio. Potremmo
finire tutti quanti in quella maledetta Siberia.»
«Allora lo farò da sola.»
Dimka si accigliò, cercando di valutare i rischi delle varie alternative. «Chi altri sa
di te e Vasilij?»
«Nessuno. Siamo stati attenti. Quando andavo da lui, mi assicuravo sempre di non
essere seguita. Non ci siamo mai incontrati in pubblico.»
«Quindi l’indagine del KGB non potrà collegarti a lui.»
Tanja esitò, e Dimka capì che si trovavano in guai grossi.
«Cosa c’è?» domandò.
«Tutto dipende da quanto sono meticolosi quelli del KGB.»
«Perché?»
«Questa mattina, quando sono andata a casa di Vasilij, c’era una ragazza,
Varvara.»
«Oh, cazzo.»
«Stava giusto uscendo dall’appartamento. Però non sa come mi chiamo.»
«Ma se il KGB le mostrasse le foto delle persone arrestate oggi in piazza
Majakovskij, ti riconoscerebbe?»
Tanja sembrava turbata. «Mi ha studiato dalla testa ai piedi, immaginando che
potessi essere una sua rivale. Sì, riconoscerebbe la mia faccia.»
«Oh, Dio, allora dobbiamo andare a prendere la macchina per scrivere. Senza
quella penseranno che Vasilij sia solo uno che distribuiva “Dissidenza”, per cui
probabilmente non si metteranno a cercare ogni sua ragazza, specie se, come pare,
sono parecchie. Potreste farla franca. Ma se trovano la macchina per scrivere siete
finiti.»
«Lo farò da sola. Hai ragione: non posso chiederti di correre un pericolo così
grande.»
«E io non posso lasciare te in un pericolo così grande» ribatté Dimka. «Qual è
l’indirizzo?»
Tanja glielo disse.
«Non è molto lontano. Sali in moto.» Dimka montò in sella e, con un colpo di
pedale, accese il motore.
Tanja esitò, poi salì dietro di lui.
Dimka accese le luci e partì.
Mentre guidava, si chiese se il KGB stesse già perquisendo l’appartamento di
Vasilij. Era possibile, concluse, ma improbabile. Ammettendo che avessero
arrestato quaranta o cinquanta persone, ci sarebbe voluta quasi tutta la notte per gli
interrogatori preliminari, per ottenere nomi e indirizzi e per decidere a chi dare
priorità. In ogni caso era consigliabile la cautela.
Quando arrivarono all’indirizzo che Tanja gli aveva dato, passò davanti all’edificio
senza rallentare.
I lampioni stradali illuminavano una grandiosa residenza dell’Ottocento. Tutti i
palazzi di quel genere erano stati trasformati in uffici governativi o suddivisi in
appartamenti. Non c’erano auto parcheggiate davanti né uomini del KGB in giacca
di pelle in agguato all’entrata. Dimka fece il giro dell’isolato senza notare nulla di
sospetto. Poi parcheggiò a circa duecento metri dal portone.
I due fratelli smontarono dalla moto. Una donna che portava a spasso il cane li
salutò con un “buonasera” e proseguì. Entrarono nell’edificio.
Un tempo l’ingresso era stato un atrio imponente. Ora una lampadina solitaria
rivelava un pavimento di marmo scheggiato e graffiato e una maestosa scalinata
dalla cui balaustra mancavano parecchie colonnine.
Salirono le scale. Tanja tirò fuori una chiave e aprì la porta dell’appartamento.
Entrarono e richiusero l’uscio.
Tanja guidò il fratello in soggiorno. Una gatta grigia li guardò diffidente. Da una
credenza, Tanja estrasse un voluminoso scatolone, pieno per metà di croccantini.
Frugò all’interno e prese una macchina per scrivere protetta dalla custodia, poi
alcuni fogli matrice per ciclostile. Strappò i fogli, li gettò nel caminetto e accostò
un fiammifero.
Mentre li guardava bruciare, Dimka disse arrabbiato: «Perché diavolo vuoi
rischiare tutto per una protesta inutile?».
«Viviamo in una tirannia brutale» rispose Tanja. «Dobbiamo fare qualcosa per
mantenere viva la speranza.»
«Viviamo in una società che sta sviluppando il comunismo» ribatté Dimka. «È un
obiettivo difficile e abbiamo dei problemi, ma tu dovresti dare una mano a
risolverli invece di fomentare il malcontento.»
«Come si possono trovare soluzioni se a nessuno è permesso di parlare dei
problemi?»
«Al Cremlino ne parliamo continuamente.»
«E quei pochi uomini dalla mentalità ristretta, sempre gli stessi, non decidono mai
di fare cambiamenti importanti.»
«Non tutti sono di mentalità ristretta. Alcuni lavorano sodo per cambiare le cose.
Dacci tempo.»
«La rivoluzione c’è stata quarant’anni fa. Di quanto tempo avete ancora bisogno
prima di ammettere finalmente che il comunismo è un fallimento?»
I fogli nel caminetto erano bruciati rapidamente, riducendosi in cenere nera.
Frustrato, Dimka voltò le spalle. «Ne abbiamo già discusso tante volte. Ora
dobbiamo andarcene da qui.» Sollevò la macchina per scrivere.
Tanja prese in braccio la gatta e uscirono dall’appartamento.
Mentre se ne stavano andando, nell’atrio entrò un uomo con una valigetta, che li
salutò con un cenno quando li incrociò sulle scale. Dimka sperò che la luce fosse
troppo fioca per permettergli di vedere bene le loro facce.
Usciti dal portone, Tanja posò la gatta a terra, sul marciapiede. «Adesso te la
dovrai cavare da sola, Mademoiselle.»
La gatta si allontanò con aria sdegnata.
Si avviarono in fretta verso l’angolo. Dimka tentava inutilmente di nascondere la
macchina per scrivere sotto la giacca. Con suo grande sgomento, era sorta la luna e
lui e sua sorella erano chiaramente visibili. Arrivarono alla moto.
Dimka passò la macchina per scrivere a Tanja. «Come ce ne sbarazziamo?»
sussurrò.
«Nel fiume?»
Dimka frugò nella mente e ricordò un punto lungo l’argine dove lui e alcuni
compagni di università erano andati un paio di volte per passare la notte bevendo
vodka. «Conosco un posto.»
Risalirono in moto e Dimka uscì dal centro città, puntando verso sud. Il posto che
aveva in mente era nei sobborghi, ma meglio così: c’erano meno probabilità che
qualcuno li notasse.
Guidò velocemente per venti minuti e si fermò davanti al monastero NikoloPerervinskij.
L’antica istituzione, con la sua magnifica cattedrale, era ormai un rudere, in disuso
da decenni e spogliata dei suoi tesori. Si trovava su una lingua di terra compresa tra
la principale linea ferroviaria diretta a sud e il fiume Moscova. I campi che la
circondavano ora erano i cantieri dei nuovi casermoni di appartamenti, ma di notte
la zona era deserta. Nessuno era in vista.
Dimka spostò a mano la moto, togliendola dalla strada e portandola all’interno di
una macchia di alberi, dove la bloccò sul cavalletto. Poi guidò Tanja attraverso il
boschetto fino al monastero in rovina. Alla luce della luna, gli edifici abbandonati
erano di un biancore misterioso. Le cupole a cipolla della cattedrale stavano
collassando, ma i tetti a lastre verdi degli edifici del monastero erano per la
maggior parte intatti. Dimka non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che i
fantasmi di generazioni di monaci lo stessero osservando dalle finestre sfondate.
Attraversò un campo acquitrinoso fino al fiume.
«Come fai a conoscere questo posto?» gli chiese Tanja.
«Venivamo qui ai tempi dell’università. Ci ubriacavamo e guardavamo il sole
sorgere sopra l’acqua.»
Raggiunsero la riva. In quel punto il fiume era un pigro canale che tracciava
un’ampia curva e l’acqua era placida al chiaro di luna. Ma Dimka sapeva che era
abbastanza profonda per lo scopo.
Tanja esitò. «Che spreco» disse.
Dimka si strinse nelle spalle. «Le macchine per scrivere sono costose.»
