Il libro - DropPDF
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Il libro I giorni dell’eternità è l’appassionante conclusione dell’epica trilogia “The Century”, dedicata al Novecento, nella quale Ken Follett segue il destino di cinque famiglie legate tra loro: una americana, una tedesca, una russa, una inglese e una gallese. Dai palazzi del potere alle case della gente comune, le storie dei protagonisti si snodano e si intrecciano nel periodo che va dai primi anni Sessanta fino alla caduta del Muro di Berlino, passando attraverso eventi sociali, politici ed economici tra i più drammatici e significativi del cosiddetto “Secolo breve”: le lotte per i diritti civili in America, la crisi dei missili di Cuba, la Guerra fredda, le prime sfide per la conquista dello spazio come simbolo di superiorità tra le due superpotenze, gli omicidi dei fratelli Kennedy e di Martin Luther King, il Vietnam, lo scandalo del Watergate, ma anche i Beatles e la nascita del rock’n’roll. Quando Rebecca Hoffmann, insegnante della Germania Est, scopre di essere stata spiata per anni dalla Stasi prende una decisione che avrà pesanti conseguenze sulla sua famiglia. In America, George Jakes, figlio di una coppia mista, rinuncia a una promettente carriera legale per entrare al dipartimento di Giustizia di Robert Kennedy e partecipa alla dura battaglia contro la segregazione razziale. Cameron Dewar, nipote di un senatore del Congresso, non si lascia scappare l’occasione di fare spionaggio per una causa in cui crede fermamente, ma solo per scoprire che il mondo è molto più pericoloso di quanto pensi. Dimka Dvorkin, giovane assistente di Nikita Chrušcëv, diventa un personaggio di spicco proprio mentre Stati Uniti e Unione Sovietica si ritrovano sull’orlo di una crisi che sembra senza via d’uscita. I giorni dell’eternità è l’affascinante racconto di un’epoca ricca di svolte la cui eco si fa ancora sentire ai giorni nostri, gli anni della contestazione e dei grandi movimenti di massa, anni in cui la lotta per la supremazia tra blocco sovietico e blocco occidentale, con il pericolo ricorrente di un conflitto nucleare apocalittico, ha influenzato la vita di milioni di persone. Con il tocco di un vero maestro, Ken Follett ci porta in un mondo che pensavamo di conoscere, ma che ora non ci sembrerà più lo stesso. L’autore Ken Follett è nato a Cardiff nel 1949 e vive a Londra con la moglie Barbara. Laureatosi in filosofia all’University College di Londra, ha lavorato come giornalista. La sua straordinaria carriera di scrittore inizia nel 1978 con La cruna dell’Ago. Uguale successo mondiale hanno poi ottenuto i successivi romanzi: Triplo, Il codice Rebecca, L’uomo di Pietroburgo, Sulle ali delle aquile, Un letto di leoni, I pilastri della terra, Notte sull’acqua, Una fortuna pericolosa, Un luogo chiamato libertà , Il terzo gemello,Il martello dell’Eden, Codice a zero, Le gazze ladre, Il volo del calabrone, Nel bianco, Mondo senza fine e i primi due titoli della nuova trilogia “The Century” (La caduta dei giganti e L’inverno del mondo), che sono stati a lungo al primo posto nelle principali classifiche. In Italia, tutti i suoi romanzi sono pubblicati da Mondadori. www.ken-follett.com Ken Follett I giorni dell’eternità I giorni dell’eternità A tutti coloro che combattono per la libertà, in particolar modo a Barbara Personaggi AMERICANI Famiglia Dewar Cameron Dewar Ursula “Beep” Dewar, sua sorella Woody Dewar, suo padre Bella Dewar, sua madre Famiglia Peškov-Jakes George Jakes Jacky Jakes, sua madre Greg Peškov, suo padre Lev Peškov, suo nonno Marga, sua nonna Famiglia Marquand Verena Marquand Percy Marquand, suo padre Babe Lee, sua madre CIA Florence Geary Tony Savino Tim Tedder, in pensione, collabora come freelance Keith Dorset Altri Maria Summers Joseph Hugo, FBI Larry Mawhinney, Pentagono Nelly Fordham, vecchia fiamma di Greg Peškov Dennis Wilson, assistente di Bobby Kennedy Skip Dickerson, assistente di Lyndon Johnson Leopold “Lee” Montgomery, reporter Herb Gould, giornalista televisivo di This Day Suzy Cannon, reporter di cronaca rosa Frank Lindeman, proprietario di una rete televisiva Personaggi storici John F. Kennedy, 35º presidente degli Stati Uniti Jackie, sua moglie Bobby Kennedy, suo fratello Dave Powers, assistente del presidente Kennedy Pierre Salinger, addetto stampa del presidente Kennedy reverendo Martin Luther King, Jr, presidente della Southern Christian Leadership Conference Lyndon B. Johnson, 36º presidente degli Stati Uniti Richard Nixon, 37º presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter, 39º presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, 40º presidente degli Stati Uniti George H.W. Bush, 41º presidente degli Stati Uniti INGLESI Famiglia Leckwith-Williams Dave Williams Evie Williams, sua sorella Daisy Williams, sua madre Lloyd Williams, deputato, suo padre Eth Leckwith, nonna di Dave Famiglia Murray Jasper Murray Anna Murray, sua sorella Eva Murray, sua madre Musicisti dei Guardsmen e dei Plum Nellie Lenny, cugino di Dave Williams Lew, batterista Buzz, bassista Geoffrey, chitarra solista Altri Earl Fitzherbert, detto “Fitz” Sam Cakebread, amico di Jasper Murray Byron Chesterfield (nome d’arte di Brian Chesnowitz), manager musicale Hank Remington (nome d’arte di Harry Riley), pop star Eric Chapman, dirigente di una casa discografica TEDESCHI Famiglia Franck Rebecca Hoffmann Carla Franck, madre adottiva di Rebecca Werner Franck, padre adottivo di Rebecca Walli Franck, figlio di Carla Lili Franck, figlia di Werner e Carla Maud von Ulrich, madre di Carla (nata Lady Maud Fitzherbert) Hans Hoffmann, marito di Rebecca Altri Bernd Held, professore Karolin Koontz, cantante folk Odo Vossler, pastore protestante Personaggi storici Walter Ulbricht, primo segretario del Partito socialista unificato di Germania (SED, comunista) Erich Honecker, successore di Ulbricht Egon Krenz, successore di Honecker POLACCHI Stanislaw “Staz” Pawlak, ufficiale dell’esercito Lidka, fidanzata di Cam Dewar Danuta Gorski, attivista di Solidarnosc Personaggi storici Anna Walentynowicz, gruista Lech Walesa, capo del sindacato Solidarnosc generale Jaruzelski, primo ministro RUSSI Famiglia Dvorkin-Peškov Tanja Dvorkina, giornalista Dmitrij Dvorkin, detto “Dimka”, assistente del Cremlino, fratello gemello di Tanja Nina, fidanzata di Dimka Anja Dvorkina, madre di Tanja e Dimka Grigorij Peškov, nonno di Tanja e Dimka Katerina Peškova, nonna di Tanja e Dimka Vladimir Peškov, detto “Volodja”, zio di Tanja e Dimka Zoja, moglie di Volodja Altri Daniil Antonov, redattore dei servizi speciali alla TASS Pëtr Opotkin, caporedattore dei servizi speciali alla TASS Vasilij Enkov, dissidente Natal’ja Smotrova, funzionaria del ministero degli Esteri Nik Smotrov, marito di Natal’ja Evgenij Filipov, assistente del ministro della Difesa Rodion Malinovskij Vera Pletner, segretaria di Dimka Valentin, amico di Dimka maresciallo Michail Pušnoj Personaggi storici Nikita Chrušcëv, primo segretario del Partito comunista dell’Unione Sovietica Andrej Gromyko, ministro degli Esteri sotto Chrušcëv Rodion Malinovskij, ministro della Difesa sotto Chrušcëv Aleksej Kosygin, presidente del Consiglio dei ministri Leonid Brežnev, successore di Chrušcëv Jurij Andropov, successore di Brežnev Konstantin Cernenko, successore di Andropov Michail Gorbacëv, successore di Cernenko ALTRE NAZIONI Paz Oliva, generale cubano Frederik Bíró, politico ungherese Enok Andersen, contabile danese Prima parte MURO 1961 1 Rebecca Hoffmann fu convocata dalla polizia segreta in un piovoso lunedì del 1961. Il mattino cominciò come al solito. Il marito l’accompagnò al lavoro con la sua Trabant 500 marrone. Le vecchie e gradevoli strade del centro di Berlino mostravano ancora gli squarci creati dai bombardamenti durante la guerra, tranne nei punti in cui i nuovi edifici in cemento armato spuntavano come denti finti male assortiti. Hans guidava e rifletteva sul suo lavoro. «I tribunali sono al servizio dei giudici, degli avvocati, della polizia, del governo… di tutti, tranne che delle vittime dei reati» disse. «Ci si può aspettare una cosa del genere nei paesi capitalisti occidentali, ma in quelli comunisti i tribunali dovrebbero essere al servizio del popolo. I miei colleghi non sembrano rendersene conto.» Hans lavorava al ministero di Giustizia. «Siamo sposati da quasi un anno, ti conosco da due e non ho ancora incontrato nessuno dei tuoi colleghi» disse Rebecca. «Ti annoierebbero a morte» si affrettò a ribattere Hans. «Sono tutti avvocati.» «Ci sono anche delle donne?» «No. Non nella mia sezione, almeno.» Hans lavorava nel reparto amministrativo: nomine di giudici, ruoli delle udienze, gestione dei tribunali. «Mi piacerebbe comunque conoscerli.» Hans era un uomo forte che aveva imparato a trattenersi. Rebecca lo guardò e nei suoi occhi notò un familiare lampo di rabbia provocato dalla sua insistenza. Hans si controllò con uno sforzo di volontà. «Organizzerò qualcosa. Magari una sera potremmo andare tutti a bere qualcosa in un bar.» Hans era stato il primo uomo che Rebecca avesse giudicato all’altezza di suo padre. Era sicuro di sé e autoritario, ma l’ascoltava sempre. Aveva un buon impiego – non molti disponevano di un’auto di proprietà nella Repubblica Democratica Tedesca – e chi lavorava per il governo di solito era un comunista integralista, ma Hans, sorprendentemente, condivideva lo scetticismo politico di Rebecca. E, come il padre di Rebecca, era alto, bello e ben vestito. Era l’uomo che lei aveva aspettato da sempre. Solo una volta, durante il fidanzamento, aveva avuto dei dubbi su di lui, ma per pochissimo tempo. Erano rimasti coinvolti in un piccolo incidente stradale. Era stata tutta colpa dell’altro automobilista, uscito da una strada laterale senza fare attenzione. Cose del genere succedevano tutti i giorni, ma Hans si era infuriato in modo eccessivo. Nonostante i danni riportati dai due veicoli fossero stati minimi, aveva chiamato la polizia, mostrato agli agenti la sua tessera del ministero di Giustizia e fatto arrestare l’altro automobilista per guida pericolosa. In seguito si era scusato con Rebecca per avere perso il controllo. Lei era rimasta spaventata dalla vena vendicativa di Hans ed era stata quasi sul punto di mettere fine alla loro storia. Ma lui le aveva spiegato che in quell’occasione era fuori di sé a causa delle pressioni al lavoro, e Rebecca gli aveva creduto. Quella fiducia era risultata ben riposta: Hans non aveva più avuto reazioni del genere. Si frequentavano ormai da un anno, ed erano sei mesi che dormivano insieme quasi tutti i fine settimana, quando Rebecca si era domandata come mai lui non le avesse ancora chiesto di sposarlo. Non erano due ragazzini: lei all’epoca aveva ventotto anni e lui trentatré. Così era stata lei a fargli la proposta. Hans era rimasto stupito, ma aveva detto di sì. Fermò l’auto davanti alla scuola dove insegnava Rebecca. Era un edificio moderno e bene attrezzato: i comunisti prendevano molto sul serio l’istruzione. Fuori dai cancelli, cinque o sei degli alunni più grandi fumavano in piedi sotto un albero. Ignorando le loro occhiate, Rebecca baciò Hans sulle labbra e scese dall’auto. I ragazzi la salutarono educatamente, ma lei sentì i loro occhi bramosi di adolescenti sul proprio corpo mentre attraversava il cortile della scuola sollevando schizzi dalle pozzanghere. Rebecca proveniva da una famiglia politicizzata. Suo nonno era stato deputato socialdemocratico al Reichstag, il parlamento nazionale, fino a quando Hitler si era impadronito del potere. Sua madre era stata consigliere comunale, sempre per i socialdemocratici, durante la breve democrazia postbellica di Berlino Est. Ma la DDR ora era una tirannia comunista e Rebecca non trovava alcun senso nell’impegnarsi in politica. Di conseguenza convogliava tutto il suo idealismo nell’insegnamento e sperava che la generazione successiva sarebbe stata meno dogmatica, più sensibile e più intelligente. In sala professori controllò l’orario affisso in bacheca. Quel giorno quasi tutte le sue lezioni erano state raddoppiate: due gruppi di studenti stipati in un’unica aula. Rebecca insegnava russo, ma avrebbe dovuto tenere anche una lezione di inglese. Lei non parlava quella lingua, benché ne avesse un’infarinatura grazie alla nonna inglese, Maud, ancora energica e vivace a settant’anni. Era la seconda volta che le veniva chiesto di tenere una lezione di inglese e Rebecca cominciò a chiedersi quale testo utilizzare. Nel primo caso si era servita di un volantino distribuito ai soldati americani, ai quali veniva spiegato come comportarsi con i tedeschi. I ragazzi lo avevano trovato divertentissimo e avevano anche imparato parecchio. Magari quel giorno Rebecca avrebbe potuto scrivere sulla lavagna il testo di una canzone che conoscevano tutti – per esempio The Twist, trasmessa di continuo dalla radio delle forze armate americane – e chiedere alla classe di tradurlo in tedesco. Non sarebbe stata una lezione convenzionale, ma era il meglio che lei potesse fare. La scuola era disperatamente sotto organico per quanto riguardava gli insegnanti: metà del corpo docente era emigrato in Germania Ovest, dove gli stipendi erano superiori di trecento marchi al mese e la gente era libera. In quasi tutti gli istituti della Germania Est era la stessa storia. E non riguardava solo gli insegnanti. I medici potevano raddoppiare i loro guadagni trasferendosi in Occidente. La madre di Rebecca, Carla, era capo infermiera in un grande ospedale di Berlino Est e si strappava i capelli per la scarsità di medici e personale. Lo stesso avveniva nell’industria e perfino nelle forze armate. Era una crisi nazionale. Mentre Rebecca scribacchiava il testo di The Twist su un blocco per appunti, cercando di ricordare il verso che parlava di “ my little Sis”, “la mia sorellina”, in sala professori entrò il vicepreside. Bernd Held era probabilmente il migliore amico di Rebecca, al di fuori della famiglia. Slanciato e con i capelli scuri, aveva quarant’anni e una cicatrice che gli attraversava la fronte, ricordo di un frammento di shrapnel che lo aveva colpito mentre difendeva le alture di Seelow negli ultimi giorni di guerra. Bernd insegnava fisica, ma condivideva l’interesse di Rebecca per la letteratura russa. Un paio di volte la settimana mangiavano i loro panini insieme durante la pausa pranzo. «Ascoltate tutti» disse Bernd. «Cattive notizie, temo. Anselm se n’è andato.» Ci fu un mormorio di sorpresa. Anselm Weber era il preside. Era anche un comunista leale, i presidi dovevano esserlo. Ma, a quanto pareva, i suoi principi erano stati travolti dal fascino della prosperità e della libertà della Germania Ovest. «Prenderò io il suo posto» proseguì Bernd «finché non sarà nominato un nuovo preside.» Rebecca e ogni altro insegnante della scuola sapevano che quell’incarico avrebbe dovuto essere di Bernd, se fossero state le capacità a contare davvero. Ma lui era stato escluso perché si rifiutava di iscriversi al SED, il Partito di unità socialista: in tutto e per tutto, nome a parte, il Partito comunista. Per la stessa ragione, nemmeno Rebecca sarebbe mai diventata preside. Anselm l’aveva pregata di iscriversi al partito, ma la cosa era fuori questione. Per Rebecca sarebbe stato come entrare in un manicomio e fingere che tutti gli altri ospiti fossero sani di mente. Mentre Bernd spiegava in dettaglio l’organizzazione d’emergenza, Rebecca si chiese quando la scuola avrebbe avuto il suo nuovo preside. Di lì a un anno? Quanto sarebbe durata quella crisi? Nessuno lo sapeva. Prima di iniziare le lezioni, controllò la sua casella di posta. Era ancora vuota. Forse anche il postino si era trasferito in Germania Ovest. La lettera che le avrebbe sconvolto la vita era in viaggio. Durante la prima lezione discusse del poema russo Il cavaliere di bronzo con un nutrito gruppo di diciassettenni e diciottenni. Era una lezione che teneva ogni anno fin da quando aveva cominciato a insegnare. Come sempre, guidò gli studenti nell’analisi sovietica ortodossa, spiegando che il conflitto tra interesse personale e dovere pubblico veniva risolto, da Puškin, a favore del pubblico. All’ora di pranzo si portò il suo sandwich nell’ufficio del preside e si sedette alla grande scrivania, di fronte a Bernd. Lanciò un’occhiata allo scaffale di busti in ceramica dozzinali: Marx, Lenin e Walter Ulbricht, il leader della DDR. Bernd seguì il suo sguardo e sorrise. «Anselm è un furbastro. Per anni ha finto di essere un vero sostenitore del comunismo, e adesso… via! Scomparso.» «Tu non hai mai la tentazione di andartene?» domandò Rebecca. «Sei divorziato, non hai figli… non hai legami.» Bernd si guardò intorno, quasi chiedendosi se qualcuno potesse sentirlo, poi si strinse nelle spalle. «Ci ho pensato… chi non lo ha fatto?» ammise. «E tu? Tuo padre lavora a Berlino Ovest, no?» «Sì. Ha una fabbrica che produce televisori. Ma mia madre è decisa a restare qui, nell’Est. Dice che dobbiamo risolvere i nostri problemi, non evitarli fuggendo.» «L’ho conosciuta. È una tigre.» «È vero. E la casa in cui abitiamo appartiene alla sua famiglia da generazioni.» «E cosa mi dici di tuo marito?» «È devoto al suo lavoro.» «Quindi non devo preoccuparmi di perderti. Bene.» «Bernd…» cominciò Rebecca. Poi esitò. «Sputa il rospo.» «Posso farti una domanda personale?» «Naturalmente.» «Tu hai lasciato tua moglie perché aveva una relazione?» Bernd si irrigidì, ma poi rispose: «Sì, è così». «Come lo hai scoperto?» Bernd fece una smorfia, come per un’improvvisa fitta di dolore. «Ti dispiace che te lo abbia chiesto?» domandò ansiosa Rebecca. «È troppo personale?» «Non mi dispiace dirlo a te. L’ho affrontata e lei ha ammesso tutto.» «Ma cosa ti aveva insospettito?» «Tanti piccoli particolari e…» Rebecca lo interruppe. «Il telefono che squilla, tu rispondi, c’è qualche secondo di silenzio e poi la persona dall’altra parte riattacca.» Bernd annuì. Rebecca continuò. «Tuo marito strappa un appunto e fa sparire i pezzetti di carta nel water. Nei fine settimana viene convocato a una riunione imprevista. La sera passa due ore a scrivere qualcosa che non vuole farti vedere.» «Oh, accidenti.» Il tono di Bernd era triste. «Stai parlando di Hans.» «Ha un’amante, giusto?» Rebecca posò il sandwich: non aveva appetito. «Dimmi sinceramente cosa pensi.» «Mi dispiace moltissimo.» Una volta Bernd l’aveva baciata. Era successo quattro mesi prima, l’ultimo giorno del trimestre d’autunno. Si stavano salutando e augurando buon Natale quando lui le aveva afferrato un braccio, aveva chinato la testa e l’aveva baciata sulle labbra. Rebecca gli aveva chiesto di non farlo più, aggiungendo che le sarebbe piaciuto continuare a essere sua amica. Quando erano tornati a scuola a gennaio, entrambi avevano finto che non fosse successo niente. Qualche settimana dopo, Bernd le aveva addirittura confidato di avere un appuntamento con una vedova della sua età. Rebecca non voleva incoraggiare false speranze, ma Bernd era l’unica persona con la quale potesse parlare, a parte i familiari, che lei però non voleva far preoccupare, per lo meno non ancora. «Ero così sicura che Hans mi amasse.» Gli occhi le si riempirono di lacrime. «E io lo amo.» «Forse ti ama anche lui. È solo che certi uomini non sanno resistere alle tentazioni.» Rebecca non sapeva se Hans trovasse soddisfacente la loro vita sessuale. Non si era mai lamentato, ma facevano l’amore più o meno una volta alla settimana, e a lei sembrava poco per una coppia appena sposata. «Tutto quello che voglio è una famiglia mia, come quella di mia madre, una famiglia in cui tutti si amano, si sostengono e si proteggono a vicenda. Pensavo di poterla avere con Hans.» «Forse puoi ancora averla» disse Bernd. «Una relazione non significa necessariamente la fine del matrimonio.» «Il primo anno?» «È un brutto segno, sono d’accordo.» «Cosa devo fare?» «Devi parlare con lui. Chiederglielo. Può darsi che ammetta, oppure che neghi, ma in ogni caso saprà che tu sai.» «E poi?» «Tu cosa vuoi? Hai intenzione di divorziare?» Rebecca scosse la testa. «No, non me ne andrei mai. Il matrimonio è una promessa. Non puoi mantenere una promessa solo quando ti fa comodo. Devi mantenerla anche contro le tue inclinazioni. È questo che significa.» «Io ho fatto il contrario. Sicuramente mi disapprovi.» «Io non ti giudico, così come non giudico nessun altro. Parlo solo per me stessa. Amo mio marito e voglio che mi sia fedele.» Il sorriso di Bernd era pieno di ammirazione, ma anche di rimpianto. «Spero che il tuo desiderio si realizzi.» «Sei un buon amico.» Suonò la campanella della prima lezione del pomeriggio. Rebecca si alzò in piedi e incartò di nuovo il sandwich. Non lo avrebbe mangiato, né allora né in seguito, ma, come a molti di coloro che avevano vissuto in tempo di guerra, le faceva orrore buttare via il cibo. Si tamponò gli occhi umidi con un fazzoletto. «Grazie per avermi ascoltato» disse. «Non ti sono stato di grande conforto.» «Invece sì.» Rebecca uscì. Fuori dall’aula dove avrebbe tenuto la lezione di inglese, si rese conto di non avere preparato il testo di The Twist. Comunque faceva l’insegnante da abbastanza tempo per essere in grado di improvvisare. «Chi di voi conosce una canzone intitolata The Twist?» chiese ad alta voce, varcando la soglia. La conoscevano tutti. Rebecca andò alla lavagna e afferrò un gessetto. «Quali sono le parole?» I ragazzi cominciarono a cantare tutti insieme. Sulla lavagna, Rebecca scrisse: “Come on, baby, let’s do the twist”. Poi domandò: «Cosa significa in tedesco?». Per un po’ dimenticò i suoi problemi. Trovò la lettera nella sua casella di posta all’intervallo di metà pomeriggio. La portò con sé in sala professori e, prima di aprirla, si preparò un caffè istantaneo. Appena iniziato a leggere, versò il caffè dalla tazza. L’intestazione dell’unico foglio era “Ministero della Sicurezza dello Stato”. Era il nome ufficiale della polizia segreta: quello ufficioso era Stasi. La lettera era firmata da un certo sergente Scholz, il quale le ordinava di presentarsi nel suo ufficio al quartier generale per rispondere ad alcune domande. Rebecca asciugò il caffè sul pavimento e si scusò con i colleghi, fingendo che non fosse successo niente, poi andò in bagno e si chiuse a chiave in uno dei box. Aveva bisogno di riflettere prima di confidarsi con qualcuno. Tutti nella DDR sapevano di quelle lettere, e tutti avevano paura di trovarne una nella posta. Averla ricevuta significava che Rebecca aveva fatto qualcosa di sbagliato, forse qualcosa di banale, ma che comunque aveva richiamato l’attenzione dei sorveglianti. Lei sapeva, da quello che diceva la gente, che proclamare la propria innocenza non sarebbe servito a nulla. I poliziotti si sarebbero dimostrati sicuri della sua colpevolezza, altrimenti perché interrogarla? Suggerire la possibilità di un errore equivaleva a mettere in dubbio la loro competenza, e ciò costituiva un altro reato. Rileggendo la lettera, notò che l’appuntamento era fissato per le cinque di quel pomeriggio. Cosa aveva fatto? La sua famiglia era fortemente sospetta, ovvio. Suo padre, Werner, era un capitalista con una fabbrica che il governo della DDR non poteva toccare perché si trovava a Berlino Ovest. Sua madre, Carla, era una nota socialdemocratica. Sua nonna, Maud, era la sorella di un conte inglese. Tuttavia era già da un paio d’anni che le autorità non importunavano la sua famiglia, e Rebecca aveva immaginato che il matrimonio con un funzionario del ministero di Giustizia avesse garantito a tutti loro una patente di rispettabilità. Evidentemente non era così. Aveva commesso qualche reato? Possedeva una copia dell’allegoria anticomunista La fattoria degli animali di George Orwell, cosa considerata illegale. Suo fratello minore, il quindicenne Walli, suonava la chitarra e cantava canzoni di protesta americane come This Land Is Your Land . Rebecca ogni tanto andava a Berlino Ovest per vedere mostre di pittura astratta. Per quanto riguardava l’arte, i comunisti erano conservatori come matrone vittoriane. Mentre si lavava le mani, si guardò allo specchio. Non aveva una faccia spaventata. Vide un naso dritto, un mento forte e intensi occhi castani. I capelli scuri e ribelli erano pettinati severamente all’indietro. Era alta e statuaria, e alcuni dicevano che incuteva soggezione. Poteva affrontare una classe di turbolenti diciottenni e ridurla al silenzio con una sola parola. Ma era spaventata. A terrorizzarla era la consapevolezza che la Stasi poteva fare qualsiasi cosa. I suoi uomini non erano soggetti a vincoli, e lamentarsi del loro comportamento era di per sé un crimine. Quel pensiero le fece venire in mente l’Armata rossa alla fine della guerra. In Germania, i soldati sovietici erano stati lasciati liberi di rubare, violentare e uccidere, e avevano trasformato quella libertà in un’orgia di indicibili barbarie. L’ultima lezione della giornata di Rebecca fu sulla costruzione della forma passiva nella grammatica russa e si rivelò un disastro, forse la peggiore che lei avesse mai fatto da quando aveva ottenuto l’abilitazione all’insegnamento. Gli studenti non poterono evitare di accorgersi che qualcosa non andava e, in modo quasi commovente, le vennero incontro, arrivando addirittura a darle suggerimenti quando si smarriva e non trovava la parola giusta. Con l’appoggio della scolaresca, Rebecca riuscì ad arrivare alla fine. Al termine delle lezioni, Bernd era chiuso nell’ufficio del preside con alcuni funzionari del ministero dell’Istruzione, presumibilmente per discutere di come riuscire a tenere la scuola aperta con metà del personale. Rebecca non voleva andare al quartier generale della Stasi senza avvertire nessuno, nel caso avessero deciso di trattenerla, così scrisse un biglietto per Bernd, informandolo della convocazione. Poi salì su un autobus e viaggiò lungo le strade bagnate fino a Normannenstraße, nella zona periferica di Lichtenberg. Il quartier generale della Stasi era un brutto palazzo di uffici appena costruito. I lavori non erano ancora terminati e c’erano bulldozer nel parcheggio e ponteggi a un’estremità dell’edificio. Aveva un aspetto tetro sotto la pioggia, ma non sarebbe sembrato molto più allegro nemmeno con il sole. Quando varcò la soglia, Rebecca si chiese se sarebbe mai uscita di lì. Attraversò il vasto atrio, consegnò la sua lettera al banco del ricevimento e fu scortata al piano di sopra. Il livello della paura salì insieme all’ascensore. Rebecca emerse in un corridoio tinteggiato in un’angosciosa sfumatura giallo senape. Venne fatta entrare in una stanzetta spoglia, arredata con un tavolo dal piano di plastica e due scomode sedie di metallo. Nella stanza aleggiava un pungente odore di vernice. La sua scorta se ne andò. Rimase a sedere da sola per cinque minuti, tremando. Avrebbe voluto essere una fumatrice: forse una sigaretta l’avrebbe calmata. Si sforzò di non piangere. Entrò il sergente Scholz. Rebecca ipotizzò che fosse un po’ più giovane di lei, forse sui venticinque anni. Aveva con sé un fascicolo sottile. Si sedette, si schiarì la voce, aprì la pratica e aggrottò la fronte. Rebecca pensò che stesse cercando di darsi importanza e si chiese se quello fosse il suo primo interrogatorio. «Lei insegna alla scuola secondaria politecnica Friedrich Engels» disse. «Sì.» «Dove abita?» Rebecca rispose, ma era perplessa. La polizia segreta non conosceva il suo indirizzo? Questo forse spiegava come mai la lettera le fosse arrivata a scuola e non a casa. Dovette fornire i nomi e l’età dei genitori e dei nonni. «Lei sta mentendo!» esclamò in tono tronfio Scholz. «Dice che sua madre ha trentanove anni e lei ne ha ventinove. L’ha forse partorita a dieci anni?» «Sono stata adottata» rispose Rebecca, sollevata di poter dare una spiegazione innocente. «I miei veri genitori sono morti alla fine della guerra, quando la nostra casa è stata centrata in pieno da una bomba.» All’epoca Rebecca aveva tredici anni. Le granate dell’Armata rossa piovevano ovunque, la città era in rovina e lei era sola, disorientata e terrorizzata. Adolescente e formosa, era stata scelta per essere violentata da un gruppo di soldati. L’aveva salvata Carla, che si era offerta al posto suo. Ma quell’esperienza terribile l’aveva comunque segnata, rendendola esitante e nervosa riguardo al sesso. Se Hans era insoddisfatto, era sicuramente colpa sua. Rabbrividì e cercò di scacciare quel ricordo. «Carla Franck mi ha salvato da…» Rebecca tacque, appena in tempo. I comunisti negavano che i soldati dell’Armata rossa avessero commesso stupri, anche se ogni donna che nel 1945 si era trovata nel settore tedesco occupato dai sovietici conosceva la terribile verità. «Carla mi ha salvato» ripeté, tacendo i particolari scabrosi. «In seguito, lei e Werner mi hanno adottata legalmente.» Scholz stava scrivendo tutto. Non doveva contenere molto quella pratica, pensò Rebecca. Ma qualcosa c’era. Se Scholz sapeva così poco della sua famiglia, cosa aveva suscitato il suo interesse? «Lei è un’insegnante di