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Pubblicazione bimestrale
Spedizione in a.p. - 45% - art. 2 comma 20/b legge 662/96 - Filiale di Varese
ISSN 0485-2281
Anno LIV
N. 6 - Novembre-Dicembre 2003
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ORDINE DEI DOTTORI COMMERCIALISTI
DI MILANO
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RIVISTA DEI
DOTTORI
COMMERCIALISTI
Rivista pubblicata con il patrocinio
del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti
e con la collaborazione editoriale della Fondazione Aristeia
GIUFFRÈ EDITORE - MILANO
© Giuffre’ Editore - Copia riservata all'autore
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annuali che siano idonee ad indurre i destinatari in errore sulla
situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società e del
gruppo e finalizzate ad ingannare i soci o il pubblico e a conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto:
(Omissis).
— quando le falsità o omissioni determinano una variazione
del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, o una
variazione del patrimonio netto non superiore a certe soglie percentuali;
(Omissis) ».
A questo punto si potrebbe davvero concludere in due parole:
il problema non è la sentenza, ma la legge.
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Falso in bilancio, omesso versamento di contributi previdenziali e violazione degli obblighi degli amministratori
di un istituto bancario: giurisprudenza in continuo fermento in materia di diritto penale d’impresa (di LUCA
TROYER).
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1. La sentenza della Corte d’Appello di Milano più sopra massimata, appare interessante oltre che per i profili più sopra oggetto di commento da parte di Stefania Chiaruttini, anche perché
affronta espressamente tutta una serie di problemi attinenti alla
struttura stessa delle nuove fattispecie di « False comunicazioni sociali », sinora dibattuti solo in dottrina.
Asserisce la Corte d’Appello che le soglie sarebbero « da iscriversi all’interno delle condizioni di punibilità e quindi degli elementi accessori ed estrinseci rispetto a quelli costitutivi del
reato ». Ciò si desumerebbe, secondo la Corte, dal fatto che le soglie i) si trovano in una situazione di estraneità rispetto alla condotta della falsa esposizione in un bilancio di un determinato fatto
materiale; ii) sono, sia per quanto concerne la causalità materiale
che il nesso psicologico, estrinseche al fatto di reato in quanto da
esse dipende solamente la punibilità in concreto dell’illecito penale;
iii) pertanto si atteggiano piuttosto che come « requisiti costitutivi » della fattispecie criminosa, quali « presupposti necessari per
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la verificazione degli effetti giuridici propri del reato ». In realtà è
stato rilevato in dottrina che, ad onta delle suggestioni create
dalla formula letterale e dalla complessa e confusa trama tracciata
dal legislatore (5), la « rilevanza » del falso e il superamento delle
« soglie » tipicizzano la falsa comunicazione rendendola penalmente
rilevante e pertanto costituiscono inequivocabilmente elementi del
fatto (6).
Cosı̀ pure appare difficilmente condivisibile l’affermazione
della Corte d’Appello — che aderisce a tale impostazione enunciata
dal Giudice di primo grado — secondo la quale, le varie ipotesi
contemplate dall’art. 2621, 3 comma, c.c. dovrebbero considerarsi
« tra di loro alternative, nel senso che la sussistenza anche solo di
una di esse... [è] in grado di escludere la punibilità stessa ». In
realtà appare più convincente quell’orientamento dottrinale secondo il quale l’espressione « operano in alternativa tra loro » contenuta nella relazione al decreto legislativo, « significa che basta il
superamento di una o dell’altra soglia per aprire la strada alla affermazione del falso “quantitativo”. Il rispetto di una soglia non
può togliere rilievo a “splafonamenti” dell’altra che lo stesso legislatore considera attingere il livello di “alterazione sensibile” » (7).
Ancora circa l’affermazione secondo la quale « il reato di cui
all’art. 2621 Codice civile è di pericolo, essendo riservata all’art.
2622 l’ipotesi del danno, ragione per la quale appare tutt’altro che
illogico che il legislatore abbia voluto punire l’immutatio veri anche quando questa sia stata realizzata... solo sul versante del
danno “qualitativo” e non anche “quantitativo” », si è — al contrario — giustamente osservato che « la previsione di soglie quantitative « esclude alla radice ogni possibilità che il c.d. falso qualitativo possa integrare un falso in bilancio o una falsa comunica-
(5) FOFFANI, La nuova disciplina delle false comunicazioni sociali, in AA.VV.,
I nuovi reati societari: diritto e processo, Padova 2002, p. 292.
