Tre principi di deontologia docente Sergio Cicatelli (Dirigente

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Tre principi di deontologia docente Sergio Cicatelli (Dirigente
Tre principi di deontologia docente
Sergio Cicatelli (Dirigente scolastico, Roma)
Parallelamente alla trasformazione del mondo della scuola da apparato centralistico a
sistema di autonomie, l'insegnante sta abbandonando la condizione impiegatizia ed esecutiva per
avviarsi verso la condizione di professionista dell'educazione, responsabile delle decisioni che
quotidianamente è chiamato ad assumere a scuola. Ne deriva una crescente attenzione alla
problematica deontologica, che costringe a un ripensamento della stessa identità della scuola e
della professione docente. Per tentare una fondazione della deontologia docente che sottolinei
soprattutto la portata etica della condizione professionale, l'autore propone tre principi guida: I.
Opera in modo che la scuola e l'alunno al suo interno siano per te sempre un fine e mai un mezzo
(per fondare, kantianamente, la moralità dell'educazione); II. Opera con la consapevolezza di
costituire sempre un esempio per i tuoi allievi (per fondare la responsabilità della relazione
educativa); III. Agisci con la consapevolezza di operare sempre all'interno di un sistema scolastico
e mai isolatamente (per fondare la collegialità dell'insegnamento).
1. Deontologia e professionalità
La deontologia è una teoria del dover essere. Applicata al mondo delle professioni e, per
quello che qui ci interessa, alla scuola e alla figura dell'insegnante, tende a determinare una serie di
doveri e di impegni con una prospettiva che a nostro parere si caratterizza più per una dimensione
morale che giuridica. È quindi sul versante etico che vogliamo approfondire la riflessione, per
delineare qualche possibile principio ispiratore di un codice deontologico, del quale non si
intendono individuare procedure di elaborazione e contenuti particolari ma solo aspetti formali e
fondamenti teorici.
Negli ultimi anni si è sviluppato in Italia proprio sul codice deontologico degli insegnanti un
qualificato dibattito, che ha determinato anche la costituzione di una apposita commissione
ministeriale.[1] Ma l'attenzione sembra essersi concentrata più sul codice come evento (e su chi
debba scriverlo) che sul senso di una deontologia docente. Se invece ci domandiamo perché oggi si
sia imposta per gli insegnanti una riflessione sulla propria deontologia, possiamo individuarne le
cause nell'evoluzione recente che la scuola italiana ha attraversato a partire dagli anni Novanta,
anche se le innovazioni istituzionali affondano le proprie radici in trasformazioni di fatto promosse
fin dai decenni precedenti come conseguenza di una dinamica di portata internazionale.
La principale novità è rappresentata dal processo di professionalizzazione degli insegnanti,
passati nel volgere di una trentina d'anni dal paradigma dell'impiegato a quello del professionista.
La scolarizzazione di massa degli anni Sessanta e Settanta ha infatti ampliato in maniera
impressionante il corpo docente italiano, importando nella categoria comportamenti ed esigenze
propri del lavoratore dipendente, a scapito dell'enfasi sulla funzione sociale e sulla missionarietà
dell'insegnante, che una certa retorica – prima ottocentesca, poi fascista – ci aveva abituato a
coltivare.
Oggi invece ci troviamo a fare i conti con un insegnante che pretende (e al quale viene
chiesto) di assumere il ruolo di un professionista, cioè di un operatore esperto che sappia fornire
autonome risposte alle domande complesse che gli vengono poste in relazione alle sue
competenze.[2] Mentre all'impiegato si chiede di eseguire con diligenza compiti codificati in
istruzioni abbastanza precise, dal professionista ci si attende che sappia intervenire con
responsabilità su situazioni incerte che si aprono a valutazioni personali e soluzioni diverse. Nel
caso dell'impiegato è generalmente indifferente chi svolga la funzione, perché le scelte tecniche
sono state compiute a monte; nel caso del professionista è invece determinante chi si trovi in quella
posizione, perché a lui sono rimesse scelte decisive, da compiere sulla base del suo bagaglio di
conoscenze e della sua esperienza. Schematizzando al massimo, l'impiegato sta al professionista
come la necessità sta alla libertà.[3]
Proprio su questa libertà si fonda l'esistenza di una deontologia professionale, cioè di un
codice etico che guidi le azioni del professionista ricordandogli come e perché debba comportarsi
nella sua attività professionale. Non si tratta di prescrizioni costrittive ma di appelli alla coscienza
del professionista, che nell'esercizio della sua funzione sa di dover prendere quotidianamente
decisioni determinanti per la risoluzione dei problemi che gli vengono sottoposti.
Nel caso dell'insegnante, la questione è resa più complessa dal fatto che la sua azione
interviene direttamente sulle persone affidate alle sue cure, gli alunni, e consiste in gran parte
proprio nella relazione che egli stabilisce con questi soggetti, nell'efficacia della comunicazione e
nella correttezza del rapporto personale che si va a instaurare. A un ingegnere può essere chiesto di
risolvere un problema di carattere meccanico o elettronico, che può avere solo ricadute indirette
sulle persone che useranno quegli strumenti; a un avvocato può essere chiesto un parere
sull'applicazione di una norma, che produrrà conseguenze sulla vita delle persone ma senza che ne
sia coinvolta la relazione con l'avvocato stesso; a un medico si chiede di curare un malato, e proprio
quando si tratta di "curare" la persona, e non di "guarire" la malattia, si nota la maggiore vicinanza
con l'esperienza del docente cui è affidata la cura di una persona in fase di crescita. A un insegnante
si chiede di entrare in relazione con i suoi allievi e mettere in gioco le proprie competenze, che sono
ben più complesse delle sole conoscenze da trasmettere, per sollecitare la formazione di nuove e
diverse competenze negli allievi: nuove e diverse perché cresciute all'interno di un'altra persona che
non può e non deve semplicemente replicare l'insegnante.
Proprio la relazione personale che si stabilisce tra insegnante e alunno motiva la riflessione
morale che, in termini di deontologia, deve svilupparsi su questo tipo particolare di professione. La
relazione educativa è uno scambio immateriale in cui ciascuno dei soggetti coinvolti (docente e
alunno) dà e riceve, modifica ed è modificato, domanda e risponde, muovendosi all'interno di una
situazione complessa e aperta che richiede da entrambe le parti una continua assunzione di
responsabilità per la scelta che si va a compiere con il proprio comportamento prima ancora che con
le cose dette o taciute. Si impone dunque una considerazione di carattere morale.
Nella storia recente della nostra scuola si è passati gradualmente dal modello semplicemente
trasmissivo, legato a rigidi programmi ministeriali centrati sui contenuti, al modello della
programmazione curricolare, costituito da procedure da attuare più flessibilmente per raggiungere
gli obiettivi didattici convenuti, fino ad arrivare al modello della personalizzazione che chiede oggi
di considerare l'alunno nella sua interezza, prestando attenzione alle modalità del suo variabile stile
cognitivo e di apprendimento: si è passati, insomma, dalla centralità delle cose da insegnare a quella
degli obiettivi da raggiungere, a quella delle persone da formare. Il docente è contestualmente
passato dal ruolo di semplice strumento al servizio del programma e della disciplina a quello di
originale mediatore, prima della propria azione didattica e poi dell'apprendimento altrui,
sviluppando così una progressiva e sempre più impegnativa assunzione di responsabilità. È ovvio
che a un'evoluzione del genere corrisponde una trasformazione dell'intera immagine di scuola e
dunque una sua ridefinizione anche istituzionale, che in Italia si è compiuta con l'introduzione
dell'autonomia prima ancora che con la riforma ordinamentale.[4]
L'autonomia che è stata riconosciuta a ogni singola istituzione scolastica ha evidenziato la
libertà di ogni scuola di costruire, pur nel rispetto delle norme generali sull'istruzione fissate dallo
Stato, una propria offerta formativa diversa da quella che altre scuole, anche dello stesso tipo,
possono legittimamente adottare. Ciò comporta per le scuole la responsabilità di costruire percorsi
formativi capaci di rispondere efficacemente alla domanda dell'utenza e coerenti con l'assetto
epistemologico-didattico dei saperi.