inglese.» «No, non è così. Io insegno russo.» «Sta mentendo di nuovo.» «Non sto mentendo, così come non ho mentito prima» ribatté seccamente Rebecca. La sorprendeva scoprirsi a parlare a quell’uomo con un tono di sfida. Non era più spaventata. Ma forse era un atteggiamento troppo temerario. “Scholz può anche essere giovane e inesperto” si disse “ma ha comunque il potere di rovinarmi la vita.” «Io sono laureata in lingua e letteratura russa» riprese, tentando un sorriso amichevole. «Sono a capo del dipartimento di russo della mia scuola, ma metà dei nostri insegnanti è passata in Occidente e siamo costretti a improvvisare. È per questo che la settimana scorsa ho tenuto due lezioni di inglese.» «Quindi avevo ragione! E nelle sue lezioni lei avvelena il cervello dei ragazzi con la propaganda americana.» «Oh, accidenti» gemette Rebecca. «Si tratta dei consigli ai soldati americani?» Scholz lesse da un foglietto di appunti. «Qui dice: “Tenete a mente che nella DDRnon c’è libertà di parola”. Questa non è forse propaganda americana?» «Ho spiegato agli studenti che gli americani hanno un ingenuo concetto premarxista della libertà» rispose. «Immagino che il suo informatore abbia dimenticato di segnalare questo punto.» Si chiese chi fosse la spia. Doveva trattarsi di uno studente, o forse di un genitore che era stato informato della lezione. La Stasi aveva più spie dei nazisti. «Qui dice anche: “A Berlino Est non chiedete informazioni agli agenti di polizia. A differenza dei poliziotti americani, quelli della DDR non sono lì per aiutarvi”. Cosa mi dice di questo?» «Non è forse vero?» ribatté Rebecca. «Da ragazzo, lei ha mai chiesto a un Vopo di indicarle la strada per la stazione della metropolitana?» I Vopo erano gli agenti della Volkspolizei, la polizia della DDR. «Non poteva trovare qualcosa di più adatto da insegnare ai ragazzi?» «Perché non viene lei nella nostra scuola a tenere una lezione di inglese?» «Io non parlo inglese!» «Neppure io!» gridò Rebecca. Si pentì immediatamente di avere alzato la voce. Scholz però non era arrabbiato. Anzi, sembrava un po’ intimorito. Era chiaramente privo di esperienza. Ma Rebecca non doveva lasciarsi prendere la mano. «Neppure io» ripeté, più calma. «Di conseguenza devo improvvisare di volta in volta, utilizzando qualsiasi materiale in lingua inglese riesca a trovare.» Pensò che fosse arrivato il momento di mostrare un po’ di falsa umiltà. «È chiaro che ho commesso un errore e me ne scuso, sergente.» «Lei sembra una donna intelligente» disse Scholz. Rebecca socchiuse gli occhi. Era una trappola? «Grazie per il complimento» replicò in tono neutro. «Abbiamo bisogno di persone intelligenti, soprattutto donne.» Rebecca era confusa. «Per cosa?» «Per tenere gli occhi aperti, vedere cosa succede, farci sapere quando qualcosa non va.» Rebecca era sbalordita. Dopo un momento, domandò incredula: «Mi sta chiedendo di diventare un’informatrice della Stasi?». «È un lavoro importante, di grande responsabilità civica» disse il sergente. «Ed è un lavoro vitale nelle scuole, dove si forma il pensiero dei giovani.» «Capisco.» In realtà ciò che Rebecca capiva era che quel giovane agente della polizia segreta aveva combinato un pasticcio. Aveva verificato il suo operato al lavoro, ma non sapeva niente della sua famigerata famiglia. Se Scholz avesse indagato sulle sue origini, non l’avrebbe mai contattata. Rebecca riusciva a immaginare come fosse successo. Hoffmann era uno dei cognomi tedeschi più comuni e Rebecca non era un nome insolito. Un principiante poco avveduto poteva facilmente commettere l’errore di indagare sulla Rebecca Hoffmann sbagliata. Scholz riprese a parlare. «Ma le persone che svolgono questo lavoro devono essere completamente sincere e degne di fiducia.» Quell’affermazione era così paradossale che Rebecca per poco non scoppiò a ridere. «Sincere e degne di fiducia?» ripeté. «Per spiare gli amici?» «Assolutamente sì.» Scholz sembrò non cogliere l’ironia. «E ci sono dei vantaggi.» Abbassò la voce. «Lei diventerebbe una di noi.» «Non so cosa dire.» «Non deve decidere subito. Vada a casa e ci pensi. Ma non ne parli con nessuno. Tutto questo deve restare segreto, ovviamente.» «Ovviamente.» Rebecca cominciava a sentirsi sollevata. Scholz avrebbe presto scoperto che lei era inadatta ai suoi scopi e avrebbe ritirato la proposta. Ma di certo, a quel punto, non avrebbe potuto riprendere a insinuare che lei fosse una propagandista dell’imperialismo americano. Forse sarebbe uscita incolume da quella vicenda. Scholz si alzò in piedi e Rebecca lo imitò. Possibile che la sua visita al quartier generale della Stasi si concludesse così bene? Sembrava troppo bello per essere vero. Scholz le tenne cortesemente la porta aperta e poi l’accompagnò lungo il corridoio giallo senape. Vicino all’ascensore, cinque o sei uomini della Stasi discutevano in modo animato. Uno di loro le era sorprendentemente familiare: alto, con le spalle larghe, leggermente curvo, indossava un abito di flanella grigio chiaro che Rebecca conosceva bene. Lo fissò senza capire mentre si avvicinava all’ascensore. Era Hans, suo marito. Perché si trovava lì? Il primo, terribile pensiero di Rebecca fu che anche lui dovesse essere interrogato. Ma un momento dopo si rese conto, dall’atteggiamento del gruppo, che Hans non veniva trattato come un individuo sospetto. Allora perché era lì? Il cuore le batteva forte per la paura, ma di cosa? Pensò che forse il lavoro al ministero di Giustizia richiedesse ogni tanto la sua presenza in quel luogo. Poi sentì uno del gruppo dirgli: «Ma, con tutto il rispetto, tenente…». Rebecca non afferrò il resto della frase. Tenente? I funzionari civili non avevano gradi militari… a meno che non facessero parte della polizia. Poi Hans la vide. Rebecca osservò le emozioni che gli passarono sul viso: gli uomini erano facili da leggere. All’inizio Hans aggrottò la fronte nell’espressione perplessa di chi vede qualcosa di familiare in un contesto estraneo. Poi, quando assimilò la realtà di ciò che stava vedendo, spalancò gli occhi per la sorpresa e socchiuse la bocca. Ma fu l’espressione successiva quella che più colpì Rebecca: le guance gli si imporporarono per la vergogna e Hans distolse lo sguardo con un’inequivocabile aria colpevole. Rebecca restò in silenzio per qualche istante, cercando di elaborare la scena. Continuando a non capire ciò che stava vedendo, disse: «Buon pomeriggio,tenente Hoffmann». Scholz sembrò perplesso e spaventato. «Lei conosce il tenente?» «Molto bene» rispose Rebecca, sforzandosi di mantenere il controllo mentre un terribile sospetto iniziava a farsi strada dentro di lei. «Sto cominciando a chiedermi se non mi tenga sotto sorveglianza già da un po’ di tempo.» Ma era impossibile… o no? «Davvero?» chiese Scholz stupidamente. Rebecca fissò con durezza il marito, aspettando la reazione alla sua congettura, sperando che scoppiasse a ridere e le desse subito una spiegazione in grado di sgombrare ogni dubbio. Hans aveva la bocca aperta, come sul punto di parlare, ma Rebecca capì che non aveva alcuna intenzione di dirle la verità: anzi, pensò, aveva l’espressione di chi tenti disperatamente di improvvisare una storia e non riesca a inventare qualcosa di plausibile. Scholz stava per scoppiare in lacrime. «Io non lo sapevo!» Continuando a fissare Hans, Rebecca disse: «Sono sua moglie». L’espressione di Hans cambiò di nuovo e, mentre il senso di colpa si trasformava in collera, il suo viso diventò una maschera di rabbia. Poi finalmente parlò, ma non a Rebecca. «Chiudi quella bocca, Scholz.» A quel punto Rebecca capì, e il mondo le crollò addosso. Troppo sbalordito per attenersi all’ordine di Hans, Scholz si rivolse a Rebecca: «Lei è quella Frau Hoffmann?». Hans si mosse con la velocità dettata dalla furia. Sferrò un potente destro che colpì Scholz in pieno viso. Il giovane agente barcollò all’indietro, con le labbra sanguinanti. «Stupido idiota» sibilò Hans. «Hai appena mandato all’aria due anni di lavoro sotto copertura.» “Le strane telefonate, le riunioni improvvise, gli appunti strappati…” rifletté Rebecca. Hans non aveva un’amante. Era molto peggio. Era come inebetita, ma sapeva che quello era il momento giusto per scoprire la verità, mentre tutti erano ancora scossi e confusi, prima che cominciassero a mentire e a inventare storie per giustificarsi. Si sforzò di restare concentrata e, in tono freddo, domandò: «Mi hai sposato solo per spiarmi, Hans?». Lui la guardò senza rispondere. Scholz si voltò e si allontanò a passo incerto lungo il corridoio. Hans ordinò: «Andate a prenderlo». L’ascensore arrivò al piano e Rebecca entrò nella cabina mentre Hans gridava: «Arrestate quell’idiota e sbattetelo in cella!». Si voltò per parlare a sua moglie, ma le porte dell’ascensore si chiusero e Rebecca premette il pulsante del pianterreno. Attraversò l’atrio con le lacrime che le impedivano quasi di vedere. Nessuno le rivolse la parola: senza dubbio in quel posto era normale vedere gente piangere. Attraversò il parcheggio battuto dalla pioggia e raggiunse la fermata dell’autobus. Il suo matrimonio era una finzione. Non riusciva a crederci. Aveva dormito con Hans, lo aveva amato, lo aveva sposato e, per tutto quel tempo, lui l’aveva ingannata. L’infedeltà poteva essere considerata un errore occasionale, ma Hans le aveva mentito fin dall’inizio. Di certo aveva cominciato a frequentarla al solo scopo di spiarla. Senza dubbio non aveva mai avuto la minima intenzione di sposarla. Probabilmente, all’inizio, aveva pensato a un semplice flirt, solo un modo per insinuarsi in casa sua. L’inganno aveva funzionato fin troppo bene. La proposta di matrimonio che lei gli aveva fatto doveva averlo scioccato. Forse era stato costretto a prendere una decisione: lasciarla, e mettere fine alla sorveglianza, oppure sposarla e continuare il lavoro. Forse i suoi capi lo avevano addirittura obbligato al matrimonio. Come aveva potuto Rebecca farsi raggirare in quel modo? Arrivò l’autobus e lei salì. Con gli occhi bassi, andò a sedersi in fondo e si coprì la faccia con le mani. Ripensò al periodo del corteggiamento. Quando gli aveva parlato dei problemi che le avevano creato difficoltà nelle precedenti relazioni – il suo femminismo, il suo anticomunismo, lo stretto legame con Carla –, Hans aveva sempre reagito nel modo giusto. Lei aveva creduto che avessero le stesse idee, quasi miracolosamente. Non le era mai passato per la mente che lui stesse recitando. L’autobus arrancava lento attraverso il panorama di vecchie macerie e nuovo cemento verso il Mitte, il centro città. Rebecca cercò di concentrarsi sul proprio futuro, ma non ne fu capace. Riusciva solo a riandare con la mente al passato. Ripensò al giorno delle nozze, alla luna di miele e al suo anno di matrimonio, vedendo tutto come una commedia che Hans aveva recitato. Lui le aveva rubato due anni, e quel pensiero la fece talmente arrabbiare che smise di piangere. Ricordò la sera in cui gli aveva chiesto di sposarla. Stavano passeggiando nel Volkspark a Friedrichshain e si erano fermati davanti all’antica Märchenbrunnen, la “fontana delle favole”, per guardare le tartarughe scolpite nella pietra. Lei indossava un abito blu, il colore che le donava maggiormente, e Hans una giacca di tweed nuova: riusciva sempre a trovare bei capi, nonostante la DDR fosse una landa desolata per quanto riguardava la moda. Tra le braccia di Hans si era sentita sicura, protetta, amata. Voleva un uomo per sempre, e Hans era quell’uomo. “Sposiamoci” gli aveva detto con un sorriso. Lui l’aveva baciata e aveva risposto: “Che idea meravigliosa”. “Sono stata un’idiota” pensò furente. “Una stupida idiota.” Ora, però, si spiegava una cosa: il rifiuto di Hans ad avere figli. Aveva detto che prima voleva un’altra promozione e una casa tutta per loro. Non vi aveva mai accennato prima del matrimonio, e Rebecca ne era rimasta sorpresa, data la loro età: lei aveva ventinove anni e lui trentaquattro. Ora conosceva il vero motivo. Quando scese dall’autobus, era sopraffatta dalla collera. Camminò veloce nel vento e sotto la pioggia fino alla vecchia villetta in cui viveva. Dall’ingresso intravide, attraverso la porta aperta del soggiorno, sua madre che conversava seria con Heinrich von Kessel, il quale dopo la guerra era stato consigliere comunale socialdemocratico insieme a lei. Rebecca passò rapidamente, senza salutare. Sua sorella Lili, di dodici anni, stava facendo i compiti al tavolo della cucina. Rebecca sentì le note del pianoforte a coda in salotto: suo fratello Walli stava suonando un blues. Salì al piano di sopra, dove si trovavano le due stanze che condivideva con Hans. La prima cosa che vide entrando fu il modellino di Hans. Suo marito ci lavorava da un anno, cioè da quando si erano sposati. Era una riproduzione in scala della Porta di Brandeburgo, fatta con fiammiferi e colla. Tutti i conoscenti di Hans dovevano conservare i fiammiferi usati. Il modellino, ormai quasi ultimato, troneggiava su un tavolo al centro della stanza. Completato l’arco centrale e le due ali laterali, Hans ora stava lavorando alla quadriga sulla sommità, molto più difficile da realizzare. “Doveva annoiarsi” pensò Rebecca con amarezza. Indubbiamente quel progetto era stato un modo per passare le serate che era costretto a trascorrere con una donna che non amava. Il loro matrimonio era come quel modellino di fiammiferi: una fragile copia di un matrimonio vero. Andò alla finestra e guardò la pioggia. Dopo un minuto, una Trabant 500 marrone si fermò accanto al marciapiede. Ne scese Hans. Come osava presentarsi a casa? Rebecca spalancò la finestra, incurante degli scrosci che si riversavano all’interno, e gridò: «Vattene!». Hans si fermò sul marciapiede e alzò la testa. Gli occhi di Rebecca si posarono su un paio di scarpe da uomo sul pavimento, accanto a lei. Erano state fatte a mano da un vecchio calzolaio che Hans era riuscito a scovare. Rebecca ne afferrò una e la scagliò contro il marito. Un buon lancio e, anche se Hans provò a scansarsi, la scarpa lo colpì alla testa. «Sei una pazza scatenata!» Walli e Lili spalancarono la porta e si fermarono sulla soglia a fissare la sorella maggiore come se fosse diventata un’altra persona, cosa che probabilmente era vera. «Ti sei sposato per ordine della Stasi!» urlò Rebecca dalla finestra. «Chi di noi due è pazzo?» Gli lanciò contro anche l’altra scarpa, ma mancò il bersaglio. «Cosa stai facendo?» chiese Lili spaventata. Walli ridacchiò e disse: «Roba da matti, gente». Due passanti si fermarono a guardare e un vicino di casa comparve sullo scalino dell’ingresso, osservando colpito la scena. Hans li fissò tutti con odio. Era un uomo orgoglioso e per lui era una vera agonia essere ridicolizzato così in pubblico. Rebecca si guardò intorno, cercando qualcos’altro da scagliare contro il marito. Le cadde l’occhio sul modellino della Porta di Brandeburgo. Poggiava sopra un pannello di compensato. Rebecca lo sollevò. Era pesante, ma poteva farcela. «Oh!» esclamò Walli. Rebecca portò il modellino alla finestra. «Non ci provare! È mio!» gridò Hans. Rebecca posò la base di compensato sul davanzale. «Mi hai rovinato la vita, tu, scagnozzo della Stasi!» urlò. Una donna rise, uno sghignazzo sprezzante e beffardo che risuonò al di sopra il rumore della pioggia. Hans avvampò di rabbia e si guardò intorno, cercando di individuare il colpevole, ma non ci riuscì. Che si ridesse di lui era la forma peggiore di tortura. «Rimetti a posto il mio modellino, puttana!» ruggì. «Ci ho lavorato per un anno!» «E io ho lavorato per un anno sul nostro matrimonio.» Rebecca sollevò il modellino. «È un ordine!» urlò Hans. Rebecca spinse il modellino fuori dalla finestra e lo lasciò cadere. A metà del volo, l’oggetto si capovolse, la base rivolta verso l’alto e la quadriga di sotto. Sembrò impiegare un secolo per arrivare a terra e per un momento Rebecca si sentì sospesa nel tempo. Poi il modellino si schiantò sul cortile lastricato davanti a casa, con un rumore simile a quello di un foglio che si accartocci. I fiammiferi schizzarono a pioggia verso l’esterno, quindi ricaddero sparpagliandosi sulle pietre bagnate. La base di compensato giaceva al suolo, tutto ciò che c’era stato sopra distrutto. Hans fissò la scena per qualche istante, a bocca aperta per lo shock. Poi si riprese e puntò un dito contro Rebecca. «Ascoltami bene» disse, e la voce era così gelida che lei, di colpo, ebbe di nuovo paura. «Te ne pentirai, te lo giuro. Tu e la tua famiglia. Ve ne pentirete per il resto della vita. È una promessa.» Quindi risalì in auto e se ne andò. 2 A colazione, la madre di George Jakes servì pancake ai mirtilli, pancetta e grits, una specie di porridge. «Se mangio tutta questa roba, dovrò passare alla categoria pesi massimi» disse George, che pesava settantasette chili ed era stato una star dei pesi welter nella squadra di lotta di Harvard. «Mangia sano e abbondante e lascia perdere la lotta» disse la madre. «Non ti ho tirato su per farti diventare uno stupido atleta fanatico.» Si sedette di fronte al figlio al tavolo della cucina e versò i cornflakes in una ciotola. George non era uno stupido, e lei lo sapeva. Stava per laurearsi alla facoltà di legge di Harvard. Aveva dato gli esami finali ed era sicuro, per quanto poteva esserlo, di averli superati. Ora si trovava nella modesta abitazione di sua madre nella contea di Prince George, nel Maryland, alla periferia di Washington. «Voglio solo restare in forma» disse lui. «Magari allenerò la squadra di lotta di una scuola superiore.» «Questa potrebbe essere una buona idea.» George la guardò con tenerezza. Un tempo Jacky Jakes era stata carina, lui lo sapeva: aveva visto alcune sue fotografie da adolescente, quando aspirava a diventare una stella del cinema. L’aspetto di sua madre era ancora giovanile: aveva quel tipo di pelle color cioccolato scuro che non raggrinzisce con l’età. “Good black don’t crack” dicevano le donne negre. “Il nero vero non fa rughe.” Ma la bocca che in quelle vecchie foto si apriva in larghi sorrisi ora piegava gli angoli verso il basso in un’espressione di severa determinazione. Jacky non era mai diventata un’attrice. Forse non ne aveva mai avuto la possibilità: i pochi ruoli riservati alle negre di solito andavano a bellezze dalla carnagione più chiara. In ogni caso la sua carriera era finita ancora prima di cominciare quando, a sedici anni, era rimasta incinta di George. Si era procurata quel viso scavato dalle preoccupazioni crescendo da sola il figlio per i suoi primi anni di vita, lavorando come cameriera, vivendo in una minuscola abitazione dietro Union Station e inculcando in lui l’etica del duro lavoro, dell’istruzione e della rispettabilità. «Ti voglio bene, mamma» disse George «ma parteciperò comunque al Freedom Ride.» Jacky serrò le labbra in segno di disapprovazione. «Hai venticinque anni. Puoi fare quello che ti pare.» «No, non faccio quello che mi pare. Ho sempre discusso con te ogni decisione importante che ho preso. E probabilmente continuerò così.» «Tanto non fai quello che ti dico.» «Non sempre. Ma sei ancora la persona più intelligente che io abbia mai conosciuto, compresi tutti quelli di Harvard.» «Cerchi di ammorbidirmi con l’adulazione» disse Jacky, ma George vide che era compiaciuta. «Mamma, la Corte suprema ha stabilito che la segregazione sugli autobus interstatali e nelle stazioni dei bus è incostituzionale, ma i sudisti sfidano la legge. Dobbiamo fare qualcosa!» «E in che modo pensi che possa servire questo vostro viaggio in autobus?» «Saliremo a bordo qui a Washington e ci dirigeremo a sud. Prenderemo posto davanti, attenderemo nelle sale d’aspetto riservate ai bianchi e chiederemo di essere serviti nei ristoranti per soli bianchi. E se qualcuno protesterà diremo che la legge è dalla nostra parte e che sono loro i criminali e i sobillatori.» «Figliolo, io so che hai ragione. Non devi convincere me. Conosco la costituzione. Ma cosa pensi che succederà?» «Immagino che prima o poi verremo arrestati. Ci sarà un processo e noi potremo sostenere la nostra causa davanti al mondo.» Jacky scosse la testa. «Spero davvero che ve la caviate così facilmente.» «Cosa vuoi dire?» «Tu sei cresciuto da privilegiato» rispose la madre. «Almeno dopo che il tuo padre bianco è ricomparso nelle nostre vite quando avevi sei anni. Tu non sai com’è il mondo per la maggior parte della gente di colore.» «Vorrei che non lo avessi detto.» George si sentì ferito: quell’accusa, che gli veniva rivolta anche dagli attivisti neri, lo irritava molto. «Avere un nonno bianco e ricco che mi paga gli studi non mi rende cieco. So come vanno le cose.» «Allora, forse saprai che farti arrestare potrebbe non essere la cosa peggiore. E se la situazione diventasse violenta?» George sapeva che sua madre aveva ragione: forse i Freedom Riders avrebbero rischiato più del carcere. Ma voleva rassicurarla. «Ho fatto un corso di resistenza passiva» disse. Tutti coloro che erano stati selezionati per il Freedom Ride erano esperti attivisti dei diritti civili e avevano seguito un programma di addestramento speciale che includeva esercizi con giochi di ruolo. «Un bianco che fingeva di essere un razzista del Sud mi ha dato dello sporco negro, mi ha spinto e strattonato, trascinandomi fuori dalla stanza senza che io opponessi resistenza… Io l’ho lasciato fare, anche se avrei potuto buttarlo fuori dalla finestra con una mano sola.» «Chi era quel bianco?» «Un attivista dei diritti civili.» «Quindi non era una situazione reale.» «Naturalmente no. Recitava una parte.» «Okay» disse Jacky, e dal tono di voce George capì che sua madre intendeva esattamente il contrario. «Andrà tutto bene, mamma.» «Non dirò una parola di più. Hai intenzione di mangiare quei pancake?» «Guardami» disse George. «Abito di mohair, cravatta stretta, capelli corti e scarpe così lucide che potrei usarle come specchio per farmi la barba.» Era solito vestirsi in modo elegante, ma i Riders avevano ricevuto istruzioni di esibire un aspetto ultrarispettabile. «Stai benissimo, a parte quell’orecchio a cavolfiore.» Era a causa della lotta che l’orecchio destro di George era deformato. «Chi mai vorrebbe fare del male a un ragazzo di colore così simpatico?» «Tu non hai idea» ribatté Jacky, all’improvviso arrabbiata. «Quei bianchi sudisti, loro…» Con sgomento di George, gli occhi di sua madre si riempirono di lacrime. «Oh, Dio, ho solo tanta paura che ti uccidano!» George allungò un braccio sul tavolo e le prese una mano. «Starò attento, mamma, te lo prometto.» Jacky si asciugò gli occhi con il grembiule. George mangiò un po’ di pancetta, tanto per farle piacere, ma non aveva appetito: era più in ansia di quanto lasciasse vedere. Sua madre non stava esagerando. Alcuni attivisti dei diritti civili si erano opposti all’idea del Freedom Ride sostenendo che avrebbe potuto provocare violenze. «Starai parecchio tempo su quell’autobus» disse Jacky. «Tredici giorni, da qui a New Orleans. Faremo tappa tutte le sere per riunioni e manifestazioni.» «Cosa ti porti da leggere?» «L’autobiografia di Gandhi.» George voleva saperne di più su quel personaggio, la cui filosofia aveva ispirato le tattiche non violente dei movimenti di protesta per i diritti civili. Jacky prese un libro da sopra il frigorifero. «Forse troverai questo un po’ più divertente. È un bestseller.» Madre e figlio avevano sempre condiviso i libri. Il padre di Jacky era stato professore di letteratura in un college per negri e lei amava leggere fin dall’infanzia. Da bambino, George aveva letto insieme a sua madre le storie dei Bobbsey Twins e degli Hardy Boys, anche se tutti gli eroi erano bianchi. Ora si passavano regolarmente i libri che avevano apprezzato di più. George guardò quello che aveva tra le mani. La copertina di plastica trasparente gli diceva che era stato preso in prestito dalla biblioteca pubblica locale. Il buio oltre la siepe. «Ha appena vinto il premio Pulitzer, vero?» «Ed è ambientato in Alabama, dove stai andando tu.» «Grazie.» Pochi minuti dopo George salutò la madre con un bacio, uscì di casa con una valigetta e salì su un autobus diretto a Washington. Scese alla stazione Greyhound in centro, nel cui caffè si era riunito un gruppetto di attivisti dei diritti civili. George conosceva alcuni di loro dalle lezioni di addestramento: erano un mix di bianchi e neri, uomini e donne, vecchi e giovani. Oltre a una decina di Riders, erano presenti anche alcuni organizzatori del CORE, il Congress of Racial Equality, che promuoveva i diritti civili e l’uguaglianza razziale, un paio di giornalisti della stampa negra e qualche sostenitore. Il CORE aveva deciso di dividere il gruppo in due metà; una sarebbe partita dalla stazione degli autobus Trailways sul lato opposto della strada. Non c’erano cartelli di protesta né telecamere: tutto era così tranquillo da risultare rassicurante. George salutò un bianco dagli occhi azzurri sporgenti. Era Joseph Hugo, un suo compagno alla facoltà di legge. Insieme avevano organizzato un boicottaggio della tavola calda dei grandi magazzini Woolworth a Cambridge, nel Massachusetts. La catena Woolworth rispettava l’integrazione nella maggior parte degli Stati, ma era segregazionista nel Sud, come il servizio degli autobus. Joe, però, trovava sempre il modo di sparire subito prima di un confronto e George lo aveva etichettato come un codardo benintenzionato. «Vieni con noi, Joe?» chiese, cercando di eliminare lo scetticismo dalla voce. Joe scosse la testa. «Sono qui solo per augurarvi buona fortuna.» Era solito fumare lunghe sigarette al mentolo con il filtro bianco e ne stava picchiettando nervosamente una sul bordo di un portacenere di latta. «Peccato. Tu sei del Sud, giusto?» «Birmingham, Alabama.» «Ci definiranno agitatori venuti da fuori. Sarebbe stato d’aiuto avere sul nostro autobus uno del Sud per provare che si sbagliano.» «Non posso, ho da fare.» George non insistette. Lui stesso era già abbastanza spaventato. Se avesse cominciato a discutere dei pericoli, forse si sarebbe convinto a non andare. Passò lo sguardo sul gruppo. Fu contento di vedere John Lewis, uno studente di teologia dall’aspetto tranquillo e autorevole; era uno dei fondatori dello Student Nonviolent Coordinating Committee, il più radicale dei gruppi per i diritti civili. Il capo della spedizione chiese silenzio e cominciò una breve dichiarazione per la stampa. Mentre lui stava parlando, George vide scivolare all’interno del caffè un bianco alto sui quarant’anni che indossava un abito di lino spiegazzato. Era bello, anche se pesante, ma il viso mostrava il rossore tipico del bevitore. Sembrava un normale passeggero e nessuno gli prestò attenzione. Andò a sedersi accanto a George, gli passò un braccio intorno alle spalle e lo strinse brevemente. Era il senatore Greg Peškov, il padre di George. Il loro legame era noto a molti, soprattutto nel mondo politico di Washington, però mai riconosciuto pubblicamente. Greg non era l’unico ad avere un segreto del genere. Il senatore Strom Thurmond aveva pagato il college a una figlia della domestica di colore della sua famiglia: si mormorava che la ragazza fosse frutto di una relazione con il senatore, cosa che non impediva a Thurmond di essere un feroce segregazionista. Quando Greg era comparso nella vita di George, un perfetto estraneo per il figlio di sei anni, aveva chiesto di essere chiamato “zio”. I due non avevano mai trovato un eufemismo migliore. Greg era egoista e inaffidabile ma, a modo suo, teneva al figlio. Da adolescente, George aveva attraversato una lunga fase di risentimento nei suoi confronti, ma poi era arrivato ad accettare Greg per quello che era, concludendo che mezzo padre era comunque meglio di niente. «George» disse Greg a bassa voce «sono preoccupato.» «Anche la mamma.» «Cosa ti ha detto?» «Lei pensa che i razzisti del Sud ci uccideranno tutti.» «Io non credo che succederà, però potresti perdere il tuo impiego.» «L’avvocato Renshaw ha detto qualcosa?» «Diavolo, no, non sa niente di questa storia, non ancora. Ma se ti farai arrestare lo verrà a sapere presto.» Renshaw, che era originario di Buffalo, era un amico d’infanzia di Greg e socio anziano del prestigioso studio legale Fawcett Renshaw di Washington. L’estate precedente, Greg aveva procurato a suo figlio un impiego estivo nello studio e, come avevano sperato entrambi, quell’occupazione temporanea aveva portato all’offerta di un’assunzione a tempo pieno dopo la laurea. Era un bel colpo: George sarebbe stato il primo negro a lavorare in quello studio con mansioni diverse da quelle di addetto alle pulizie. «I Freedom Riders non infrangono la legge.» Nella voce di George c’era una punta di irritazione. «Anzi, noi cerchiamo di farla rispettare. I criminali sono i segregazionisti. Mi sarei aspettato che un avvocato come Renshaw lo capisse.» «Lo capisce, però non può assumere una persona che abbia avuto problemi con la polizia. Credimi, sarebbe lo stesso se tu fossi bianco.» «Ma noi siamo dalla parte della legge!» «La vita è ingiusta. I tuoi