«Non è solo per i soldi. È una voce fuori dal coro, una visione alternativa del
mondo, un modo diverso di pensare. Una macchina per scrivere è libertà di
parola.»
«Allora starai meglio senza macchina per scrivere.»
Tanja gliela passò.
Dimka fece scorrere il carrello a destra fino alla massima estensione, in modo da
ottenere un manico con cui afferrare la macchina. «Ci siamo» disse. Portò il
braccio indietro e poi, con tutta la forza, la scagliò in direzione del fiume. Non finì
molto lontano, ma cadde in acqua con un tonfo soddisfacente e si inabissò
all’istante.
I due fratelli rimasero immobili a guardare le increspature nell’acqua.
«Grazie» disse Tanja. «Soprattutto perché non credi in quello che faccio.»
Dimka le passò un braccio intorno alle spalle. Poi si allontanarono insieme.
7
George Jakes era di cattivo umore. Il braccio, nonostante fosse ingessato e
sostenuto da un tutore appeso al collo, gli faceva un male infernale. Aveva perso il
suo ambito impiego prima ancora di cominciare: esattamente come aveva previsto
Greg, lo studio legale Fawcett Renshaw aveva ritirato l’offerta dopo che il suo
nome era comparso sui giornali come quello di un Freedom Rider rimasto ferito.
Ora non sapeva più cosa avrebbe fatto del resto della propria vita.
A Harvard il commencement, la cerimonia di conferimento delle lauree, si teneva
nell’Old Yard, un cortile erboso circondato dagli aggraziati edifici di mattoni rossi
dell’università. C’erano membri del Consiglio dei supervisori in frac e cappello a
cilindro. Vennero conferite lauree ad honorem al ministro degli Esteri britannico,
un aristocratico privo di mento che si chiamava Lord Home, e a un componente
della squadra del presidente Kennedy alla Casa Bianca che aveva un nome
bizzarro, McGeorge Bundy. Malgrado il malumore, George provava una blanda
tristezza nel lasciare Harvard, dove aveva trascorso sette anni prima come studente
di legge e poi come iscritto al master. Aveva conosciuto alcune persone
straordinarie e si era fatto qualche buon amico. Aveva superato tutti gli esami che
aveva affrontato. Era uscito con parecchie ragazze ed era andato a letto con tre di
loro. Si era ubriacato una volta soltanto, odiando la sensazione di avere perso il
controllo.
Ma quel giorno era troppo arrabbiato per indulgere alla nostalgia. Dopo la violenza
teppistica a Anniston, si era aspettato una reazione ferma da parte
dell’amministrazione Kennedy. Jack Kennedy si era presentato al popolo
americano come un liberal e per questo aveva avuto il voto dei neri. Bobby
Kennedy era segretario alla Giustizia, il funzionario delle forze dell’ordine di più
alto grado in tutto il paese. George aveva sperato che Bobby dichiarasse, forte e
chiaro, che la costituzione degli Stati Uniti era in vigore in Alabama come in
qualsiasi altro posto.
Non era successo.
Nessuno era stato arrestato per avere aggredito i Freedom Riders. Né la polizia
locale né l’FBI avevano indagato sui molti reati violenti che erano stati commessi.
Nell’America del 1961, mentre la polizia stava a guardare, i razzisti bianchi
potevano aggredire gli attivisti per i diritti civili, spezzare loro le ossa, cercare di
ucciderli dandogli fuoco… e cavarsela.
L’ultima volta che George aveva visto Maria Summers era stato nell’ambulatorio
di un medico. I Freedom Riders feriti erano stati respinti dall’ospedale più vicino,
ma alla fine avevano trovato gente disposta a curarli. George era in compagnia di
un’infermiera che si occupava del suo braccio fratturato quando Maria era andata a
dirgli che stava per tornare in volo a Chicago. Se avesse potuto, George si sarebbe
alzato in piedi e l’avrebbe abbracciata. Invece Maria gli aveva dato un bacio sulla
guancia ed era svanita.
George si chiese se l’avrebbe mai rivista. “Avrei potuto innamorarmi seriamente di
lei” pensò. “Forse mi è già successo.” In dieci giorni di conversazione ininterrotta,
non si era mai sentito annoiato: Maria era intelligente almeno quanto lui, forse di
più. E, anche se aveva un’aria innocente, i suoi occhi di velluto lo spingevano a
immaginarsela al lume di candela.
La cerimonia del commencement si concluse alle undici e trenta. Studenti, genitori
ed ex alunni iniziarono a disperdersi tra le ombre degli alti olmi per dirigersi ai
pranzi formali nel corso dei quali sarebbero state consegnate le lauree.
George si guardò intorno cercando i suoi familiari, che però non vide.
Vide invece Joseph Hugo.
Era solo, in piedi accanto alla statua di bronzo di John Harvard, e stava accendendo
una delle sue lunghe sigarette. Con la toga nera da cerimonia, la carnagione pallida
sembrava addirittura più cerea. George strinse i pugni. Avrebbe voluto pestare a
morte quella spia. Ma il braccio sinistro era inservibile e, in ogni caso, se lui e
Hugo si fossero azzuffati nell’Old Yard, proprio quel giorno, l’avrebbero pagata
cara, nel peggiore dei casi addirittura con il ritiro della laurea. George era già
abbastanza nei guai. Sarebbe stato più saggio ignorare Hugo e allontanarsi.
Invece disse: «Hugo, pezzo di merda!».
Hugo sembrò spaventato, nonostante il braccio rotto dell’altro. Era robusto quanto
George e probabilmente altrettanto forte, ma George aveva la rabbia dalla sua e
Hugo lo sapeva. Distolse lo sguardo e cercò di allontanarsi, borbottando: «Non mi
va di parlare con te».
«Non mi sorprende.» George si spostò per bloccargli la strada. «Sei rimasto a
guardare mentre una folla impazzita mi saltava addosso. Quei delinquenti mi
hanno rotto il braccio, accidenti.»
Hugo fece un passo indietro. «Non eri obbligato ad andare in Alabama.»
«E tu non eri obbligato a fingere di essere un attivista per i diritti civili mentre per
tutto il tempo non hai fatto altro che spiare. Chi ti pagava? Il Ku Klux Klan?»
Hugo sollevò il mento, sulla difensiva, e George provò l’impulso di colpirlo con un
pugno. «Mi sono offerto volontario per fornire informazioni all’ FBI.»
«Quindi l’hai fatto senza compenso! Non so se questo ti renda migliore o
peggiore.»
«Ma non sarò un collaboratore volontario ancora per molto tempo: la settimana
prossima comincio a lavorare per il Bureau.» Hugo pronunciò la frase nel tono un
po’ imbarazzato e un po’ di sfida di chi ammette di appartenere a una setta
religiosa.
«Sei stato uno spione talmente bravo che ti hanno offerto un impiego.»
«Ho sempre voluto lavorare per le forze dell’ordine.»
«Non è quello che hai fatto a Anniston. Là eri dalla parte dei criminali.»
«Voialtri siete tutti comunisti. Ti ho sentito parlare di Karl Marx.»
«E di Hegel, Voltaire, Gandhi e Gesù Cristo. Andiamo, Hugo! Nemmeno tu puoi
essere così stupido.»
«Odio i disordini.»
Era quello il problema, rifletté George con amarezza. La gente odiava i disordini.
La stampa aveva addossato la colpa degli incidenti ai Riders, non ai segregazionisti
con le mazze da baseball e le bombe incendiarie. La cosa lo faceva impazzire di
frustrazione: nessuno in America si occupava di ciò che era giusto?
Dall’altra parte del prato vide Verena Marquand che gli faceva cenno con la mano.
Perse di colpo interesse per Joseph Hugo.
Verena si stava laureando in letteratura inglese, ma a Harvard le persone di colore
erano così poche che si conoscevano tutte. E lei era talmente bella che George
l’avrebbe notata anche tra mille ragazze nere. Aveva gli occhi verdi e la pelle color
caramello. Sotto la toga, indossava un abito verde la cui gonna corta metteva in
risalto le lunghe gambe dalla pelle levigata. Il tocco era in bilico sulla testa con
un’angolazione sbarazzina. Verena era fantastica.