Autonomia, libertà, responsabilità sono concetti che ci trasportano immediatamente in un
contesto kantiano di riflessione sulla morale: non è solo un gioco di parole ma l'effettiva consistenza
etica della situazione in cui si trovano a operare i docenti, perché la moralità non appartiene alle
istituzioni di cui parla la norma (ché si tratterebbe piuttosto di eticità hegeliana) ma alle persone che
in esse operano. Non a caso il regolamento dell'autonomia scolastica pone sì a carico dell'istituzione
scolastica la predisposizione del piano dell'offerta formativa, ma attribuisce ai docenti «il compito e
la responsabilità della progettazione e della attuazione del processo di insegnamento e di
apprendimento»,[5] perché la responsabilità è sempre personale cioè attribuibile a soggetti umani
capaci di scegliere con libertà in un contesto indeterminato.
2. Primo principio: l'attenzione ai fini
Poste queste premesse, è allora possibile tentare di individuare alcuni principi guida per la
costituenda deontologia docente. I tre che intendiamo proporre non sono i soli principi possibili ma
alcuni tra quelli che ci sembra possano collocarsi legittimamente alla base di una complessiva
deontologia, avendo una funzione generativa rispetto all'intero codice o alle diverse possibili
specificazioni comprese al loro interno. Il primo, tuttavia, aspira a una priorità e
fondamentalità/fondatività che in gran parte gli vengono dalle sue evidenti radici kantiane.
I. Opera in modo che la scuola e l'alunno al suo interno siano per te sempre un fine e mai
un mezzo.
Il richiamo alla seconda formula dell'imperativo categorico è palese. Kant invita più
genericamente e universalmente, nella Fondazione della metafisica dei costumi, a considerare
l'umanità, in sé e negli altri, sempre come fine e mai come mezzo.[6] Noi, per contestualizzare e
specificare il precetto, lo abbiamo tradotto in termini scolastici, anteponendo peraltro la scuola
all'alunno non per subordinare le persone alle istituzioni ma per rafforzare il rispetto delle persone
con l'impegno della stessa istituzione, che non può non fondare la propria azione (cioè quella dei
suoi insegnanti) a partire dagli allievi al cui servizio si pone (rispetto ai quali, cioè, essa è mezzo).
In altre parole, l'alunno è a doppio titolo il fine dell'insegnante: direttamente, in quanto destinatario
della sua azione didattico-educativa, e indirettamente, in quanto destinatario dell'intero servizio
scolastico (che è ugualmente un fine per l'insegnante).
Il legame che intendiamo stabilire con l'intera impostazione della morale kantiana non è di
circostanza. Il formalismo che riteniamo di poter attribuire a questo primo principio è infatti un
elemento qualificante, in quanto non c'è un contenuto particolare in questa legge (neanche la scuola
o l'alunno) ma solo la forma della volontà che si applica a situazioni e oggetti diversi: nel mutare
degli alunni e dei contesti scolastici in cui ci si viene a trovare, rimane sempre fermo il modo in cui
il docente deve rapportarsi agli oggetti della sua attività professionale (gli alunni, le discipline di
insegnamento, gli strumenti didattici…), cioè l'intenzione della sua azione professionale. Ed è per
questo motivo che siamo inequivocabilmente sul terreno morale e siamo in grado di costruirvi sopra
una compiuta deontologia.
La formula si presenta sotto l'aspetto di un imperativo categorico perché non è sottoposta a
nessuna condizione (non è un imperativo ipotetico). È una legge che vale per se stessa in base alla
sua pura forma di legge; è con essa che si misura la volontà, che così riesce a scoprire tutta la sua
autonomia. Se da Kant riportiamo il discorso al contesto scolastico, possiamo dire che l'autonomia
oggi riconosciuta alle scuole e ai docenti è il risultato del processo appena ricordato: la scuola dei
programmi voleva un docente eterodiretto (eteronomo), la scuola della programmazione e della
personalizzazione lascia spazio al docente autonomo. Evidente presupposto di questa autonomia è,
come ancora una volta insegna Kant, la libertà del soggetto, che è autonomo perché nulla può
condizionarne le scelte se non la forza morale della legge. La libertà quale postulato della ragion
pratica si trasforma qui nella libertà quale condizione e prodotto dell'azione docente: se il fine
dell'azione è la persona nella sua assoluta variabilità e incondizionabilità, la libertà diventa modo di
agire e obiettivo in vista del quale agire (formare personalità libere e a loro volta autonome),
applicando così la teoria kantiana con una curvatura per certi aspetti più propriamente fichtiana.
Insomma, per tentare di ricondurre il discorso al concreto terreno scolastico e professionale,
il primo principio può costituire una guida assoluta (nel senso letterale del termine) per una
deontologia docente, perché rimane perennemente aperto al rispetto dell'alunno e del contesto
istituzionale scolastico, senza attribuire a essi una connotazione particolare (un certo tipo di alunno,
un certo modello di scuola).
È nota la distinzione weberiana tra etica dei principi ed etica della responsabilità[7], la prima
volta ad applicare rigorosamente una regola morale a prescindere dalle conseguenze (fiat iustitia et
pereat mundus), la seconda attenta alle conseguenze di ciascuna azione e dunque centrata più
sull'esterno che sull'interno del soggetto che agisce. È questo secondo modello che ci interessa
utilizzare come punto di riferimento, poiché in ambito professionale si parte inevitabilmente dalla
relazione che nasce tra il soggetto che pone una domanda al professionista e quest'ultimo che gli
fornisce una risposta, mentre il primo modello è quello di una regola valida nella sua assoluta
astrattezza.
Se la forma del primo principio suggerisce già da sé di centrarsi sull'altro (la scuola e
l'alunno), escludendo una soddisfazione autoreferenziale del docente, la specifica professionalità
docente impone che le regole dell'azione siano commisurate all'apprendimento dell'alunno e al
rispetto del contesto in cui si agisce. Ciò pone uno stretto legame tra didattica e deontologia
docente, fissando anche parametri di valutazione dell'efficacia didattica di un docente non solo in
termini di "produttività" ma anche di etica. In parole povere, il rispetto della deontologia docente
non è un quid pluris che si va ad aggiungere al lavoro di un insegnante, che può ottenere
ugualmente buoni risultati dai suoi alunni, ma è fattore determinante per la riuscita del lavoro
didattico, proprio per la particolare natura professionale e relazionale del mestiere di insegnante. Più
che la rilevanza didattica della deontologia, sembra però importante la sua più generale funzione
pedagogica in quanto fattore costitutivo della relazione educativa e principio guida di una teoria
dell'educazione.
In primo luogo si può sostenere che non c'è educazione senza un educatore, cioè senza la
responsabile azione di qualcuno che, direttamente o indirettamente, entri in relazione con il soggetto
da educare e ne attivi i processi di formazione e di apprendimento. In secondo luogo trova conferma
la vecchia e discussa tesi che la pedagogia possa configurarsi come una branca della filosofia
morale, non per ribadire una condizione ancillare della prima rispetto alla seconda ma per rilevare
come una relazione fra persone imponga sempre e comunque una responsabilità che in questo caso
particolare è caratterizzata da una specifica direzione, vista l'asimmetria del rapporto. In terzo
luogo, la specifica formulazione del primo principio tematizza direttamente l'educazione di natura
scolastica, non perché gli altri contesti educativi non sollevino analoghe questioni di responsabilità
ma perché solo in ambito scolastico l'azione educativa pone quel tipo particolare di problemi di
carattere deontologico che derivano dall'azione di un professionista.