giorni da studente sono finiti: benvenuto nel mondo reale.» In quel momento il capo del gruppo annunciò: «Per favore, andate tutti a comprare il biglietto e controllate il vostro bagaglio». George si alzò in piedi. «Non riuscirò a dissuaderti, vero?» chiese Greg. Aveva un’aria così demoralizzata che George fu tentato di rinunciare. Ma non poteva. «No, ho deciso» rispose. «Allora, per favore, cerca almeno di stare attento.» George era commosso. «Sono fortunato ad avere persone che si preoccupano per me» disse. «Lo so.» Greg gli strinse il braccio e se ne andò in silenzio. George si mise in fila con gli altri allo sportello e acquistò un biglietto per New Orleans. Raggiunse l’autobus e consegnò la sua valigetta perché venisse caricata nel vano bagagli. Sulla fiancata dell’autobus c’erano l’immagine di un grande levriero e lo slogan: È UNA TALE COMODITÀ PRENDERE IL BUS… E LASCIARE LA GUIDA A NOI. George salì a bordo. Un organizzatore gli indicò un posto davanti. Ad altri venne detto di sedersi a coppie interrazziali. L’autista non prestò alcuna attenzione ai Riders e i passeggeri normali sembrarono solo blandamente incuriositi. George aprì il libro che gli aveva dato sua madre e lesse la prima riga. Un attimo dopo l’organizzatore mandò una delle donne a sedersi vicino a George. Lui la salutò con un cenno del capo. Era contento. L’aveva già incontrata un paio di volte e gli era simpatica. Si chiamava Maria Summers. Era vestita con un semplice abito estivo di cotone grigio chiaro, accollato e dalla gonna ampia. La sua pelle aveva lo stesso colore caldo e scuro di quello della madre di George, il naso era grazioso e appiattito e le labbra facevano venire voglia di baci. George sapeva che la ragazza frequentava la facoltà di legge a Chicago e che, come lui, stava per laurearsi, per cui probabilmente avevano la stessa età. Riteneva che Maria fosse non solo intelligente, ma anche determinata. Doveva esserlo se era riuscita a entrare alla facoltà di legge superando due handicap: essere donna e nera. George chiuse il libro mentre l’autista metteva in moto e partiva. Maria abbassò lo sguardo e disse: «Il buio oltre la siepe. L’estate scorsa ero a Montgomery, in Alabama». Montgomery era la capitale dello Stato. «Cosa ci facevi là?» chiese George. «Mio padre è avvocato e un suo cliente aveva citato in giudizio lo Stato. Durante le vacanze lavoravo per papà.» «Avete vinto?» «No. Ma non voglio che tu smetta di leggere per me.» «Stai scherzando? Posso leggere in qualunque altro momento. Quando mai a un tizio in autobus capita di avere di fianco una ragazza carina come te?» «Oh, santo cielo» disse Maria. «Mi avevano avvertito che sei un adulatore.» «Ti svelerò il mio segreto, se vuoi.» «Okay, di che si tratta?» «Sono un tipo sincero.» La ragazza rise. «Ma, per favore, non divulgare la notizia» aggiunse George. «Mi rovinerebbe la reputazione.» L’autobus attraversò il Potomac ed entrò in Virginia sulla Route 1. «Adesso sei nel Sud, George» disse Maria. «Hai paura?» «Ci puoi scommettere.» «Anch’io.» La strada era uno squarcio dritto e sottile in mezzo a chilometri e chilometri di foresta verde primaverile. Attraversarono cittadine dove gli uomini avevano così poco da fare che si fermavano a osservare il passaggio dell’autobus. George non guardò molto fuori dal finestrino. Venne a sapere che Maria era cresciuta in una famiglia di stretta osservanza religiosa e che suo nonno era un predicatore. Lui le confessò che andava in chiesa soprattutto per fare piacere a sua madre e Maria ammise che per lei era la stessa cosa. Chiacchierarono per tutto il tempo fino a Fredericksburg, ottanta chilometri di strada. I Riders si fecero silenziosi quando l’autobus entrò nella storica cittadina dove ancora vigeva la supremazia bianca. La stazione Greyhound si trovava tra due chiese in mattoni rossi con le porte bianche, ma nel Sud la cristianità non era necessariamente un’indicazione attendibile. Quando il veicolo si fermò, George vide i bagni e rimase sorpreso nel constatare che, sopra le porte, non c’erano i cartelli SOLO BIANCHI e SOLO NERI. I passeggeri scesero e sbatterono le palpebre nel sole. Osservando con più attenzione, George notò spazi più chiari sopra le porte dei bagni e dedusse che gli avvisi segregazionisti dovevano essere stati tolti da poco. I Riders misero comunque in atto il loro piano. Per prima cosa, un organizzatore bianco entrò nello squallido bagno sul retro, chiaramente previsto per i negri. Ne uscì illeso, ma quella era la parte più facile. George si era già offerto volontario come persona di colore che avrebbe sfidato le regole. «Ci siamo» disse a Maria, ed entrò nel bagno pulito e tinteggiato di recente il cui cartello SOLO BIANCHI era stato senza dubbio appena rimosso. In bagno c’era un giovanotto bianco che si stava pettinando il ciuffo alto sulla fronte. Lanciò un’occhiata a George nello specchio, però non disse nulla. George era troppo spaventato per fare pipì, ma non poteva semplicemente uscire, così si lavò le mani. Il giovane se ne andò ed entrò un uomo più anziano, che si chiuse in un box. George usò l’asciugamano a rullo poi, non essendoci altro da fare, uscì. Gli altri stavano aspettando. George si strinse nelle spalle. «Niente. Nessuno ha cercato di fermarmi, nessuno ha fatto commenti.» «Io ho chiesto una Coca-Cola al banco e la cameriera me l’ha servita» disse Maria. «Credo che qualcuno qui abbia deciso di evitare problemi.» «Andrà così fino a New Orleans?» chiese George. «Si comporteranno come se niente fosse e poi, appena ce ne saremo andati, imporranno di nuovo la segregazione? Questo, in pratica, ci farebbe mancare il terreno sotto i piedi!» «Non preoccuparti» disse Maria. «Conosco quelli che governano l’Alabama e, credimi, non sono così intelligenti.» 3 Walli Frank stava suonando il piano nel salotto di sopra. Lo strumento era uno Steinway a coda che suo padre teneva accordato per la nonna Maud. Il ragazzo stava ripassando il riff di A Mess of Blues, un disco di Elvis Presley. Era in do, e ciò rendeva tutto più facile. La nonna stava leggendo i necrologi sul “Berliner Zeitung”. A settant’anni, la sua figura era snella e dritta nell’abito blu scuro di cachemire. «Suoni bene quel tipo di musica» disse, senza alzare gli occhi dal quotidiano. «Oltre agli occhi verdi, hai ereditato anche il mio orecchio. Tuo nonno Walter, al quale devi il nome, non è mai riuscito a suonare il ragtime, che riposi in pace. Ho cercato di insegnarglielo, ma era senza speranza.» «Tu suonavi il ragtime?» Walli era sorpreso. «Io ti ho sempre sentito suonare solo musica classica.» «Il ragtime ci ha evitato di morire di fame quando tua madre era bambina. Dopo la Prima guerra mondiale, suonavo in un club che si chiamava Nachtleben, proprio qui a Berlino. Ogni sera venivo pagata con miliardi di marchi, che bastavano appena per comprare il pane. Ma a volte ricevevo mance in valuta straniera e con due dollari potevamo vivere bene per una settimana.» «Cavolo.» Walli non riusciva a immaginare quella sua nonna dai capelli d’argento suonare il piano in un nightclub e accettare mance. Entrò sua sorella. Lili aveva quasi tre anni meno di lui e in quel periodo Walli non sapeva bene come trattarla. Fin da quando riusciva a ricordare, Lili era sempre stata una spina nel fianco, come un ragazzino, ma più sciocca. Ultimamente, però, era diventata più ragionevole e, a complicare le cose, ad alcune delle sue amiche era cresciuto il seno. Walli voltò le spalle al piano e afferrò la chitarra. L’aveva acquistata l’anno prima in un banco dei pegni a Berlino Ovest. Probabilmente era stata impegnata da un soldato americano in cambio di un prestito che poi non aveva mai ripagato. La chitarra era una Martin e, sebbene fosse costata poco, a Walli sembrava un ottimo strumento. Riteneva che né il titolare del banco dei pegni né il soldato si fossero resi conto del suo vero valore. «Senti questa» disse a Lili, e cominciò a cantare un motivo delle Bahamas intitolato All My Trials. Il testo era in inglese. Walli aveva sentito la canzone sulle stazioni radio occidentali: era popolare tra i gruppi folk americani. Gli accordi minori la rendevano malinconica e Walli era soddisfatto del dolente accompagnamento fingerpicking, pizzicato, che lui eseguiva. Quando finì, la nonna Maud alzò gli occhi dal giornale e disse in inglese: «Il tuo accento è davvero terribile, Walli caro». «Mi dispiace.» La nonna tornò al tedesco. «Però canti bene.» «Grazie.» Walli si rivolse alla sorella. «Che cosa pensi della canzone?» «È un po’ triste» rispose Lili. «Forse mi piacerà di più quando l’avrò ascoltata qualche altra volta.» «Allora non va bene» fece Walli. «Voglio suonarla questa sera al Minnesänger.» Si riferiva a un locale di musica folk e che si trovava in una laterale del Kurfürstendamm, a Berlino Ovest. Il nome significava “trovatore”. Lili era colpita. «Suonerai al Minnesänger?» «È una serata speciale. Ci sarà una gara e chiunque potrà esibirsi. Il vincitore otterrà un ingaggio regolare.» «Non sapevo che i locali notturni facessero cose del genere.» «Di norma non le fanno. Questo è un caso unico.» «Non dovresti essere un po’ più vecchio per entrare in un posto come quello?» chiese la nonna Maud. «Sì, ma ci sono già stato.» «Walli sembra più grande della sua età» osservò Lili. «Mmh.» «Tu però non hai mai cantato in pubblico» disse Lili a suo fratello. «Sei nervoso?» «Ci puoi scommettere.» «Dovresti suonare qualcosa di più allegro.» «Credo che tu abbia ragione.» «Cosa ne dici di This Land Is Your Land ? A me piace molto.» Walli la suonò e Lili cantò con lui. Mentre stavano ancora cantando, entrò la sorella maggiore, Rebecca. Walli l’adorava. Dopo la guerra, i loro genitori avevano lavorato disperatamente giorno e notte per riuscire a dare da mangiare alla famiglia, e spesso Rebecca aveva dovuto prendersi cura di Walli e Lili. Era come una seconda madre, però meno severa. E aveva un tale coraggio! Walli l’aveva guardata quasi con timore reverenziale gettare fuori dalla finestra il modellino in fiammiferi di suo marito. A lui Hans non era mai piaciuto ed era segretamente felice che se ne fosse andato. Tutti i vicini non facevano che parlare di come Rebecca, senza saperlo, avesse sposato un agente della Stasi. La notizia aveva conferito a Walli un certo status a scuola: nessuno aveva mai immaginato che ci fosse qualcosa di speciale nei Franck. Le ragazze, in particolare, erano affascinate dall’idea che per quasi un anno tutto ciò che era stato detto e fatto in casa sua era stato riferito alla polizia. Anche se si trattava di sua sorella, Walli si rendeva conto che Rebecca era una donna stupenda. Aveva un fisico strepitoso e un viso adorabile su cui si leggeva gentilezza ma anche forza. In quel momento, però, Walli si accorse che sua sorella aveva l’aspetto di una persona a cui fosse appena morto qualcuno. Smise di suonare e chiese: «Cos’è successo?». «Sono stata licenziata.» La nonna Maud posò il giornale. «Ma è una pazzia!» esclamò Walli. «I ragazzi della tua scuola dicono che sei l’insegnante migliore!» «Lo so.» «Perché ti hanno fatto fuori?» «Credo che sia la vendetta di Hans.» Walli ripensò alla reazione di Hans quando aveva visto il modellino fracassato, le migliaia di piccoli fiammiferi sparpagliati sull’asfalto bagnato. “Te ne pentirai” aveva gridato, alzando lo sguardo attraverso la pioggia. Walli aveva considerato quella frase come una spacconata, ma se ci avesse riflettuto un momento avrebbe capito che un agente della polizia segreta aveva effettivamente il potere di dare seguito a una minaccia del genere. “Tu e la tua famiglia” aveva aggiunto Hans, e Walli era compreso nella maledizione. Rabbrividì. «Ma non sono alla disperata ricerca di insegnanti?» chiese la nonna Maud. «Bernd Held è sconvolto» disse Rebecca. «Ma ha ricevuto ordini dall’alto.» «E ora cosa farai?» domandò Lili. «Mi troverò un altro lavoro. Non dovrebbe essere difficile. Bernd mi ha dato delle referenze eccezionali. E ogni scuola della DDR è a corto di insegnanti, perché tantissimi si sono trasferiti in Occidente.» «Dovresti trasferirti anche tu» disse Lili. «Dovremmo trasferirci tutti in Occidente» aggiunse Walli. «La mamma non lo farà mai, lo sapete» replicò Rebecca. «Sostiene che dobbiamo risolvere i nostri problemi, non evitarli fuggendo.» In quel momento entrò il padre di Walli, che indossava un abito blu con panciotto, fuori moda ma elegante. «Buonasera, Werner caro» lo salutò la nonna Maud. «Rebecca ha bisogno di un drink. È stata licenziata.» La nonna diceva spesso che qualcuno aveva bisogno di un drink. Poi ne avrebbe bevuto uno anche lei. «So già di Rebecca» ribatté Werner seccamente. «Ho appena parlato con lei.» Era di cattivo umore: doveva esserlo, per rivolgersi così poco gentilmente a sua suocera, che ammirava e alla quale voleva bene. Walli si chiese cosa mai avesse fatto inquietare il vecchio. Lo scoprì presto. «Walli, vieni nel mio studio. Voglio parlarti.» Werner varcò la porta a due battenti che dava nel salotto più piccolo, trasformato in studio. Walli lo seguì. Suo padre si sedette alla scrivania. Walli sapeva di dover restare in piedi. «Un mese fa abbiamo avuto una conversazione sul fumo» cominciò Werner. Walli si sentì subito in colpa. Aveva cominciato a fumare per sembrare più grande, ma poi gli era piaciuto davvero e ormai era un’abitudine. «Avevi promesso di smettere» continuò Werner. A parere di Walli, che fumasse oppure no non erano affari di suo padre. «Hai smesso?» «Sì» mentì Walli. «Non lo sai che ti rimane addosso l’odore?» «Immagino di sì.» «Ho avvertito l’odore di fumo su di te appena sono entrato in salotto.» Walli si sentì un idiota. Era stato scoperto a raccontare una bugia infantile. Questo, però, non lo rendeva meglio disposto nei confronti del padre. «Quindi, so che non hai smesso» riprese Werner. «Allora perché me lo hai chiesto?» Walli odiò la nota petulante che aveva sentito nella propria voce. «Speravo che mi dicessi la verità.» «Speravi di cogliermi in fallo.» «Credilo pure, se vuoi. Immagino che tu abbia un pacchetto di sigarette in tasca.» «Sì.» «Mettilo sulla scrivania.» Walli estrasse il pacchetto dalla tasca dei pantaloni e lo scagliò con rabbia sul piano. Suo padre lo prese e lo lasciò cadere con indifferenza in un cassetto. Le sigarette erano Lucky Strike, non le scadenti f6 che si producevano in Germania Est. E il pacchetto era quasi pieno. «Resterai in casa tutte le sere per un mese» disse suo padre. «Almeno non te ne andrai in giro per bar dove non fanno che suonare il banjo e fumare.» Walli sentì lo stomaco contrarsi per il panico. Si sforzò di mantenere la calma e mostrarsi ragionevole. «Non il banjo: la chitarra. E non posso assolutamente restare chiuso in casa per un mese.» «Non essere ridicolo. Farai come ti dico.» «Va bene» cedette Walli, disperato. «Ma non a partire da questa sera.» «A partire da subito.» «Ma io questa sera devo andare al Minnesänger!» «È esattamente il tipo di posto dal quale voglio che tu stia lontano.» Il vecchio era impossibile! «Resterò a casa tutte le sere per un mese a partire da domani, okay?» «La quarantena non verrà modificata per adattarsi ai tuoi programmi. Altrimenti si vanificherebbe lo scopo. La punizione è pensata proprio per crearti difficoltà.» Quando Werner era di quell’umore, non era possibile smuoverlo dalla sua decisione, ma Walli era fuori di sé per la frustrazione e ci provò comunque. «Tu non capisci! Questa sera devo partecipare a una gara al Minnesänger: è un’occasione unica.» «Non intendo posticipare la tua punizione per permetterti di suonare il banjo!» «È la chitarra, vecchio scemo! La chitarra!» Infuriato, Walli si precipitò fuori. Ovviamente le tre donne nella stanza accanto avevano sentito tutto. «Oh, Walli…» disse Rebecca. Walli afferrò la chitarra e uscì dal salotto. Scese da basso senza avere un’idea particolare in testa, provava solo rabbia. Tuttavia, non appena vide la porta d’ingresso, seppe cosa fare. Con la chitarra in mano, uscì di casa e sbatté il portone con tanta violenza da far tremare l’edificio. Al piano di sopra si spalancò una finestra e Walli sentì suo padre gridare: «Rientra in casa, mi hai sentito? Torna immediatamente o ti ritroverai in guai anche peggiori». Walli continuò a camminare. All’inizio era solo arrabbiato, ma dopo un po’ cominciò a sentirsi euforico. Aveva sfidato suo padre e gli aveva dato addirittura del vecchio scemo! Si diresse verso ovest, camminando baldanzoso. Ma ben presto l’eccitazione sfumò e cominciò a chiedersi quali sarebbero state le conseguenze. Suo padre non prendeva alla leggera la disobbedienza. Imperava su figli e dipendenti e si aspettava che tutti si adeguassero. Ma cosa avrebbe fatto? Ormai Walli era troppo grande per essere sculacciato. Poco prima suo padre aveva cercato di chiuderlo in casa come in una prigione, ma non ci era riuscito. A volte minacciava di fargli interrompere gli studi e metterlo a lavorare in azienda, ma Walli la considerava una falsa minaccia: suo padre si sarebbe sentito a disagio con un adolescente pieno di risentimento che vagava nella sua preziosa fabbrica. In ogni caso, aveva la sensazione che il vecchio si sarebbe inventato qualcosa. La strada che stava percorrendo passava da Berlino Est a Berlino Ovest all’altezza di un incrocio. Tre Vopo, i poliziotti della DDR, chiacchieravano e fumavano all’angolo. Erano autorizzati a bloccare e interrogare chiunque attraversasse quel confine invisibile. Non avevano certo la possibilità di fermare tutti, dato che ogni giorno transitavano parecchie migliaia di persone, compresi molti Grenzgänger, berlinesi dell’Est che lavoravano nel settore occidentale per salari più alti, pagati nei preziosi marchi tedeschi della Repubblica federale. Il padre di Walli era un Grenzgänger, anche se lavorava per il proprio profitto e non per uno stipendio. Lo stesso Walli attraversava il confine almeno una volta alla settimana, in genere per andare con gli amici al cinema a Berlino Ovest, dove proiettavano film americani sexy e violenti, molto più eccitanti delle favole predicatorie delle sale cinematografiche comuniste. In pratica i Vopo fermavano chiunque richiamasse la loro attenzione. Le famiglie al completo, genitori e figli, venivano quasi sempre controllate perché sospettate di volersene andare dalla DDR definitivamente, specie se avevano bagagli. Gli altri soggetti che ai Vopo piaceva tormentare erano gli adolescenti, in particolare quelli che indossavano capi occidentali alla moda. Molti ragazzi di Berlino Est appartenevano a bande ostili all’establishment: la Texas Gang, la Jeans Gang, i fan berlinesi della Elvis Presley Appreciation Society e altre. Odiavano la polizia e la polizia odiava loro. Walli indossava semplici pantaloni neri, una maglietta bianca e una giacca a vento marrone. Pensava comunque di avere un aspetto fico, di assomigliare un po’ a James Dean, ma non a un membro di una gang. Tuttavia la chitarra poteva richiamare l’attenzione. Era il massimo simbolo di quella che veniva definita la “non cultura americana”, addirittura più di un fumetto di Superman. Walli attraversò la strada, attento a non guardare i Vopo. Con la coda dell’occhio gli sembrò di vedere uno di loro che lo osservava. Ma nessuno gli disse nulla e, senza fermarsi, passò nel mondo libero. Lungo il lato meridionale del parco, prese un tram diretto al Ku’damm. La cosa migliore di Berlino Ovest, pensò, era che tutte le ragazze indossavano i collant. Raggiunse il Minnesänger Club, una cantina in una laterale del Ku’damm dove servivano birra leggera e hot dog. Era in anticipo, ma il locale si stava già riempiendo. Walli parlò con il giovane proprietario, Danni Hausmann, e aggiunse il proprio nome all’elenco dei concorrenti. Ordinò un birra senza che il barista gli chiedesse l’età. C’erano molti ragazzi con la chitarra come lui, quasi altrettante ragazze e poche persone più anziane. La gara iniziò un’ora dopo. Ogni esibizione prevedeva due canzoni. Alcuni concorrenti erano principianti senza speranza che strimpellavano semplici accordi, ma Walli rimase costernato sentendo che c’erano anche numerosi chitarristi più abili di lui. Molti di loro imitavano lo stile degli artisti americani di cui copiavano il repertorio. Tre uomini vestiti come il Kingston Trio cantaronoTom Dooley e una ragazza con i capelli neri lunghi e la chitarra cantò The House of the Rising Sun esattamente come Joan Baez, ottenendo applausi calorosi e grida di approvazione. Una coppia più anziana in velluto a coste si esibì in una canzone che parlava della campagna, Im Märzen der Bauer, accompagnandosi con la fisarmonica. Era musica folk, ma non il genere di folk che voleva il pubblico. I due ricevettero un applauso ironico, ma erano fuori moda. Walli, sempre più impaziente, stava aspettando il suo turno quando venne avvicinato da una bella ragazza. Gli succedeva spesso. Pensava di avere un viso particolare, con i suoi zigomi alti e gli occhi a mandorla, quasi fosse stato per metà orientale, ma in molte lo trovavano attraente. La ragazza, che si presentò come Karolin, sembrava avere un anno o due più di lui. Era bionda, e i lunghi capelli lisci con la riga in mezzo incorniciavano un viso ovale. All’inizio Walli pensò che fosse come tutte le altre cantanti folk, ma Karolin aveva un grande e caldo sorriso che fece saltare qualche battito al suo cuore. «Dovevo partecipare alla gara con mio fratello, che suona la chitarra, ma lui mi ha piantato in asso… Immagino che non ti andrebbe di fare coppia con me, vero?» Il primo impulso di Walli fu di rifiutare. Aveva un suo repertorio di canzoni e nessuna prevedeva duetti. Ma Karolin era incantevole e a lui serviva un motivo per continuare a parlare con lei. «Dovremmo fare delle prove» disse dubbioso. «Potremmo andare fuori. Tu quali canzoni avevi in mente?» «Avevo pensato di fare All My Trials e This Land Is Your Land .» «E cosa ne diresti di Noch einen Tanz?» Non faceva parte del suo repertorio, ma Walli conosceva il motivo e sapeva che era facile da suonare. «Non ho mai pensato a una canzone comica» rispose. «Al pubblico piacerebbe. Tu potresti cantare la parte dell’uomo, quando lui dice a lei di tornarsene a casa dal marito ammalato, io canterei “un altro ballo soltanto” e alla fine potremmo fare insieme l’ultimo verso.» «Proviamo.» Uscirono dal locale. Era quasi estate e c’era ancora luce. Si sedettero su un gradino dell’ingresso e provarono la canzone. Le due voci si intonavano bene e Walli improvvisò un’armonia sull’ultimo verso. Karolin aveva una voce pura da contralto che Walli pensò potesse risultare eccitante e, come secondo numero, suggerì per contrasto una canzone triste. La ragazza bocciò All My Trials perché troppo deprimente, ma le piacque Nobody’s Fault but Mine, un lento spiritual. Quando la provarono, a Walli venne la pelle d’oca. Un soldato americano che stava entrando nel locale sorrise e, in inglese, esclamò: «Santo cielo, i Bobbsey Twins!». Karolin scoppiò a ridere e disse a Walli: «A quanto pare ci assomigliamo: tutti e due siamo biondi con gli occhi verdi. Chi sono i Bobbsey Twins?». Walli non aveva fatto caso al colore degli occhi della ragazza e si sentì lusingato che lei invece avesse notato i suoi. «Mai sentiti nominare» rispose. «Comunque sia, mi sembra un bel nome per un duo. Come gli Everly Brothers.» «Abbiamo bisogno di un nome?» «Sì, se vinciamo.» «Okay. Torniamo dentro. Dev’essere quasi il nostro turno.» «Un’altra cosa» disse Karolin. «Quando facciamo Noch einen Tanz, ogni tanto dovremmo guardarci e sorridere.» «Okay.» «Come se stessimo insieme, capisci? Farà un bell’effetto in scena.» «Certo.» Non sarebbe stato difficile sorridere a Karolin come se fosse stata la sua ragazza. Rientrarono mentre una bionda strimpellava la chitarra, cantando Freight Train. Non era bella come Karolin, però era carina, anche se in un modo più banale. Poi un virtuoso della chitarra si esibì in un complicato blues fingerpicking. E finalmente Danni Hausmann chiamò il nome di Walli. Si sentiva teso davanti al pubblico. Quasi tutti i chitarristi avevano tracolle ricercate, invece lui non si era mai preoccupato di procurarsene una e il suo strumento era appeso al collo con un pezzo di spago. In quel momento, di colpo, desiderò avere la tracolla. «Buonasera, noi siamo i Bobbsey Twins» annunciò Karolin. Walli suonò un accordo, cominciò a cantare e si rese conto che della tracolla non gli importava più niente. La canzone era un valzer, che lui suonava con disinvoltura. Karolin si atteggiava a prostituta sfacciata e Walli rispondeva al gioco da rigido tenente prussiano. Il pubblico rideva. A quel punto a Walli accadde una cosa strana. Nel locale c’erano appena un centinaio di persone e il suono che emettevano era solo una risatina collettiva di gradimento, ma in lui suscitò una sensazione che non aveva mai provato, un po’ come la scossa del primo tiro di sigaretta. Il pubblico rise ancora molte volte e, alla fine della canzone, applaudì fragorosamente. A Walli l’applauso fece ancora più effetto. «Gli piacciamo!» disse Karolin in un sussurro eccitato. Walli attaccò Nobody’s Fault but Mine, pizzicando le corde d’acciaio con le unghie per rafforzare l’effetto drammatico delle malinconiche settime, e nel locale si fece silenzio. Karolin cambiò e si trasformò in una donna disperata. Walli studiò il pubblico. Nessuno parlava. Una donna aveva le lacrime agli occhi e Walli si chiese se avesse vissuto ciò che Karolin stava cantando. Quella muta concentrazione era addirittura meglio delle risate. Alla fine il pubblico applaudì e chiese un’altra canzone. La regola era due brani a testa, perciò Walli e Karolin scesero dal palco, ignorando le richieste di bis, ma Hausmann disse loro di tornare in scena. I ragazzi non avevano provato una terza canzone e si guardarono in preda al panico. Poi Walli domandò: «Conosci This Land is Your Land ?» e Karolin annuì. Il pubblico si unì al canto, costringendo Karolin ad alzare la voce. La potenza vocale della ragazza sorprese Walli. Lui entrò in controcanto e le due voci si librarono alte sopra il rumore del pubblico. Quando finalmente scesero dal palco, Walli si sentiva esaltato. Gli occhi di Karolin splendevano. «Siamo stati grandi! Sei meglio di mio fratello.» «Hai una sigaretta?» chiese Walli. Rimasero seduti a fumare per l’ora di gara successiva. «Per me, noi due siamo stati i migliori» dichiarò Walli. Karolin, più cauta, disse: «Al pubblico è piaciuta la ragazza bionda che ha cantato Freight Train ». Venne annunciato il risultato. I Bobbsey Twins erano secondi. La vincitrice era la sosia di Joan Baez. Walli era arrabbiato. «Non sa quasi suonare!» protestò. Karolin la prese con più filosofia. «La gente ama Joan Baez.» Il locale cominciò a svuotarsi e anche Walli e Karolin si avviarono verso la porta. Walli era demoralizzato ma, mentre stavano già uscendo, Danni Hausmann li fermò. Poco più che ventenne, indossava moderni capi casual: maglione nero a collo alto e jeans. «Voi due potreste farmi mezz’ora lunedì prossimo?» Walli era troppo sorpreso per reagire, ma Karolin rispose immediatamente: «Certo!». «Ma è l’imitatrice di Joan Baez che ha vinto» osservò Walli, che poi però si disse: “Perché mi metto a discutere?”