Tutti dicevano che lei e George formavano una bella coppia, ma loro due non
erano mai usciti insieme. Quando George era libero lei aveva una relazione, e
viceversa. E ormai era troppo tardi.
Verena era un’ardente sostenitrice dei diritti civili e, dopo la laurea, sarebbe andata
a lavorare per Martin Luther King ad Atlanta. Disse con entusiasmo: «Avete messo
in moto qualcosa di grosso con quel vostro Freedom Ride!».
Era vero. Dopo le bombe incendiarie a Anniston, George aveva lasciato l’Alabama
in aereo con il braccio ingessato, ma altri avevano continuato la sfida. Dieci
studenti di Nashville erano saliti su un autobus diretto a Birmingham, dove erano
stati arrestati. Nuovi Riders avevano rimpiazzato il primo gruppo. C’era stata altra
violenza da parte dei razzisti bianchi. Il Freedom Ride era diventato un movimento
di massa.
«Però ho perso l’impiego» disse George.
«Vieni a lavorare per King ad Atlanta» propose immediatamente Verena.
George era stupito. «Te lo ha detto lui di chiedermelo?»
«No, ma ha bisogno di un avvocato e non si è fatto avanti nessuno brillante anche
solo la metà di te.»
George era incuriosito. Si era quasi innamorato di Maria Summers, ma avrebbe
fatto meglio a dimenticarla: probabilmente non l’avrebbe mai più rivista. Si chiese
se Verena sarebbe uscita con lui, nel caso avessero lavorato entrambi per King. «È
un’idea» disse. Ma voleva pensarci. Cambiò argomento. «I tuoi sono qui oggi?»
«Naturalmente. Vieni, te li presento.»
I genitori di Verena erano delle celebrità, entrambi sostenitori di Kennedy. George
sperava che prendessero la parola pubblicamente per criticare il presidente a causa
della sua debole reazione alla violenza segregazionista. Forse George e Verena
insieme avrebbero potuto convincerli a rilasciare una dichiarazione in quel senso.
Sarebbe servito molto ad alleviare il dolore al braccio.
Attraversò il prato di fianco a Verena.
«Mamma, papà, vi presento il mio amico George Jakes» disse la ragazza.
Suo padre era un nero alto ed elegante e la madre una bianca dall’elaborata
acconciatura bionda. George li aveva visti spesso in fotografia: erano una famosa
coppia interraziale. Percy Marquand era il “Bing Crosby Negro”, una stella del
cinema e un cantante di melodie sentimentali. Babe Lee era un’attrice di teatro
specializzata in ruoli di donne coraggiose.
Percy parlò nel caldo tono baritonale reso famoso da decine di dischi di successo:
«Mr Jakes, in Alabama lei si è fatto fratturare quel braccio per tutti noi. Sono
onorato di stringerle la mano».
«Grazie, signore, ma mi chiami George, per favore.»
Babe Lee tese la destra e lo guardò negli occhi come se avesse voluto sposarlo.
«Le siamo tutti così grati, George. E siamo anche orgogliosi di lei.»
L’atteggiamento della donna era talmente seduttivo che George, a disagio, lanciò
un’occhiata al marito, temendo che potesse irritarsi. Ma né Percy né Verena ebbero
alcuna reazione. George si chiese se Babe si comportasse così con tutti gli uomini
che incontrava.
Non appena riuscì a liberare la mano dalla stretta di Babe, si rivolse di nuovo a
Percy. «So che ha fatto campagna elettorale per Kennedy alle presidenziali
dell’anno scorso. Adesso non ce l’ha con lui per la sua posizione in merito ai diritti
civili?»
«Siamo tutti delusi» ammise Percy.
«Lo credo bene!» intervenne Verena. «Bobby Kennedy ha chiesto ai Riders di
rallentare le iniziative per un po’. Ma ci pensate? Naturalmente il CORE ha rifiutato.
L’America è governata dalle leggi, non dalla plebaglia!»
«Un principio che avrebbe dovuto essere sottolineato dal segretario alla Giustizia»
osservò George.
Percy annuì, imperturbabile di fronte all’attacco dei due. «Ho sentito dire che
l’amministrazione ha concluso un accordo con gli Stati del Sud.» George tese le
orecchie: la notizia non era comparsa sui giornali. «I governatori hanno accettato di
tenere a freno i razzisti, ed è quello che vogliono i fratelli Kennedy.»
George sapeva che in politica nessuno faceva concessioni senza tornaconto. «In
cambio di cosa?»
«Il segretario alla Giustizia non prenderà provvedimenti per gli arresti illegali dei
Freedom Riders.»
Verena era oltraggiata e irritata con suo padre. «Vorrei che mi avessi informato
prima, papà» disse seccamente.
«Tesoro, sapevo che ti saresti infuriata.»
A quella frase condiscendente, la ragazza si rabbuiò e distolse lo sguardo.
George puntò alla domanda chiave: «Protesterà pubblicamente, Mr Marquand?».
«Ci ho pensato» rispose Percy. «Ma non credo che avrebbe un grosso impatto.»
«Potrebbe influenzare il voto nero contro Kennedy nel 1964.»
«E siamo sicuri di volerlo? Per tutti noi sarebbe molto peggio se alla Casa Bianca
ci fosse qualcuno come Dick Nixon.»
«C’è qualcosa che possiamo fare?» chiese indignata Verena.
«Quello che è successo nel Sud il mese scorso ha dimostrato senza ombra di
dubbio che la normativa, così com’è, è troppo debole. Abbiamo bisogno di una
nuova legge sui diritti civili.»
«Parole sante» disse George.
«Forse posso dare una mano perché questo succeda» proseguì Percy. «Al momento
ho qualche influenza alla Casa Bianca. Ma se critico i Kennedy, non ne avrò più.»
George riteneva invece che Percy dovesse esprimersi pubblicamente. Verena diede
voce alla stessa opinione. «Tu dovresti dire quello che è giusto» dichiarò.
«L’America è piena di persone prudenti. Ed è proprio la ragione per cui ci
ritroviamo in questo casino.»
La madre si offese. «Tuo padre è famoso per dire sempre ciò che è giusto.» Il tono
era di indignazione. «Si è esposto in prima persona più di una volta.»
George capì che Percy non si sarebbe lasciato convincere. Ma forse aveva ragione:
una nuova legge sui diritti civili, che rendesse impossibile agli Stati del Sud
opprimere i negri, poteva essere l’unica vera soluzione. «Sarà meglio che ora vada
a cercare i miei» disse. «È stato un onore conoscervi.»
«Rifletti sul lavoro con Martin» gli ricordò Verena a voce alta, mentre lui si
allontanava.
George andò nel parco dove sarebbero state consegnate le lauree in legge. Era stato
montato un palco e, sotto le tende, c’erano tavoli su cavalletti per il pranzo
successivo. Trovò subito i suoi genitori.
Sua madre indossava un abito giallo nuovo. Doveva avere messo da parte dei
risparmi per acquistarlo: era orgogliosa e non avrebbe mai permesso ai ricchi
Peškov di comprare qualcosa per lei. Solo per George. Lo squadrò dalla testa ai
piedi, toga accademica e tocco compresi. «Questo è il giorno più emozionante
della mia vita» annunciò. E poi, con grande meraviglia di suo figlio, scoppiò in
lacrime.
George era sorpreso. Era un fatto del tutto insolito. Sua madre aveva passato gli
ultimi venticinque anni della propria vita rifiutandosi di dare prova di qualsiasi
debolezza. George la prese tra le braccia e la strinse a sé. «Sono così fortunato ad
averti come madre» disse.
Si sciolse gentilmente dall’abbraccio e le asciugò le lacrime con un fazzoletto
bianco pulito. Poi si voltò verso suo padre. Come la maggior parte degli ex alunni,
Greg esibiva una paglietta sul cui nastro era stampato l’anno del conseguimento
della laurea a Harvard, nel suo caso il 1942. «Congratulazioni, ragazzo mio» disse,
stringendogli la mano.