Nella sua assolutezza il principio sopra enunciato si presta a rimanere nella sua astratta
formulazione, ma in realtà se ne possono proporre anche varianti subordinate che consentono di
esplorarne l'intrinseca vitalità.
I-a Rispetta l'alunno e la scuola sempre come fini del tuo operato professionale e mai
come mezzi.
I-b Opera affinché l'alunno e la scuola rimangano sempre fini e mai mezzi della tua azione
professionale.
I-c Coltiva la libertà dell'alunno e della scuola come condizioni e finalità della tua azione
professionale.
I-d Costruisci la regola della tua azione professionale sulla scuola e sull'alunno in essa
collocato.
In I-a il rispetto dovuto all'alunno e alla scuola è il primo risultato della loro individuazione
quali fini dell'azione professionale. Ma soprattutto questa seconda formulazione insiste nel
presentare alunno e scuola come entità già date e di cui l'azione del docente deve solo prendere atto.
Esattamente inversa è la situazione contemplata in I-b, dove l'insegnante si assume il
compito di continuare a far esistere alunno e scuola in quanto tali, con un'azione che costruisce la
relazione educativa scolastica in maniera dinamica e rende scuola e alunno obiettivi sempre in fieri.
Ancora più esplicitamente, la regola assume un valore intrinsecamente pedagogico in I-c,
dove si introduce la nozione di libertà quale espressione e garanzia della validità deontologica
dell'azione dell'insegnante, tenuto a operare affinché la libertà non sia una condizione data una volta
per tutte ma il risultato stesso del lavoro del professionista della scuola. Di fatto questo enunciato
pone le basi anche per una teoria della scuola che veda nella promozione della libertà l'obiettivo di
tutti coloro che intervengono al suo interno: gli alunni, che sono liberi e devono continuare a
esserlo; gli insegnanti, che sono ugualmente liberi e devono mirare a salvaguardare anche la libertà
di coloro che gli vengono affidati; la scuola in quanto istituzione, che è libera solo in quanto a sua
volta promotrice di libertà.
Infine, in I-d si ricostruisce la struttura formale della stessa deontologia, che dalla sua
collocazione nel regno dei fini acquista significato e fondamento. Dovrebbe risultare evidente il
rinvio a Kant e alla sua distinzione tra legge (principio valido per tutti) e massima (principio
dell'azione individuale): la regola dell'operato individuale del docente non risponde solo al docente
stesso (autoreferenzialità) ma trova il suo punto di riferimento fuori di sé, nella scuola e nella
persona dell'alunno, potendo aspirare a una forma di universalità.
Una prima conseguenza pratica di questa famiglia di principi è concepire la funzione della
scuola e dell'insegnante come un servizio alla persona dell'alunno, di cui la pedagogia più recente ci
ha insegnato a coltivare la centralità. In passato abbiamo assistito spesso alla finalizzazione
dell'alunno alle esigenze della scuola (quando non addirittura a quelle dell'insegnante), piegandolo a
comportamenti e prestazioni funzionali principalmente all'organizzazione della scuola stessa o dei
contenuti da apprendere. Il primo principio costringe invece l'insegnante ad avere sempre ben chiari
i motivi per cui opera (e dunque la sua identità professionale), superando prassi autoritarie o
nozionismi ingiustificabili. È infatti autoritaria una scuola che impone all'alunno comportamenti e
stili cognitivi a lui estranei e incomprensibili (pensiamo alle forzature compiute in passato nei
confronti di tanti soggetti mancini, a scelte organizzative e orari commisurati più al lavoro degli
insegnanti che ai ritmi degli alunni, a una scuola ideologicamente e propagandisticamente volta a
formare solo un certo tipo d'uomo soprattutto in regimi non democratici, ecc.); ed è nozionista la
scuola che si accontenta della ripetizione di formule, date, nomi, senza fornire una motivazione che
sia realmente significativa e comprensibile per l'alunno, postulando per il sapere astratto un valore
formativo non meglio argomentato.
Un secondo effetto di questo principio potrà essere il rifiuto di ogni forma di
indottrinamento ideologico, con cui l'insegnante sfrutta colpevolmente la propria posizione di
dominio spostando il fine della sua azione dall'alunno a un proprio progetto personale più o meno
esplicito. Pensiamo alle polemiche che periodicamente si riaccendono sull'insegnamento della storia
in quanto disciplina portata per sua natura a un uso ideologico grazie alla selezione di fatti o
interpretazioni guidata da interessi di parte. Una seria deontologia professionale deve far rifiutare
strumentalizzazioni del genere, sollecitando l'esercizio di una critica costante nei confronti di se
stessi, dei colleghi e della scuola nel suo insieme (programmi, documenti istituzionali, ecc.).
Una terza possibile conseguenza è da individuare nel rifiuto di quella forma particolare di
nozionismo consistente nella preminenza assegnata alla rigida struttura dell'insegnamento, inteso
come materia o disciplina scolastica, spesso imposta all'alunno come regola "oggettiva" cui
piegarsi. È ovvio che ogni ambito scientifico ha la sua epistemologia, il suo linguaggio e le sue
leggi, ma i modi di apprenderlo possono essere diversi e un'elementare cautela metodologica
dovrebbe suggerire di non confidare troppo in strutture scientifico-didattiche definitive che
potrebbero essere messe in crisi da nuove scoperte o acquisizioni. Pensiamo all'insegnamento del
leggere e scrivere, che un tempo passavano per apprendimenti governati dalla grammatica (prima le
lettere, poi le sillabe, poi le parole e le frasi) e ora riconoscono la priorità delle unità di significato.
Pensiamo alla didattica curricolare sbrigativamente soppiantata dal modello della personalizzazione
nell'ultima riforma della scuola italiana e destinata a sua volta a essere sostituita da altri metodi a
seconda del ministro di turno.[8]
Una quarta conseguenza di questa impostazione della deontologia docente può essere il
superamento del valore finale che talvolta gli insegnanti attribuiscono alla propria disciplina, magari
in concorrenza con le discipline insegnate da altri colleghi, non volendo riconoscere che ogni
materia scolastica è sempre soltanto un mezzo rispetto al fine della crescita completa dell'alunno. Il
discorso vale anche per quei livelli scolastici in cui ancora non compaiono le specializzazioni
disciplinari ma ci si dedica a insegnare abilità di base che possono essere trattate con identica
assolutizzazione, sacrificando al leggere, scrivere e far di conto la complessità e l'originalità
dell'alunno. Se è vero che l'insegnante ha un debito nei confronti della comunità scientifica che
rappresenta all'interno della scuola, dobbiamo pure riconoscere che la scienza è per l'uomo e non
l'uomo per la scienza. Nessun docente può tradire la correttezza dei contenuti che è tenuto a
insegnare, ma la stessa variabilità di questi contenuti nei diversi contesti scolastici e il permanere
ovunque del soggetto dell'apprendimento dovrebbe convincerci che è soprattutto l'alunno a non
dover essere tradito.
Qualcuno potrebbe obiettare che queste ultime considerazioni spostano il discorso dal piano
morale a quello didattico, facendo perdere di vista il valore originario della deontologia che
andiamo ricercando. A questa obiezione ci sembra di poter rispondere che l'oggetto della nostra
riflessione è una deontologia professionale, in cui l'aggettivo qualifica e determina la natura stessa
del sostantivo: ciò che qui interessa è infatti l'agire del docente in quanto responsabile di un'attività
professionale e non solo in quanto soggetto morale. È questa la differenza tra un codice etico e un
codice deontologico: il primo può valere genericamente per ogni professionista perché vale per ogni
uomo, il secondo è calato nella strumentazione tecnica del singolo settore professionale. Di
conseguenza, a nostro parere, la definizione di una deontologia docente non può prescindere da una
specifica attenzione pedagogica e didattica.