. «Mi sembra che voi due abbiate i numeri per fare contento il pubblico per più di un paio di pezzi» disse Danni. «Avete abbastanza canzoni per un’esibizione di mezz’ora?» Di nuovo Walli esitò e, di nuovo, fu Karolin a buttarsi: «Le avremo per lunedì». A Walli venne in mente che suo padre aveva in programma di tenerlo segregato in casa tutte le sere per un mese intero, ma decise di non parlarne. «Grazie» disse Danni. «Voi sarete nella prima parte della serata, venti e trenta. Dovete presentarvi qui alle sette e mezzo.» Quando uscirono nella strada illuminata dai lampioni, i due ragazzi erano euforici. Walli non aveva idea di come se la sarebbe cavata con suo padre, ma si sentiva ottimista, sicuro che si sarebbe risolto tutto. Risultò che anche Karolin abitava a Berlino Est. Salirono insieme sull’autobus e cominciarono a discutere su quali pezzi avrebbero presentato la settimana seguente. Erano moltissime le canzoni folk che conoscevano entrambi. Scesero dall’autobus ed entrarono nel Tiergarten. Karolin corrugò la fronte e disse: «Il tizio dietro di noi». Walli si voltò a guardare. Alle loro spalle, a una distanza di trenta o quaranta metri, un uomo con un berretto in testa camminava fumando una sigaretta. «Cos’ha che non va?» «Non era al Minnesänger?» L’uomo evitò lo sguardo di Walli, che pure lo stava fissando. «Non mi pare» rispose lui. «A te piacciono gli Everly Brothers?» «Sì!» Senza smettere di camminare, Walli attaccò All I Have to Do Is Dream , strimpellando la chitarra appesa al collo con lo spago. Karolin si unì con entusiasmo. Cantarono insieme attraversando il parco. Poi Walli suonò Back in the USA, il successo di Chuck Berry. Stavano intonando a piena voce il ritornello, “I’m so glad living in the USA”, quando Karolin si bloccò di colpo e disse: «Zitto!». Walli si rese conto che avevano raggiunto il confine. Vide tre Vopo sotto un lampione osservarli malevoli. Tacque immediatamente e sperò che avessero smesso di cantare in tempo. Uno dei poliziotti, un sergente, guardò oltre Walli, che si voltò e vide l’uomo con il berretto rivolgergli un breve cenno del capo. Il sergente si avvicinò ai due ragazzi e disse: «Documenti». L’uomo con il berretto parlò in un walkie-talkie. Walli aggrottò la fronte. A quanto pareva, Karolin aveva avuto ragione: erano stati seguiti. Gli venne in mente che forse dietro quel pedinamento poteva esserci Hans. Possibile che fosse così meschino e vendicativo? Sì, possibilissimo. Il sergente esaminò la carta d’identità di Walli e disse: «Hai solo quindici anni. Non dovresti essere fuori così tardi». Walli si morse la lingua. Non aveva senso mettersi a discutere con quella gente. Il sergente controllò la carta di Karolin. «Tu hai diciassette anni! Cosa ci fai con questo bambino?» Quell’osservazione ricordò a Walli lo scontro con suo padre. «Io non sono un bambino» ribatté arrabbiato. Il sergente lo ignorò. «Potresti uscire con me» disse a Karolin. «Io sono un uomo vero.» Gli altri due Vopo risero, apprezzando la battuta. Karolin non disse nulla, ma il sergente insistette. «Cosa ne dici?» chiese. «Lei deve essere fuori di testa» replicò calma la ragazza. Il Vopo si offese. «Piuttosto maleducata come risposta.» Walli l’aveva già notato in certi uomini. Se una ragazza li respingeva in modo secco e deciso, si indignavano, ma qualsiasi altra risposta veniva interpretata come un incoraggiamento. Cosa si supponeva dovesse fare una donna? «Mi restituisca la carta d’identità, per favore» disse Karolin. «Sei vergine?» domandò il sergente. Karolin arrossì. Gli altri due poliziotti ridacchiarono di nuovo. «Dovrebbero metterlo sulla carta d’identità delle donne» continuò il sergente. «Vergine, non vergine.» «La pianti» intervenne Walli. «Io sono gentile con le vergini.» Walli si sentiva ribollire. «Quell’uniforme non le dà il diritto di molestare le ragazze!» «Ah, davvero?» Il sergente non restituì le carte d’identità. Una Trabant 500 marrone si fermò accanto a loro e ne scese Hans Hoffmann. Walli cominciò ad avere paura. Com’era possibile che fosse finito così nei guai? In fondo non aveva fatto altro che cantare nel parco. Hans si avvicinò e disse: «Fammi vedere quella cosa appesa al collo». Walli raccolse abbastanza coraggio da chiedere: «Perché?». «Perché sospetto che venga usata per contrabbandare propaganda capitalista e imperialista nella Repubblica Democratica Tedesca. Dammela.» La chitarra era così preziosa che Walli, per quanto spaventato, non obbedì. «E se non lo faccio?» chiese. «Verrò arrestato?» Il sergente strofinò le nocche della mano destra sul palmo della sinistra. «Sì, dopo» rispose Hans. Il coraggio di Walli si esaurì. Si passò lo spago sopra la testa e consegnò la chitarra a suo cognato. Hans impugnò lo strumento come per suonarlo, colpì le corde e cantò in inglese: «You ain’t nothing but a hound dog ». “Non sei altro che un cane.” I Vopo risero istericamente. Anche i poliziotti ascoltavano musica pop alla radio, a quanto pareva. Hans spinse la mano sotto le corde e infilò le dita nella buca, cercando di frugare all’interno. «Fai attenzione!» esclamò Walli. La corda del mi cantino si spezzò con un secco ping. «È uno strumento delicato!» insistette Walli, disperato. La perquisizione di Hans era ostacolata dalle corde. «Qualcuno ha un coltello?» chiese. Il sergente infilò una mano all’interno della giacca ed estrasse un coltello dalla lama larga. Di certo non faceva parte della dotazione standard, Walli ne era sicuro. Hans cercò di tagliare le corde, che però erano più resistenti di quanto avesse pensato. Riuscì a spezzare quelle del si e del sol, ma non quelle più spesse. «Non c’è niente dentro!» disse Walli implorante. «Si capisce dal peso.» Hans lo guardò, sorrise e poi calò con violenza il coltello, di punta, sulla tavola armonica, vicino al ponticello. La lama perforò di netto il legno, e Walli gridò di dolore. Compiaciuto dalla reazione, Hans ripeté il gesto, crivellando di buchi la chitarra. Con la superficie ormai indebolita, la tensione delle corde provocò il distacco del ponticello, e del legno intorno, dal corpo dello strumento. Hans strappò di forza ciò che restava della tavola armonica, mettendo in mostra l’interno della chitarra, come una bara vuota. «Niente propaganda» disse. «Congratulazioni: sei innocente.» Tese la chitarra distrutta a Walli, che l’afferrò. Sogghignando, il sergente restituì i documenti. Karolin prese Walli per un braccio e lo trascinò via. «Vieni» disse a bassa voce. «Andiamocene da qui.» Walli si lasciò guidare dalla ragazza. Vedeva a malapena dove stava andando. Non riusciva a smettere di piangere. 4 Il 14 maggio 1961 George Jakes salì a bordo di un autobus Greyhound ad Atlanta, in Georgia. Era una domenica, la Festa della mamma. Aveva paura. Seduta accanto a lui c’era Maria Summers. Si mettevano sempre vicini. Era diventata una cosa normale: tutti sapevano che il posto libero di fianco a George era riservato a Maria. Per nascondere il nervosismo, cominciò a parlare con la ragazza. «Allora, cosa pensi di Martin Luther King?» King era il capo della Southern Christian Leadership Conference, uno dei più importanti gruppi per i diritti civili, che riuniva i leader cristiani degli Stati del Sud. Lo avevano incontrato la sera precedente a cena, in un ristorante di Atlanta di proprietà di neri. «È un uomo straordinario» dichiarò Maria. George non ne era così sicuro. «Ha detto cose meravigliose sui Freedom Riders, però non è qui in autobus con noi.» «Mettiti nella sua posizione» osservò Maria in tono ragionevole. «È il leader di un altro gruppo per i diritti civili. Un generale non può diventare soldato semplice nel reggimento di qualcun altro.» George non aveva mai considerato quel punto di vista. Maria era molto intelligente. Se ne era un po’ innamorato. Cercava disperatamente un’occasione per rimanere solo con lei, ma le persone che ospitavano i Riders a casa loro erano cittadini neri seri e rispettabili, molti anche devoti cristiani, e non avrebbero mai permesso che le loro camere per gli ospiti venissero utilizzate per amoreggiare. E Maria, per quanto fosse attraente, si limitava a sederglisi accanto, chiacchierare con lui e ridere alle sue battute. Non dava mai quei piccoli segnali fisici che rivelano la disponibilità di una donna a essere più di un’amica: non gli sfiorava il braccio, non gli prendeva la mano scendendo dall’autobus, non premeva il proprio corpo contro il suo in mezzo alla folla. Non flirtava. A venticinque anni, era addirittura possibile che fosse ancora vergine. «Hai parlato a lungo con King» disse George. «Se non fosse un predicatore, avrei scommesso che ci stava provando con me» rispose Maria. George non sapeva bene come reagire. Per lui non era affatto sorprendente che un predicatore tentasse un approccio con una ragazza così incantevole. Ma, pensò, Maria era un’ingenua per quanto riguardava gli uomini. «Anch’io ho parlato un po’ con King.» «Cosa ti ha detto?» George esitò. Erano state proprio le parole di King a spaventarlo. Decise di rispondere comunque a Maria: aveva il diritto di sapere. «Secondo lui non ce la faremo a uscire sani e salvi dall’Alabama.» Maria impallidì. «Davvero ha detto così?» «Sono le sue esatte parole.» Adesso erano entrambi spaventati. Il Greyhound uscì dalla stazione degli autobus. Per i primi giorni, George aveva temuto che il Freedom Ride sarebbe stato troppo pacifico. I passeggeri non mostravano alcuna reazione nel vedere persone di colore sedute nei posti sbagliati e, a volte, si univano addirittura ai loro canti. E non era mai successo niente quando i Riders avevano sfidato gli avvisi SOLO BIANCHI e NERI nelle stazioni degli autobus. In alcune città gli avvisi erano perfino stati cancellati con la vernice. George temeva che i segregazionisti avessero messo a punto la strategia perfetta. Non c’erano mai problemi né alcuna pubblicità, e i Riders di colore venivano serviti con cortesia nei ristoranti riservati ai bianchi. Ogni sera scendevano dagli autobus e partecipavano indisturbati alle loro riunioni, di solito in una chiesa, e passavano la notte nelle case dei simpatizzanti. Ma George era sicuro che, non appena lasciavano una città, i cartelli tornavano al loro posto e la segregazione ricominciava. E che il Freedom Ride sarebbe stato solo una perdita di tempo. Era una situazione davvero assurda. Fin da quando poteva ricordare, George si era sentito ferito e infuriato dal continuo messaggio, a volte implicito ma spesso espresso con chiarezza, secondo il quale lui era un essere inferiore. Non faceva differenza che fosse più intelligente del novantanove per cento degli americani bianchi. E neppure che fosse un uomo che lavorava sodo, educato e ben vestito. Veniva guardato dall’alto in basso da bianchi squallidi, troppo stupidi o troppo pigri per fare qualcosa di più complicato che versare da bere o pompare benzina. Non poteva entrare in un grande magazzino, sedersi in un ristorante o presentare domanda per un impiego senza domandarsi se sarebbe stato ignorato, se gli avrebbero ordinato di andarsene o se l’avrebbero respinto a causa del suo colore. Era qualcosa che lo faceva bruciare di risentimento. Ma ora, paradossalmente, era deluso perché non stava succedendo. Nel frattempo la Casa Bianca si mostrava incerta. Il terzo giorno del Ride, il segretario alla Giustizia Robert Kennedy aveva tenuto un discorso all’università della Georgia promettendo di imporre i diritti civili nel Sud. Ma tre giorni dopo suo fratello, il presidente, aveva fatto marcia indietro ritirando il proprio appoggio a due progetti di legge. “È così che vinceranno i segregazionisti?” si era domandato George. “Evitando il confronto e poi ricominciando a comportarsi come al solito?” Non era andata in quel modo. La pace era durata soltanto quattro giorni. Il quinto giorno del Ride uno dei partecipanti era stato arrestato per avere insistito sul proprio diritto a farsi lucidare le scarpe. La violenza era esplosa il sesto giorno. Ne era stato vittima John Lewis, lo studente di teologia, attaccato da un gruppo di delinquenti in una toilette per bianchi a Rock Hill, in South Carolina. Lewis si era lasciato prendere a calci e pugni senza reagire. George non aveva assistito all’incidente, e ciò probabilmente era stato un bene, dato che non sapeva se sarebbe stato all’altezza dell’autocontrollo gandhiano di Lewis. Aveva letto brevi resoconti dell’episodio sui quotidiani del giorno dopo, ma era rimasto deluso nel constatare che la vicenda veniva messa in ombra dal volo suborbitale di Alan Shepard, il primo americano nello spazio. “Chi se ne frega?” aveva pensato acidamente George. Il cosmonauta sovietico Jurij Gagarin era stato il primo uomo nello spazio, meno di un mese addietro. “I russi ci hanno battuto. Un americano bianco può orbitare intorno alla Terra, ma un americano nero non può entrare in un bagno.” Poi, ad Atlanta, i Riders erano scesi dall’autobus accolti dagli applausi di benvenuto di una piccola folla e il morale di George si era risollevato. Ma quella era la Georgia, e ora erano diretti in Alabama. «Perché King ha detto che non usciremo sani e salvi dall’Alabama?» chiese Maria. «Gira voce che il Ku Klux Klan stia preparando qualcosa a Birmingham» rispose cupo George. «A quanto pare, l’FBI è al corrente della cosa, ma non ha fatto niente per impedirla.» «E la polizia locale?» «La polizia locale è nel maledetto Klan.» «Cosa te ne pare di quei due?» Con un piccolo movimento del capo, Maria indicò i posti dall’altra parte della corsia centrale, una fila dietro di loro. George si voltò a guardare i due uomini massicci seduti fianco a fianco. «Cosa vuoi dire?» «Non senti odore di piedipiatti?» George capì cosa intendeva. «Credi che siano dell’ FBI?» «Gli abiti sono troppo dozzinali per due del Bureau. La mia ipotesi è che siano agenti sotto copertura della polizia di Stato dell’Alabama.» George era colpito. «Come hai fatto a diventare così furba?» «Mia madre mi faceva mangiare la verdura. E mio padre fa l’avvocato a Chicago, la capitale dei gangster.» «Quindi cosa pensi che facciano quei due?» «Non so bene, ma non credo che siano qui per difendere i diritti civili, giusto?» George guardò fuori dal finestrino e vide un cartello che annunciava il passaggio del confine con l’Alabama. Controllò l’orologio: erano le tredici. Il sole splendeva in un cielo azzurro. “È un bel giorno per morire” pensò. Maria voleva lavorare in politica o nella pubblica amministrazione. «I dimostranti possono anche far sentire la loro voce, ma alla fine sono i governi a cambiare le sorti del mondo» disse. George rifletté sull’affermazione, chiedendosi se fosse d’accordo. Maria aveva presentato domanda per un impiego presso l’ufficio stampa della Casa Bianca ed era stata convocata per un colloquio, ma non aveva ottenuto il posto. “A Washington non assumono molti avvocati neri” aveva detto in tono triste. “Probabilmente resterò a Chicago ed entrerò nello studio legale di mio padre.” Sull’altro lato della corsia, di fianco a George, sedeva una donna bianca di mezza età in soprabito e cappello, con una grossa borsa bianca di plastica in grembo. George le sorrise e le disse: «Bella giornata per viaggiare in autobus». «Vado a trovare mia figlia a Birmingham» spiegò la donna, anche se non le era stato chiesto nulla. «Mi fa piacere. Io mi chiamo George Jakes.» «Cora Jones. Il bambino di mia figlia dovrebbe nascere tra una settimana.» «Il primo?» «Il terzo.» «Be’, lei mi sembra troppo giovane per essere già nonna, se posso permettermi.» Mrs Jones fece un’espressione compiaciuta. «Ho quarantanove anni.» «Non l’avrei mai detto!» Un Greyhound che viaggiava in direzione opposta alla loro azionò i lampeggianti e l’autobus dei Riders rallentò fino a fermarsi. Un bianco si avvicinò al finestrino dell’autista e George lo sentì dire: «C’è una folla alla stazione degli autobus di Anniston». L’autista rispose qualcosa che George non riuscì a cogliere. «State solo attenti» si raccomandò l’uomo al finestrino. L’autobus dei Riders ripartì. «Cosa significa “una folla”?» chiese Maria in ansia. «Possono essere venti persone o mille. Può essere un comitato di benvenuto o una teppaglia inferocita. Perché non ci ha detto di più?» George intuì che Maria mascherava la paura con l’irritazione. Gli vennero in mente le parole di sua madre: “Ho solo tanta paura che ti uccidano”. Alcuni del movimento sostenevano di essere pronti a morire per la causa della libertà. George non era sicuro di voler diventare un martire. C’erano troppe cose che voleva fare; come, per esempio, andare a letto con Maria. Un minuto dopo entrarono a Anniston, una cittadina come tante altre nel Sud: edifici bassi, strade disposte a griglia, polvere e caldo. C’era gente lungo i lati della strada, come per una parata. Molti erano vestiti a festa, le donne con il cappellino, i bambini ben lustrati. Senza dubbio erano stati in chiesa. «Cosa si aspettano di vedere, persone con le corna?» disse George. «Eccoci qui, gente: autentici negri nordisti, con tanto di scarpe e tutto il resto.» Parlava come rivolgendosi agli spettatori, anche se poteva sentirlo solo Maria. «Siamo venuti a portarvi via tutti i vostri fucili e a insegnarvi il comunismo. Dove vanno a nuotare le ragazze bianche?» Maria ridacchiò. «Se ti sentissero, non capirebbero che stai scherzando.» In realtà George non stava scherzando: era più come fischiettare passando davanti a un cimitero. Cercava di ignorare lo spasmo di paura che gli attanagliava lo stomaco. L’autobus entrò nella stazione, stranamente deserta. L’edificio sembrava chiuso e sbarrato. A George fece venire i brividi. L’autista aprì la portiera dell’autobus. George non vide da dove arrivarono. All’improvviso circondarono l’autobus. Erano bianchi, alcuni in abiti da lavoro, altri con il vestito della domenica. Avevano con sé mazze da baseball, tubi metallici e catene di ferro. E urlavano. Gran parte delle parole era incomprensibile, ma George colse espressioni di odio, tra cui “Sieg Heil!”. Il suo primo impulso fu di andare a chiudere la portiera dell’autobus. Scattò in piedi, ma i due uomini che Maria aveva identificato come agenti di polizia furono più veloci di lui e la serrarono con forza. “Forse sono qui per difenderci” si disse George. “O forse stanno solo difendendo se stessi.” Si guardò intorno dai finestrini. Non vide poliziotti. Come poteva la polizia locale non sapere che una folla armata si era radunata alla stazione degli autobus? Dovevano essere collusi con il Klan. Nessuna sorpresa. Un attimo dopo gli uomini si lanciarono all’attacco dell’autobus. Il fragore prodotto dalle catene e dai piedi di porco che ammaccavano la carrozzeria era spaventoso. Un vetro andò in frantumi e Mrs Jones gridò. L’autista avviò il motore, ma uno degli assalitori si distese a terra, davanti all’autobus. George pensò che l’autista avrebbe potuto semplicemente passargli sopra, invece si fermò. Un sasso ruppe un finestrino e George avvertì un dolore acuto alla guancia, come la puntura di un’ape. Era stato colpito da una scheggia. Maria era seduta vicino a un finestrino: era in pericolo. George l’afferrò per un braccio, tirandola verso di sé. «Mettiti in ginocchio nella corsia!» le gridò. Un uomo sghignazzante armato di tirapugni fece passare la mano dal finestrino di Mrs Jones. «Si metta giù, qui con me!» urlò Maria. Fece abbassare la donna più anziana accanto a sé e l’abbracciò protettiva. Le urla erano sempre più alte. «Comunisti!» gridavano. «Vigliacchi!» «Chinati, George!» disse Maria. George non riusciva a decidersi a cedere davanti a quei teppisti. All’improvviso il trambusto diminuì. I colpi sulle fiancate dell’autobus cessarono e non ci furono più vetri rotti. George vide un agente di polizia. “Era ora” pensò. Il poliziotto faceva oscillare il manganello, ma si era messo a chiacchierare amabilmente con l’uomo sorridente armato di tirapugni. Poi George vide altri tre poliziotti. Avevano calmato la folla ma, notò con indignazione, non stavano facendo altro. Si comportavano come se non fosse stato commesso alcun reato. Parlavano tranquillamente con i teppisti, che sembravano essere loro amici. I due agenti, che erano tornati a sedersi ai loro posti, avevano un’espressione confusa. George immaginò che avessero avuto l’incarico di spiare i Riders, ma che non avessero preso in considerazione la possibilità di diventare loro stessi vittime della violenza della folla. Erano stati costretti a schierarsi a fianco dei Riders per legittima difesa. Forse avrebbero imparato a vedere le cose da un nuovo punto di vista. L’autobus si mosse. Attraverso il parabrezza, George vide che un poliziotto stava sollecitando gli uomini a sgombrare la strada e che un altro faceva segno all’autista di avanzare. Fuori dalla stazione, un’autopattuglia prese posizione davanti all’autobus, facendogli strada per uscire dalla città. George cominciò a sentirsi meglio. «Credo che l’abbiamo scampata» disse. Maria si alzò in piedi, apparentemente illesa. Afferrò il fazzoletto dal taschino della giacca di George e gli asciugò delicatamente il viso. Il cotone bianco si arrossò di sangue. «È un brutto taglio» disse la ragazza. «Sopravvivrò.» «Ma non sarai più così carino.» «Sono carino?» «Lo eri, ma adesso…» Quel momento di normalità non durò a lungo. George guardò la strada dietro di sé e vide una lunga fila di automobili e pick-up che seguivano l’autobus. I veicoli sembravano tutti carichi di uomini urlanti. George gemette. «No, non l’abbiamo scampata.» «A Washington, prima di salire sull’autobus, hai parlato con un ragazzo bianco» disse Maria. «Joseph Hugo. Frequenta giurisprudenza a Harvard. Perché?» «Mi è sembrato di averlo visto fra i teppisti.» «Joseph Hugo? No. Lui è dalla nostra parte. Devi esserti sbagliata.» Però gli venne in mente che Hugo era originario dell’Alabama. «Aveva gli occhi azzurri, sporgenti» disse Maria. «Se è veramente tra gli aggressori, significa che per tutto questo tempo ha finto di sostenere i diritti civili… per spiarci. Ma non può essere un informatore.» «Sei sicuro?» George guardò di nuovo dietro di sé. Al confine della città, la scorta della polizia fece inversione di marcia, ma non gli altri veicoli. Gli uomini a bordo urlavano così forte da sovrastare il rumore dei motori. Fuori città, in un lungo tratto deserto della Highway 202, due auto sorpassarono l’autobus e poi rallentarono, costringendolo a frenare. L’autista tentò di superarle, ma queste presero a scartare da un lato all’altro, bloccandogli la strada. Pallidissima, Cora Jones tremava e stringeva la sua borsa di plastica come se fosse stata un salvagente. «Mi dispiace che l’abbiamo coinvolta in questa storia, Mrs Jones» disse George. «Dispiace anche a me.» Finalmente le auto davanti si spostarono di lato e l’autobus le superò. Ma le traversie non erano finite: il convoglio continuava a seguirli. Poi George sentì un suono familiare, una specie di pop. Quando l’autobus cominciò a sbandare, capì che era scoppiato uno pneumatico. L’autista rallentò fino a fermarsi vicino a un negozio di alimentari che si affacciava sulla strada. George ne lesse il nome: Forsyth & Son. L’autista saltò giù dall’autobus e George lo sentì dire: «Due gomme a terra?». Poi l’uomo entrò nel negozio, presumibilmente per telefonare e chiedere aiuto. George era teso come una corda di violino. Una gomma a terra era solo una foratura, due erano un’imboscata. Com’era prevedibile, le auto del convoglio si erano fermate e stavano scaricando una decina di uomini che, nei loro abiti della festa, urlavano insulti agitando mazze e bastoni, come selvaggi sul sentiero di guerra. George sentì lo stomaco contrarsi di nuovo quando li vide correre verso l’autobus, brutte facce bianche stravolte dall’odio. Capì perché gli occhi di sua madre si erano riempiti di lacrime quando lei aveva parlato dei bianchi del Sud. In testa al branco c’era un adolescente che sollevò un piede di porco sopra la testa e frantumò allegramente un finestrino. Un uomo tentò di salire sull’autobus. Uno dei due passeggeri bianchi corpulenti si piazzò in cima ai gradini ed estrasse un revolver, confermando la teoria di Maria secondo cui i due erano agenti in borghese. L’aggressore arretrò e il poliziotto bloccò la porta. George temette che potesse essere un errore. E se i Riders avessero avuto bisogno di scendere rapidamente? Fuori, gli uomini cominciarono a far oscillare l’autobus, come se volessero rovesciarlo. Tutti urlavano: «Ammazziamo i negri! Ammazziamo i negri!». Le donne sull’autobus stavano gridando. Maria si aggrappò a George in un modo che a lui avrebbe fatto piacere se non avesse temuto per la propria vita. Vide arrivare due agenti in uniforme e sentì crescere la speranza ma, con sua grande rabbia, questi non fecero nulla per riportare l’ordine. Osservò gli agenti in borghese a bordo dell’autobus: sembravano confusi e spaventati. Era chiaro che i due in uniforme non sapevano dei loro colleghi sotto copertura. Evidentemente la polizia dell’Alabama era anche disorganizzata, oltre che razzista. George si chiese disperatamente cosa fare per proteggere Maria e se stesso. Scendere dall’autobus e correre via? Sdraiarsi sul pavimento? Sottrarre la pistola a uno dei due agenti e sparare a qualche bianco? Ogni possibilità sembrava peggiore del non fare niente. Fissò infuriato i due poliziotti all’esterno, che guardavano la scena come se non stesse succedendo nulla di male. Erano tutori dell’ordine, per l’amor di Dio! Cosa pensavano di fare? Se non facevano rispettare la legge, che diritto avevano di indossare quell’uniforme? Poi vide Joseph Hugo. Non c’era possibilità di errore: George conosceva bene quegli occhi azzurri sporgenti. Hugo si avvicinò a uno dei poliziotti e gli parlò, poi tutti e due scoppiarono a ridere. Hugo era una spia. “Se mai uscirò vivo da qui” si disse George “quel verme se ne pentirà.” Gli uomini all’esterno urlarono ai Riders di scendere. George sentì qualcuno gridare: «Venite qui a prendervi quello che vi spetta, amanti dei negri!». Ciò lo convinse che era più al sicuro sull’autobus. Ma non per molto. Uno del gruppo era tornato alla sua auto, aveva aperto il bagagliaio e ora correva verso l’autobus tenendo in mano qualcosa che bruciava. Attraverso un finestrino rotto, scagliò all’interno una specie di fagotto in fiamme che, pochi secondi dopo, esplose in un fumo grigio. Ma non si trattava semplicemente di un fumogeno: la tappezzeria prese fuoco e, nel giro di pochi istanti, dense esalazioni nere cominciarono a soffocare i passeggeri. Una donna urlò. George sentì qualcuno strillare da fuori: «Bruciamo i negri! Friggiamoli!». Tutti cercarono di uscire. La corsia centrale dell’autobus era stipata di persone che boccheggiavano. Alcuni premevano per avanzare, ma sembrava esserci un blocco. George gridò: «Scendiamo dall’autobus! Tutti fuori!». Dalla parte anteriore qualcuno urlò: «La portiera non si apre!». George ricordò che l’agente armato di pistola l’aveva bloccata per impedire agli aggressori di salire. «Dobbiamo saltare dai finestrini!» gridò. «Forza!» Salì in piedi sopra un sedile e, con un calcio, fece cadere all’esterno la maggior parte del vetro che ancora restava. Poi si tolse la giacca e la sistemò sul bordo, in modo da offrire un minimo di protezione dai frammenti ancora conficcati nel telaio del finestrino. Maria continuava a tossire, impotente. «Esco prima io» disse George «così ti prendo al volo quando salti giù.» Afferrandosi allo schienale del sedile per bilanciarsi, salì con i piedi sul bordo del finestrino, si piegò e saltò. Sentì la camicia lacerarsi, impigliata in qualcosa di sporgente, ma non provò dolore e concluse di non essersi ferito. Atterrò sull’erba che fiancheggiava la strada. Spaventati, gli aggressori si erano allontanati dall’autobus in fiamme. George si voltò e tese le braccia in alto, verso Maria. «Arrampicati come ho fatto io!» gridò. Le scarpe della ragazza erano poco robuste, se paragonate alle sue oxford stringate, e fu contento di avere sacrificato la giacca quando vide i piccoli piedi di Maria sul bordo del finestrino. Era più bassa di lui, ma la sua figura femminile era più piena. George fece una smorfia quando la vide passare a fatica dal finestrino e sfiorare con il fianco un frammento di vetro, che però non le lacerò neppure il vestito. Un attimo dopo, la ragazza gli cadde tra le braccia. La resse senza problemi: Maria non era pesante e lui era in buona forma. La posò a terra in piedi, ma la ragazza si lasciò cadere in ginocchio, boccheggiando in cerca d’aria. George si guardò intorno. I teppisti continuavano a tenersi a distanza. Lanciò un’occhiata all’interno dell’autobus. In piedi nella corsia, Cora Jones tossiva, girando su se stessa, troppo scioccata e disorientata per mettersi in salvo. «Cora, venga qui!» gridò George. La donna sentì il proprio nome e lo guardò. «Passi dal finestrino, come abbiamo fatto noi! L’aiuto io!» Cora sembrò capire. Con difficoltà, e continuando a stringere con forza la sua borsa, si alzò in piedi sul sedile. Esitò quando vide i frammenti di vetro intorno al telaio del finestrino, ma indossava un soprabito pesante e sembrò decidere che uno strappo era un rischio minore della morte per soffocamento. Mise un piede sul bordo. George allungò una mano, le afferrò un braccio e tirò. A Cora si strappò il soprabito, ma lei non si ferì. George la posò a terra. La donna avanzò barcollante, chiedendo acqua. «Dobbiamo allontanarci dall’autobus!» gridò George a Maria. «Il serbatoio potrebbe esplodere.» Però Maria era così scossa dalla tosse da non sembrare in grado di muoversi. George le passò un braccio intorno alla schiena, l’altro dietro le ginocchia e la sollevò. La portò verso il negozio di alimentari e la posò a terra quando ritenne di trovarsi a una distanza di sicurezza. Guardò dietro di sé e vide che l’autobus si stava svuotando in fretta. La portiera era stata finalmente aperta e i passeggeri scendevano incespicando. Altri saltavano dai finestrini. Le fiamme aumentavano. Quando scese l’ultimo passeggero, l’interno del veicolo era ormai una fornace. George sentì un uomo gridare qualcosa a proposito del serbatoio e la teppaglia riprese quel grido, strillando: «Sta per esplodere! Adesso sta per esplodere!». Tutti si allontanarono di corsa terrorizzati, sparpagliandosi in direzioni diverse. Poi si sentì un forte rumore sordo, ci fu un’improvvisa e violenta vampata di fiamme e il veicolo tremò per lo scoppio. George era abbastanza sicuro che all’interno non fosse rimasto nessuno e pensò: “Almeno non ci sono stati morti… non ancora”. L’esplosione pareva aver placato la fame di violenza degli aggressori, i quali se ne stavano fermi a guardare l’autobus che bruciava. Una piccola folla di quella che sembrava gente del posto si era radunata davanti al negozio di alimentari. Molti