“Be’, se non altro è qui” pensò George. “È già qualcosa.”
I nonni comparvero un momento dopo. Tutti e due erano immigrati russi. Il nonno,
Lev Peškov, aveva cominciato gestendo bar e nightclub a Buffalo e adesso era
proprietario di uno studio cinematografico a Hollywood. Era sempre stato un
dandy e quel giorno indossava un abito bianco. George non aveva mai saputo cosa
pensare di lui. C’era chi diceva che fosse un imprenditore spietato con pochi
riguardi per la legge. D’altra parte, era sempre stato gentile con il nipote nero,
versandogli regolarmente un generoso assegno e pagandogli le tasse universitarie.
Prese George per un braccio e, in tono confidenziale, gli disse: «Ho un consiglio
per la tua carriera d’avvocato. Non difendere mai i criminali».
«Perché no?»
«Perché sono dei perdenti» ridacchiò il nonno.
Molti erano convinti che lo stesso Lev Peškov fosse stato un criminale, un
contrabbandiere di alcolici ai tempi del proibizionismo. «Tutti i criminali sono dei
perdenti?» domandò George.
«Solo quelli che si fanno beccare» rispose Lev. «Gli altri non hanno bisogno di
avvocati.» Rise di cuore.
La nonna, Marga, diede un bacio affettuoso a George. «Non dare ascolto a tuo
nonno.»
«Lo devo ascoltare» ribatté George. «Mi ha pagato gli studi.»
Lev gli puntò un dito contro. «Sono contento che tu non lo abbia dimenticato.»
Marga lo ignorò. «Ma guardati!» disse al nipote, la voce piena di affetto. «Così
bello! E adesso sei avvocato!»
George era l’unico nipote di Marga e lei lo adorava. Probabilmente, prima che il
pomeriggio finisse, gli avrebbe fatto scivolare in tasca cinquanta dollari.
Marga era stata una cantante di nightclub e, a sessantacinque anni, si muoveva
ancora come se stesse per salire sul palcoscenico in un aderente abito da sera. I
capelli neri erano probabilmente tinti. Indossava più gioielli di quanto fosse
opportuno in un evento all’aperto, George se ne rendeva conto, ma pensava che
essendo l’amante, e non la moglie, la nonna sentisse il bisogno di status symbol.
Marga era l’amante di Lev da quasi cinquant’anni, e Greg era il loro unico figlio.
Lev aveva anche una moglie a Buffalo, Olga, e una figlia, Daisy, che aveva
sposato un inglese e ora viveva a Londra. Di conseguenza George aveva cugini
britannici che non aveva mai conosciuto. Bianchi, presumeva.
Marga baciò Jacky sulle guance e George si accorse che la gente intorno a loro
lanciava occhiate sorprese e cariche di disapprovazione. Perfino nella progressista
Harvard era insolito vedere una persona di razza bianca abbracciare i negri. Ma la
famiglia di George richiamava sempre occhiate nelle rare occasioni in cui
compariva in pubblico al completo. Perfino nei luoghi in cui venivano ammesse
tutte le razze, una famiglia mista poteva ancora fare emergere i pregiudizi latenti
dei bianchi. George sapeva che, prima che la giornata finisse, avrebbe sentito
qualcuno mormorare la parola “bastardo”. Avrebbe ignorato l’insulto. I suoi nonni
neri erano morti da tempo e quella era tutta la sua famiglia. Avere quelle quattro
persone che scoppiavano di orgoglio alla sua cerimonia di laurea valeva qualsiasi
prezzo.
«Ieri ho pranzato con il vecchio Renshaw» disse Greg. «L’ho convinto a rinnovarti
l’offerta di impiego nel suo studio legale.»
«Oh, è meraviglioso!» esclamò Marga. «George, sarai un avvocato di Washington,
dopotutto!»
Jacky rivolse a Greg uno dei suoi rari sorrisi. «Grazie.»
Greg alzò un dito ammonitore. «Ci sono delle condizioni» avvertì.
«Oh, George accetterà qualsiasi cosa sia ragionevole» disse Marga. «È
un’opportunità talmente fantastica per lui.»
Intendeva dire “per un ragazzo nero”, George lo sapeva, ma non protestò. In ogni
caso Marga aveva ragione. «Quali condizioni?» domandò cauto.
«Niente che non valga per qualsiasi avvocato al mondo» rispose Greg. «Devi stare
lontano dai guai, ecco tutto. Un avvocato non può trovarsi dalla parte opposta
rispetto alle autorità.»
George era sospettoso. «Stare lontano dai guai?»
«Semplicemente, non dovrai più prendere parte ad azioni di protesta, marce,
dimostrazioni e simili. E comunque, come associato al primo anno, non avresti
tempo per quella roba.»
La proposta fece infuriare George. «Quindi dovrei cominciare la mia vita
lavorativa giurando di non fare più niente per la causa della libertà.»
«Non vedere la cosa da quel punto di vista» disse suo padre.
George soffocò una reazione rabbiosa. La sua famiglia voleva il meglio per lui, lo
sapeva. Cercando di mantenere un tono di voce neutro, domandò: «E come dovrei
vederla?».
«Il tuo ruolo nel movimento per i diritti civili non sarà più quello del soldato in
prima linea, ecco tutto. Limitati a sostenerlo. Una volta all’anno, manda un
assegno all’NAACP.» La National Association for the Advancement of Colored
People, l’organizzazione per i diritti civili più antica e più conservatrice, si era
opposta ai Freedom Riders definendoli troppo provocatori. «Mantieni un profilo
basso. Lascia che sull’autobus salga qualcun altro.»
«Forse c’è un’alternativa» disse George.
«E cioè?»
«Potrei lavorare per Martin Luther King.»
«Ti ha offerto un impiego?»
«C’è stato un approccio.»
«Quanto ti pagherebbe?»
«Non molto, credo.»
«Non pensare di rifiutare un ottimo impiego e poi venire a chiedermi soldi» lo
ammonì Lev.
«Okay, nonno» disse George, anche se era esattamente quello che aveva pensato.
«Ma credo che accetterò comunque quel lavoro.»
«Oh, George, non farlo!» esclamò sua madre, intervenendo nella discussione.
Stava per aggiungere qualcos’altro, ma in quel momento gli studenti vennero
invitati a disporsi in fila per la consegna delle lauree. «Vai» disse allora Jacky.
«Parleremo dopo.»
George si allontanò dai familiari e trovò il suo posto nella fila. La cerimonia ebbe
inizio e lui cominciò ad avanzare lentamente. Ripensò all’estate precedente,
quando aveva lavorato nello studio Fawcett Renshaw. L’avvocato Renshaw si era
considerato un eroe liberal per avere assunto un impiegato nero. Ma a George
erano stati assegnati solo lavori così semplici da essere avvilenti perfino per uno
stagista. Era stato paziente, aspettando un’occasione, e alla fine l’occasione era
arrivata: aveva svolto una ricerca legale che aveva fatto vincere la causa allo
studio, il quale gli aveva offerto l’assunzione appena si fosse laureato.
Cose del genere gli capitavano molto spesso. Il mondo dava per scontato che uno
studente di Harvard dovesse essere capace e intelligente… a meno che non fosse
nero, nel qual caso il presupposto non valeva più. Per tutta la vita George aveva
dovuto dimostrare di non essere un idiota. Questo lo riempiva di risentimento. Se
mai avesse avuto dei figli, sperava che sarebbero cresciuti in un mondo diverso.
Arrivò il suo turno sul palco. Mentre saliva i pochi gradini, rimase stupefatto nel
sentire fischiare.
Il fischio era una tradizione di Harvard, di solito riservata a professori che
tenevano pessime lezioni o erano scortesi con gli studenti. George era così
sconvolto che si fermò e si voltò. Incontrò lo sguardo di Joseph Hugo. Ma Hugo
non era il solo: il fischio era troppo forte. George era sicuro che comunque fosse
stato lui a orchestrare il tutto.
Si sentì odiato. E troppo umiliato per salire sul palco. Rimase immobile, impietrito,
e sentì il sangue affluirgli al viso.