3. Secondo principio: l'insegnante come esempio
Se si approfondiscono le riflessioni appena abbozzate sul primo principio, si può
probabilmente giungere alla conclusione che esso è sufficiente per fondare un'intera deontologia
docente. Al suo interno possono infatti essere contenuti, o possono esservi facilmente ricondotti,
anche altri principi e applicazioni, tra cui i seguenti, che non sono certo i soli ma semplicemente
quelli che ci appaiono avere una maggiore urgenza e importanza.
Quello che proponiamo qui come secondo principio non pretende di collocarsi
immediatamente dopo il primo, in un'ipotetica gerarchia dei principi, ma può rivendicare
un'immediatezza che deriva dal prendere atto della condizione in cui si viene a trovare di fatto ogni
insegnante. Per questa caratteristica può dunque essere esposto in una prima formulazione sotto
forma di consapevolezza, cioè di atteggiamento da mantenere come stile educativo più che come
precetto da applicare meccanicamente o esteriormente.
II. Opera con la consapevolezza di costituire sempre un esempio per i tuoi allievi
È un dato di fatto. Anche se non si vuole, si è di esempio, perché una situazione didattica o
educativa efficace si fonda sulla fiducia che l'alunno ripone nel suo insegnante, che è per lui punto
di riferimento imprescindibile. E guai se non fosse così: tutti gli sforzi degli insegnanti e le migliori
tecniche didattiche si arenerebbero di fronte allo scettico rifiuto di accogliere ciò che proviene da
persone cui l'alunno ha deciso di negare la propria fiducia o anche la sola attenzione. Gli
insegnamenti proposti, nel migliore dei casi, sarebbero passivamente ascoltati ma poi trascurati e
resi inefficaci da una spontanea e rapida archiviazione. Fortunatamente le cose non stanno così
(salvo rare eccezioni), e l'insegnante può contare in genere sulla originaria disponibilità degli
alunni, derivante quanto meno dal gioco delle parti. Se questa fiducia viene meno è di solito per
colpa dell'educatore che non ha saputo corrispondere alle attese dell'educando e quindi non è più in
grado di proporsi come esempio.
Ma che cos'è un esempio? Uno schema da ripetere? Un caso particolare da generalizzare? Un
modello al quale ispirarsi? Nei dialoghi platonici spesso Socrate contesta ai suoi interlocutori
l'incapacità di rispondere alle sue domande perché essi, anziché tentare di definire il concetto
richiesto, si limitano a produrre esempi, cioè casi particolari che si prestano a facili obiezioni, senza
riuscire ad attingere l'idea che possa aspirare a una validità universale. È questo un primo
significato di esempio (un esempio di esempio), ma quello che qui ci interessa è sicuramente altro e,
rimanendo sullo stesso terreno, possiamo pensare alla figura di Socrate, al suo modo di fare
filosofia, di interrogare e di interrogarsi, di procedere nella ricerca della verità senza la presunzione
di possederla. In questo secondo significato Socrate costituisce un esempio perché assume un valore
esemplare nel suo specifico campo: è un modello per chiunque si dedichi alla filosofia o
all'insegnamento (non solo all'insegnamento della filosofia, perché il suo modello pedagogico è
applicabile a qualsiasi contenuto). Nella seconda accezione, la ricchezza umana e morale della
testimonianza di vita offerta da Socrate consente di evitare il rischio di pensare all'esempio come a
un modello che debba solo essere replicato, senza alcuna attiva partecipazione: è ovvio che
l'esemplarità di Socrate vale in quanto esperienza che merita di essere attivamente rivissuta e non
passivamente ed esteriormente ripetuta.
In entrambi i significati l'esempio è un momento di concretezza, il passaggio dalle astratte
affermazioni teoriche all'applicazione pratica di un principio. Con riferimento al primo significato e
su un piano banalmente didattico, ogni insegnante ricorre quotidianamente a esempi per far
comprendere la propria lezione, per illustrare attraverso casi particolari una regola generale. In
relazione al secondo significato e su un piano più elevato, l'esemplarità di una persona consente di
dare concretezza a un principio e immaginarne la possibile realizzazione: è difficile dire chi sia in
teoria un filosofo, ma Socrate è sicuramente un filosofo, e non un filosofo qualsiasi ma un modello
di filosofo per la vastità dei suoi interessi e per l'impegno esistenziale che ha messo nella sua
ricerca; ci sono sicuramente altri filosofi, ma molti sono solo professori di filosofia, così come nella
scuola tanti sono gli insegnanti ma pochi i maestri.
Per il suo carattere di appello morale, il secondo principio avrebbe potuto allora essere
formulato anche più direttamente sotto forma di memento, per suonare come monito a qualunque
insegnante:
II-a. Ricorda di essere sempre un esempio per i tuoi allievi
La frase può essere letta in due modi: come constatazione e come prescrizione. Nel primo
caso l'insegnante deve semplicemente ricordare che, anche contro le sue intenzioni, egli è sempre
un esempio per i propri alunni. Nel secondo caso l'insegnante è invitato a fare in modo di essere e di
continuare a essere sempre un esempio per i suoi alunni. Preferiamo non sciogliere l'incertezza e
conservare l'ambivalenza della formula come sua ricchezza semantica e peculiarità intrinseca.
Anche in questo secondo principio, come già nel primo, condizioni e finalità, essere e dover
essere vengono a mescolarsi e a definirsi reciprocamente. Come nel primo principio la libertà
dell'alunno era stata individuata come premessa e fine di ogni educazione,[9] così l'esemplarità è
condizione originaria e obiettivo da perseguire per ogni insegnante, proponendo in tal modo una
sollecitazione morale da cui dovrebbe ricevere senso la deontologia che si vuole fondare. In altre
parole, l'insegnante dovrebbe semplicemente essere quell'insegnante che ogni alunno vorrebbe
avere e che l'insegnante stesso, che a suo tempo è stato anche alunno, vorrebbe/dovrebbe essere.
L'insegnante, cioè, è un esempio non solo come per ciò che dice o fa durante le lezioni ma anche
per quello che è nell'immaginario dell'alunno più che nella realtà o nelle intenzioni del docente.
Non è qui in discussione solo la professionalità del docente, intesa come abilità tecnica o
possesso di competenze specifiche, ma l'essere dell'insegnante, la sua costituzione personale. Se è
vero, come insegnano da tempo diversi documenti internazionali, che l'educazione deve perseguire
non solo il sapere e il fare ma anche l'essere della persona,[10] sembra opportuno prestare la stessa
attenzione anche all'insegnante, in quanto agente del processo di apprendimento, e pretendere non
solo che possieda un sapere e un'abilità tecnica ma anche che sia, come persona, all'altezza del suo
compito.
Il memento racchiuso in II-a può allora essere formulato più direttamente e sinteticamente
proprio come richiamo all'essere dell'insegnante.
II-b. Sii sempre un esempio per i tuoi allievi
Di fronte a un impegno del genere è naturale chiedersi fin dove si spingano i limiti di questo
esempio. Sarebbe forse rassicurante sapere che essi coincidono con le mura della scuola, lasciando
all'insegnante una sfera di naturale riservatezza, ma le cose non stanno semplicemente così. Se ci si
trova a essere proposti istituzionalmente a un alunno come insegnante, cioè come depositario di un
sapere (di un saper fare e di un saper essere) che l'alunno vuole in qualche modo assimilare, si deve
riconoscere l'enorme responsabilità che un ruolo del genere comporta, soprattutto quando la giovane
età degli allievi impedisce di operare quelle distinzioni tra momento istituzionale e vita personale,
sfera pubblica e sfera privata, che col crescere dell'età si è più in grado di compiere. Ogni
insegnante avverte quindi, almeno inconsciamente, che anche aspetti meno rilevanti della propria
persona sono comunque oggetto di attenzione per i propri alunni: dal modo di vestire ai modi di
dire, dalle abitudini comportamentali alle motivazioni professionali, dalle convinzioni politiche a
quelle religiose. Essere in questo modo sotto la lente d'ingrandimento degli alunni è semplicemente
un dato di fatto, che non deve comportare vincoli o restrizioni della libertà dell'insegnante, né nella
forma di autolimitazione né in quella di censura esterna (che non vogliamo neanche prendere in
considerazione). La libertà è il primo valore cui educare e l'insegnante deve farlo anche con il
proprio esempio, che perciò deve essere e rimanere un esempio di libertà autentica.