applaudivano i teppisti, ma poi una ragazza uscì dall’edificio con un secchio d’acqua e dei bicchieri di plastica. Diede da bere a Mrs Jones, poi a Maria che, riconoscente, scolò tutto d’un fiato un bicchiere d’acqua e ne chiese un altro. Le si avvicinò un giovane bianco dall’espressione preoccupata. Aveva una faccia da roditore: fronte e mento sfuggenti, il naso appuntito, i denti sporgenti e i capelli castano rossicci lisciati all’indietro con la brillantina. «Come ti senti, cara?» chiese a Maria. Ma nascondeva qualcosa e, mentre lei stava per rispondere, sollevò un piede di porco e poi lo calò, mirando alla testa della ragazza. George tese di scatto un braccio per proteggere Maria e l’attrezzo lo colpì con violenza sull’avambraccio sinistro. Il dolore fu tremendo, e George gridò. L’uomo sollevò di nuovo il piede di porco. Nonostante il braccio ferito, George si scagliò contro di lui con la spalla destra e lo colpì così forte da farlo quasi volare via. Si voltò verso Maria e vide altri tre teppisti correre nella sua direzione, chiaramente decisi a vendicare il loro amico con la faccia da topo. George aveva sbagliato a pensare che i segregazionisti avessero già fatto il pieno di violenza. Era abituato al corpo a corpo. Durante i primi anni di università aveva fatto parte della squadra di lotta di Harvard, che poi era passato ad allenare. Ma quello non sarebbe stato un incontro leale, basato sulle regole. E lui aveva un solo braccio disponibile. Era anche vero, però, che aveva frequentato le elementari nei bassifondi di Washington e sapeva come battersi in modo sporco. I tre puntavano su di lui affiancati, per cui George si spostò di lato. La mossa non solo li allontanò da Maria, ma li fece voltare, costringendoli a procedere in fila. Il primo dei tre sferrò un colpo selvaggio con una catena di ferro. Quasi in un passo di danza, George saltò all’indietro e la catena lo mancò. Per via dello slancio, il suo aggressore perse l’equilibrio. Mentre barcollava, George gli mollò un calcio alle gambe, facendolo crollare a terra. L’uomo lasciò andare la catena. Il secondo assalitore inciampò sul primo. George fece un passo avanti, si voltò di schiena e lo colpì in faccia con il gomito destro, sperando di slogargli la mandibola. L’uomo emise un grido soffocato e stramazzò a terra, lasciando cadere la sua leva per pneumatici. Il terzo aggressore si fermò, improvvisamente spaventato. George fece un passo verso di lui e gli sferrò un pugno in faccia con tutta la forza che aveva. Lo centrò in pieno sul naso. Le ossa si frantumarono, il sangue sgorgò e l’uomo lanciò un urlo di dolore. Era il colpo di maggior soddisfazione che George avesse mai inferto in vita sua. Al diavolo Gandhi. A quel punto risuonarono due spari e tutti si voltarono. Uno degli agenti in uniforme aveva la pistola puntata in aria. «Okay, ragazzi, vi siete divertiti abbastanza» disse. «Adesso andiamocene.» George era furibondo. Divertiti? Quel poliziotto era stato testimone di un tentato omicidio e parlava di divertimento? Stava cominciando a rendersi conto che in Alabama un’uniforme di polizia non significava molto. I teppisti tornarono alle loro auto. George si accorse con rabbia che nessuno dei quattro poliziotti si prendeva il disturbo di annotare i numeri di targa e neppure i nomi, anche se probabilmente conoscevano tutti. Joseph Hugo era svanito. Ci fu un’altra esplosione in ciò che restava dell’autobus e George immaginò che provenisse da un secondo serbatoio. In ogni caso a quel punto nessuno era abbastanza vicino da essere in pericolo. Poi le fiamme sembrarono esaurirsi da sole. C’erano parecchie persone distese a terra, molte delle quali respiravano ancora a fatica dopo avere inalato il fumo. Altre perdevano sangue da ferite di vario tipo. Alcuni erano Riders, altri normali passeggeri, bianchi e neri. George si reggeva con la mano destra il braccio sinistro, premendoselo contro il fianco e cercando di tenerlo ben fermo perché ogni movimento gli provocava dolori atroci. I quattro con cui si era azzuffato si stavano aiutando a vicenda per tornare zoppicando alle loro auto. George riuscì a camminare fino al punto in cui si trovavano i poliziotti. «Serve un’ambulanza» disse. «Forse due.» Il più giovane degli agenti in uniforme lo guardò sprezzante. «Come, scusa?» «Queste persone hanno bisogno di cure mediche. Chiami un’ambulanza!» L’agente sembrò infuriarsi e George capì di avere commesso l’errore di dire a un bianco cosa doveva fare. Ma il poliziotto più anziano cercò di rabbonire il collega: «Lascia perdere, dài». Poi si rivolse a George: «Sarà qui tra poco, ragazzo». Pochi minuti dopo arrivò un’ambulanza che aveva le dimensioni di un piccolo autobus e i Riders cominciarono ad aiutarsi a vicenda per salire a bordo. Ma quando si avvicinarono anche George e Maria, l’autista disse: «Voi no». George lo guardò incredulo. «Cosa?» «Questa è un’ambulanza per bianchi» tagliò corto l’autista. «Non carico negri.» «Fesserie!» «Non fare l’insolente con me, ragazzo.» Un Rider bianco che si trovava già a bordo scese dall’ambulanza. «Lei deve portare tutti in ospedale» disse all’autista. «Bianchi e neri.» «Questa non è un’ambulanza per negri» ribadì ostinato l’autista. «Be’, noi non ce ne andiamo senza i nostri amici.» E, uno per uno, i Riders bianchi cominciarono a scendere dall’ambulanza. L’autista venne colto alla sprovvista. George pensò che avrebbe fatto la figura dell’idiota se fosse rientrato in ospedale senza pazienti a bordo. L’agente più anziano si avvicinò. «È meglio che li carichi tutti, Roy.» «Se lo dici tu» disse l’autista. George e Maria salirono sull’ambulanza. Mentre si allontanavano, George si voltò a guardare l’autobus. Non restava nulla, a parte un filo di fumo e una carcassa annerita, con i montanti bruciacchiati del tetto che spiccavano come le coste di un martire arso sul rogo. 5 Tanja Dvorkina partì da Jakutsk in Siberia – la città più fredda del mondo – la mattina presto, subito dopo colazione. Volò a Mosca, distante circa cinquemila chilometri, a bordo di un Tupolev Tu-16 dell’aviazione sovietica. La cabina era stata pensata per ospitare cinque o sei militari e il progettista non aveva perso tempo a preoccuparsi per la loro comodità: i sedili erano di alluminio forato e non c’era alcun sistema di insonorizzazione. Il volo durò otto ore, compreso uno scalo per fare rifornimento. Dato che Mosca era sei ore indietro rispetto a Jakutsk, Tanja atterrò in tempo per un’altra colazione. Era estate a Mosca, così si tolse il cappotto pesante e il colbacco. Prese un taxi per raggiungere la Casa del governo, il palazzo di appartamenti riservato alla privilegiata élite moscovita dove abitava con sua madre Anja e il fratello gemello Dmitrij, che tutti chiamavano Dimka. Il loro era un appartamento grande, con tre camere da letto, anche se sua madre sosteneva che era spazioso solo in base agli standard sovietici: l’appartamento di Berlino dove aveva vissuto da bambina, quando nonno Grigorij faceva il diplomatico, era molto più ampio. Quella mattina la casa era deserta e silenziosa: sua madre e Dimka erano già usciti per andare al lavoro. I loro soprabiti erano nell’ingresso, appesi ai chiodi piantati dal padre di Tanja un quarto di secolo prima: l’impermeabile nero di Dimka e il cappotto di tweed marrone della mamma lasciati a casa per il clima caldo. Tanja appese il proprio accanto agli altri e portò la valigia in camera sua. Non si era aspettata di trovare qualcuno in casa, ma provò comunque una punta di rammarico per il fatto che sua madre non fosse lì a prepararle il tè e che Dimka non potesse ascoltare le sue avventure in Siberia. Pensò di andare a trovare i nonni, Grigorij e Katerina, che abitavano a un altro piano nello stesso edificio, ma decise che non ne aveva il tempo. Fece la doccia, si cambiò d’abito e poi prese un autobus per raggiungere la sede della TASS. Tanja era una degli oltre mille giornalisti che lavoravano per l’agenzia di stampa sovietica, ma non molti di loro se ne andavano in giro volando su jet militari. Lei era una stella in ascesa, in grado di preparare reportage vivaci e interessanti che, pur piacendo ai più giovani, seguivano rigorosamente la linea del partito. Una qualità che presentava vantaggi e svantaggi: le venivano spesso assegnati difficili incarichi di alto profilo. In mensa mangiò una ciotola di kaša di grano saraceno con panna acida, poi andò alla redazione in cui lavorava. Anche se era una promessa del giornalismo, non si era ancora guadagnata un ufficio tutto suo. Salutò i colleghi, si sedette a una scrivania, inserì fogli bianchi e carta carbone nella macchina per scrivere e cominciò a battere sui tasti. Il volo era stato troppo turbolento anche solo per buttare giù qualche nota, ma Tanja aveva già elaborato nella mente i suoi articoli e adesso era in grado di scrivere spedita, consultando ogni tanto il taccuino per i dettagli. Le istruzioni che aveva ricevuto erano di incoraggiare le giovani famiglie sovietiche a emigrare in Siberia per lavorare nel settore minerario e in quello delle trivellazioni, in grande espansione: un compito non facile. I campi di prigionia fornivano moltissima mano d’opera non specializzata, ma la regione aveva bisogno di geologi, ingegneri, topografi, architetti, chimici e dirigenti. Nel suo articolo, tuttavia, Tanja lasciò da parte gli uomini e scrisse delle loro mogli. Cominciò con una simpatica, giovane madre di nome Klara che le aveva parlato con entusiasmo e umorismo di come adattarsi a una vita a temperature molto al di sotto dello zero. A metà mattina Daniil Antonov, il caposervizio a cui faceva riferimento Tanja, raccolse i fogli dalla vaschetta sulla scrivania e cominciò a leggere. Era un uomo minuto e i suoi modi gentili erano insoliti nel mondo del giornalismo. «Magnifico» disse dopo un po’. «Quando avrò il resto?» «Sto scrivendo più in fretta che posso.» Antonov non se ne andò. «Mentre eri in Siberia, hai sentito qualcosa a proposito di Ustin Bodian?» Bodian era un cantante d’opera che era stato sorpreso a contrabbandare in Unione Sovietica due copie del Dottor Živago che si era procurato mentre si esibiva in Italia. Ora si trovava in un campo di lavoro. Il cuore di Tanja, che si sentì colta in flagrante, accelerò i battiti. Daniil sospettava di lei? Era insolitamente intuitivo per essere un uomo. «No» mentì. «Perché me lo chiedi? Tu hai sentito qualcosa?» «No, niente.» Daniil tornò alla sua scrivania. Tanja aveva quasi finito il terzo articolo quando Pëtr Opotkin si fermò di fianco alla scrivania e cominciò a leggere, con una sigaretta che gli pendeva dalle labbra. Massiccio e con una brutta carnagione, Opotkin era il caporedattore dei servizi speciali. A differenza di Daniil, non era un vero giornalista, bensì un commissario, nominato dai politici. Il suo compito era assicurarsi che i servizi non violassero le linee guida del Cremlino e la sua unica qualifica per l’incarico era una rigida ortodossia. Lette le prime pagine di Tanja commentò: «Ti avevo detto di non scrivere niente sul clima». Opotkin proveniva da un paese a nord di Mosca e aveva ancora l’accento della Russia settentrionale. Tanja sospirò. «Pëtr, la serie di articoli riguarda la Siberia. La gente sa già che lì fa freddo. Nessuno ci cascherebbe.» «Ma questo pezzo è tutto sul clima.» «È su una giovane moscovita piena di risorse che sta crescendo la sua famiglia in condizioni difficili… e che sta vivendo una grande avventura.» Daniil si unì alla conversazione. «Tanja ha ragione, Pëtr» disse. «Se evitiamo qualsiasi accenno al freddo, la gente dirà che l’articolo è una stronzata e non crederà più a una sola parola.» «Non mi piace» ribadì ostinato Opotkin. «Devi ammettere che Tanja fa sembrare tutto eccitante» insistette Daniil. Opotkin sembrò riflettere. «Forse hai ragione» ammise e lasciò cadere le pagine nel vassoio. «Sabato sera darò una festa a casa mia» disse a Tanja. «Mia figlia si è diplomata. Mi chiedevo se a te e a tuo fratello farebbe piacere venire.» Opotkin era un arrampicatore sociale di scarso successo che dava feste mortalmente noiose. Tanja sapeva di poter parlare anche per conto di suo fratello. «Sarei venuta molto volentieri, e sono sicura che sarebbe venuto volentieri anche Dimka, ma sabato è il compleanno di nostra madre. Mi dispiace tanto.» Opotkin sembrò offeso. «Peccato» disse e se ne andò. Quando Opotkin fu abbastanza lontano da non sentire, Daniil le chiese: «Non è il compleanno di tua madre, vero?». «No.» «Controllerà.» «Così capirà che ho inventato una scusa gentile perché non volevo andare.» «Dovresti andare alle sue feste.» Tanja non voleva lasciarsi coinvolgere in quella conversazione. Aveva cose più importanti in mente. Doveva scrivere i suoi articoli, uscire da lì e andare a salvare la vita di Ustin Bodian. Ma Daniil era un buon capo e aveva una mentalità liberale, così represse l’impazienza. «A Pëtr non importa se io partecipo o no alla sua festa» disse. «A lui interessa mio fratello, che lavora per Chrušcëv.» Tanja era abituata a gente che cercava di farsela amica solo a causa della sua famiglia influente. Suo padre prima di morire era stato colonnello del KGB, la polizia segreta, e lo zio Volodja era un generale dei servizi segreti dell’Armata rossa. Daniil possedeva la perseveranza del giornalista. «Pëtr ce l’ha data vinta con gli articoli sulla Siberia. Dovresti dimostrargli la tua gratitudine.» «Odio le sue feste. I suoi amici si ubriacano e allungano le mani sulle mogli altrui.» «Non voglio che ti porti rancore.» «Perché dovrebbe?» «Tu sei molto affascinante.» Daniil non ci stava provando: viveva con un amico e Tanja era sicura che fosse uno di quegli uomini che non si sentivano attratti dalle donne. Il suo tono era pratico. «Sei bella, piena di talento e, quel che è peggio, giovane. Per Pëtr non sarà difficile arrivare a odiarti. Sforzati di essere un po’ più gentile con lui.» Si allontanò. Tanja si rese conto che probabilmente Daniil aveva ragione, ma decise che ci avrebbe pensato più tardi. Riportò l’attenzione sulla macchina per scrivere. A mezzogiorno andò a prendere in mensa un’insalata di patate con aringhe in salamoia e mangiò alla scrivania. Appena terminato il terzo articolo, consegnò i fogli a Daniil. «Vado a casa a dormire» annunciò. «Per favore, non telefonare.» «Bel lavoro. Riposati.» Tanja mise il suo taccuino nella borsa a tracolla e uscì dall’edificio. Doveva assicurarsi di non essere seguita. Era stanca e quindi avrebbe potuto commettere più facilmente degli errori. Era preoccupata. Superò la fermata del suo autobus, camminò per diversi isolati fino alla fermata precedente della stessa linea e fu lì che salì. Un percorso insensato, che però le permetteva di capire se qualcuno la stesse seguendo. Non vide nessuno. Scese vicino a un grande palazzo prerivoluzionario, ora ristrutturato e suddiviso in appartamenti. Fece il giro dell’isolato, ma a quanto pareva nessuno stava sorvegliando l’edificio. In ansia, fece un altro giro per essere sicura, poi entrò nel lugubre atrio e salì la scala di marmo crepato fino all’appartamento di Vasilij Enkov. Proprio mentre stava per inserire la chiave nella serratura, la porta si aprì e le comparve davanti una bionda slanciata sui diciotto anni. Vasilij era dietro la ragazza. Tanja imprecò dentro di sé. Era troppo tardi per correre via o fingere di essere diretta a un altro appartamento. La bionda esaminò Tanja con una dura occhiata, valutandone la pettinatura, la figura e l’abbigliamento. Poi baciò Vasilij sulla bocca, lanciò un ultimo sguardo di trionfo a Tanja e scese le scale. Vasilij aveva trent’anni, ma gli piacevano le ragazze giovani, le quali gli si concedevano sempre perché era alto e affascinante, con bei lineamenti cesellati, folti capelli scuri, sempre un po’ troppo lunghi, e languidi occhi castani da seduttore. Tanja lo ammirava per una serie di ragioni completamente diverse: Vasilij era intelligente, coraggioso e uno scrittore di classe mondiale. Entrò nel suo studio e lasciò cadere la borsa su una sedia. Vasilij lavorava come sceneggiatore alla radio ed era disordinato per natura. La scrivania era ingombra di carte e sul pavimento c’erano pile di libri. Sembrava che stesse lavorando a un adattamento radiofonico di Piccoli borghesi, la prima commedia di Maksim Gor’kij. La gatta grigia di Vasilij, Mademoiselle, dormiva sul divano. Tanja la cacciò via e si sedette al suo posto. «Chi era quella puttanella?» domandò. «Mia madre.» Nonostante l’irritazione, Tanja scoppiò a ridere. «Mi dispiace che tu l’abbia trovata qui» disse Vasilij, anche se non sembrava molto rammaricato. «Sapevi che oggi sarei venuta.» «Pensavo che arrivassi più tardi.» «Mi ha visto in faccia. E nessuno dovrebbe sapere che esiste un collegamento fra noi due.» «Quella ragazza lavora ai grandi magazzini GUM. Si chiama Varvara. Non sospetterà niente.» «Per favore, Vasilij, fa’ che non succeda mai più. Quello che facciamo è già abbastanza pericoloso. Non dovremmo correre ulteriori rischi. Puoi scoparti un’adolescente quando vuoi.» «Hai ragione, e non succederà più. Vado a prepararti il tè. Hai l’aria stanca.» Vasilij si diede da fare con il samovar. «Sì, sono stanca, ma Ustin Bodian sta morendo.» «Accidenti. Di cosa?» «Polmonite.» Tanja non era amica di Bodian, ma lo aveva intervistato prima che si cacciasse nei guai. Oltre ad avere un talento straordinario, era un uomo cordiale e di buon cuore. Quale artista sovietico ammirato in tutto il mondo, aveva vissuto una vita di grandi privilegi, ma era comunque stato capace di arrabbiarsi pubblicamente per le ingiustizie imposte a chi era meno fortunato di lui. Era quella la ragione per cui lo avevano spedito in Siberia. «Lo fanno ancora lavorare?» chiese Vasilij. Tanja scosse la testa. «Non è più in grado. Ma non lo ricoverano in ospedale. Se ne sta semplicemente disteso sulla sua branda tutto il giorno e continua a peggiorare.» «L’hai visto?» «Accidenti, no. È stato già abbastanza pericoloso chiedere sue notizie. Se fossi andata al campo di prigionia, mi avrebbero trattenuta là.» Vasilij le porse il tè e lo zucchero. «Non riceve cure mediche?» «No.» «Hai idea di quanto gli resti da vivere?» «No. Adesso sai tutto quello che so io.» «Dobbiamo divulgare la notizia.» Tanja era d’accordo. «L’unico modo per salvargli la vita è rendere pubblico il suo stato di salute e sperare che il governo abbia la decenza di sentirsi in imbarazzo.» «Facciamo uscire un’edizione speciale?» chiese Vasilij. «Sì. Oggi.» Vasilij e Tanja realizzavano insieme un notiziario illegale di un solo foglio intitolato “Dissidenza”, nel quale riferivano sulla censura, le dimostrazioni, i processi e i detenuti politici. Nel suo ufficio a Radio Mosca, Vasilij disponeva di un proprio ciclostile, che di solito veniva usato per riprodurre i copioni. In segreto, Vasilij ciclostilava cinquanta copie di ogni numero di “Dissidenza”. Quasi tutti coloro che ne ricevevano una copiavano a loro volta i testi con la macchina per scrivere, o anche a mano, e il notiziario si diffondeva a macchia d’olio. Quel sistema di pubblicazione clandestino, che in russo si chiamava samizdat, era molto diffuso: interi romanzi erano stati distribuiti nello stesso modo. «Scrivo io.» Tanja andò alla credenza e tirò fuori un grande scatolone pieno di cibo secco per gatti. Tuffò le mani tra i croccantini e sollevò una macchina per scrivere protetta dalla custodia. Era quella che usavano per “Dissidenza.” La scrittura a macchina era unica, come la grafia. Ogni macchina per scrivere aveva le proprie caratteristiche. Le lettere non erano mai perfettamente allineate: alcune erano un po’ più alte, altre fuori centro. I singoli caratteri si usuravano o si danneggiavano in modi diversi e particolari. Di conseguenza gli esperti della polizia erano in grado di individuare la corrispondenza tra una determinata macchina per scrivere e il suo prodotto. Se “Dissidenza” fosse stato battuto sulla stessa macchina dei copioni di Vasilij, qualcuno avrebbe potuto accorgersene, per cui Vasilij aveva rubato un vecchio esemplare dall’ufficio programmazione, se lo era portato a casa e lo aveva sepolto sotto il cibo per gatti per nasconderlo a un’occhiata casuale. Una perquisizione approfondita avrebbe scovato la macchina per scrivere, ma se fosse arrivata una perquisizione approfondita Vasilij sarebbe stato comunque finito. Nello scatolone c’erano anche fogli della speciale carta cerata per ciclostile: le matrici. La macchina per scrivere era priva di nastro: i tasti perforavano la matrice e il ciclostile agiva facendo passare l’inchiostro attraverso i profili dei caratteri. Tanja scrisse un servizio su Bodian sottolineando che il segretario generale Nikita Chrušcëv sarebbe stato personalmente responsabile se uno dei più grandi tenori dell’Unione Sovietica fosse morto in un campo di prigionia. Riassunse i punti principali del processo Bodian per attività antisovietiche, citando l’appassionata difesa della libertà artistica fatta dal cantante. E, per allontanare i sospetti da se stessa, accreditò in modo fuorviante le informazioni sulla malattia di Bodian a un immaginario melomane del KGB. Quando ebbe finito, tese due matrici a Vasilij. «Sono stata concisa.» «La concisione è sorella del talento. Lo ha detto Cechov.» Lui lesse lentamente l’articolo, poi annuì in segno di approvazione. «Vado subito a Radio Mosca per fare le copie» disse. «Poi dovremmo portarle in piazza Majakovskij.» Tanja non restò sorpresa, ma si sentì a disagio. «È sicuro?» «Naturalmente no. Non è certo un evento culturale organizzato dal governo. Proprio per questo quella piazza fa al caso nostro.» All’inizio dell’anno giovani moscoviti avevano cominciato a ritrovarsi informalmente intorno alla statua del poeta Vladimir Majakovskij. Alcuni leggevano componimenti ad alta voce, richiamando altra gente e dando vita a un festival permanente della poesia. Certe opere declamate dal monumento esprimevano una critica indiretta al governo. Un fenomeno del genere sarebbe durato dieci minuti sotto Stalin, ma Chrušcëv era un riformatore. Il suo programma comprendeva un limitato grado di tolleranza culturale e fino a quel momento non era stata presa alcuna misura contro le letture di poesie. Ma la liberalizzazione procedeva facendo due passi avanti e uno indietro. Il fratello di Tanja diceva che dipendeva dalla popolarità di Chrušcëv: cioè se lui se la stava cavando bene e si sentiva politicamente forte oppure se incontrava ostacoli e temeva un colpo di Stato da parte dei suoi nemici conservatori al Cremlino. Qualunque fosse la ragione, non c’era modo di prevedere ciò che avrebbero fatto le autorità. Tanja era troppo stanca per pensarci e si disse che qualsiasi altro luogo sarebbe stato altrettanto pericoloso. «Mentre sei alla radio, io dormo un po’.» Andò in camera. Le lenzuola erano spiegazzate: Tanja immaginò che Vasilij e Varvara avessero trascorso la mattinata a letto. Tirò su il copriletto, si tolse gli stivali e si distese. Era stanca fisicamente, ma la mente era attivissima. Benché avesse paura, voleva comunque andare in piazza Majakovskij. “Dissidenza” era una pubblicazione importante, nonostante la stampa dilettantesca e la circolazione limitata: dimostrava che il governo comunista non era onnipotente. Dimostrava ai dissidenti che non erano soli. Leader religiosi in lotta contro le persecuzioni leggevano di cantanti folk arrestati per le loro canzoni di protesta, e viceversa. Invece di sentirsi una voce solitaria in una società monolitica, il dissidente si rendeva conto di essere parte di una grande rete, migliaia di persone che volevano un governo diverso e migliore. E “Dissidenza” poteva salvare la vita a Ustin Bodian. Finalmente Tanja si addormentò. Fu svegliata da qualcuno che le accarezzava una guancia. Aprì gli occhi e vide Vasilij disteso al suo fianco. «Lascia perdere» gli disse. «Questo è il mio letto.» Tanja si mise a sedere. «Io ho ventidue anni… troppi per poterti interessare.» «Per te farò un’eccezione.» «Quando vorrò entrare in un harem, te lo farò sapere.» «Per te rinuncerei a tutte le altre.» «Figurati.» «Lo farei, davvero.» «Forse per cinque minuti.» «Per sempre.» «Facciamo sei mesi e potrei ripensarci.» «Sei mesi?» «Visto? Se non riesci a restare casto per mezzo anno, come puoi promettere di esserlo per sempre? Ma che accidente di ora è?» «Hai dormito per tutto il pomeriggio. Non alzarti: mi svesto e mi infilo a letto con te.» Tanja si alzò. «Dobbiamo andare.» Vasilij rinunciò. Era probabile che non avesse parlato seriamente: era solo che si sentiva obbligato a provarci con le ragazze. Avendo fatto il suo numero, ora non ci avrebbe più pensato, almeno per un po’. Porse a Tanja un piccolo fascio di circa venticinque fogli, stampati su entrambe le facciate con caratteri leggermente sbavati: le copie del nuovo numero di “Dissidenza”. Si passò una sciarpa rossa di cotone intorno al collo, nonostante il clima mite. Pensava gli desse un’aria da artista. «Allora muoviamoci» disse. Tanja lo fece aspettare mentre andava in bagno. Il viso nello specchio la guardò con due intensi occhi azzurri, incorniciati dai capelli biondo chiaro dal taglio corto e sbarazzino. Inforcò gli occhiali da sole e si legò sopra i capelli un’anonima sciarpa marrone. Adesso era una giovane donna qualunque. Andò in cucina, ignorando Vasilij che batteva il piede impaziente, e riempì un bicchiere con l’acqua del rubinetto. La bevve tutta e annunciò: «Sono pronta». Camminarono fino alla stazione della metropolitana. Il treno era gremito di lavoratori che tornavano a casa. Scesero alla stazione Majakovskij sull’Anello dei giardini. Non si sarebbero trattenuti a lungo in zona: non appena avessero distribuito tutte e cinquanta le copie del nuovo notiziario, se ne sarebbero andati. «Ricorda: se dovesse esserci qualche problema» disse Vasilij «noi due non ci conosciamo.» Si separarono e riemersero in superficie a distanza di un minuto uno dall’altra. Il sole era basso e la giornata estiva si stava rinfrescando. Vladimir Majakovskij era stato non solo un poeta di statura internazionale, ma anche un bolscevico, e l’Unione Sovietica era orgogliosa di lui. La sua eroica statua si ergeva per sei metri al centro della piazza che portava il suo nome. Parecchie centinaia di persone passeggiavano sull’erba; erano per lo più giovani, alcuni vestiti in stile vagamente occidentale, in blue jeans e maglioni a collo alto. Un ragazzo con un berretto in testa stava vendendo un suo romanzo: i fogli erano copie carbone, forate lungo un margine e tenute insieme da uno spago. Il titolo era Crescere all’indietro. Una ragazza con i capelli lunghi aveva una chitarra con sé, ma non dava segni di volerla suonare; forse lo strumento era un accessorio, come una borsetta. C’era un unico agente in uniforme, ma quelli della polizia segreta erano ridicolmente vistosi con le loro giacche di pelle, indossate nell’aria mite solo per nascondere le armi. Tanja comunque evitò di incontrare i loro sguardi: non erano poi così divertenti. A turno, i poeti si alzavano in piedi e recitavano una o due poesie a testa. Erano quasi tutti uomini, ma c’era anche qualche donna. Un ragazzo dal sorriso malizioso lesse un brano su un maldestro agricoltore che cercava di radunare e dirigere un gruppo di oche e il pubblico si rese subito conto che si trattava di una metafora: il Partito comunista che cercava di organizzare la nazione. Ben presto tutti iniziarono a ridere fragorosamente, tutti tranne gli uomini del KGB, che sembravano solo perplessi. Tanja cominciò a muoversi inosservata tra il pubblico, ascoltando distrattamente una poesia di angoscia adolescenziale nello stile futurista di Majakovskij. Estraeva dalla tasca un foglio alla volta e, con discrezione, lo faceva scivolare in mano a chiunque avesse un aspetto amichevole. Teneva anche d’occhio Vasilij, che stava facendo la stessa cosa. Quasi subito si sentirono esclamazioni di shock e preoccupazione mentre la gente cominciava a parlare di Bodian: in un contesto come quello, quasi tutti sapevano chi era e perché era stato imprigionato. Tanja distribuiva i fogli con la massima velocità possibile, ansiosa di liberarsene prima che i poliziotti avessero sentore di quello che stava succedendo. Un uomo dai capelli corti che sembrava un ex militare si piazzò davanti al pubblico e, invece di recitare una poesia, cominciò a leggere ad alta voce l’articolo su Bodian. Tanja ne fu contenta: la notizia si stava diffondendo più rapidamente di quanto avesse sperato. Ci furono grida di indignazione quando l’uomo arrivò al punto in cui si denunciava che Bodian non riceveva cure mediche. Ma gli uomini in giacca di pelle percepirono il cambiamento di atmosfera e si fecero più attenti. Tanja vide uno di loro parlare con urgenza in un walkie-talkie. Le erano rimasti cinque fogli, e le stavano bruciando nella tasca. Gli agenti della polizia segreta si erano tenuti ai margini della folla, ma ora si fecero avanti, convergendo sull’oratore. L’uomo agitò con aria di sfida la sua copia di “Dissidenza”, gridando informazioni su Bodian mentre i poliziotti si avvicinavano. Diversi spettatori si ammassarono intorno al basamento della statua, rendendo più difficile la loro avanzata. Gli uomini del KGB reagirono facendosi più rudi e spintonando la gente per aprirsi un varco. Era così che cominciavano le rivolte. Tanja arretrò nervosamente verso il margine esterno della folla. Aveva ancora una copia di “Dissidenza”. La lasciò cadere a terra. In quel momento comparvero sei poliziotti in uniforme. Chiedendosi spaventata da dove arrivassero, Tanja guardò l’edificio più vicino sull’altro lato della strada e vide altri agenti precipitarsi fuori dal portone: dovevano essere rimasti nascosti all’interno, in attesa di essere eventualmente chiamati in azione. Impugnarono i manganelli e si fecero strada in mezzo alla ressa, colpendo in modo indiscriminato la gente. Tanja vide Vasilij che si voltava e si allontanava, avanzando nella calca con la maggiore rapidità possibile. Fece lo stesso anche lei. Poi un’adolescente in preda al panico le sbatté contro con violenza, facendola cadere a terra. Per un momento Tanja rimase intontita. Quando la visione le si schiarì, vide altre persone che correvano. Si mise in ginocchio, ma le girava la testa. Qualcuno inciampò su di lei, rimandandola lunga distesa. Poi, all’improvviso, Vasilij l’afferrò con entrambe le mani e la sollevò. Tanja rimase sorpresa: non si sarebbe mai aspettata che lui mettesse a rischio la propria sicurezza per aiutarla. In quel momento un poliziotto colpì Vasilij alla testa con il manganello e lui crollò. Il poliziotto si inginocchiò, gli portò le braccia dietro la schiena e lo ammanettò con gesti rapidi ed esperti. Vasilij alzò lo sguardo, incontrò quello di Tanja e con le labbra mimò: “Scappa!”