Poi qualcuno cominciò ad applaudire. Guardando le file di sedie, George vide
alzarsi in piedi uno dei professori. Era Merv West, uno dei docenti più giovani.
Altri si unirono all’applauso, sovrastando i fischi. Molta gente si alzò. George
immaginò che anche persone che non lo conoscevano avessero indovinato chi era
dal braccio ingessato.
Ritrovò il coraggio e salì sul palco. Grida di entusiasmo si sollevarono quando gli
venne consegnato il diploma di laurea. Lui si voltò lentamente verso il pubblico e
ringraziò per gli applausi con un modesto cenno del capo. Poi scese.
Il cuore gli martellava ancora quando si unì agli altri studenti. Molti gli strinsero la
mano in silenzio. Era rimasto sconvolto dai fischi e, al tempo stesso, esaltato
dall’applauso. Si rese conto che stava sudando e si passò il fazzoletto sul viso. Era
stata una dura prova.
Assistette al resto della cerimonia in una sorta di stordimento, lieto di avere il
tempo per ricomporsi. Mentre lo shock dei fischi andava esaurendosi, capì che era
stata opera di Hugo e di una manciata di scoppiati di estrema destra e che il resto
della Harvard progressista gli aveva reso onore. Si disse che doveva sentirsi
orgoglioso.
Gli studenti si riunirono alle famiglie per il pranzo. La madre abbracciò George.
«Ti hanno applaudito.»
«Sì» disse Greg. «Anche se per un momento è sembrato che potesse andare
diversamente.»
George spalancò le mani in un gesto di supplica. «Come posso non prendere parte
a questa battaglia?» domandò. «Desidero davvero l’impiego nello studio Fawcett
Renshaw e voglio davvero fare contenta la famiglia che mi ha sostenuto in tutti
questi anni di studio… ma non basta. E se avessi dei figli?»
«Sarebbe bello!» commentò Marga.
«Nonna, i miei figli saranno di colore. In che tipo di mondo cresceranno? Saranno
americani di seconda classe?»
La conversazione venne interrotta da Merv West, che strinse la mano a George e si
congratulò per la laurea. Il professore era un po’ troppo informale con la giacca di
tweed e la camicia button-down.
«Grazie per avere dato inizio all’applauso, professore» disse George.
«Non ringraziarmi: te lo meritavi.»
George gli presentò i familiari. «Stavamo giusto parlando del mio futuro.»
«Spero che tu non abbia ancora preso una decisione definitiva.»
Quella frase stimolò la curiosità di George. Cosa significava? «Non ancora»
rispose. «Perché?»
«Sono in contatto con il segretario alla Giustizia, Bobby Kennedy. Laureato a
Harvard, come ben sai.»
«Spero che lei gli abbia detto che la sua gestione di ciò che è accaduto in Alabama
è stata una vergogna nazionale.»
West fece un sorriso triste. «Non con queste parole, non proprio. Ma Bobby e io ci
siamo trovati d’accordo sul fatto che la risposta dell’amministrazione è stata
inadeguata.»
«Proprio così, non posso immaginare che lui…» George lasciò sfumare la frase,
colpito da un pensiero improvviso. «Cos’ha a che fare questo con il mio futuro?»
«Bobby ha deciso di assumere un giovane avvocato di colore per dare alla squadra
ministeriale il punto di vista dei negri sui diritti civili. E mi ha chiesto se avevo
qualcuno da raccomandargli.»
Per un attimo George rimase stordito. «Mi sta forse dicendo che…»
West alzò una mano. «Non ti sto offrendo l’impiego: solo Bobby può farlo. Ma
posso farti avere un colloquio… se vuoi.»
«George!» esclamò Jacky. «Un lavoro con Bobby Kennedy! Sarebbe fantastico.»
«Mamma, i Kennedy ci hanno molto deluso.»
«Allora va’ a lavorare per Bobby e cambia le cose!»
George esitò. Guardò le facce ansiose intorno a lui: sua madre, suo padre, la nonna,
il nonno. Poi di nuovo sua madre.
«Magari lo farò» disse alla fine.
8
Dimka Dvorkin si vergognava di essere ancora vergine a ventidue anni.
All’università era uscito con parecchie ragazze, ma nessuna di loro gli aveva
permesso di arrivare fino in fondo. In ogni caso, non era sicuro di volerlo fare.
Nessuno gli aveva detto che il sesso doveva essere parte di una relazione d’amore a
lungo termine, ma era quello che pensava lui. Non aveva mai avuto la smania di
fare sesso, come capitava ad alcuni. Tuttavia la sua mancanza di esperienza stava
diventando motivo di imbarazzo.
Il suo amico Valentin Lebedev era esattamente l’opposto. Alto e sicuro di sé, aveva
i capelli neri, gli occhi azzurri e fascino da vendere. Al termine del loro primo anno
all’università di Mosca, si era già portato a letto la maggior parte delle studentesse
della facoltà di scienze politiche e una delle insegnanti.
All’inizio della loro amicizia, Dimka gli aveva chiesto: “Cosa fai per… insomma,
per evitare una gravidanza?”.
“È un problema che riguarda la ragazza, no?” aveva risposto Valentin in tono
indifferente. “E se dovesse succedere il peggio, abortire non è poi così difficile.”
Parlando con altri, Dimka aveva scoperto che molti ragazzi la pensavano allo
stesso modo. Gli uomini non restavano gravidi, per cui non era un problema loro. E
l’aborto era disponibile a richiesta durante le prime dodici settimane. Ma Dimka
non riusciva ad accettare l’approccio di Valentin, forse perché sua sorella
disprezzava quell’atteggiamento.
Il sesso era sempre stato il principale interesse di Valentin, che metteva lo studio
solo al secondo posto. Per Dimka era stato il contrario, e ciò spiegava perché ora
Dimka fosse assistente al Cremlino e Valentin lavorasse per il dipartimento Parchi
della città di Mosca.
Era stato proprio grazie alle sue conoscenze nel settore che Valentin era riuscito a
far sì che loro due, nel luglio del 1961, potessero trascorrere una settimana al
campeggio estivo per giovani comunisti V.I. Lenin.
Il campeggio aveva un’impostazione un po’ militare, con le tende disposte in file
che sembravano tracciate con il righello e il coprifuoco alle ventidue e trenta, però
offriva una piscina, un lago dove andare in barca e una marea di ragazze. Una
settimana in quel campeggio era un privilegio molto ambito.
Dimka riteneva di meritarsi una vacanza. Il summit di Vienna era stato una vittoria
per l’Unione Sovietica e parte del merito andava anche a lui.
In realtà il vertice viennese era cominciato male per Chrušcëv. Kennedy e la sua
abbagliante moglie avevano fatto il loro ingresso a Vienna con una flotta di
limousine da cui sventolavano decine di bandiere a stelle e strisce. Quando i due
leader si erano incontrati, i telespettatori di tutto il mondo avevano visto che
Kennedy sovrastava Chrušcëv di parecchi centimetri e che, guardando lungo il
proprio naso patrizio, ne vedeva la sommità calva della testa. Le giacche su misura
e le cravatte sottili del presidente americano avevano fatto sembrare Chrušcëv un
contadino vestito a festa. L’America aveva vinto una gara di glamour alla quale
l’Unione Sovietica non sapeva nemmeno di partecipare.
Tuttavia, una volta iniziati i colloqui, Chrušcëv aveva dominato. Quando Kennedy
aveva cercato di intavolare una discussione pacata, tra due uomini ragionevoli, il
primo segretario era diventato rumorosamente aggressivo. Kennedy aveva fatto
presente che non era logico da parte dell’Unione Sovietica incoraggiare il
comunismo nei paesi del Terzo mondo e poi protestare indignata per gli sforzi
americani di far rientrare il comunismo all’interno della sfera sovietica. Chrušcëv
aveva ribattuto sprezzante che la diffusione del comunismo era storicamente
inevitabile e niente di ciò che avrebbero potuto fare i due leader l’avrebbe
impedita. Kennedy aveva una scarsa conoscenza della filosofia marxista e non era
stato in grado di replicare.