Ciò che si chiede all'insegnante è solo un po' di coerenza tra il contenuto del proprio
insegnamento e il modo di rapportarsi a esso. Non sono in questione gli aspetti tecnici
dell'insegnamento ma i messaggi educativi trasversali che l'insegnante si trova a lanciare anche
inconsapevolmente. Come è poco credibile il medico fumatore che ci invita a smettere di fumare,
così non è credibile l'insegnante che pretende dagli alunni la puntualità senza essere il primo a
rispettare orari e scadenze; o non è credibile l'insegnante che vieta agli alunni di usare il telefono
cellulare a scuola ma poi lascia il proprio tranquillamente acceso anche durante la lezione; o,
soprattutto, non è credibile l'insegnante che mantiene un rapporto di sostanziale estraneità con
l'oggetto del suo insegnamento.
Occorre ammettere che tra i compiti dell'insegnante non c'è solo insegnare a leggere,
scrivere e far di conto, a risolvere equazioni o a tradurre da una lingua straniera. Occorre ammettere
che accanto all'istruzione c'è una educazione da trasmettere, non tanto buone maniere quanto
soprattutto stili di vita, come quel «saper vivere insieme» che il rapporto Delors ha proposto come
quarto pilastro dell'educazione per il XXI secolo.[11] Obiettivi educativi così alti e complessi
richiedono una comunicazione efficace che non passa solo attraverso l'enunciazione di regole. La
fortuna della peer education è dovuta proprio al messaggio implicito veicolato dai pari cui si affida
il compito educativo: se lo faccio io, che sono come te, puoi farlo anche tu. Quando non ci sono i
pari – e di solito non ci sono nella didattica ordinaria – tocca all'insegnante proporsi come esempio
convincente, altrimenti passa, forse, la nozione ma non l'educazione.
Questa attenzione educativa è tanto più presente negli insegnanti quanto più diminuisce l'età
degli alunni. Sanno entrare in relazione mettendosi in gioco personalmente quelli di scuola
dell'infanzia (alla lettera, devono saper giocare con i propri bambini) e quelli di scuola primaria;
molto meno sono disposti a farlo gli insegnanti secondari, che vivono il rapporto con gli alunni
attraverso la mediazione della disciplina di insegnamento. Quando però anche un docente di scuola
secondaria sa essere empatico, sa entrare in sintonia con i propri alunni e sa mostrare il proprio
coinvolgimento, il lavoro risulta certamente più facile per lui e più proficuo per i suoi allievi. Anche
ai soli fini cognitivi, l'apprendimento deve essere significativo per chi apprende,[12] ma può esserlo
solo se è significativo anche per chi insegna, il quale deve saper mostrare una motivazione
autentica, una passione per l'oggetto dell'insegnamento che molto spesso si traduce in padronanza
scientifica e competenza didattica vera, rivelando ancora una volta come la deontologia docente
abbia una forte ricaduta pedagogica (o sia la pedagogia a implicare uno sbocco deontologico finora
poco coltivato).
Se l'esemplarità è così importante, allora la deontologia docente dovrebbe comportare anche
un impegno specifico a tendere verso di essa, per sostituire la casualità degli esempi della vita
scolastica con l'intenzionalità di una coscienza professionale e umana responsabile. Quindi,
un'ulteriore variante del medesimo principio può derivare dalla sottolineatura della dimensione
progettuale e intenzionale della professione docente e della sua esemplarità, senza sacrificare nulla
alla spontaneità della relazione educativa.
II-c. Pensa sempre la tua azione professionale come esempio per i tuoi allievi
Ciò che si richiede all'insegnante è sostanzialmente una capacità di autoriflessione, di
mettersi continuamente in discussione, non certo per creare sensi di colpa ma per verificare
costantemente l'efficacia e la qualità del proprio operato.[13] La raccomandazione vale per qualsiasi
attività ma nel caso dell'insegnante sembra particolarmente necessario soffermarsi a riflettere sul
proprio essere di esempio e valutare le proprie azioni non in assoluto ma sempre in relazione agli
specifici destinatari scolastici (l'esempio è sempre per altri e mai fine a se stesso).
La domanda chiave è se insegnanti si nasca o si diventi. A nostro parere la professionalità
dell'insegnante non può essere solo il risultato di una abilità innata ma anche il risultato di una
formazione e di un'autoformazione: l'insegnamento non è improvvisazione ma azione preceduta da
un pensiero, progettazione capace di governare contemporaneamente l'oggetto dell'insegnamento (la
disciplina), il suo destinatario (l'alunno) e il suo soggetto (l'insegnante). In questa prospettiva
contestuale si giustifica quindi l'attenzione che ogni insegnante deve prestare alla propria
esemplarità.
Ma da dove si deve cominciare per proporsi come esempio? La risposta è facile: dal proprio essere
insegnante, perché è soprattutto come insegnante (prima che come persona) che ognuno costituisce
un esempio. L'insegnante è per definizione un esempio di sapere organizzato, una guida per
orientarsi in un determinato campo del sapere. Il secondo principio può allora assumere un'ulteriore,
e per ora ultima, variante.
II-d. Procurati una competenza professionale che sia sempre di esempio ai tuoi allievi
L'accento è posto qui sull'impegno al continuo miglioramento della propria professionalità
attraverso aggiornamento e formazione permanente che siano il segno visibile di una competenza
all'altezza della funzione. Se è vero, come confermano numerose ricerche internazionali,[14] che
una scuola efficiente e di qualità è quella che si pone alte aspettative per i propri studenti, sono gli
insegnanti i primi a dover incarnare queste aspettative proponendosi come modello di elevata
competenza disciplinare e didattica.
Torniamo così al cuore della deontologia, perché è il professionista in quanto tale a essere
sollecitato, al di là dei possibili equivoci derivanti dall'esemplarità della persona. È all'insegnante
che l'alunno pone una domanda di esemplarità, perché è nella scuola che lo incontra come
riferimento istituzionale e ci si augura che lo scelga come riferimento educativo.
4. Terzo principio: non si è mai soli
L'insegnante è tale perché inserito all'interno di un sistema organizzato, nel quale la sua
azione va a combinarsi con quella di altri colleghi (e di altre componenti scolastiche più o meno
organicamente inserite nel sistema) che concorrono a raggiungere lo stesso risultato. Già nel primo
principio avevamo infatti evidenziato come il fine dell'azione docente dovesse essere non solo
l'alunno ma anche, e ancor prima, la scuola. In altre parole, fatta eccezione per l'istitutore privato,
che è una figura in via di estinzione se non del tutto estinta, ogni insegnante deve sempre fare i conti
con il sistema scuola non solo da un punto di vista istituzionale-organizzativo ma anche e
soprattutto dal punto di vista delle interazioni professionali che quel sistema promuove e che
dunque definiscono la sua stessa identità di insegnante.
Da questo semplice dato di fatto deriva il terzo principio, che può presentarsi ancora una
volta nei termini di una consapevolezza nei confronti del contesto in cui ci si trova.
III.
Agisci con la consapevolezza di operare sempre all'interno di un sistema scolastico
e mai isolatamente
La nozione fondamentale da evidenziare è quella di sistema, cioè di insieme di elementi
dinamicamente collegati fra loro e in continua reciproca interazione, sul modello di un organismo
vivente. La scuola può essere certamente definita un sistema, sia a livello di sistema scolastico
nazionale o locale, sia a livello di singola istituzione scolastica: in entrambi i casi si possono
riscontrare due caratteristiche fondamentali, l'apertura e la complessità, che ne caratterizzano natura
e regole di funzionamento. Il sistema scolastico è aperto in quanto condizionato dal mondo di cui è
espressione e che contribuisce a descrivere; la singola scuola è ugualmente un sistema aperto perché
interagisce con altri sistemi locali, singoli individui o gruppi, che ne determinano il modo di essere.