. Tanja si voltò e cominciò a correre, ma un istante dopo si scontrò con un poliziotto in uniforme, che la prese per un braccio. Lei cercò di liberarsi, gridando: «Lasciami andare!». Il poliziotto strinse ulteriormente la presa e disse: «Sei in arresto, puttana». 6 La Sala Nina Onilova del Cremlino doveva il proprio nome a una donna mitragliere caduta durante l’assedio di Sebastopoli. Su una parete c’era la foto in bianco e nero incorniciata di un generale dell’Armata rossa che posava la medaglia dell’Ordine della Bandiera rossa sulla sua tomba. La foto era appesa sopra un caminetto di marmo, sporco e macchiato come le dita di un fumatore. In tutta la sala, elaborate decorazioni in stucco incorniciavano rettangoli di vernice più chiara: erano i punti dove un tempo erano stati appesi altri quadri, e ciò indicava che le pareti non erano più state imbiancate dall’epoca della rivoluzione. Forse un tempo quel locale era stato un salone elegante. Ora era arredato con tavoli da mensa uniti a formare un lungo rettangolo e una ventina di sedie a buon mercato. Sui tavoli c’erano portacenere di ceramica che davano l’impressione di venire svuotati quotidianamente, ma mai lavati. Dimka Dvorkin entrò nella sala con un turbine nella mente e un nodo allo stomaco. Era quello il luogo in cui si tenevano abitualmente le riunioni degli assistenti dei ministri e dei segretari che formavano il Presidium del Soviet supremo, l’organo di governo dell’URSS. Dimka era un assistente di Nikita Chrušcëv, primo segretario e presidente del Presidium, ma aveva comunque la sensazione che non avrebbe dovuto trovarsi lì. Mancavano poche settimane al vertice di Vienna. Sarebbe stato il primo spettacolare incontro tra Chrušcëv e John Kennedy, il nuovo presidente americano. L’indomani, nel corso del più importante Presidium dell’anno, i leader dell’URSS avrebbero deciso la strategia da adottare al vertice. Quel giorno gli assistenti si riunivano per prepararsi. Era un incontro di pianificazione di un incontro di pianificazione. Il rappresentante di Chrušcëv doveva esporre il pensiero del capo in modo che gli altri assistenti potessero preparare i rispettivi superiori per il giorno seguente. Aveva anche il compito segreto di scoprire qualsiasi opposizione latente alle idee di Chrušcëv e, se possibile, demolirla. Era suo solenne dovere fare in modo che la discussione dell’indomani si svolgesse senza problemi per il leader. Dimka conosceva bene le idee di Chrušcëv a proposito del summit, ciò nonostante sentiva di non essere in grado di cavarsela in quella riunione. Era il più giovane e il più inesperto degli assistenti di Chrušcëv. Era uscito dall’università solo un anno prima e non aveva mai partecipato a un incontro pre-Presidium: era troppo alle prime armi. Ma dieci minuti prima la sua segretaria, Vera Pletner, lo aveva informato che uno degli assistenti anziani era malato e che gli altri due avevano appena avuto un incidente d’auto per cui lui, Dimka, avrebbe dovuto sostituirli. Dimka aveva ottenuto l’impiego di assistente di Chrušcëv per due ragioni. Innanzitutto era sempre stato il migliore in ogni corso di studi che avesse frequentato, dall’asilo all’università. In secondo luogo, suo zio era generale. Non sapeva quale dei due fattori contasse di più. Al mondo esterno il Cremlino presentava una facciata monolitica, ma in realtà era un campo di battaglia. La presa di Chrušcëv sul potere non era forte. Comunista nel cuore e nell’anima, il segretario era però anche un riformatore che vedeva i difetti del sistema sovietico e voleva mettere in pratica idee nuove. Ma i vecchi stalinisti del Cremlino non erano ancora sconfitti. Erano sempre all’erta, attenti a qualsiasi opportunità per indebolire Chrušcëv e revocare le sue riforme. La riunione era informale: gli assistenti bevevano tè e fumavano, senza giacca e con la cravatta allentata. Erano per lo più uomini, ma c’era anche qualche donna. Dimka individuò un viso amico: Natal’ja Smotrova, assistente del ministro degli Esteri Andrej Gromyko. Sui venticinque anni, era una ragazza attraente malgrado lo scialbo abito nero. Dimka non la conosceva bene, ma aveva parlato con lei diverse volte. Le si sedette accanto. Natal’ja sembrò sorpresa di vederlo. «Konstantinov e Pajari hanno avuto un incidente d’auto» spiegò Dimka. «Sono feriti?» «Niente di grave.» «E Alkaev?» «In malattia, fuoco di Sant’Antonio.» «Brutta cosa. E così sei tu il rappresentante del capo.» «Sono terrorizzato.» «Te la caverai benissimo.» Dimka si guardò intorno. Sembravano tutti in attesa di qualcosa. A bassa voce, chiese a Natal’ja: «Chi presiede la riunione?». Uno dei presenti lo sentì. Era Evgenij Filipov, che lavorava per il ministro della Difesa, il conservatore Rodion Malinovskij. Filipov aveva meno di quarant’anni ma, con il suo abito postbellico sformato e la camicia grigia di flanella, vestiva come un uomo molto più anziano. Ripeté a voce alta e in tono sprezzante la domanda di Dimka: «Chi presiede la riunione? Tu, naturalmente. Sei l’assistente del presidente del Presidium, no? Forza, comincia, studentello». Dimka si sentì arrossire. Per un momento rimase senza parole, poi gli venne un’ispirazione e disse: «Grazie allo straordinario volo spaziale del maggiore Jurij Gagarin, il compagno Chrušcëv arriverà a Vienna con le congratulazioni del mondo ancora echeggianti nelle orecchie». Il mese precedente, Gagarin era stato il primo essere umano a effettuare un volo orbitale a bordo di una navicella, battendo gli americani per poche settimane con una clamorosa impresa scientifica e propagandistica a favore dell’Unione Sovietica, e di Nikita Chrušcëv. Gli assistenti intorno al tavolo applaudirono e Dimka cominciò a sentirsi meglio. Poi Filipov parlò di nuovo. «Il primo segretario farebbe meglio a farsi echeggiare nelle orecchie il discorso inaugurale del presidente Kennedy.» Sembrava incapace di esprimersi senza una nota di scherno. «Nel caso i compagni seduti intorno a questo tavolo lo abbiano dimenticato, Kennedy ci ha accusato di progettare la dominazione del mondo e ha promesso solennemente di fermarci a qualunque costo. Dopo tutti i gesti amichevoli che abbiamo fatto… poco saggiamente, a parere di alcuni compagni esperti… Kennedy non avrebbe potuto chiarire meglio le sue intenzioni aggressive.» Alzò un braccio e puntò un dito verso il soffitto, come un maestro di scuola. «Da parte nostra, c’è un’unica risposta possibile: accrescere la nostra forza militare.» Dimka stava ancora pensando a come replicare quando Natal’ja lo batté sul tempo. «È una corsa che non possiamo vincere» dichiarò in tono secco e pratico. «Gli Stati Uniti sono più ricchi dell’Unione Sovietica e possono facilmente uguagliare qualsiasi incremento delle nostre forze militari.» Era più assennata del suo capo conservatore, concluse Dimka. Le lanciò un’occhiata di gratitudine e riprese la parola. «Da cui la politica di coesistenza pacifica di Chrušcëv, che ci consente di spendere meno in armamenti e di investire invece nell’industria e nell’agricoltura.» I conservatori del Cremlino odiavano la coesistenza pacifica. Per loro, la lotta contro l’imperialismo capitalista era una guerra all’ultimo sangue. Con la coda dell’occhio, Dimka vide entrare nella sala la sua segretaria, Vera, una quarantenne brillante ed energica. Le fece segno di andarsene. Filipov non si lasciava mettere a tacere così facilmente. «Non dobbiamo permettere che una visione ingenua della politica mondiale ci induca a ridurre con troppa fretta il nostro esercito» disse sprezzante. «Non possiamo certo sostenere che stiamo vincendo sullo scenario internazionale. Guardate come ci sfidano i cinesi. Questo ci indebolirà a Vienna.» Dimka si chiese come mai Filipov si impegnasse tanto per dimostrare che lui era uno stupido. All’improvviso si ricordò che Filipov aveva desiderato moltissimo un impiego nell’ufficio di Chrušcëv… l’impiego che aveva avuto lui. «Così come la baia dei Porci ha indebolito Kennedy» ribatté. Il presidente americano aveva autorizzato un folle piano della CIA che prevedeva l’invasione di Cuba da un luogo chiamato baia dei Porci: l’operazione era fallita e Kennedy era stato umiliato. «Io credo che la posizione del nostro leader sia più forte.» «In ogni caso, Chrušcëv ha fallito e…» Filipov tacque di colpo, rendendosi conto che si stava spingendo troppo oltre. Quelle discussioni pre-incontro erano franche, ma esistevano dei limiti. Dimka colse al volo il momento di debolezza. «Dove ha fallito Chrušcëv, compagno?» chiese. «Per favore, illuminaci.» Filipov si affrettò a recuperare. «Abbiamo fallito il nostro principale obiettivo in politica estera: una soluzione definitiva della situazione di Berlino. La Repubblica Democratica Tedesca è il nostro posto di frontiera in Europa. I suoi confini garantiscono quelli della Polonia e della Cecoslovacchia. Lo status ancora irrisolto di Berlino è intollerabile.» «Molto bene» disse Dimka e rimase sorpreso nel sentire una nota di sicurezza nella propria voce. «Penso che abbiamo discusso a sufficienza di principi generali. Prima di aggiornare la riunione, vi spiegherò il pensiero del primo segretario sul problema.» Filipov aprì la bocca per protestare contro la brusca interruzione, ma Dimka lo bloccò. «I compagni parleranno solo quando invitati dalla presidenza» annunciò, la voce deliberatamente dura e autoritaria. Tutti fecero silenzio. «A Vienna, Chrušcëv dirà a Kennedy che non possiamo più aspettare. Abbiamo avanzato proposte ragionevoli per regolare la situazione di Berlino e tutto ciò che ci sentiamo ripetere dagli americani è che loro non vogliono cambiamenti.» Intorno al tavolo in molti annuirono. «Se non accetteranno un piano, dirà Chrušcëv, allora agiremo unilateralmente. E se gli americani cercheranno di fermarci, risponderemo alla forza con la forza.» Ci fu qualche istante di silenzio. Dimka ne approfittò per alzarsi in piedi e concludere: «Grazie per la vostra partecipazione». Natal’ja disse quello che tutti stavano pensando: «Questo significa che siamo pronti a entrare in guerra con gli americani per Berlino?». «Il primo segretario non crede che ci sarà una guerra» replicò Dimka, ripetendo la risposta evasiva che Chrušcëv aveva dato a lui. «Kennedy non è pazzo.» Mentre si allontanava dal tavolo, colse un’occhiata di Natal’ja, per metà di sorpresa e per metà di ammirazione. Dimka non riusciva a credere di essere stato così risoluto. Non era mai stato una mammoletta, ma quello era un gruppo di uomini brillanti e potenti, e lui aveva tenuto loro testa. La sua posizione lo agevolava: per quanto fosse un nuovo arrivato, la sua scrivania negli uffici del primo segretario gli dava potere. E, paradossalmente, l’ostilità di Filipov gli era stata utile: tutti riuscivano a comprendere la necessità di andare giù pesante con qualcuno che cercava di indebolire il leader. Vera lo aspettava agitata nell’anticamera. Era un’assistente politica esperta che non si lasciava prendere dal panico senza ragione. Dimka ebbe un lampo d’intuizione. «È per mia sorella, vero?» domandò. Vera sembrò intimorita. Spalancò gli occhi. «Come fai a saperlo?» chiese, quasi con timore reverenziale. Non erano poteri soprannaturali: Dimka temeva già da un po’ di tempo che Tanja sarebbe finita nei guai. «Cos’ha fatto?» chiese. «È stata arrestata.» «Oh, accidenti.» Vera gli indicò un telefono sopra un tavolino: la cornetta era staccata e Dimka l’afferrò. In linea c’era sua madre Anja. «Tanja è alla Lubjanka!» disse la donna, usando l’abbreviazione che indicava il palazzo sede del KGB in piazza Lubjanka. Anja era sull’orlo dell’isteria. Dimka non era poi così sorpreso. Sia lui sia la sua gemella concordavano sul fatto che in Unione Sovietica c’erano molte cose che non andavano, ma mentre lui credeva che fossero necessarie delle riforme, Tanja pensava che il comunismo dovesse essere abolito. Era un disaccordo intellettuale che non aveva alcuna influenza sull’affetto reciproco. Tra di loro esisteva un profondo rapporto di amicizia, ed era sempre stato così. Chi manifestava idee come quelle di Tanja poteva essere arrestato… una delle cose che non andavano. «Calmati, mamma. Io posso farla uscire» disse Dimka. Sperava di essere in grado di provare quell’affermazione. «Sai cos’è successo?» «Ci sono stati dei disordini a un incontro di poeti!» «Scommetto che Tanja era in piazza Majakovskij. Se non c’è altro…» Non sapeva cosa avesse combinato sua sorella, ma la sospettava di cose peggiori della poesia. «Devi fare qualcosa, Dimka! Prima che loro…» «Lo so.» Prima che cominciassero a interrogarla, intendeva dire sua madre. Dimka avvertì un brivido di paura. La prospettiva di un interrogatorio nelle famigerate celle sotterranee del quartier generale del KGB terrorizzava ogni cittadino sovietico. Il primo istinto di Dimka fu di dire che avrebbe chiamato subito, ma poi decise che una telefonata non era sufficiente. Doveva andare di persona. Esitò per un attimo: se si fosse venuto a sapere che era andato alla Lubjanka per liberare sua sorella, la carriera avrebbe potuto risentirne. Ma quel pensiero durò solo un istante. Tanja veniva prima di lui, di Chrušcëv e di tutta l’Unione Sovietica. «Vado immediatamente, mamma» disse. «Telefona allo zio Volodja e raccontagli cosa è successo.» «Ah, sì, buona idea! Mio fratello saprà cosa fare.» Dimka riattaccò. «Chiama la Lubjanka» disse a Vera. «Spiega molto chiaramente che stai telefonando dall’ufficio del primo segretario, il quale è preoccupato per l’arresto dell’importante giornalista Tanja Dvorkina. Di’ che l’assistente del compagno Chrušcëv sta andando da loro per chiedere spiegazioni e che non devono fare niente prima del suo arrivo.» Vera stava prendendo appunti. «Devo far venire un’auto?» Piazza Lubjanka distava poco più di un chilometro dal complesso del Cremlino. «Ho la mia moto: farò prima.» Dimka aveva il privilegio di possedere una motocicletta Voskhod 175 con cambio a cinque marce e doppio tubo di scappamento. Mentre viaggiava in moto, pensò che aveva già intuito i probabili guai di Tanja perché, paradossalmente, lei aveva smesso di raccontargli tutto. Di solito non c’erano segreti fra loro, ed esisteva un’intimità che non condividevano con nessun altro. Quando la madre non c’era ed erano soli in casa, Tanja non si faceva problemi ad attraversare nuda l’appartamento per andare a prendere la biancheria pulita nell’armadio riscaldato e Dimka andava in bagno senza preoccuparsi di chiudere la porta. A volte gli amici di Dimka suggerivano ridacchiando che la loro fosse una vicinanza di tipo erotico, ma in realtà era vero il contrario: potevano essere così intimi solo perché non c’era alcuna scintilla sessuale. Ma Dimka già da un anno aveva capito che Tanja gli stava nascondendo qualcosa. Non sapeva di cosa si trattasse, però poteva immaginarlo. Non un ragazzo, ne era sicuro: lui e sua sorella si raccontavano tutto delle rispettive vite sentimentali, scambiandosi impressioni e consigli. Quasi sicuramente aveva a che fare con la politica. L’unica ragione per cui Tanja poteva tenergli nascosto qualcosa era perché voleva proteggerlo. Si fermò davanti al temuto edificio, un palazzo di mattoni gialli costruito prima della rivoluzione come sede centrale di una compagnia di assicurazioni. Il pensiero di sua sorella imprigionata in quel posto lo fece sentire male. Per un attimo provò un forte senso di nausea. Parcheggiò la moto proprio davanti all’ingresso principale, si prese un momento per riacquistare il controllo e poi entrò. Il caposervizio di Tanja, Daniil Antonov, era arrivato prima di lui e discuteva nell’atrio con un uomo del KGB. Antonov aveva una corporatura esile, e Dimka lo aveva sempre considerato un tipo inoffensivo, ma in quel momento era molto risoluto. «Voglio vedere Tanja Dvorkina, e la voglio vedere immediatamente» stava dicendo. L’uomo del KGB esibiva un’espressione di testarda ostinazione. «Questo potrebbe non essere possibile.» Dimka si inserì nella conversazione. «Lavoro nell’ufficio del primo segretario» dichiarò. L’uomo del KGB rifiutò di farsi impressionare. «E cosa fai là, ragazzo, prepari il tè?» ribatté rude. «Come ti chiami?» Era una domanda intimidatoria: tutti avevano il terrore di dare il proprio nome al KGB. «Dmitrij Dvorkin, e sono qui per comunicarti che il compagno Chrušcëv è personalmente interessato a questo caso.» «Vaffanculo, Dvorkin» replicò l’uomo. «Il compagno Chrušcëv non sa proprio niente di questo caso. Tu sei qui solo per togliere tua sorella dai guai.» Dimka fu colto di sorpresa dalla rozza sicurezza dell’uomo. Pensò che fossero in molti a cercare di liberare amici o parenti dal KGB vantando relazioni personali con personaggi potenti. Ma rinnovò l’attacco. «Come ti chiami?» «Capitano Mets.» «Di cosa è accusata Tanja Dvorkina?» «Aggressione a un funzionario di polizia.» «Una ragazza ha picchiato uno dei vostri gorilla in giacca di pelle?» chiese Dimka beffardo. «Prima deve avergli preso la pistola. Andiamo, Mets, non fare lo stronzo.» «Stava partecipando a un’adunata sediziosa, dove veniva fatto circolare materiale antisovietico.» Mets porse a Dimka un foglio spiegazzato. «L’adunata è diventata una sommossa.» Dimka esaminò il foglio. Il titolo era “Dissidenza”. Aveva sentito parlare di quel giornale sovversivo. Facile che Tanja c’entrasse. Quel numero particolare parlava di Ustin Bodian, il cantante d’opera. Per un momento Dimka venne distratto dalla scioccante accusa secondo la quale Bodian stava morendo di polmonite in un campo di lavoro in Siberia. Poi ricordò che Tanja era tornata dalla Siberia proprio quel giorno e si rese conto che doveva essere stata lei a scrivere il pezzo. Sua sorella poteva essere in guai seri. «Volete accusare Tanja di essere stata in possesso di questa roba?» domandò. Vide Mets esitare e aggiunse: «Io non ci credo». «Non avrebbe dovuto trovarsi là» disse Mets. «È una giornalista, idiota» intervenne Daniil. «Stava seguendo l’evento, proprio come facevano i vostri agenti.» «La ragazza non è un’agente.» «Tutti i giornalisti della TASS collaborano con il KGB, lo sai bene.» «Non puoi provare che fosse là in veste ufficiale.» «Invece sì, posso. Sono il suo caposervizio. L’ho mandata io.» Dimka si chiese se fosse vero. Ne dubitava e provò gratitudine nei confronti di Daniil, perché si esponeva in difesa di Tanja. Mets cominciava a perdere un po’ di sicurezza. «Era con un uomo di nome Vasilij Enkov, che aveva cinque copie di quel foglio in tasca.» «Tanja non conosce nessun Vasilij Enkov» affermò Dimka. Poteva anche essere vero: di certo lui non aveva mai sentito quel nome. «Se era una sommossa, come fate a dire chi era con chi?» «Devo parlare con i miei superiori» disse Mets e si voltò. Dimka cercò di fare una voce dura. «Non metterci troppo» ringhiò. «Il prossimo che vedrai arrivare dal Cremlino potrebbe non essere il ragazzo che prepara il tè.» Mets scese una scala. A Dimka vennero i brividi. Tutti sapevano che nei sotterranei c’erano le stanze degli interrogatori. Poco dopo, Dimka e Daniil vennero raggiunti nell’atrio da un uomo più anziano. Dalle labbra gli pendeva una sigaretta. La faccia era brutta e carnosa, con un mento che sporgeva aggressivo. Daniil non sembrò contento di vederlo. Lo presentò come Pëtr Opotkin, caporedattore dei servizi speciali. Opotkin fissò Dimka con gli occhi semichiusi per evitare il fumo. «E così tua sorella si è fatta arrestare a un’adunata sediziosa.» Il tono era arrabbiato, ma Dimka percepì che sotto sotto Opotkin, per chissà quale ragione, era soddisfatto. «A una lettura di poesie» lo corresse Dimka. «Non fa molta differenza.» «L’avevo mandata io» si inserì Daniil. «Il giorno stesso in cui è rientrata dalla Siberia?» osservò scettico Opotkin. «Non era un incarico vero e proprio. Le ho semplicemente suggerito di fare un salto a vedere che cosa stava succedendo, nient’altro.» «Non raccontarmi storie» disse Opotkin. «Stai solo cercando di proteggerla.» Daniil sollevò il mento e lo sfidò con lo sguardo. «Non sei qui per questo anche tu?» Prima che Opotkin potesse rispondere, arrivò il capitano Mets. «Il caso è ancora sotto esame» dichiarò. Opotkin si presentò e mostrò a Mets la sua carta d’identità. «La questione non è se Tanja Dvorkina debba essere punita o no, ma come» disse. «Esattamente, signore» replicò Mets con deferenza. «Vuole seguirmi, per favore?» Opotkin annuì e Mets gli fece strada scendendo la scala. A bassa voce, Dimka domandò: «Opotkin non permetterà che la torturino, vero?». «Era già infuriato con Tanja» osservò preoccupato Daniil. «Perché? Pensavo che mia sorella fosse una buona giornalista.» «È una giornalista brillante. Ma ha rifiutato l’invito di Opotkin a una festa a casa sua sabato. Opotkin voleva anche te. A lui piacciono le persone importanti. Un rifiuto è una cosa che lo urta parecchio.» «Oh, merda.» «Le ho detto che avrebbe dovuto accettare.» «Davvero sei stato tu a mandarla in piazza Majakovskij?» «No. Non potremmo mai pubblicare un servizio su un raduno così privo di ufficialità.» «Grazie per avere cercato di proteggere Tanja.» «Figurati, è un dovere… ma credo che non stia funzionando.» «Cosa pensi che succederà?» «Potrebbe essere licenziata. Oppure, più probabilmente, spedita a lavorare in qualche posto sgradevole, per esempio in Kazakistan.» Daniil aggrottò la fronte. «Devo trovare un compromesso che possa soddisfare Opotkin, ma che non sia troppo duro per Tanja.» Dimka lanciò un’occhiata alla porta d’ingresso e vide entrare un uomo sui quarantacinque anni con i capelli cortissimi dal taglio militare. Indossava l’uniforme di generale dell’Armata rossa. «Finalmente, zio Volodja.» Volodja Peškov aveva gli stessi occhi di un azzurro intenso di Tanja. «Cos’è questa stronzata?» domandò irritato. Dimka lo mise al corrente. Aveva quasi concluso quando ricomparve Opotkin, che si rivolse a Volodja in tono ossequioso. «Generale, ho discusso del problema di sua nipote con i nostri amici del KGB, i quali si accontenteranno che mi occupi io della questione come di un affare interno della TASS.» Dimka sentì i muscoli rilassarsi per il sollievo. Poi si chiese se l’intero approccio di Opotkin non avesse avuto il solo fine di dare l’impressione che stesse facendo un favore a suo zio. «Mi permetta un suggerimento» disse Volodja. «Lei potrebbe sottolineare la gravità dell’incidente, senza incolpare nessuno, semplicemente trasferendo Tanja a un’altra destinazione.» Era la punizione a cui Daniil aveva accennato poco prima. Opotkin annuì pensieroso, come valutando l’idea, anche se Dimka era sicuro che avrebbe accettato con entusiasmo qualsiasi “suggerimento” del generale Peškov. «Magari una sede all’estero» propose Daniil. «Tanja parla tedesco e inglese.» Era un’esagerazione, Dimka lo sapeva. Tanja aveva studiato entrambe le lingue a scuola, ma ciò non equivaleva a parlarle. Daniil stava cercando di salvare sua sorella dall’esilio in qualche sperduta regione sovietica. «E potrebbe continuare a lavorare per la mia redazione» continuò Daniil. «Mi dispiacerebbe perderla, è troppo in gamba nei reportage.» Opotkin sembrava dubbioso. «Non possiamo mandarla a Londra o a Bonn. Sembrerebbe un premio.» Era vero. Gli incarichi nei paesi capitalisti erano molto ambiti. Rimborsi spese e indennità di trasferta erano colossali e, anche se il potere d’acquisto di quel denaro non era paragonabile a quello che avrebbe avuto in URSS, i cittadini sovietici vivevano molto meglio in Occidente che a casa loro. «Berlino Est, magari, o Varsavia» suggerì Volodja. Opotkin annuì. Un trasferimento in un altro paese comunista avrebbe avuto più l’aria di una punizione. «Sono felice che abbiamo potuto risolvere questo problema» disse Volodja. «Sabato sera darò una festa» disse Opotkin a Dimka. «Ti farebbe piacere venire?» Dimka pensò che sarebbe stato il sigillo all’affare. Annuì. «Tanja me ne ha parlato» rispose con falso entusiasmo. «Ci saremo tutti e due. Grazie.» Opotkin sorrise raggiante. «Si dà il caso che io sappia di una posizione attualmente vacante in un paese comunista» disse Daniil. «Abbiamo urgente bisogno di una persona laggiù. Tanja potrebbe partire domani.» «Dove?» chiese Dimka. «A Cuba.» Opotkin, ora in uno stato d’animo solare, disse: «Potrebbe essere accettabile». “Sicuramente meglio del Kazakistan” pensò Dimka. Mets ricomparve nell’atrio con Tanja al suo fianco. Il cuore di Dimka mancò un battito: sua sorella sembrava pallida e spaventata, ma incolume. Mets parlò con un misto di deferenza e di sfida, come un cane che abbaia perché ha paura. «Mi permetto di raccomandare che in futuro la giovane Tanja si tenga alla larga dalle letture di poesie.» Volodja sembrò quasi sul punto di strangolare quell’idiota, ma si costrinse a sorridere. «Un consiglio molto saggio, certamente.» Uscirono tutti. Era già buio. Dimka disse alla sorella: «Sono in moto, ti porto a casa». «Sì, per favore» acconsentì lei. Era chiaro che voleva parlare con Dimka. Volodja, che non riusciva a leggerle nel pensiero come Dimka, le propose: «Lascia che ti accompagni in macchina, mi sembri troppo scossa per andare in moto». Con sua sorpresa, Tanja rifiutò. «Ti ringrazio, zio, ma vado con Dimka.» Volodja si strinse nelle spalle e salì sulla limousine ZIL in attesa. Daniil e Pëtr salutarono. Appena i due fratelli non furono più a portata d’orecchio degli altri, Tanja si rivolse subito a Dimka, con un’espressione agitata. «Hanno detto qualcosa a proposito di Vasilij Enkov?» «Sì. Hanno detto che eri con lui. È vero?» «Sì.» «Oh, merda. Ma non è il tuo ragazzo, giusto?» «No. Sai cosa gli è successo?» «Aveva in tasca cinque copie di “Dissidenza”, per cui non uscirà tanto presto dalla Lubjanka, anche se ha amici nelle alte sfere.» «Maledizione! Credi che indagheranno su di lui?» «Ne sono certo. Vorranno sapere se si limita a distribuire “Dissidenza” o se in effetti è lui che lo pubblica, cosa che sarebbe molto più grave.» «Perquisiranno il suo appartamento?» «Sarebbero negligenti se non lo facessero. Perché? Cosa ci troveranno?» Tanja si guardò intorno, ma non c’era nessuno vicino a loro. Abbassò comunque la voce. «La macchina per scrivere con cui vengono fatte le matrici per “Dissidenza”.» «Be’, sono contento che Vasilij non sia il tuo ragazzo perché passerà i prossimi venticinque anni in Siberia.» «Non dire così!» Dimka aggrottò la fronte. «Non sei innamorata di lui, va bene… ma non ti è neppure del tutto indifferente.» «Senti, Vasilij è un uomo coraggioso e un poeta meraviglioso, ma il nostro non è un rapporto d’amore. Non l’ho mai neppure baciato. È uno di quegli uomini che deve sempre avere un mucchio di donne diverse.» «Come il mio amico Valentin.» Il compagno di stanza di Dimka all’università, Valentin Lebedev, era un vero libertino. «Esattamente come Valentin, sì.» «Allora… quanto ti importa se perquisiscono l’appartamento di Vasilij e trovano quella macchina per scrivere?» «Mi importa molto. Pubblicavamo “Dissidenza” insieme. Ho scritto io il numero di oggi.» «Merda. È proprio quello che temevo.» Adesso Dimka conosceva il segreto che sua sorella gli aveva tenuto nascosto per un anno. «Dobbiamo andare subito a casa di Vasilij» disse Tanja. «Dobbiamo prendere quella macchina per scrivere e liberarcene.» Dimka fece un