La strategia sviluppata da Dimka e dagli altri consiglieri aveva trionfato. Tornato a
Mosca, Chrušcëv aveva ordinato decine e decine di copie dei verbali del summit e
le aveva fatte distribuire, non solo nel blocco sovietico, ma anche a leader di paesi
remoti come la Cambogia e il Messico. Da allora Kennedy era rimasto in silenzio,
non aveva neppure reagito alla minaccia di Chrušcëv di prendersi Berlino Ovest. E
Dimka era partito per la sua vacanza.
Il primo giorno, Dimka indossò i suoi capi nuovi: una camicia a scacchi a maniche
corte e un paio di shorts che sua madre aveva ricavato dai pantaloni di un vecchio
abito liso di serge blu.
«Calzoncini del genere sono di moda in Occidente?» gli domandò Valentin.
Dimka rise. «Non che io sappia.»
Mentre Valentin si faceva la barba, Dimka decise di andare a comprare qualche
provvista.
Quando emerse all’esterno, vide con piacere, proprio accanto a loro, una ragazza
intenta ad accendere il fornelletto portatile in dotazione a ogni tenda. Era un po’
più vecchia di lui, pensò Dimka, forse sui ventisette anni. Aveva folti capelli
castano rossicci tagliati a caschetto, una manciata di lentiggini seducenti e un
preoccupante aspetto alla moda, con una camicetta arancione e un paio di pantaloni
neri aderenti che le arrivavano appena sotto il ginocchio.
«Salve!» la salutò Dimka con un sorriso. La ragazza alzò lo sguardo. «Serve una
mano?»
Lei accese il gas con un fiammifero e rientrò nella sua tenda, senza rispondere.
“Be’, non sarà con lei che perderò la verginità” si disse Dimka, avviandosi.
Comprò uova e pane nel negozio accanto all’edificio dei bagni comuni. Quando
tornò, vide due ragazze davanti alla tenda accanto alla sua: quella alla quale aveva
rivolto la parola e una bionda carina dalla figura slanciata. La bionda indossava
pantaloni simili a quelli dell’amica, ma con una camicetta rosa. Valentin stava
parlando con loro e tutti e tre ridevano.
Valentin presentò le ragazze a Dimka. La rossa si chiamava Nina; non fece cenno
all’incontro di poco prima e continuava ad avere un’aria riservata. La bionda, che
si chiamava Anna ed era chiaramente quella più estroversa, sorrideva e si scostava
i capelli dal viso con un gesto aggraziato.
I due ragazzi avevano portato con sé una sola casseruola di ferro nella quale
pensavano di cucinare tutto e Dimka l’aveva riempita d’acqua per bollire le uova.
Le ragazze però erano meglio equipaggiate e Nina prese le uova per preparare i
bliny.
Le cose si stavano mettendo bene, pensò Dimka.
Studiò Nina mentre mangiavano. Il naso sottile, la bocca piccola e il delicato
mento sporgente le davano un’aria guardinga, come se stesse continuamente
soppesando la situazione. Ma aveva anche una figura voluttuosa e Dimka, quando
si rese conto che forse l’avrebbe vista in costume da bagno, sentì inaridirsi la gola.
«Dimka e io abbiamo in programma di prendere una barca a remi e raggiungere
l’altra sponda del lago» annunciò Valentin. Era la prima volta che Dimka ne
sentiva parlare, ma non disse niente. «Perché non andiamo tutti e quattro?»
continuò Valentin. «A pranzo potremmo fare un picnic.»
“Non può essere così facile” pensò Dimka. Si erano appena conosciuti!
Le due ragazze si guardarono un momento, quasi comunicassero telepaticamente,
poi Nina disse in tono secco: «Vedremo. Adesso sparecchiamo» e cominciò a
raccogliere piatti e posate.
Una risposta un po’ deludente, ma forse la faccenda non finiva lì.
Dimka si offrì di portare i piatti sporchi all’edificio dei bagni.
«Dove hai trovato quei calzoncini?» domandò Nina mentre camminavano insieme.
«Me li ha fatti mia madre.»
La ragazza rise. «Che dolce.»
Dimka si chiese cosa avrebbe sottinteso sua sorella definendo un uomo “dolce”.
Decise che significava che lui era gentile ma non attraente.
Una specie di casamatta in cemento ospitava le toelette, le docce e grandi lavandini
comuni. Dimka guardò Nina lavare i piatti. Cercò qualcosa da dire, ma non gli
venne in mente niente. Se la ragazza gli avesse chiesto della crisi di Berlino,
avrebbe potuto parlare per tutto il giorno, ma lui non aveva alcun talento per le
amenità che Valentin era capace di sciorinare in un flusso continuo e spontaneo.
Alla fine riuscì a chiedere: «Tu e Anna siete amiche da molto tempo?».
«Lavoriamo insieme» rispose Nina. «Siamo impiegate nell’ufficio amministrativo
del sindacato dei lavoratori dell’acciaio, nella sede centrale di Mosca. Io ho
divorziato un anno fa, Anna cercava qualcuno con cui dividere il suo appartamento
e così adesso abitiamo insieme.»
“Divorziata” si disse Dimka. Significava che Nina era sessualmente esperta. Si
sentì intimidito. «Com’era tuo marito?»
«Uno stronzo» rispose Nina. «Non mi va di parlare di lui.»
«Okay.» Dimka cercò disperatamente qualcosa di futile da dire. «Anna pare
davvero una persona simpatica» tentò.
«Ha buone conoscenze.»
Sembrava un’osservazione strana a proposito di un’amica. «Cioè?»
«È stato suo padre a procurarci questa vacanza. È il segretario del sindacato per il
distretto di Mosca.» Nina ne sembrava orgogliosa.
Dimka riportò i piatti puliti alle tende. Quando arrivarono, Valentin annunciò
allegramente: «Abbiamo preparato i panini, prosciutto e formaggio». Anna guardò
Nina e fece un gesto di impotenza, come a lasciar intendere di non essere riuscita a
fermare il rullo compressore Valentin, ma a Dimka parve chiaro che non ci aveva
nemmeno provato. Nina si strinse nelle spalle e così si decise che avrebbero fatto il
picnic.
Dovettero restare in fila per un’ora per avere la barca, ma i moscoviti erano abituati
alle code e, nella tarda mattinata, i quattro erano già sull’acqua chiara e fredda del
lago. Valentin e Dimka si diedero il turno ai remi e le ragazze presero il sole.
Nessuno sembrava sentire il bisogno di chiacchierare.
Raggiunta la sponda opposta, ormeggiarono la barca in una spiaggetta. Valentin si
tolse la camicia e Dimka lo imitò. Anna si tolse la maglia e i pantaloni, sotto i quali
indossava un due pezzi azzurro cielo. Dimka sapeva che quel tipo di costume si
chiamava bikini e che era di moda in Occidente, ma non ne aveva mai visto uno e
si sentì imbarazzato per il modo in cui lo eccitava. Riusciva a malapena a staccare
gli occhi dallo stomaco piatto e liscio e dall’ombelico della ragazza.
Con sua grande delusione, Nina rimase vestita.
Mangiarono i panini e Valentin fece comparire una bottiglia di vodka. Nel negozio
del campeggio non si vendevano alcolici, Dimka lo sapeva.
«L’ho comprata dall’addetto alle barche, che gestisce una sua piccola impresa
capitalista» disse Valentin.
Dimka non era sorpreso: la maggior parte delle cose che la gente desiderava
davvero era venduta al mercato nero, dai televisori ai blue jeans.
Si passarono la bottiglia ed entrambe le ragazze bevvero un lungo sorso.
Nina si asciugò la bocca con il dorso della mano. «Allora, voi due lavorate insieme
al dipartimento Parchi?»
«No» rispose Valentin ridendo. «Il mio amico è troppo intelligente per un lavoro
simile.»
«Io lavoro al Cremlino» chiarì Dimka.
Nina era colpita. «E cosa fai?»
A Dimka non andava molto di spiegarlo perché poteva dare l’impressione di
vantarsi. «Sono uno degli assistenti del primo segretario.»
«Vuoi dire del compagno Chrušcëv?» chiese sbalordita Nina.