In entrambi i casi possiamo parlare di sistema complesso, in quanto il suo sviluppo non è semplice o
lineare ma articolato in una serie di livelli e di variabili che interagiscono contemporaneamente,
impedendo di individuare uno stadio definitivo del sistema stesso.[15]
L'insegnante è chiamato a prendere atto e ad essere consapevole di queste caratteristiche del
contesto in cui opera. La complessità del sistema impedisce di fatto qualsiasi concezione
magistrocentrica della scuola, che è quanto meno policentrica o istituzionalmente centrata
sull'alunno (vedi primo principio), e costringe a collocarsi all'interno di una rete di relazioni. La
stessa relazione educativa che l'insegnante instaura con i propri alunni non è esclusiva ma condivisa
con altri docenti e altre figure appartenenti al sistema scuola (dirigenti, personale non docente,
consulenti esterni, ecc.).
Una volta scomparsa nella scuola italiana la figura del maestro unico, in tutti gli ordini e
gradi di scuola gli alunni sono a contatto con una pluralità di docenti, ciascuno caratterizzato da una
competenza diversa, i quali devono coordinare i propri interventi didattico-educativi almeno per
non costringere l'alunno a faticare inutilmente nel passaggio assai poco comprensibile da una
metodologia all'altra, dividendosi tra richieste di prestazioni anche contrastanti tra loro.
Gli insegnanti, invece, soffrono spesso di individualismo, che è tanto più grave e accentuato
quanto più cresce l'età scolare degli alunni e dunque aumenta la specializzazione disciplinare
dell'insegnamento. Una tradizione secolare ci ha trasmesso l'immagine dell'insegnante artista, che
col suo genio crea la lezione brillante e può permettersi di dire o di pensare «la scuola sono io». La
scuola come organizzazione complessa è una acquisizione relativamente recente e dunque gli
insegnanti si sentono ancora giustificati a rivendicare una sorta di insindacabilità per il proprio
modo di interpretare i contenuti da insegnare. Ma, appunto, il discorso funziona se ci si muove in
una logica di contenuti e non di persone, perché, appena spostiamo l'attenzione dall'insegnamento
all'apprendimento, dagli oggetti ai soggetti, ci rendiamo subito conto che l'insegnante non è mai
solo e deve confrontarsi e coordinarsi con il contesto cui appartiene e che lo legittima come
insegnante.
Per certi aspetti, si ripropone qui la stessa duplice fedeltà individuata nel primo principio: lì
era finalizzazione dell'attività professionale alla scuola e all'alunno, qui è rispetto dell'istituzione
scolastica e dei colleghi con i quali si condivide l'impegno professionale. Il rispetto delle regole
della scuola è senz'altro un atto dovuto, richiesto dallo stesso stato giuridico del docente, ma in sede
deontologica si vorrebbe qualcosa di più di un'osservanza formale ed esteriore: si vorrebbe, sul
versante oggettivo, senso dell'istituzione e, sul versante soggettivo, senso di appartenenza a essa.
L'attenzione verso i colleghi dovrebbe a sua volta essere qualcosa di più del semplice rispetto e
manifestarsi come convinta volontà e capacità di lavorare in équipe, cosa che risulterà tanto più
facile quanto più ci si porrà come obiettivo la persona dell'alunno (che impone un approccio
multilaterale) anziché la particolarità della propria disciplina d'insegnamento (che lascia il singolo
docente sovrano della propria azione didattica).
Nella scuola questa condivisione dei compiti e delle responsabilità prende il nome di
collegialità e richiama subito alla mente le sedi istituzionali in cui essa si esplica, gli organi
collegiali. Ma, anche in questo caso, più del rispetto formale delle regole di partecipazione si
vorrebbe una reale condivisione di principi, obiettivi e metodi. La collegialità andrebbe spogliata
della sovrastruttura giuridica per essere ricondotta alla sua sostanza didattica ed etica, cioè
professionale. L'insegnante, in altre parole, non può sentirsi unico demiurgo dell'apprendimento
dell'alunno (concepito come insieme di competenze parcellizzate) ma deve saper condividere
l'azione con i colleghi e con l'intero sistema cui appartiene (riconoscendo la complessità costitutiva
dell'alunno). Non è solo saper lavorare in équipe, perché esso chiama in causa più le capacità
personali del professionista che il suo doveroso modo di agire.
Per questa condizione di richiamo a una convinzione condivisa, anche il terzo principio può
essere espresso nella forma di un memento.
III-a. Ricorda sempre di non essere l'unico agente educativo dei tuoi alunni
La scuola è un sistema complesso perché l'educazione è un processo complesso e non
riducibile a un percorso protetto all'interno delle aule scolastiche. Con molta umiltà ogni insegnante
deve riconoscere di costituire solo una parte delle esperienze educative dei suoi alunni. Altri
colleghi agiscono come lui e con lui sugli stessi alunni e altre agenzie educative incidono sulla vita
dei giovani accanto (e spesso in alternativa o in opposizione) alla scuola. La logica in cui ci si deve
porre non è certo quella della concorrenza ma della interazione: ognuno deve cercare di correggere
eventuali messaggi sbagliati, ma soprattutto deve muoversi con la consapevolezza della pluralità di
stimoli che incidono sulla formazione di un giovane, oggi molto più di ieri.
La complessità sociale in cui ci muoviamo espone ogni alunno a una serie di sollecitazioni
diverse che, talvolta anche involontariamente, possono avere un effetto educativo. La famiglia è il
primo ambiente con cui la scuola e l'insegnante deve necessariamente fare i conti; accanto a essa ci
sono i mass media, i gruppi dei pari, gli altri contesti educativi (gruppi religiosi, sportivi,
ricreativi…). Tecnicamente si attribuisce alla scuola la natura di sistema formale di educazione, alle
altre agenzie educative il ruolo di sistema non formale, al contesto sociale in genere l'identità di
sistema informale[16]. Di tutte e tre le tipologie di occasione formativa l'insegnante deve tenere
conto nell'esercizio della sua azione professionale, non solo per il rispetto dovuto agli altri ma anche
per una maggiore efficacia del proprio insegnamento, derivante dalla capacità di interagire con altri
apprendimenti preesistenti e più o meno strutturati, raccordando il cosiddetto curricolo implicito
con il curricolo esplicito e confermando ancora una volta la positiva ricaduta didattica di una vissuta
deontologia professionale.
Il principio può valere per l'intera scuola nei confronti delle altre agenzie educative e,
all'interno della scuola, può valere per ogni insegnante come richiamo all'esercizio di una costante
collegialità insieme ai colleghi. Ne deriva perciò un'ulteriore versione del terzo principio.
III-b. Rispetta, condividi e promuovi sempre la collegialità all'interno della scuola
La collegialità diventa valore in sé, che chiede di essere in primo luogo rispettato (non solo
esteriormente), quindi condiviso (cioè fatto proprio) e infine promosso (proprio perché principio
cardine dell'agire scolastico). Per molti aspetti, proprio dal concreto esercizio della collegialità
possiamo riconoscere la deontologia professionale dell'insegnante.
Anche in altri ambiti professionali, del resto, la collegialità è diventata metodo comune di
lavoro. Pensiamo alla professione medica che, proprio con l'evolversi delle conoscenze scientifiche
e dunque con la loro crescente complessità, richiede a ogni medico di misurarsi con altri colleghi e
con i risultati di rilevazioni tecniche compiute da altri, soprattutto per valutare le situazioni più
difficili. La scuola, come un ospedale o un sistema sanitario, è una comunità scientifica che si
avvale del contributo di ogni professionista per raggiungere l'obiettivo della formazione dei propri
allievi.