passo indietro. «Assolutamente no. Scordatelo.» «Dobbiamo!» «No. Rischierei qualunque cosa per te, e potrei rischiare molto per qualcuno che ami, ma non ho intenzione di giocarmi l’osso del collo per quel tizio. Potremmo finire tutti quanti in quella maledetta Siberia.» «Allora lo farò da sola.» Dimka si accigliò, cercando di valutare i rischi delle varie alternative. «Chi altri sa di te e Vasilij?» «Nessuno. Siamo stati attenti. Quando andavo da lui, mi assicuravo sempre di non essere seguita. Non ci siamo mai incontrati in pubblico.» «Quindi l’indagine del KGB non potrà collegarti a lui.» Tanja esitò, e Dimka capì che si trovavano in guai grossi. «Cosa c’è?» domandò. «Tutto dipende da quanto sono meticolosi quelli del KGB.» «Perché?» «Questa mattina, quando sono andata a casa di Vasilij, c’era una ragazza, Varvara.» «Oh, cazzo.» «Stava giusto uscendo dall’appartamento. Però non sa come mi chiamo.» «Ma se il KGB le mostrasse le foto delle persone arrestate oggi in piazza Majakovskij, ti riconoscerebbe?» Tanja sembrava turbata. «Mi ha studiato dalla testa ai piedi, immaginando che potessi essere una sua rivale. Sì, riconoscerebbe la mia faccia.» «Oh, Dio, allora dobbiamo andare a prendere la macchina per scrivere. Senza quella penseranno che Vasilij sia solo uno che distribuiva “Dissidenza”, per cui probabilmente non si metteranno a cercare ogni sua ragazza, specie se, come pare, sono parecchie. Potreste farla franca. Ma se trovano la macchina per scrivere siete finiti.» «Lo farò da sola. Hai ragione: non posso chiederti di correre un pericolo così grande.» «E io non posso lasciare te in un pericolo così grande» ribatté Dimka. «Qual è l’indirizzo?» Tanja glielo disse. «Non è molto lontano. Sali in moto.» Dimka montò in sella e, con un colpo di pedale, accese il motore. Tanja esitò, poi salì dietro di lui. Dimka accese le luci e partì. Mentre guidava, si chiese se il KGB stesse già perquisendo l’appartamento di Vasilij. Era possibile, concluse, ma improbabile. Ammettendo che avessero arrestato quaranta o cinquanta persone, ci sarebbe voluta quasi tutta la notte per gli interrogatori preliminari, per ottenere nomi e indirizzi e per decidere a chi dare priorità. In ogni caso era consigliabile la cautela. Quando arrivarono all’indirizzo che Tanja gli aveva dato, passò davanti all’edificio senza rallentare. I lampioni stradali illuminavano una grandiosa residenza dell’Ottocento. Tutti i palazzi di quel genere erano stati trasformati in uffici governativi o suddivisi in appartamenti. Non c’erano auto parcheggiate davanti né uomini del KGB in giacca di pelle in agguato all’entrata. Dimka fece il giro dell’isolato senza notare nulla di sospetto. Poi parcheggiò a circa duecento metri dal portone. I due fratelli smontarono dalla moto. Una donna che portava a spasso il cane li salutò con un “buonasera” e proseguì. Entrarono nell’edificio. Un tempo l’ingresso era stato un atrio imponente. Ora una lampadina solitaria rivelava un pavimento di marmo scheggiato e graffiato e una maestosa scalinata dalla cui balaustra mancavano parecchie colonnine. Salirono le scale. Tanja tirò fuori una chiave e aprì la porta dell’appartamento. Entrarono e richiusero l’uscio. Tanja guidò il fratello in soggiorno. Una gatta grigia li guardò diffidente. Da una credenza, Tanja estrasse un voluminoso scatolone, pieno per metà di croccantini. Frugò all’interno e prese una macchina per scrivere protetta dalla custodia, poi alcuni fogli matrice per ciclostile. Strappò i fogli, li gettò nel caminetto e accostò un fiammifero. Mentre li guardava bruciare, Dimka disse arrabbiato: «Perché diavolo vuoi rischiare tutto per una protesta inutile?». «Viviamo in una tirannia brutale» rispose Tanja. «Dobbiamo fare qualcosa per mantenere viva la speranza.» «Viviamo in una società che sta sviluppando il comunismo» ribatté Dimka. «È un obiettivo difficile e abbiamo dei problemi, ma tu dovresti dare una mano a risolverli invece di fomentare il malcontento.» «Come si possono trovare soluzioni se a nessuno è permesso di parlare dei problemi?» «Al Cremlino ne parliamo continuamente.» «E quei pochi uomini dalla mentalità ristretta, sempre gli stessi, non decidono mai di fare cambiamenti importanti.» «Non tutti sono di mentalità ristretta. Alcuni lavorano sodo per cambiare le cose. Dacci tempo.» «La rivoluzione c’è stata quarant’anni fa. Di quanto tempo avete ancora bisogno prima di ammettere finalmente che il comunismo è un fallimento?» I fogli nel caminetto erano bruciati rapidamente, riducendosi in cenere nera. Frustrato, Dimka voltò le spalle. «Ne abbiamo già discusso tante volte. Ora dobbiamo andarcene da qui.» Sollevò la macchina per scrivere. Tanja prese in braccio la gatta e uscirono dall’appartamento. Mentre se ne stavano andando, nell’atrio entrò un uomo con una valigetta, che li salutò con un cenno quando li incrociò sulle scale. Dimka sperò che la luce fosse troppo fioca per permettergli di vedere bene le loro facce. Usciti dal portone, Tanja posò la gatta a terra, sul marciapiede. «Adesso te la dovrai cavare da sola, Mademoiselle.» La gatta si allontanò con aria sdegnata. Si avviarono in fretta verso l’angolo. Dimka tentava inutilmente di nascondere la macchina per scrivere sotto la giacca. Con suo grande sgomento, era sorta la luna e lui e sua sorella erano chiaramente visibili. Arrivarono alla moto. Dimka passò la macchina per scrivere a Tanja. «Come ce ne sbarazziamo?» sussurrò. «Nel fiume?» Dimka frugò nella mente e ricordò un punto lungo l’argine dove lui e alcuni compagni di università erano andati un paio di volte per passare la notte bevendo vodka. «Conosco un posto.» Risalirono in moto e Dimka uscì dal centro città, puntando verso sud. Il posto che aveva in mente era nei sobborghi, ma meglio così: c’erano meno probabilità che qualcuno li notasse. Guidò velocemente per venti minuti e si fermò davanti al monastero NikoloPerervinskij. L’antica istituzione, con la sua magnifica cattedrale, era ormai un rudere, in disuso da decenni e spogliata dei suoi tesori. Si trovava su una lingua di terra compresa tra la principale linea ferroviaria diretta a sud e il fiume Moscova. I campi che la circondavano ora erano i cantieri dei nuovi casermoni di appartamenti, ma di notte la zona era deserta. Nessuno era in vista. Dimka spostò a mano la moto, togliendola dalla strada e portandola all’interno di una macchia di alberi, dove la bloccò sul cavalletto. Poi guidò Tanja attraverso il boschetto fino al monastero in rovina. Alla luce della luna, gli edifici abbandonati erano di un biancore misterioso. Le cupole a cipolla della cattedrale stavano collassando, ma i tetti a lastre verdi degli edifici del monastero erano per la maggior parte intatti. Dimka non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che i fantasmi di generazioni di monaci lo stessero osservando dalle finestre sfondate. Attraversò un campo acquitrinoso fino al fiume. «Come fai a conoscere questo posto?» gli chiese Tanja. «Venivamo qui ai tempi dell’università. Ci ubriacavamo e guardavamo il sole sorgere sopra l’acqua.» Raggiunsero la riva. In quel punto il fiume era un pigro canale che tracciava un’ampia curva e l’acqua era placida al chiaro di luna. Ma Dimka sapeva che era abbastanza profonda per lo scopo. Tanja esitò. «Che spreco» disse. Dimka si strinse nelle spalle. «Le macchine per scrivere sono costose.» «Non è solo per i soldi. È una voce fuori dal coro, una visione alternativa del mondo, un modo diverso di pensare. Una macchina per scrivere è libertà di parola.» «Allora starai meglio senza macchina per scrivere.» Tanja gliela passò. Dimka fece scorrere il carrello a destra fino alla massima estensione, in modo da ottenere un manico con cui afferrare la macchina. «Ci siamo» disse. Portò il braccio indietro e poi, con tutta la forza, la scagliò in direzione del fiume. Non finì molto lontano, ma cadde in acqua con un tonfo soddisfacente e si inabissò all’istante. I due fratelli rimasero immobili a guardare le increspature nell’acqua. «Grazie» disse Tanja. «Soprattutto perché non credi in quello che faccio.» Dimka le passò un braccio intorno alle spalle. Poi si allontanarono insieme. 7 George Jakes era di cattivo umore. Il braccio, nonostante fosse ingessato e sostenuto da un tutore appeso al collo, gli faceva un male infernale. Aveva perso il suo ambito impiego prima ancora di cominciare: esattamente come aveva previsto Greg, lo studio legale Fawcett Renshaw aveva ritirato l’offerta dopo che il suo nome era comparso sui giornali come quello di un Freedom Rider rimasto ferito. Ora non sapeva più cosa avrebbe fatto del resto della propria vita. A Harvard il commencement, la cerimonia di conferimento delle lauree, si teneva nell’Old Yard, un cortile erboso circondato dagli aggraziati edifici di mattoni rossi dell’università. C’erano membri del Consiglio dei supervisori in frac e cappello a cilindro. Vennero conferite lauree ad honorem al ministro degli Esteri britannico, un aristocratico privo di mento che si chiamava Lord Home, e a un componente della squadra del presidente Kennedy alla Casa Bianca che aveva un nome bizzarro, McGeorge Bundy. Malgrado il malumore, George provava una blanda tristezza nel lasciare Harvard, dove aveva trascorso sette anni prima come studente di legge e poi come iscritto al master. Aveva conosciuto alcune persone straordinarie e si era fatto qualche buon amico. Aveva superato tutti gli esami che aveva affrontato. Era uscito con parecchie ragazze ed era andato a letto con tre di loro. Si era ubriacato una volta soltanto, odiando la sensazione di avere perso il controllo. Ma quel giorno era troppo arrabbiato per indulgere alla nostalgia. Dopo la violenza teppistica a Anniston, si era aspettato una reazione ferma da parte dell’amministrazione Kennedy. Jack Kennedy si era presentato al popolo americano come un liberal e per questo aveva avuto il voto dei neri. Bobby Kennedy era segretario alla Giustizia, il funzionario delle forze dell’ordine di più alto grado in tutto il paese. George aveva sperato che Bobby dichiarasse, forte e chiaro, che la costituzione degli Stati Uniti era in vigore in Alabama come in qualsiasi altro posto. Non era successo. Nessuno era stato arrestato per avere aggredito i Freedom Riders. Né la polizia locale né l’FBI avevano indagato sui molti reati violenti che erano stati commessi. Nell’America del 1961, mentre la polizia stava a guardare, i razzisti bianchi potevano aggredire gli attivisti per i diritti civili, spezzare loro le ossa, cercare di ucciderli dandogli fuoco… e cavarsela. L’ultima volta che George aveva visto Maria Summers era stato nell’ambulatorio di un medico. I Freedom Riders feriti erano stati respinti dall’ospedale più vicino, ma alla fine avevano trovato gente disposta a curarli. George era in compagnia di un’infermiera che si occupava del suo braccio fratturato quando Maria era andata a dirgli che stava per tornare in volo a Chicago. Se avesse potuto, George si sarebbe alzato in piedi e l’avrebbe abbracciata. Invece Maria gli aveva dato un bacio sulla guancia ed era svanita. George si chiese se l’avrebbe mai rivista. “Avrei potuto innamorarmi seriamente di lei” pensò. “Forse mi è già successo.” In dieci giorni di conversazione ininterrotta, non si era mai sentito annoiato: Maria era intelligente almeno quanto lui, forse di più. E, anche se aveva un’aria innocente, i suoi occhi di velluto lo spingevano a immaginarsela al lume di candela. La cerimonia del commencement si concluse alle undici e trenta. Studenti, genitori ed ex alunni iniziarono a disperdersi tra le ombre degli alti olmi per dirigersi ai pranzi formali nel corso dei quali sarebbero state consegnate le lauree. George si guardò intorno cercando i suoi familiari, che però non vide. Vide invece Joseph Hugo. Era solo, in piedi accanto alla statua di bronzo di John Harvard, e stava accendendo una delle sue lunghe sigarette. Con la toga nera da cerimonia, la carnagione pallida sembrava addirittura più cerea. George strinse i pugni. Avrebbe voluto pestare a morte quella spia. Ma il braccio sinistro era inservibile e, in ogni caso, se lui e Hugo si fossero azzuffati nell’Old Yard, proprio quel giorno, l’avrebbero pagata cara, nel peggiore dei casi addirittura con il ritiro della laurea. George era già abbastanza nei guai. Sarebbe stato più saggio ignorare Hugo e allontanarsi. Invece disse: «Hugo, pezzo di merda!». Hugo sembrò spaventato, nonostante il braccio rotto dell’altro. Era robusto quanto George e probabilmente altrettanto forte, ma George aveva la rabbia dalla sua e Hugo lo sapeva. Distolse lo sguardo e cercò di allontanarsi, borbottando: «Non mi va di parlare con te». «Non mi sorprende.» George si spostò per bloccargli la strada. «Sei rimasto a guardare mentre una folla impazzita mi saltava addosso. Quei delinquenti mi hanno rotto il braccio, accidenti.» Hugo fece un passo indietro. «Non eri obbligato ad andare in Alabama.» «E tu non eri obbligato a fingere di essere un attivista per i diritti civili mentre per tutto il tempo non hai fatto altro che spiare. Chi ti pagava? Il Ku Klux Klan?» Hugo sollevò il mento, sulla difensiva, e George provò l’impulso di colpirlo con un pugno. «Mi sono offerto volontario per fornire informazioni all’ FBI.» «Quindi l’hai fatto senza compenso! Non so se questo ti renda migliore o peggiore.» «Ma non sarò un collaboratore volontario ancora per molto tempo: la settimana prossima comincio a lavorare per il Bureau.» Hugo pronunciò la frase nel tono un po’ imbarazzato e un po’ di sfida di chi ammette di appartenere a una setta religiosa. «Sei stato uno spione talmente bravo che ti hanno offerto un impiego.» «Ho sempre voluto lavorare per le forze dell’ordine.» «Non è quello che hai fatto a Anniston. Là eri dalla parte dei criminali.» «Voialtri siete tutti comunisti. Ti ho sentito parlare di Karl Marx.» «E di Hegel, Voltaire, Gandhi e Gesù Cristo. Andiamo, Hugo! Nemmeno tu puoi essere così stupido.» «Odio i disordini.» Era quello il problema, rifletté George con amarezza. La gente odiava i disordini. La stampa aveva addossato la colpa degli incidenti ai Riders, non ai segregazionisti con le mazze da baseball e le bombe incendiarie. La cosa lo faceva impazzire di frustrazione: nessuno in America si occupava di ciò che era giusto? Dall’altra parte del prato vide Verena Marquand che gli faceva cenno con la mano. Perse di colpo interesse per Joseph Hugo. Verena si stava laureando in letteratura inglese, ma a Harvard le persone di colore erano così poche che si conoscevano tutte. E lei era talmente bella che George l’avrebbe notata anche tra mille ragazze nere. Aveva gli occhi verdi e la pelle color caramello. Sotto la toga, indossava un abito verde la cui gonna corta metteva in risalto le lunghe gambe dalla pelle levigata. Il tocco era in bilico sulla testa con un’angolazione sbarazzina. Verena era fantastica. Tutti dicevano che lei e George formavano una bella coppia, ma loro due non erano mai usciti insieme. Quando George era libero lei aveva una relazione, e viceversa. E ormai era troppo tardi. Verena era un’ardente sostenitrice dei diritti civili e, dopo la laurea, sarebbe andata a lavorare per Martin Luther King ad Atlanta. Disse con entusiasmo: «Avete messo in moto qualcosa di grosso con quel vostro Freedom Ride!». Era vero. Dopo le bombe incendiarie a Anniston, George aveva lasciato l’Alabama in aereo con il braccio ingessato, ma altri avevano continuato la sfida. Dieci studenti di Nashville erano saliti su un autobus diretto a Birmingham, dove erano stati arrestati. Nuovi Riders avevano rimpiazzato il primo gruppo. C’era stata altra violenza da parte dei razzisti bianchi. Il Freedom Ride era diventato un movimento di massa. «Però ho perso l’impiego» disse George. «Vieni a lavorare per King ad Atlanta» propose immediatamente Verena. George era stupito. «Te lo ha detto lui di chiedermelo?» «No, ma ha bisogno di un avvocato e non si è fatto avanti nessuno brillante anche solo la metà di te.» George era incuriosito. Si era quasi innamorato di Maria Summers, ma avrebbe fatto meglio a dimenticarla: probabilmente non l’avrebbe mai più rivista. Si chiese se Verena sarebbe uscita con lui, nel caso avessero lavorato entrambi per King. «È un’idea» disse. Ma voleva pensarci. Cambiò argomento. «I tuoi sono qui oggi?» «Naturalmente. Vieni, te li presento.» I genitori di Verena erano delle celebrità, entrambi sostenitori di Kennedy. George sperava che prendessero la parola pubblicamente per criticare il presidente a causa della sua debole reazione alla violenza segregazionista. Forse George e Verena insieme avrebbero potuto convincerli a rilasciare una dichiarazione in quel senso. Sarebbe servito molto ad alleviare il dolore al braccio. Attraversò il prato di fianco a Verena. «Mamma, papà, vi presento il mio amico George Jakes» disse la ragazza. Suo padre era un nero alto ed elegante e la madre una bianca dall’elaborata acconciatura bionda. George li aveva visti spesso in fotografia: erano una famosa coppia interraziale. Percy Marquand era il “Bing Crosby Negro”, una stella del cinema e un cantante di melodie sentimentali. Babe Lee era un’attrice di teatro specializzata in ruoli di donne coraggiose. Percy parlò nel caldo tono baritonale reso famoso da decine di dischi di successo: «Mr Jakes, in Alabama lei si è fatto fratturare quel braccio per tutti noi. Sono onorato di stringerle la mano». «Grazie, signore, ma mi chiami George, per favore.» Babe Lee tese la destra e lo guardò negli occhi come se avesse voluto sposarlo. «Le siamo tutti così grati, George. E siamo anche orgogliosi di lei.» L’atteggiamento della donna era talmente seduttivo che George, a disagio, lanciò un’occhiata al marito, temendo che potesse irritarsi. Ma né Percy né Verena ebbero alcuna reazione. George si chiese se Babe si comportasse così con tutti gli uomini che incontrava. Non appena riuscì a liberare la mano dalla stretta di Babe, si rivolse di nuovo a Percy. «So che ha fatto campagna elettorale per Kennedy alle presidenziali dell’anno scorso. Adesso non ce l’ha con lui per la sua posizione in merito ai diritti civili?» «Siamo tutti delusi» ammise Percy. «Lo credo bene!» intervenne Verena. «Bobby Kennedy ha chiesto ai Riders di rallentare le iniziative per un po’. Ma ci pensate? Naturalmente il CORE ha rifiutato. L’America è governata dalle leggi, non dalla plebaglia!» «Un principio che avrebbe dovuto essere sottolineato dal segretario alla Giustizia» osservò George. Percy annuì, imperturbabile di fronte all’attacco dei due. «Ho sentito dire che l’amministrazione ha concluso un accordo con gli Stati del Sud.» George tese le orecchie: la notizia non era comparsa sui giornali. «I governatori hanno accettato di tenere a freno i razzisti, ed è quello che vogliono i fratelli Kennedy.» George sapeva che in politica nessuno faceva concessioni senza tornaconto. «In cambio di cosa?» «Il segretario alla Giustizia non prenderà provvedimenti per gli arresti illegali dei Freedom Riders.» Verena era oltraggiata e irritata con suo padre. «Vorrei che mi avessi informato prima, papà» disse seccamente. «Tesoro, sapevo che ti saresti infuriata.» A quella frase condiscendente, la ragazza si rabbuiò e distolse lo sguardo. George puntò alla domanda chiave: «Protesterà pubblicamente, Mr Marquand?». «Ci ho pensato» rispose Percy. «Ma non credo che avrebbe un grosso impatto.» «Potrebbe influenzare il voto nero contro Kennedy nel 1964.» «E siamo sicuri di volerlo? Per tutti noi sarebbe molto peggio se alla Casa Bianca ci fosse qualcuno come Dick Nixon.» «C’è qualcosa che possiamo fare?» chiese indignata Verena. «Quello che è successo nel Sud il mese scorso ha dimostrato senza ombra di dubbio che la normativa, così com’è, è troppo debole. Abbiamo bisogno di una nuova legge sui diritti civili.» «Parole sante» disse George. «Forse posso dare una mano perché questo succeda» proseguì Percy. «Al momento ho qualche influenza alla Casa Bianca. Ma se critico i Kennedy, non ne avrò più.» George riteneva invece che Percy dovesse esprimersi pubblicamente. Verena diede voce alla stessa opinione. «Tu dovresti dire quello che è giusto» dichiarò. «L’America è piena di persone prudenti. Ed è proprio la ragione per cui ci ritroviamo in questo casino.» La madre si offese. «Tuo padre è famoso per dire sempre ciò che è giusto.» Il tono era di indignazione. «Si è esposto in prima persona più di una volta.» George capì che Percy non si sarebbe lasciato convincere. Ma forse aveva ragione: una nuova legge sui diritti civili, che rendesse impossibile agli Stati del Sud opprimere i negri, poteva essere l’unica vera soluzione. «Sarà meglio che ora vada a cercare i miei» disse. «È stato un onore conoscervi.» «Rifletti sul lavoro con Martin» gli ricordò Verena a voce alta, mentre lui si allontanava. George andò nel parco dove sarebbero state consegnate le lauree in legge. Era stato montato un palco e, sotto le tende, c’erano tavoli su cavalletti per il pranzo successivo. Trovò subito i suoi genitori. Sua madre indossava un abito giallo nuovo. Doveva avere messo da parte dei risparmi per acquistarlo: era orgogliosa e non avrebbe mai permesso ai ricchi Peškov di comprare qualcosa per lei. Solo per George. Lo squadrò dalla testa ai piedi, toga accademica e tocco compresi. «Questo è il giorno più emozionante della mia vita» annunciò. E poi, con grande meraviglia di suo figlio, scoppiò in lacrime. George era sorpreso. Era un fatto del tutto insolito. Sua madre aveva passato gli ultimi venticinque anni della propria vita rifiutandosi di dare prova di qualsiasi debolezza. George la prese tra le braccia e la strinse a sé. «Sono così fortunato ad averti come madre» disse. Si sciolse gentilmente dall’abbraccio e le asciugò le lacrime con un fazzoletto bianco pulito. Poi si voltò verso suo padre. Come la maggior parte degli ex alunni, Greg esibiva una paglietta sul cui nastro era stampato l’anno del conseguimento della laurea a Harvard, nel suo caso il 1942. «Congratulazioni, ragazzo mio» disse, stringendogli la mano. “Be’, se non altro è qui” pensò George. “È già qualcosa.” I nonni comparvero un momento dopo. Tutti e due erano immigrati russi. Il nonno, Lev Peškov, aveva cominciato gestendo bar e nightclub a Buffalo e adesso era proprietario di uno studio cinematografico a Hollywood. Era sempre stato un dandy e quel giorno indossava un abito bianco. George non aveva mai saputo cosa pensare di lui. C’era chi diceva che fosse un imprenditore spietato con pochi riguardi per la legge. D’altra parte, era sempre stato gentile con il nipote nero, versandogli regolarmente un generoso assegno e pagandogli le tasse universitarie. Prese George per un braccio e, in tono confidenziale, gli disse: «Ho un consiglio per la tua carriera d’avvocato. Non difendere mai i criminali». «Perché no?» «Perché sono dei perdenti» ridacchiò il nonno. Molti erano convinti che lo stesso Lev Peškov fosse stato un criminale, un contrabbandiere di alcolici ai tempi del proibizionismo. «Tutti i criminali sono dei perdenti?» domandò George. «Solo quelli che si fanno beccare» rispose Lev. «Gli altri non hanno bisogno di avvocati.» Rise di cuore. La nonna, Marga, diede un bacio affettuoso a George. «Non dare ascolto a tuo nonno.» «Lo devo ascoltare» ribatté George. «Mi ha pagato gli studi.» Lev gli puntò un dito contro. «Sono contento che tu non lo abbia dimenticato.» Marga lo ignorò. «Ma guardati!» disse al nipote, la voce piena di affetto. «Così bello! E adesso sei avvocato!» George era l’unico nipote di Marga e lei lo adorava. Probabilmente, prima che il pomeriggio finisse, gli avrebbe fatto scivolare in tasca cinquanta dollari. Marga era stata una cantante di nightclub e, a sessantacinque anni, si muoveva ancora come se stesse per salire sul palcoscenico in un aderente abito da sera. I capelli neri erano probabilmente tinti. Indossava più gioielli di quanto fosse opportuno in un evento all’aperto, George se ne rendeva conto, ma pensava che essendo l’amante, e non la moglie, la nonna sentisse il bisogno di status symbol. Marga era l’amante di Lev da quasi cinquant’anni, e Greg era il loro unico figlio. Lev aveva anche una moglie a Buffalo, Olga, e una figlia, Daisy, che aveva sposato un inglese e ora viveva a Londra. Di conseguenza George aveva cugini britannici che non aveva mai conosciuto. Bianchi, presumeva. Marga baciò Jacky sulle guance e George si accorse che la gente intorno a loro lanciava occhiate sorprese e cariche di disapprovazione. Perfino nella progressista Harvard era insolito vedere una persona di razza bianca abbracciare i negri. Ma la famiglia di George richiamava sempre occhiate nelle rare occasioni in cui compariva in pubblico al completo. Perfino nei luoghi in cui venivano ammesse tutte le razze, una famiglia mista poteva ancora fare emergere i pregiudizi latenti dei bianchi. George sapeva che, prima che la giornata finisse, avrebbe sentito qualcuno mormorare la parola “bastardo”. Avrebbe ignorato l’insulto. I suoi nonni neri erano morti da tempo e quella era tutta la sua famiglia. Avere quelle quattro persone che scoppiavano di orgoglio alla sua cerimonia di laurea valeva qualsiasi prezzo. «Ieri ho pranzato con il vecchio Renshaw» disse Greg. «L’ho convinto a rinnovarti l’offerta di impiego nel suo studio legale.» «Oh, è meraviglioso!» esclamò Marga. «George, sarai un avvocato di Washington, dopotutto!» Jacky rivolse a Greg uno dei suoi rari sorrisi. «Grazie.» Greg alzò un dito ammonitore. «Ci sono delle condizioni» avvertì. «Oh, George accetterà qualsiasi cosa sia ragionevole» disse Marga. «È un’opportunità talmente fantastica per lui.» Intendeva dire “per un ragazzo nero”, George lo sapeva, ma non protestò. In ogni caso Marga aveva ragione. «Quali condizioni?» domandò cauto. «Niente che non valga per qualsiasi avvocato al mondo» rispose Greg. «Devi stare lontano dai guai, ecco tutto. Un avvocato non può trovarsi dalla parte opposta rispetto alle autorità.» George era sospettoso. «Stare lontano dai guai?» «Semplicemente, non dovrai più prendere parte ad azioni di protesta, marce, dimostrazioni e simili. E comunque, come associato al primo anno, non avresti tempo per quella roba.» La proposta fece infuriare George. «Quindi dovrei cominciare la mia vita lavorativa giurando di non fare più niente per la causa della libertà.» «Non vedere la cosa da quel punto di vista» disse suo padre. George soffocò una reazione rabbiosa. La sua famiglia voleva il meglio per lui, lo sapeva. Cercando di mantenere un tono di voce neutro, domandò: «E come dovrei vederla?». «Il tuo ruolo nel movimento per i diritti civili non sarà più quello del soldato in prima linea, ecco tutto. Limitati a sostenerlo. Una volta all’anno, manda un assegno all’NAACP.» La National Association for the Advancement of Colored People, l’organizzazione per i diritti civili più antica e più conservatrice, si era opposta ai Freedom Riders definendoli troppo provocatori. «Mantieni un profilo basso. Lascia che sull’autobus salga qualcun altro.» «Forse c’è un’alternativa» disse George. «E cioè?» «Potrei lavorare per Martin Luther King.» «Ti ha offerto un impiego?» «C’è stato un approccio.» «Quanto ti pagherebbe?» «Non molto, credo.» «Non pensare di rifiutare un ottimo impiego e poi venire a chiedermi soldi» lo ammonì Lev. «Okay, nonno» disse George, anche se era esattamente quello che aveva pensato. «Ma credo che accetterò comunque quel lavoro.» «Oh, George, non farlo!» esclamò sua madre, intervenendo nella discussione. Stava per aggiungere qualcos’altro, ma in quel momento gli studenti vennero invitati a disporsi in fila per la consegna delle lauree. «Vai» disse allora Jacky. «Parleremo dopo.» George si allontanò dai familiari e trovò il suo posto nella fila. La cerimonia ebbe inizio e lui cominciò ad avanzare lentamente. Ripensò all’estate precedente, quando aveva lavorato nello studio Fawcett Renshaw. L’avvocato Renshaw si era considerato un eroe liberal per avere assunto un impiegato nero. Ma a George erano stati assegnati solo lavori così semplici da essere avvilenti perfino per uno stagista. Era stato paziente, aspettando un’occasione, e alla fine l’occasione era arrivata: aveva svolto una ricerca legale che aveva fatto vincere la causa allo studio, il quale gli aveva offerto l’assunzione appena si fosse laureato. Cose del genere gli capitavano molto spesso. Il mondo dava per scontato che uno studente di Harvard dovesse essere capace e intelligente… a meno che non fosse nero, nel qual caso il presupposto non valeva più. Per tutta la vita George aveva dovuto dimostrare di non essere un idiota. Questo lo riempiva di risentimento. Se mai avesse avuto dei figli, sperava che sarebbero cresciuti in un mondo diverso. Arrivò il suo turno sul palco. Mentre saliva i pochi gradini, rimase stupefatto nel sentire fischiare. Il fischio era una tradizione di Harvard, di solito riservata a professori che tenevano pessime lezioni o erano scortesi con gli studenti. George era così sconvolto che si