«Sì.»
«E come diavolo sei riuscito ad avere un impiego del genere?»
«Ve l’ho detto: è intelligente» si inserì Valentin. «È sempre stato il primo della
classe.»
«Non ottieni un impiego simile solo con i bei voti» ribatté bruscamente Nina. «Chi
conosci?» chiese a Dimka.
«Mio nonno, Grigorij Peškov, fu tra coloro che presero il Palazzo d’Inverno
durante la rivoluzione di ottobre.»
«Anche questo non basta a procurarti un buon lavoro.»
«Be’, mio padre era nel KGB… È morto l’anno scorso. Mio zio è generale. E io
sono davvero intelligente.»
«E anche modesto» aggiunse Nina, ma il suo sarcasmo era bonario. «Come si
chiama tuo zio?»
«Vladimir Peškov. Noi lo chiamiamo Volodja.»
«Ho sentito parlare del generale Peškov. E così è tuo zio… Con una famiglia del
genere, come mai vai in giro con dei calzoncini fatti in casa?»
Dimka era confuso. Era la prima volta che Nina mostrava interesse nei suoi
confronti, ma lui non riusciva a capire se la ragazza fosse piena di ammirazione o
di disprezzo. Forse era semplicemente il suo modo di fare.
Valentin si alzò in piedi. «Vieni in esplorazione con me» disse ad Anna.
«Lasciamo questi due a discutere dei calzoncini di Dimka.» Le tese una mano.
Anna la prese e permise a Valentin di aiutarla ad alzarsi. Poi i due scomparvero tra
gli alberi, tenendosi per mano.
«Io non piaccio al tuo amico» disse Nina.
«Però a lui piace la tua amica.»
«Sì, è carina.»
«Tu sei bella» disse Dimka sottovoce. Non aveva programmato di farlo, gli era
venuto spontaneo. Ed era sincero.
Nina lo fissò assorta, quasi rivalutandolo. Poi domandò: «Ti va di nuotare?».
A Dimka l’acqua non piaceva molto, ma era ansioso di vedere la ragazza in
costume da bagno. Si svestì: sotto gli shorts indossava il costume.
Quello di Nina era intero, di nylon marrone. La ragazza non era in bikini, ma
riempiva il costume così gradevolmente che Dimka non rimase deluso. Nina era
l’opposto della snella Anna: aveva seni pieni e fianchi ampi, e lentiggini sulla gola.
La ragazza notò lo sguardo di Dimka sul suo corpo, si voltò e corse in acqua.
Dimka la seguì.
Nonostante il sole, l’acqua era fredda da togliere il fiato, tuttavia Dimka ne
apprezzò la sensazione sensuale sul corpo. Nuotarono tutti e due con energia per
riscaldarsi. Si spinsero al largo e poi, più lentamente, tornarono verso riva. Smisero
di nuotare poco prima della spiaggia e Dimka lasciò che i piedi toccassero il fondo.
L’acqua gli arrivava alla vita. Dimka guardò il seno di Nina: la temperatura fredda
le aveva indurito i capezzoli, che risaltavano sotto il costume da bagno.
«Smettila di fissarmi» lo ammonì scherzosamente Nina, spruzzandogli l’acqua in
faccia.
Dimka la spruzzò a sua volta.
«Te lo sei voluto!» disse Nina, e gli afferrò la testa cercando di spingergliela in
acqua.
Dimka si divincolò e la prese per la vita. Lottarono. Il corpo di Nina era pesante
ma sodo, e a Dimka quella solidità piaceva. Prese la ragazza tra le braccia e la
sollevò, staccandole i piedi dal fondo. Nina cominciò a dibattersi, ridendo e
cercando di liberarsi, e Dimka la strinse a sé con maggior forza. Sentì i seni
morbidi premere contro il suo viso.
«Mi arrendo!» gridò lei.
Riluttante, Dimka la mise giù. Si fissarono per un momento. Negli occhi di Nina,
Dimka lesse un lampo di desiderio. Aveva un atteggiamento diverso nei suoi
confronti: forse era stata la vodka, forse la consapevolezza del fatto che lui era un
importante apparatcik, forse l’eccitazione del gioco nell’acqua, o forse tutt’e tre le
cose. A Dimka importava ben poco. Nel sorriso di Nina colse un invito e la baciò
sulla bocca.
Lei rispose al bacio con entusiasmo.
Dimka dimenticò l’acqua fredda, perso nella sensazione delle labbra e della lingua
di Nina, ma dopo pochi minuti lei rabbrividì e disse: «Adesso usciamo».
Dimka la tenne per mano mentre avanzavano goffi nell’acqua poco profonda e
raggiungevano la riva. Si distesero fianco a fianco sull’erba e si baciarono di
nuovo. Dimka le toccò il seno e cominciò a chiedersi se sarebbe stato quello il
giorno in cui avrebbe perso la verginità.
Vennero interrotti da una voce aspra che rimbombò da un megafono: “Riportate le
barche al molo! Tempo scaduto!”.
«È la polizia antisesso» mormorò Nina.
Nonostante la delusione, Dimka rise. Alzò lo sguardo e vide un piccolo gommone
con motore fuoribordo passare davanti a loro a un centinaio di metri dalla riva.
Agitò un braccio per dare conferma: sapeva che la barca si poteva tenere solo per
due ore. Gli venne in mente che una mancia al supervisore avrebbe potuto
garantire una proroga, ma non ci aveva pensato. In realtà non si era neppure
sognato che il rapporto con Nina progredisse così in fretta.
«Non possiamo tornare senza gli altri due» disse Nina, ma un momento dopo
Valentin e Anna emersero dal bosco. Erano rimasti nei paraggi, pensò Dimka, e
avevano sentito l’avviso al megafono.
I ragazzi si allontanarono un po’ da Nina e Anna e tutti e quattro indossarono i
rispettivi indumenti sopra il costume da bagno.
Dimka sentì le ragazze discutere a bassa voce: Anna parlava in tono concitato,
Nina ridacchiava e annuiva.
Poi Anna lanciò un’occhiata eloquente a Valentin. Sembrava un segnale
concordato. Lui fece cenno di sì con la testa e si rivolse a Dimka: «Questa sera noi
quattro andiamo a ballare. Quando torneremo, Anna verrà con me nella nostra
tenda. Tu andrai con Nina in quella delle ragazze. Okay?».
Era più che okay: era eccitante. «Hai organizzato tutto con Anna?» domandò
Dimka.
«Sì. E Nina ha appena accettato.»
Dimka non riusciva quasi a crederci. Avrebbe passato tutta la notte abbracciando il
corpo sodo di Nina. «Allora le piaccio!»
«Dev’essere merito dei tuoi calzoncini.»
Salirono in barca e i ragazzi cominciarono a remare. Le ragazze annunciarono che
sarebbero andate a fare la doccia appena arrivate. Dimka si chiese come fare
perché il tempo passasse in fretta fino a sera.
Quando attraccarono al molo, videro un uomo vestito di nero in attesa.
Dimka capì istintivamente che era un messaggero per lui. “Dovevo immaginarlo”
pensò con rimpianto. “Le cose stavano andando troppo bene.”
Scesero dalla barca. Nina guardò l’uomo che sudava nel suo abito nero e domandò:
«Ci arresteranno perché abbiamo tenuto la barca per troppo tempo?». Scherzava
solo in parte.
«È qui per me?» domandò Dimka. «Sono Dmitrij Dvorkin.»
«Sì, Dmitrij Il’ic» rispose l’uomo, usando rispettosamente il patronimico. «Sono il
suo autista. La devo accompagnare in aeroporto.»
«Di che emergenza si tratta?»
L’autista si strinse nelle spalle. «Il primo segretario la vuole.»
«Vado a prendere la mia borsa» disse Dimka cupo.
Come piccola consolazione, Nina sembrava particolarmente impressionata.
L’auto portò Dimka all’aeroporto di Vnukovo, a sudovest di Mosca, dove Vera
Pletner lo stava aspettando con una grande busta e un biglietto per Tbilisi, la
capitale della Repubblica Socialista Sovietica della Georgia.