D'altra parte, la collegialità è anche di fatto un correttivo ai possibili errori del singolo
insegnante: per questo, ad esempio, le commissioni d'esame sono sempre composte da più membri.
Già Platone sosteneva che tra tutte le forme imperfette di governo la democrazia era preferibile
perché il potere era comunque suddiviso fra molti e minori erano i rischi di abuso.[17] Quello degli
insegnanti non è un potere ma è senz'altro una responsabilità e dunque l'analogia platonica sembra
pertinente.
Qualcuno potrebbe vedere in questo terzo principio e nell'insistenza sulla collegialità una potenziale
minaccia alla libertà di insegnamento, talvolta invocata come alibi per tutelare semplicemente
interessi personali (magari in contrasto con il primo principio: porre se stessi come fine e gli alunni
come mezzo). Ma libertà di insegnamento non vuol dire arbitrio incondizionato. Ogni insegnante
deve rispondere del proprio operato professionale a persone e istituzioni: gli alunni, le famiglie, i
superiori, i colleghi, la comunità scientifica. Se è vero che da ogni libertà nasce anche una
responsabilità, l'insegnante deve saper rispondere delle proprie scelte in primo luogo ai suoi alunni,
indirettamente alle loro famiglie, giuridicamente all'istituzione in cui opera (materialmente
incarnata dai dirigenti), sul piano operativo ai colleghi con cui condivide la stessa responsabilità,
sempre alla comunità scientifica e didattica di cui egli è rappresentante formale davanti agli alunni.
Nell'equilibrio tra libertà e responsabilità il terzo principio può allora trovare una specifica e
ulteriore formulazione.
III-c. Esercita sempre la tua libertà di insegnamento nel rispetto di quella altrui e delle
regole della scuola in cui ti trovi a operare
Può apparire un'affermazione banale, in quanto è regola universale che la libertà di
chiunque incontri dei limiti in quella degli altri o nel rispetto di norme generali, ma la sua
collocazione in questa sede consente di contemperare l'esercizio dei diritti con quello dei doveri nel
quadro di una completa deontologia, cioè di un sistema che tenga conto della natura professionale
(cioè libera) dell'attività svolta dagli insegnanti.
Oltre all'accordo con quella dei colleghi, che ha uno sviluppo parallelo, la libertà
d'insegnamento deve trovare un punto d'incontro anche con la simmetrica libertà di apprendimento
degli alunni. Questo principio ha trovato solo di recente un riconoscimento giuridico[18] ma
costituisce un argine alla scuola magistrocentrica e conferma la priorità del primo principio, che
assegna all'alunno il ruolo di fine del processo di insegnamento/apprendimento (si noti, per inciso,
anche l'evoluzione terminologica racchiusa in questa sempre più diffusa locuzione che evidenzia
l'indissolubile reciprocità delle posizioni di alunno e insegnante). Va dunque riconosciuto un ruolo
strumentale alla libertà di insegnamento nei confronti della libertà di apprendimento, che consiste
sostanzialmente nella imprescindibile libertà di costruire un proprio progetto di vita attraverso la
cultura che ognuno sceglie di procurarsi (compatibilmente con le effettive capacità di scelta dovute
all'età). Sul piano deontologico è importante riconoscere come l'esercizio di un diritto sia
subordinato al rispetto di precedenti doveri derivanti dalla funzione e fondanti la funzione stessa.
Per quello che qui ci interessa, il possibile individualismo del docente viene a essere corretto dalla
presenza degli altri soggetti (non solo i colleghi) che con lui fanno parte della comunità scolastica.
L'attenzione all'apprendimento degli alunni pone, infine, un vincolo di natura didattica (e
quindi deontologica per la specifica professionalità degli insegnanti), sollecitando un certo tipo di
proposta educativa ed entrando nel merito della sua articolazione.
III-d. Costruisci la cultura dei tuoi alunni in modo che sia sempre aperta a ulteriori
sviluppi
Se l'alunno va rispettato e promosso nella sua libertà, la cultura che gli viene offerta dalla
scuola deve essere altrettanto libera e generatrice di libertà. Questa versione del terzo principio
viene a essere di fatto un corollario e un'applicazione del primo, chiudendo così il percorso che
abbiamo cercato di tracciare.
Due sembrano essere le conseguenze di questa formula. Da una parte, i contenuti insegnati
non possono costituire un corpo chiuso ma devono rimanere aperti a tutti i possibili
approfondimenti e collegamenti interdisciplinari, che descrivono l'unitarietà e complessità della
cultura in quanto espressione della formazione di una persona (Bildung o Paideia). Dall'altra,
occorre riconoscere il ruolo strumentale dei contenuti dell'insegnamento/apprendimento rispetto alla
finalità dell'apprendere come valore in sé: compito della scuola e dell'insegnante non è tanto
trasmettere dei contenuti quanto attivare processi che consentano poi di continuare ad apprendere
autonomamente (imparare a imparare o, più semplicemente, imparare un metodo).
La pluralità che inizialmente ci ha guidato sotto forma di collegialità (pluralità di persone)
diventa quindi interdisciplinarità (pluralità di contenuti) e educazione permanente o autoformazione
(pluralità di principi): pluralità che è manifestazione concreta della complessità delle persone, del
sapere e del sistema educativo. Costante in tutto questo processo è la posizione decentrata
dell'insegnante all'interno del sistema scuola: di entrambi, scuola e insegnante, va riconosciuta e
praticata la funzione di servizio.
5. Conclusioni
Al termine di questo sintetico percorso, che non è sicuramente esauriente pur aspirando a
una decisa fondatività, sembra opportuno aggiungere solo tre considerazioni.
In primo luogo, è emersa più volte la libertà come categoria di riferimento per tutti e tre i
principi e le loro varianti. Per Kant, cui molto deve la nostra proposta, la libertà è postulato della
ragion pratica e a noi sembra di poter parlare analogamente della libertà come postulato della
ragione docente. A questa conclusione sentiamo di poter giungere attraverso i seguenti passaggi: 1)
l'esercizio di un'attività educativa colloca indiscutibilmente in un contesto relazionale tra soggetti e
pone le premesse per una problematica di carattere morale (che ha preso qui la forma della
deontologia professionale); 2) la consistenza pratico-esistenziale del processo educativo fa
individuare nella persona il fine del processo medesimo; 3) ciò che definisce una persona come
soggetto etico, suscettibile di trasformarsi mediante l'educazione, è la sua condizione di libertà. Ove
dovesse venir meno la libertà del soggetto, scomparirebbe la possibilità di qualsiasi educazione,
poiché tutto si ridurrebbe a meccanica modifica di determinate condizioni, e verrebbe a mancare la
costitutiva indeterminatezza di qualsiasi processo educativo.
In secondo luogo, si può richiamare l'attenzione su un dettaglio formale degli enunciati
precedenti: in tutte le formule ricorre l'avverbio sempre, non per una casuale abitudine espressiva
ma per una voluta pretesa di universalità, che forse può essere messa in discussione ma che rimane
come aspirazione di fondo per porre le basi di un'autentica deontologia. Il tendenziale formalismo
dei tre principi vuole infatti prescindere dalle circostanze concrete in cui ciascun docente si trova a
operare e intende puntare a un richiamo di carattere generale che solleciti il singolo ad adattare il
principio alla situazione contingente. È questa la conseguenza della libertà derivante dall'esercizio
di una professione, che comporta specifiche responsabilità proprio perché l'attività professionale è
esercizio autonomo della singola coscienza professionale.