fermò e si voltò. Incontrò lo sguardo di Joseph Hugo. Ma Hugo non era il solo: il fischio era troppo forte. George era sicuro che comunque fosse stato lui a orchestrare il tutto. Si sentì odiato. E troppo umiliato per salire sul palco. Rimase immobile, impietrito, e sentì il sangue affluirgli al viso. Poi qualcuno cominciò ad applaudire. Guardando le file di sedie, George vide alzarsi in piedi uno dei professori. Era Merv West, uno dei docenti più giovani. Altri si unirono all’applauso, sovrastando i fischi. Molta gente si alzò. George immaginò che anche persone che non lo conoscevano avessero indovinato chi era dal braccio ingessato. Ritrovò il coraggio e salì sul palco. Grida di entusiasmo si sollevarono quando gli venne consegnato il diploma di laurea. Lui si voltò lentamente verso il pubblico e ringraziò per gli applausi con un modesto cenno del capo. Poi scese. Il cuore gli martellava ancora quando si unì agli altri studenti. Molti gli strinsero la mano in silenzio. Era rimasto sconvolto dai fischi e, al tempo stesso, esaltato dall’applauso. Si rese conto che stava sudando e si passò il fazzoletto sul viso. Era stata una dura prova. Assistette al resto della cerimonia in una sorta di stordimento, lieto di avere il tempo per ricomporsi. Mentre lo shock dei fischi andava esaurendosi, capì che era stata opera di Hugo e di una manciata di scoppiati di estrema destra e che il resto della Harvard progressista gli aveva reso onore. Si disse che doveva sentirsi orgoglioso. Gli studenti si riunirono alle famiglie per il pranzo. La madre abbracciò George. «Ti hanno applaudito.» «Sì» disse Greg. «Anche se per un momento è sembrato che potesse andare diversamente.» George spalancò le mani in un gesto di supplica. «Come posso non prendere parte a questa battaglia?» domandò. «Desidero davvero l’impiego nello studio Fawcett Renshaw e voglio davvero fare contenta la famiglia che mi ha sostenuto in tutti questi anni di studio… ma non basta. E se avessi dei figli?» «Sarebbe bello!» commentò Marga. «Nonna, i miei figli saranno di colore. In che tipo di mondo cresceranno? Saranno americani di seconda classe?» La conversazione venne interrotta da Merv West, che strinse la mano a George e si congratulò per la laurea. Il professore era un po’ troppo informale con la giacca di tweed e la camicia button-down. «Grazie per avere dato inizio all’applauso, professore» disse George. «Non ringraziarmi: te lo meritavi.» George gli presentò i familiari. «Stavamo giusto parlando del mio futuro.» «Spero che tu non abbia ancora preso una decisione definitiva.» Quella frase stimolò la curiosità di George. Cosa significava? «Non ancora» rispose. «Perché?» «Sono in contatto con il segretario alla Giustizia, Bobby Kennedy. Laureato a Harvard, come ben sai.» «Spero che lei gli abbia detto che la sua gestione di ciò che è accaduto in Alabama è stata una vergogna nazionale.» West fece un sorriso triste. «Non con queste parole, non proprio. Ma Bobby e io ci siamo trovati d’accordo sul fatto che la risposta dell’amministrazione è stata inadeguata.» «Proprio così, non posso immaginare che lui…» George lasciò sfumare la frase, colpito da un pensiero improvviso. «Cos’ha a che fare questo con il mio futuro?» «Bobby ha deciso di assumere un giovane avvocato di colore per dare alla squadra ministeriale il punto di vista dei negri sui diritti civili. E mi ha chiesto se avevo qualcuno da raccomandargli.» Per un attimo George rimase stordito. «Mi sta forse dicendo che…» West alzò una mano. «Non ti sto offrendo l’impiego: solo Bobby può farlo. Ma posso farti avere un colloquio… se vuoi.» «George!» esclamò Jacky. «Un lavoro con Bobby Kennedy! Sarebbe fantastico.» «Mamma, i Kennedy ci hanno molto deluso.» «Allora va’ a lavorare per Bobby e cambia le cose!» George esitò. Guardò le facce ansiose intorno a lui: sua madre, suo padre, la nonna, il nonno. Poi di nuovo sua madre. «Magari lo farò» disse alla fine. 8 Dimka Dvorkin si vergognava di essere ancora vergine a ventidue anni. All’università era uscito con parecchie ragazze, ma nessuna di loro gli aveva permesso di arrivare fino in fondo. In ogni caso, non era sicuro di volerlo fare. Nessuno gli aveva detto che il sesso doveva essere parte di una relazione d’amore a lungo termine, ma era quello che pensava lui. Non aveva mai avuto la smania di fare sesso, come capitava ad alcuni. Tuttavia la sua mancanza di esperienza stava diventando motivo di imbarazzo. Il suo amico Valentin Lebedev era esattamente l’opposto. Alto e sicuro di sé, aveva i capelli neri, gli occhi azzurri e fascino da vendere. Al termine del loro primo anno all’università di Mosca, si era già portato a letto la maggior parte delle studentesse della facoltà di scienze politiche e una delle insegnanti. All’inizio della loro amicizia, Dimka gli aveva chiesto: “Cosa fai per… insomma, per evitare una gravidanza?”. “È un problema che riguarda la ragazza, no?” aveva risposto Valentin in tono indifferente. “E se dovesse succedere il peggio, abortire non è poi così difficile.” Parlando con altri, Dimka aveva scoperto che molti ragazzi la pensavano allo stesso modo. Gli uomini non restavano gravidi, per cui non era un problema loro. E l’aborto era disponibile a richiesta durante le prime dodici settimane. Ma Dimka non riusciva ad accettare l’approccio di Valentin, forse perché sua sorella disprezzava quell’atteggiamento. Il sesso era sempre stato il principale interesse di Valentin, che metteva lo studio solo al secondo posto. Per Dimka era stato il contrario, e ciò spiegava perché ora Dimka fosse assistente al Cremlino e Valentin lavorasse per il dipartimento Parchi della città di Mosca. Era stato proprio grazie alle sue conoscenze nel settore che Valentin era riuscito a far sì che loro due, nel luglio del 1961, potessero trascorrere una settimana al campeggio estivo per giovani comunisti V.I. Lenin. Il campeggio aveva un’impostazione un po’ militare, con le tende disposte in file che sembravano tracciate con il righello e il coprifuoco alle ventidue e trenta, però offriva una piscina, un lago dove andare in barca e una marea di ragazze. Una settimana in quel campeggio era un privilegio molto ambito. Dimka riteneva di meritarsi una vacanza. Il summit di Vienna era stato una vittoria per l’Unione Sovietica e parte del merito andava anche a lui. In realtà il vertice viennese era cominciato male per Chrušcëv. Kennedy e la sua abbagliante moglie avevano fatto il loro ingresso a Vienna con una flotta di limousine da cui sventolavano decine di bandiere a stelle e strisce. Quando i due leader si erano incontrati, i telespettatori di tutto il mondo avevano visto che Kennedy sovrastava Chrušcëv di parecchi centimetri e che, guardando lungo il proprio naso patrizio, ne vedeva la sommità calva della testa. Le giacche su misura e le cravatte sottili del presidente americano avevano fatto sembrare Chrušcëv un contadino vestito a festa. L’America aveva vinto una gara di glamour alla quale l’Unione Sovietica non sapeva nemmeno di partecipare. Tuttavia, una volta iniziati i colloqui, Chrušcëv aveva dominato. Quando Kennedy aveva cercato di intavolare una discussione pacata, tra due uomini ragionevoli, il primo segretario era diventato rumorosamente aggressivo. Kennedy aveva fatto presente che non era logico da parte dell’Unione Sovietica incoraggiare il comunismo nei paesi del Terzo mondo e poi protestare indignata per gli sforzi americani di far rientrare il comunismo all’interno della sfera sovietica. Chrušcëv aveva ribattuto sprezzante che la diffusione del comunismo era storicamente inevitabile e niente di ciò che avrebbero potuto fare i due leader l’avrebbe impedita. Kennedy aveva una scarsa conoscenza della filosofia marxista e non era stato in grado di replicare. La strategia sviluppata da Dimka e dagli altri consiglieri aveva trionfato. Tornato a Mosca, Chrušcëv aveva ordinato decine e decine di copie dei verbali del summit e le aveva fatte distribuire, non solo nel blocco sovietico, ma anche a leader di paesi remoti come la Cambogia e il Messico. Da allora Kennedy era rimasto in silenzio, non aveva neppure reagito alla minaccia di Chrušcëv di prendersi Berlino Ovest. E Dimka era partito per la sua vacanza. Il primo giorno, Dimka indossò i suoi capi nuovi: una camicia a scacchi a maniche corte e un paio di shorts che sua madre aveva ricavato dai pantaloni di un vecchio abito liso di serge blu. «Calzoncini del genere sono di moda in Occidente?» gli domandò Valentin. Dimka rise. «Non che io sappia.» Mentre Valentin si faceva la barba, Dimka decise di andare a comprare qualche provvista. Quando emerse all’esterno, vide con piacere, proprio accanto a loro, una ragazza intenta ad accendere il fornelletto portatile in dotazione a ogni tenda. Era un po’ più vecchia di lui, pensò Dimka, forse sui ventisette anni. Aveva folti capelli castano rossicci tagliati a caschetto, una manciata di lentiggini seducenti e un preoccupante aspetto alla moda, con una camicetta arancione e un paio di pantaloni neri aderenti che le arrivavano appena sotto il ginocchio. «Salve!» la salutò Dimka con un sorriso. La ragazza alzò lo sguardo. «Serve una mano?» Lei accese il gas con un fiammifero e rientrò nella sua tenda, senza rispondere. “Be’, non sarà con lei che perderò la verginità” si disse Dimka, avviandosi. Comprò uova e pane nel negozio accanto all’edificio dei bagni comuni. Quando tornò, vide due ragazze davanti alla tenda accanto alla sua: quella alla quale aveva rivolto la parola e una bionda carina dalla figura slanciata. La bionda indossava pantaloni simili a quelli dell’amica, ma con una camicetta rosa. Valentin stava parlando con loro e tutti e tre ridevano. Valentin presentò le ragazze a Dimka. La rossa si chiamava Nina; non fece cenno all’incontro di poco prima e continuava ad avere un’aria riservata. La bionda, che si chiamava Anna ed era chiaramente quella più estroversa, sorrideva e si scostava i capelli dal viso con un gesto aggraziato. I due ragazzi avevano portato con sé una sola casseruola di ferro nella quale pensavano di cucinare tutto e Dimka l’aveva riempita d’acqua per bollire le uova. Le ragazze però erano meglio equipaggiate e Nina prese le uova per preparare i bliny. Le cose si stavano mettendo bene, pensò Dimka. Studiò Nina mentre mangiavano. Il naso sottile, la bocca piccola e il delicato mento sporgente le davano un’aria guardinga, come se stesse continuamente soppesando la situazione. Ma aveva anche una figura voluttuosa e Dimka, quando si rese conto che forse l’avrebbe vista in costume da bagno, sentì inaridirsi la gola. «Dimka e io abbiamo in programma di prendere una barca a remi e raggiungere l’altra sponda del lago» annunciò Valentin. Era la prima volta che Dimka ne sentiva parlare, ma non disse niente. «Perché non andiamo tutti e quattro?» continuò Valentin. «A pranzo potremmo fare un picnic.» “Non può essere così facile” pensò Dimka. Si erano appena conosciuti! Le due ragazze si guardarono un momento, quasi comunicassero telepaticamente, poi Nina disse in tono secco: «Vedremo. Adesso sparecchiamo» e cominciò a raccogliere piatti e posate. Una risposta un po’ deludente, ma forse la faccenda non finiva lì. Dimka si offrì di portare i piatti sporchi all’edificio dei bagni. «Dove hai trovato quei calzoncini?» domandò Nina mentre camminavano insieme. «Me li ha fatti mia madre.» La ragazza rise. «Che dolce.» Dimka si chiese cosa avrebbe sottinteso sua sorella definendo un uomo “dolce”. Decise che significava che lui era gentile ma non attraente. Una specie di casamatta in cemento ospitava le toelette, le docce e grandi lavandini comuni. Dimka guardò Nina lavare i piatti. Cercò qualcosa da dire, ma non gli venne in mente niente. Se la ragazza gli avesse chiesto della crisi di Berlino, avrebbe potuto parlare per tutto il giorno, ma lui non aveva alcun talento per le amenità che Valentin era capace di sciorinare in un flusso continuo e spontaneo. Alla fine riuscì a chiedere: «Tu e Anna siete amiche da molto tempo?». «Lavoriamo insieme» rispose Nina. «Siamo impiegate nell’ufficio amministrativo del sindacato dei lavoratori dell’acciaio, nella sede centrale di Mosca. Io ho divorziato un anno fa, Anna cercava qualcuno con cui dividere il suo appartamento e così adesso abitiamo insieme.» “Divorziata” si disse Dimka. Significava che Nina era sessualmente esperta. Si sentì intimidito. «Com’era tuo marito?» «Uno stronzo» rispose Nina. «Non mi va di parlare di lui.» «Okay.» Dimka cercò disperatamente qualcosa di futile da dire. «Anna pare davvero una persona simpatica» tentò. «Ha buone conoscenze.» Sembrava un’osservazione strana a proposito di un’amica. «Cioè?» «È stato suo padre a procurarci questa vacanza. È il segretario del sindacato per il distretto di Mosca.» Nina ne sembrava orgogliosa. Dimka riportò i piatti puliti alle tende. Quando arrivarono, Valentin annunciò allegramente: «Abbiamo preparato i panini, prosciutto e formaggio». Anna guardò Nina e fece un gesto di impotenza, come a lasciar intendere di non essere riuscita a fermare il rullo compressore Valentin, ma a Dimka parve chiaro che non ci aveva nemmeno provato. Nina si strinse nelle spalle e così si decise che avrebbero fatto il picnic. Dovettero restare in fila per un’ora per avere la barca, ma i moscoviti erano abituati alle code e, nella tarda mattinata, i quattro erano già sull’acqua chiara e fredda del lago. Valentin e Dimka si diedero il turno ai remi e le ragazze presero il sole. Nessuno sembrava sentire il bisogno di chiacchierare. Raggiunta la sponda opposta, ormeggiarono la barca in una spiaggetta. Valentin si tolse la camicia e Dimka lo imitò. Anna si tolse la maglia e i pantaloni, sotto i quali indossava un due pezzi azzurro cielo. Dimka sapeva che quel tipo di costume si chiamava bikini e che era di moda in Occidente, ma non ne aveva mai visto uno e si sentì imbarazzato per il modo in cui lo eccitava. Riusciva a malapena a staccare gli occhi dallo stomaco piatto e liscio e dall’ombelico della ragazza. Con sua grande delusione, Nina rimase vestita. Mangiarono i panini e Valentin fece comparire una bottiglia di vodka. Nel negozio del campeggio non si vendevano alcolici, Dimka lo sapeva. «L’ho comprata dall’addetto alle barche, che gestisce una sua piccola impresa capitalista» disse Valentin. Dimka non era sorpreso: la maggior parte delle cose che la gente desiderava davvero era venduta al mercato nero, dai televisori ai blue jeans. Si passarono la bottiglia ed entrambe le ragazze bevvero un lungo sorso. Nina si asciugò la bocca con il dorso della mano. «Allora, voi due lavorate insieme al dipartimento Parchi?» «No» rispose Valentin ridendo. «Il mio amico è troppo intelligente per un lavoro simile.» «Io lavoro al Cremlino» chiarì Dimka. Nina era colpita. «E cosa fai?» A Dimka non andava molto di spiegarlo perché poteva dare l’impressione di vantarsi. «Sono uno degli assistenti del primo segretario.» «Vuoi dire del compagno Chrušcëv?» chiese sbalordita Nina. «Sì.» «E come diavolo sei riuscito ad avere un impiego del genere?» «Ve l’ho detto: è intelligente» si inserì Valentin. «È sempre stato il primo della classe.» «Non ottieni un impiego simile solo con i bei voti» ribatté bruscamente Nina. «Chi conosci?» chiese a Dimka. «Mio nonno, Grigorij Peškov, fu tra coloro che presero il Palazzo d’Inverno durante la rivoluzione di ottobre.» «Anche questo non basta a procurarti un buon lavoro.» «Be’, mio padre era nel KGB… È morto l’anno scorso. Mio zio è generale. E io sono davvero intelligente.» «E anche modesto» aggiunse Nina, ma il suo sarcasmo era bonario. «Come si chiama tuo zio?» «Vladimir Peškov. Noi lo chiamiamo Volodja.» «Ho sentito parlare del generale Peškov. E così è tuo zio… Con una famiglia del genere, come mai vai in giro con dei calzoncini fatti in casa?» Dimka era confuso. Era la prima volta che Nina mostrava interesse nei suoi confronti, ma lui non riusciva a capire se la ragazza fosse piena di ammirazione o di disprezzo. Forse era semplicemente il suo modo di fare. Valentin si alzò in piedi. «Vieni in esplorazione con me» disse ad Anna. «Lasciamo questi due a discutere dei calzoncini di Dimka.» Le tese una mano. Anna la prese e permise a Valentin di aiutarla ad alzarsi. Poi i due scomparvero tra gli alberi, tenendosi per mano. «Io non piaccio al tuo amico» disse Nina. «Però a lui piace la tua amica.» «Sì, è carina.» «Tu sei bella» disse Dimka sottovoce. Non aveva programmato di farlo, gli era venuto spontaneo. Ed era sincero. Nina lo fissò assorta, quasi rivalutandolo. Poi domandò: «Ti va di nuotare?». A Dimka l’acqua non piaceva molto, ma era ansioso di vedere la ragazza in costume da bagno. Si svestì: sotto gli shorts indossava il costume. Quello di Nina era intero, di nylon marrone. La ragazza non era in bikini, ma riempiva il costume così gradevolmente che Dimka non rimase deluso. Nina era l’opposto della snella Anna: aveva seni pieni e fianchi ampi, e lentiggini sulla gola. La ragazza notò lo sguardo di Dimka sul suo corpo, si voltò e corse in acqua. Dimka la seguì. Nonostante il sole, l’acqua era fredda da togliere il fiato, tuttavia Dimka ne apprezzò la sensazione sensuale sul corpo. Nuotarono tutti e due con energia per riscaldarsi. Si spinsero al largo e poi, più lentamente, tornarono verso riva. Smisero di nuotare poco prima della spiaggia e Dimka lasciò che i piedi toccassero il fondo. L’acqua gli arrivava alla vita. Dimka guardò il seno di Nina: la temperatura fredda le aveva indurito i capezzoli, che risaltavano sotto il costume da bagno. «Smettila di fissarmi» lo ammonì scherzosamente Nina, spruzzandogli l’acqua in faccia. Dimka la spruzzò a sua volta. «Te lo sei voluto!» disse Nina, e gli afferrò la testa cercando di spingergliela in acqua. Dimka si divincolò e la prese per la vita. Lottarono. Il corpo di Nina era pesante ma sodo, e a Dimka quella solidità piaceva. Prese la ragazza tra le braccia e la sollevò, staccandole i piedi dal fondo. Nina cominciò a dibattersi, ridendo e cercando di liberarsi, e Dimka la strinse a sé con maggior forza. Sentì i seni morbidi premere contro il suo viso. «Mi arrendo!» gridò lei. Riluttante, Dimka la mise giù. Si fissarono per un momento. Negli occhi di Nina, Dimka lesse un lampo di desiderio. Aveva un atteggiamento diverso nei suoi confronti: forse era stata la vodka, forse la consapevolezza del fatto che lui era un importante apparatcik, forse l’eccitazione del gioco nell’acqua, o forse tutt’e tre le cose. A Dimka importava ben poco. Nel sorriso di Nina colse un invito e la baciò sulla bocca. Lei rispose al bacio con entusiasmo. Dimka dimenticò l’acqua fredda, perso nella sensazione delle labbra e della lingua di Nina, ma dopo pochi minuti lei rabbrividì e disse: «Adesso usciamo». Dimka la tenne per mano mentre avanzavano goffi nell’acqua poco profonda e raggiungevano la riva. Si distesero fianco a fianco sull’erba e si baciarono di nuovo. Dimka le toccò il seno e cominciò a chiedersi se sarebbe stato quello il giorno in cui avrebbe perso la verginità. Vennero interrotti da una voce aspra che rimbombò da un megafono: “Riportate le barche al molo! Tempo scaduto!”. «È la polizia antisesso» mormorò Nina. Nonostante la delusione, Dimka rise. Alzò lo sguardo e vide un piccolo gommone con motore fuoribordo passare davanti a loro a un centinaio di metri dalla riva. Agitò un braccio per dare conferma: sapeva che la barca si poteva tenere solo per due ore. Gli venne in mente che una mancia al supervisore avrebbe potuto garantire una proroga, ma non ci aveva pensato. In realtà non si era neppure sognato che il rapporto con Nina progredisse così in fretta. «Non possiamo tornare senza gli altri due» disse Nina, ma un momento dopo Valentin e Anna emersero dal bosco. Erano rimasti nei paraggi, pensò Dimka, e avevano sentito l’avviso al megafono. I ragazzi si allontanarono un po’ da Nina e Anna e tutti e quattro indossarono i rispettivi indumenti sopra il costume da bagno. Dimka sentì le ragazze discutere a bassa voce: Anna parlava in tono concitato, Nina ridacchiava e annuiva. Poi Anna lanciò un’occhiata eloquente a Valentin. Sembrava un segnale concordato. Lui fece cenno di sì con la testa e si rivolse a Dimka: «Questa sera noi quattro andiamo a ballare. Quando torneremo, Anna verrà con me nella nostra tenda. Tu andrai con Nina in quella delle ragazze. Okay?». Era più che okay: era eccitante. «Hai organizzato tutto con Anna?» domandò Dimka. «Sì. E Nina ha appena accettato.» Dimka non riusciva quasi a crederci. Avrebbe passato tutta la notte abbracciando il corpo sodo di Nina. «Allora le piaccio!» «Dev’essere merito dei tuoi calzoncini.» Salirono in barca e i ragazzi cominciarono a remare. Le ragazze annunciarono che sarebbero andate a fare la doccia appena arrivate. Dimka si chiese come fare perché il tempo passasse in fretta fino a sera. Quando attraccarono al molo, videro un uomo vestito di nero in attesa. Dimka capì istintivamente che era un messaggero per lui. “Dovevo immaginarlo” pensò con rimpianto. “Le cose stavano andando troppo bene.” Scesero dalla barca. Nina guardò l’uomo che sudava nel suo abito nero e domandò: «Ci arresteranno perché abbiamo tenuto la barca per troppo tempo?». Scherzava solo in parte. «È qui per me?» domandò Dimka. «Sono Dmitrij Dvorkin.» «Sì, Dmitrij Il’ic» rispose l’uomo, usando rispettosamente il patronimico. «Sono il suo autista. La devo accompagnare in aeroporto.» «Di che emergenza si tratta?» L’autista si strinse nelle spalle. «Il primo segretario la vuole.» «Vado a prendere la mia borsa» disse Dimka cupo. Come piccola consolazione, Nina sembrava particolarmente impressionata. L’auto portò Dimka all’aeroporto di Vnukovo, a sudovest di Mosca, dove Vera Pletner lo stava aspettando con una grande busta e un biglietto per Tbilisi, la capitale della Repubblica Socialista Sovietica della Georgia. Chrušcëv non era a Mosca, ma nella sua dacia a Pitsunda, una località di vacanza sul Mar Nero riservata ai massimi esponenti del governo. Ed era là che Dimka era diretto. Non c’era mai stato. Non era l’unico assistente la cui vacanza era stata interrotta. Nell’atrio partenze, mentre stava per aprire la busta, venne avvicinato da Evgenij Filipov, che indossava come sempre una camicia di flanella grigia, nonostante il caldo estivo. Filipov sembrava compiaciuto, e ciò era un brutto segno. «La vostra strategia ha fallito» disse a Dimka con evidente soddisfazione. «Cos’è successo?» «Il presidente Kennedy ha fatto un discorso in televisione.» Kennedy era rimasto in silenzio per sette settimane dopo il summit di Vienna. Gli Stati Uniti non avevano reagito alla minaccia di Chrušcëv di firmare un trattato con la Repubblica Democratica Tedesca e riprendersi Berlino Ovest. Dimka aveva concluso che il presidente americano era troppo intimorito per tenere testa a Chrušcëv. «Che discorso?» «Kennedy ha detto al popolo americano di prepararsi alla guerra.» Così era quella l’emergenza. Vennero chiamati all’imbarco. «Quali parole ha usato Kennedy, esattamente?» domandò Dimka. «Riferendosi a Berlino, ha detto: “Un attacco a quella città verrà considerato come un attacco a tutti noi”. Nella tua busta c’è la trascrizione completa.» Salirono a bordo. Dimka indossava ancora gli shorts. L’aereo era un jet di linea Tupolev Tu-104. Dimka guardò dall’oblò mentre decollavano. Sapeva come funzionava un aereo – la superficie superiore ricurva dell’ala che creava una differenza di pressione – ma il fatto di sollevarsi nell’aria gli sembrava sempre una magia. Finalmente distolse lo sguardo e aprì la busta. Filipov non aveva esagerato. Kennedy non si era limitato a qualche borbottio minaccioso. Proponeva di triplicare il numero dei soldati di leva, mobilitare i riservisti e portare l’esercito americano a un milione di uomini. Stava programmando un nuovo ponte aereo per Berlino, il trasferimento di sei divisioni in Europa e sanzioni economiche nei confronti dei paesi del Patto di Varsavia. E aveva aumentato il budget delle spese militari di oltre tre miliardi di dollari. Dimka si rese conto che la strategia elaborata da Chrušcëv e dai suoi consiglieri era fallita in modo catastrofico. Avevano tutti sottovalutato il giovane e bel presidente americano. Era uno che non si lasciava affatto intimidire, dopotutto. Cosa poteva fare Chrušcëv? Forse sarebbe stato costretto a dimettersi. Nessun leader sovietico lo aveva mai fatto: sia Lenin sia Stalin erano deceduti mentre erano ancora in carica. Ma c’era una prima volta per tutto nella politica della rivoluzione. Dimka lesse il discorso due volte e ci rimuginò sopra per il resto delle due ore di viaggio. C’era un’unica alternativa alle dimissioni di Chrušcëv, pensò: il leader poteva far fuori tutti i suoi assistenti, prendersi dei nuovi consiglieri e procedere a un rimpasto del Presidium, concedendo maggior potere ai suoi nemici; sarebbe stato come ammettere di avere avuto torto e promettere di cercare consigli più saggi in futuro. In ogni caso, la breve carriera di Dimka al Cremlino era finita. Forse era stata troppo ambiziosa, pensò lugubremente. Senza dubbio lo aspettava un futuro più modesto. Si chiese se la voluttuosa Nina avrebbe voluto comunque passare una notte con lui. L’aereo atterrò a Tbilisi e un piccolo velivolo militare trasportò Dimka e Filipov fino a una pista d’atterraggio sulla costa. I due trovarono ad aspettarli Natal’ja Smotrova, del ministero degli Esteri. L’aria umida del mare le aveva arricciato i capelli, dandole un’aria sbarazzina. «Ci sono brutte notizie da Pervukhin» annunciò, guidando l’auto che si allontanava dall’aereo. Mikhail Pervukhin era l’ambasciatore sovietico nella DDR. «Il flusso di chi passa in Occidente è diventato una marea.» Filipov sembrò irritato, probabilmente perché non aveva appreso la notizia prima di Natal’ja. «Di quali numeri stiamo parlando?» «Siamo quasi a mille persone al giorno.» Dimka era stupefatto. «Mille al giorno?» Natal’ja annuì. «Pervukhin dice che il governo della DDR non è più stabile. Il paese è sull’orlo del collasso. Potrebbe esserci una rivolta popolare.» «Vedi?» fece Filipov, rivolgendosi a Dimka. «Ecco a cosa ha portato la vostra politica.» Dimka non reagì. Natal’ja guidò seguendo la strada costiera fino a una penisola boschiva, dove poi svoltò varcando un massiccio cancello di ferro in un lungo muro a stucco. Al centro di prati immacolati sorgeva una villa bianca con un lungo balcone al primo piano. Di fianco alla casa c’era una piscina olimpica. Dimka non aveva mai visto un’abitazione privata con una piscina propria. «Lui è giù al mare» gli disse una guardia, indicando con un cenno del capo l’altro lato della casa. Dimka individuò il sentiero tra gli alberi e arrivò a una spiaggia di ciottoli. Un soldato armato di mitra lo guardò con espressione dura, poi gli fece segno di passare. Trovò Chrušcëv sotto una palma. Il secondo uomo più potente al mondo era basso, grasso, calvo e sgraziato. Indossava i pantaloni di un abito, tenuti su dalle bretelle, e una camicia bianca con le maniche arrotolate. Sedeva su una sedia di vimini e, sul tavolino davanti a lui, c’erano una caraffa piena d’acqua e un bicchiere da bibita. Sembrava che non stesse facendo nulla. Guardò Dimka e gli chiese: «Dove hai trovato quei calzoncini?». «Me li ha fatti mia madre.» «Dovrei averne anch’io un paio così.» Dimka pronunciò le parole che si era preparato: «Compagno primo segretario, le presento le mie immediate dimissioni». Chrušcëv lo ignorò. «Supereremo gli Stati Uniti in potenza militare e prosperità economica entro i prossimi vent’anni» dichiarò, come continuando una discussione già in corso. «Ma, nel frattempo, come facciamo a evitare che la potenza più forte domini la politica mondiale e impedisca la diffusione del comunismo?» «Non lo so» ammise Dimka. «Guarda» disse Chrušcëv. «Io sono l’Unione Sovietica.» Afferrò la caraffa e versò lentamente l’acqua nel bicchiere, riempiendolo fino all’orlo. Poi porse la caraffa a Dimka. «Tu sei gli Stati Uniti. Adesso versa altra acqua nel bicchiere.» Dimka fece come gli era stato detto. L’acqua traboccò e inzuppò la tovaglia bianca. «Hai visto?» fece Chrušcëv, come se avesse dimostrato una tesi. «Quando il bicchiere è pieno, non puoi versarci nient’altro, se non vuoi fare un disastro.» Dimka era perplesso. Fece la domanda che ci si aspettava da lui: «Che cosa significa, Nikita Sergeevic?». «La politica internazionale è come un bicchiere. Mosse aggressive, da una parte o dall’altra, versano acqua nel bicchiere. Se l’acqua trabocca, è guerra.» Dimka capì il punto. «Quando la tensione è al massimo, nessuno può fare una mossa senza provocare una guerra.» «Esatto. E gli americani non vogliono una guerra più di quanto la vogliamo noi. Perciò, se noi manteniamo la tensione internazionale al massimo, il bicchiere pieno fino all’orlo, il presidente americano ha le mani legate. Non può fare niente senza scatenare una guerra, e quindi non farà niente!» Fine dell'estratto Kindle. Ti è piaciuto? Download/Read Online Unlimited Books