Chrušcëv non era a Mosca, ma nella sua dacia a Pitsunda, una località di vacanza
sul Mar Nero riservata ai massimi esponenti del governo. Ed era là che Dimka era
diretto.
Non c’era mai stato.
Non era l’unico assistente la cui vacanza era stata interrotta. Nell’atrio partenze,
mentre stava per aprire la busta, venne avvicinato da Evgenij Filipov, che
indossava come sempre una camicia di flanella grigia, nonostante il caldo estivo.
Filipov sembrava compiaciuto, e ciò era un brutto segno.
«La vostra strategia ha fallito» disse a Dimka con evidente soddisfazione.
«Cos’è successo?»
«Il presidente Kennedy ha fatto un discorso in televisione.»
Kennedy era rimasto in silenzio per sette settimane dopo il summit di Vienna. Gli
Stati Uniti non avevano reagito alla minaccia di Chrušcëv di firmare un trattato con
la Repubblica Democratica Tedesca e riprendersi Berlino Ovest. Dimka aveva
concluso che il presidente americano era troppo intimorito per tenere testa a
Chrušcëv. «Che discorso?»
«Kennedy ha detto al popolo americano di prepararsi alla guerra.»
Così era quella l’emergenza.
Vennero chiamati all’imbarco. «Quali parole ha usato Kennedy, esattamente?»
domandò Dimka.
«Riferendosi a Berlino, ha detto: “Un attacco a quella città verrà considerato come
un attacco a tutti noi”. Nella tua busta c’è la trascrizione completa.»
Salirono a bordo. Dimka indossava ancora gli shorts. L’aereo era un jet di linea
Tupolev Tu-104. Dimka guardò dall’oblò mentre decollavano. Sapeva come
funzionava un aereo – la superficie superiore ricurva dell’ala che creava una
differenza di pressione – ma il fatto di sollevarsi nell’aria gli sembrava sempre una
magia.
Finalmente distolse lo sguardo e aprì la busta.
Filipov non aveva esagerato.
Kennedy non si era limitato a qualche borbottio minaccioso. Proponeva di
triplicare il numero dei soldati di leva, mobilitare i riservisti e portare l’esercito
americano a un milione di uomini. Stava programmando un nuovo ponte aereo per
Berlino, il trasferimento di sei divisioni in Europa e sanzioni economiche nei
confronti dei paesi del Patto di Varsavia.
E aveva aumentato il budget delle spese militari di oltre tre miliardi di dollari.
Dimka si rese conto che la strategia elaborata da Chrušcëv e dai suoi consiglieri era
fallita in modo catastrofico. Avevano tutti sottovalutato il giovane e bel presidente
americano. Era uno che non si lasciava affatto intimidire, dopotutto.
Cosa poteva fare Chrušcëv?
Forse sarebbe stato costretto a dimettersi. Nessun leader sovietico lo aveva mai
fatto: sia Lenin sia Stalin erano deceduti mentre erano ancora in carica. Ma c’era
una prima volta per tutto nella politica della rivoluzione.
Dimka lesse il discorso due volte e ci rimuginò sopra per il resto delle due ore di
viaggio. C’era un’unica alternativa alle dimissioni di Chrušcëv, pensò: il leader
poteva far fuori tutti i suoi assistenti, prendersi dei nuovi consiglieri e procedere a
un rimpasto del Presidium, concedendo maggior potere ai suoi nemici; sarebbe
stato come ammettere di avere avuto torto e promettere di cercare consigli più
saggi in futuro.
In ogni caso, la breve carriera di Dimka al Cremlino era finita. Forse era stata
troppo ambiziosa, pensò lugubremente. Senza dubbio lo aspettava un futuro più
modesto.
Si chiese se la voluttuosa Nina avrebbe voluto comunque passare una notte con lui.
L’aereo atterrò a Tbilisi e un piccolo velivolo militare trasportò Dimka e Filipov
fino a una pista d’atterraggio sulla costa.
I due trovarono ad aspettarli Natal’ja Smotrova, del ministero degli Esteri. L’aria
umida del mare le aveva arricciato i capelli, dandole un’aria sbarazzina. «Ci sono
brutte notizie da Pervukhin» annunciò, guidando l’auto che si allontanava
dall’aereo. Mikhail Pervukhin era l’ambasciatore sovietico nella DDR. «Il flusso di
chi passa in Occidente è diventato una marea.»
Filipov sembrò irritato, probabilmente perché non aveva appreso la notizia prima
di Natal’ja. «Di quali numeri stiamo parlando?»
«Siamo quasi a mille persone al giorno.»
Dimka era stupefatto. «Mille al giorno?»
Natal’ja annuì. «Pervukhin dice che il governo della DDR non è più stabile. Il paese
è sull’orlo del collasso. Potrebbe esserci una rivolta popolare.»
«Vedi?» fece Filipov, rivolgendosi a Dimka. «Ecco a cosa ha portato la vostra
politica.»
Dimka non reagì.
Natal’ja guidò seguendo la strada costiera fino a una penisola boschiva, dove poi
svoltò varcando un massiccio cancello di ferro in un lungo muro a stucco. Al
centro di prati immacolati sorgeva una villa bianca con un lungo balcone al primo
piano. Di fianco alla casa c’era una piscina olimpica. Dimka non aveva mai visto
un’abitazione privata con una piscina propria.
«Lui è giù al mare» gli disse una guardia, indicando con un cenno del capo l’altro
lato della casa.
Dimka individuò il sentiero tra gli alberi e arrivò a una spiaggia di ciottoli. Un
soldato armato di mitra lo guardò con espressione dura, poi gli fece segno di
passare.
Trovò Chrušcëv sotto una palma. Il secondo uomo più potente al mondo era basso,
grasso, calvo e sgraziato. Indossava i pantaloni di un abito, tenuti su dalle bretelle,
e una camicia bianca con le maniche arrotolate. Sedeva su una sedia di vimini e,
sul tavolino davanti a lui, c’erano una caraffa piena d’acqua e un bicchiere da
bibita. Sembrava che non stesse facendo nulla.
Guardò Dimka e gli chiese: «Dove hai trovato quei calzoncini?».
«Me li ha fatti mia madre.»
«Dovrei averne anch’io un paio così.»
Dimka pronunciò le parole che si era preparato: «Compagno primo segretario, le
presento le mie immediate dimissioni».
Chrušcëv lo ignorò. «Supereremo gli Stati Uniti in potenza militare e prosperità
economica entro i prossimi vent’anni» dichiarò, come continuando una discussione
già in corso. «Ma, nel frattempo, come facciamo a evitare che la potenza più forte
domini la politica mondiale e impedisca la diffusione del comunismo?»
«Non lo so» ammise Dimka.
«Guarda» disse Chrušcëv. «Io sono l’Unione Sovietica.» Afferrò la caraffa e versò
lentamente l’acqua nel bicchiere, riempiendolo fino all’orlo. Poi porse la caraffa a
Dimka. «Tu sei gli Stati Uniti. Adesso versa altra acqua nel bicchiere.»
Dimka fece come gli era stato detto. L’acqua traboccò e inzuppò la tovaglia bianca.
«Hai visto?» fece Chrušcëv, come se avesse dimostrato una tesi. «Quando il
bicchiere è pieno, non puoi versarci nient’altro, se non vuoi fare un disastro.»
Dimka era perplesso. Fece la domanda che ci si aspettava da lui: «Che cosa
significa, Nikita Sergeevic?».
«La politica internazionale è come un bicchiere. Mosse aggressive, da una parte o
dall’altra, versano acqua nel bicchiere. Se l’acqua trabocca, è guerra.»
Dimka capì il punto. «Quando la tensione è al massimo, nessuno può fare una
mossa senza provocare una guerra.»
«Esatto. E gli americani non vogliono una guerra più di quanto la vogliamo noi.
Perciò, se noi manteniamo la tensione internazionale al massimo, il bicchiere pieno
fino all’orlo, il presidente americano ha le mani legate. Non può fare niente senza
scatenare una guerra, e quindi non farà niente!»
Fine dell'estratto Kindle.
Ti è piaciuto?
Download/Read Online Unlimited Books