Infine, dopo aver evidenziato una presenza sembra giusto segnalare anche un'assenza. È
infatti voluta la mancanza di espliciti riferimenti a un codice deontologico. Nelle diverse
formulazioni, in genere attente e pregevoli, che finora sono state tentate emerge l'ambizione di
andare a precisare aspetti anche molto particolari della professione docente. L'esigenza è legittima,
ma rischia di trasformare la fondazione della nascente deontologia docente in una serie di
prescrizioni che potrebbero essere intese come una semplice trasposizione, a un livello più alto, dei
già esistenti codici di comportamento dei pubblici dipendenti. Il comportamento è invece un fatto
esteriore che non attinge la sfera interiore della coscienza professionale, il libero esercizio della
volontà del docente e dunque la sua responsabilità morale. È principalmente a questo che deve
mirare una deontologia, lasciando perciò che il conseguente codice conservi un carattere di
essenzialità ed espliciti l'appello alla responsabilità personale, per non rendere eterodiretta e
burocratica fin dalla nascita la fondazione della deontologia docente.
Summary
Parallel to the global transformation of the school from a centralized apparatus to an
autonomous system, the teacher is abandoning the employing and executing status in education in
order to move towards a professional one, namely of being responsible for decisions that one is
called to assume daily at school. Consequently there is a growing attention to the deontological
problem, that demands a rethinking of the identity of the school and of the teaching profession
itself. In order to attempt to lay the foundations of the deontology of the teacher that highlights,
above all, the ethical importance of this profession, the author proposes three principal guidelines:
I. Work in such a way that the school and its pupils are the end, and never a means for you (to
establish, from the Kantian point of view, the morality of education); II. Work with the awareness
of being always an example to your pupils (to establish a responsible educative relationship); III.
Act with the awareness of functioning always within the scholastic system and never in isolation (to
establish a teaching collegiality).
[1] Il
gruppo di lavoro, costituito con DM 2-1-2001, ha operato per circa un anno. Se ne vedano gli
atti in Per un codice deontologico degli insegnanti. I documenti e le proposte del gruppo di lavoro
per la definizione dei criteri per un codice deontologico del personale della scuola, «Annali
dell'Istruzione», 2002, n. 2-3, pp. 1-151.
Nell'ultima indagine IARD sugli insegnanti italiani a cura di A. Cavalli, Gli insegnanti nella
scuola che cambia, Bologna, Il Mulino, 2000, circa un terzo dei docenti intervistati di ogni ordine e
grado scolastico ha dichiarato di sentirsi più vicino all'immagine di un professionista che fornisce
servizi sulla base di competenze specialistiche, mentre solo l'1% si sente vicino a un semplice
impiegato; ma nel definire l'effettiva condizione dell'insegnante, quasi la metà trova che sia quella
di un impiegato, mentre meno di un terzo si riconosce nella figura del professionista.
[2]
Per una riflessione più approfondita sull'argomento si rinvia a S. Cicatelli, Gli insegnanti tra
professione e deontologia, «Religione e scuola», 2002, n. 1, pp. 79-88 (parte prima), e n. 2, pp. 8192 (parte seconda).
[3]
L'autonomia delle istituzioni scolastiche è stata introdotta dall'art. 21 della legge 15-3-1997, n.
59, e dal regolamento attuativo contenuto nel Dpr 8-3-1999, n. 275. La riforma degli ordinamenti
scolastici italiani è stata elaborata prima sotto forma di riordino dei cicli scolastici con la legge 102-2000, n. 30, poi con la legge delega 28-3-2003, n. 53, che ha abrogato la precedente riforma e
avviato un processo attuativo tuttora in corso.
[4]
[5] DPR
8-3-1999, n. 275, art. 16, c. 3. Il corsivo è nostro.
La formula kantiana suona alla lettera «agisci in modo da trattare l'umanità, così nella tua
persona come nella persona di ogni altro, sempre insieme come fine, mai semplicemente come
mezzo [jederzeit zugleich als Zweck, niemals bloß als Mittel]» (I. Kant, Fondazione della
metafisica dei costumi, tr. di F. Gonnelli con testo tedesco a fronte, Bari, Laterza, 1997, p. 91) e
lascerebbe intendere una sorta di attenuazione della radicalità dell'enunciato che è poi stato
attribuito a Kant, con assoluta correttezza, nella divulgazione del suo pensiero. Al di là di ogni
intenzione filologica, adottiamo qui la vulgata kantiana in quanto più rispondente alle finalità della
nostra parafrasi.
[6]
Vedi M. Weber, La politica come professione, tr. di F. Tuccari, Torino, Edizioni di Comunità,
2001, pp. 102 e segg.
[7]
Si aprono qui importanti prospettive di pedagogia ermeneutica, per le quali ci permettiamo di
rinviare a S. Cicatelli, Ermeneutica e pedagogia: un percorso comune, «Orientamenti pedagogici»,
2003, n. 4, pp. 617-636. Per un caso di didattica ermeneutica applicata a una specifica disciplina si
rinvia anche a S. Cicatelli, La via ermeneutica all'insegnamento della filosofia. In AA.VV., La
filosofia nella scuola e nell'università, a cura di I. Kajon e N. Siciliani de Cumis, Roma, Lithos,
[8]
2005, pp. 271-291.
[9] Vedi sopra: II-c.
[10] Già nel
1972 il Rapporto Faure per l'Unesco era intitolato Imparare ad essere.
Vedi J. Delors, Nell'educazione un tesoro. Rapporto all'Unesco della Commissione
Internazionale sull'Educazione per il XXI secolo (1996), tr. di E. Coccia, Roma, Armando, 19992.
[11]
Sull'importanza di un apprendimento significativo si rimanda a D.P. Ausubel, Educazione e
processi cognitivi, tr. di D. Costamagna, Milano,Franco Angeli, 19832, in particolare pp. 93-194.
[12]
Per documentare l'evoluzione recente del fattore autoriflessione nella definizione della
professionalità docente in Italia, ci limitiamo a ricordare come essa costituisse una delle cinque
dimensioni in cui era articola la definizione di insegnante di qualità nella ricerca condotta a suo
tempo per il CEDE da U. Margiotta (a cura di), L'insegnante di qualità. Valutazione e
Performance, Roma, Armando, 1999, e come più recentemente il DLgs 17-10-2005, n. 227,
attuativo della riforma Moratti per la formazione degli insegnanti, individui all'art. 2, c. 1, anche
nelle competenze riflessive sulle pratiche didattiche un elemento caratterizzante il profilo formativo
e professionale del docente.
[13]
Vedi ad esempio la rassegna di ricerche offerta da D. Hopkins, Indicatori del processo
educativo per un miglioramento della scuola. In CERI-OCSE, Valutare l'insegnamento. Per una
scuola che conti, Roma, Armando, 1998, pp. 161-190.
[14]
Vedi L. von Bertalanffy, Teoria generale dei sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni, tr. di
E. Bellone, Arnoldo Milano, Mondadori, 1983; E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, tr. di
M. Corbani, Milano, Sperling & Kupfer, 1995.
[15]
Vedi il Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del primo ciclo di
istruzione (6-14 anni), allegato D al DLgs 19-2-2004, n. 59: «Il traguardo può ritenersi raggiunto se
le conoscenze disciplinari e interdisciplinari (il sapere) e le abilità operative (il fare) apprese ed
esercitate nel sistema formale (la scuola), non formale (le altre istituzioni formative) e informale (la
vita sociale nel suo complesso) sono diventate competenze personali di ciascuno».
[16]
[17] Vedi Platone, Politico, 303b.
Vedi Dpr 24-6-1998, n. 249, "Regolamento recante lo Statuto delle studentesse e degli studenti
della scuola secondaria", art. 2, c. 6: «Gli studenti hanno diritto alla libertà di apprendimento ed
esercitano autonomamente il diritto di scelta tra le attività curricolari integrative e tra le attività
aggiuntive facoltative offerte dalla scuola». Vedi anche DLgs 30-3-2001, n. 165, "Norme generali
sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche", art. 25, c. 3: «il
dirigente scolastico promuove gli interventi […] per l'esercizio della libertà di scelta educativa delle
famiglie e per l'attuazione del diritto all'apprendimento da parte degli alunni».
[18]