(6) Chiaraviglio, Il previgente art. 2621 c.c. ed i « nuovi » artt. 2621 e 2622:
continuità normativa o abolitio criminis? in questa Rivista, n. 1 del 2003, p. 156;
in tal senso anche FOFFANI, La nuova disciplina delle false comunicazioni sociali,
cit., p. 285; cfr. inoltre BRICCHETTI-PISTORELLI, Punibili solo le « notizie » verso il pubblico o i soci, in Guida al diritto, n. 16 del 27 aprile 2002, p. 53.
(7) PULITANÒ, False comunicazioni sociali, in Il nuovo diritto penale delle società, a cura di ALESSANDRI, Milano 2002, p. 156; contra D’AVIRRO, in BOLOGNINI-BUSSON-D’AVIRRO, I reati di False comunicazioni sociali, Milano 2002, p. 121.
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zione sociale » (8). Del resto che tale fosse l’intenzione — più o
meno condivisibile — del legislatore emerge con chiarezza dalla
Relazione al disegno di legge delega, nella quale viene espressamente affermato che era « necessario operare una scelta, frutto del
bilanciamento tra esigenze differenti, tra il rischio di consentire la
costituzione di “fondi neri” e il rischio di incriminazioni per voci
contestate di bilancio che rivestano un carattere oggettivamente
marginale ».
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2. Appaiono di notevole interesse anche le due sentenze della
Corte di Cassazione pronunciate rispettivamente dalle Sezioni
Unite e dalla V Sezione penale.
Con la prima sentenza la Corte di Cassazione, più che risolvere un contrasto giurisprudenziale ha operato un vero e proprio
ribaltamento di un orientamento largamente maggioritario secondo
il quale il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali, non sarebbe collegato all’effettiva erogazione della retribuzione, ma al diritto sorto a seguito della prestazione lavorativa
non gratuita (9). La Giurisprudenza di merito era pressochè totalmente allineata su tale interpretazione, nonostante l’orientamento fermamente contrario della più autorevole dottrina (10)
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(8) Oltre alla dottrina già citata in proposito nell’articolo di Chiaruttini si
veda: LUNGHINI, La nuova disciplina penale delle false comunicazioni sociali, in Riv.
trim. dir. pen. ec., n. 4 del 2001, p. 1014; da ultimo GIUNTA, False comunicazioni
sociali, in AA.VV., I nuovi illeciti penali ed amministrativi riguardanti le società
commerciali, a cura di Fausto GIUNTA, Torino, 2002, p. 21-22.
(9) Cfr.: Cass. pen., Sez. III, 8 marzo 1994, Zannetti; 16 novembre 1994, Cagna, Rv 200958; Cass. pen., Sez. III, 14 ottobre 1997, Romano, Rv 208869; Cass.
pen., Sez. III, 17 dicembre 1997, Pm in proc. Consolini, Rv 209910; Cass. pen., Sez.
III, 14 luglio 1998, Pm in proc. Bracini, Rv 211840; Cass. pen., Sez. III, 1 ottobre
1998, Scuotto, Rv 212480; Cass. pen., Sez. III, 29 ottobre 1998 Pm in proc. Benedetti, Rv 212424; 21 dicembre 1998, Mezzullo, Rv 212654; Cass. pen., Sez. III, 16
luglio 1999, Rigoni, Rv 214627; Cass. pen., Sez. III, 23 ottobre 2001, Bruschi; 28
maggio 2002, Reccagni; Cass. pen., Sez. III, 19 aprile 2002, Mangiacotti, Rv
221980; Cass. pen., Sez. III, 18 dicembre 2002, Pm in proc. Amato; 30 gennaio
1998, Pacifico; Cass. pen., Sez. III, 5 luglio 2001, Castellotti; Cass. pen., Sez. III,
27 novembre 2001 Lomonaco; Cass. pen., Sez. III, 25 ottobre 2002, Pm in proc.
Falcicchio; Cass. pen., Sez. III, 13 febbraio 2003, Pm in proc. Zambon.
(10) SALAFIA, Il sistema sanzionatorio previdenziale, in Dir. lav., 1987, 3, I,
352; PADOVANI, voce Reati in materia di assicurazioni sociali, in Noviss. dig. it.,
1986, VI, 330; SAIA, Il sistema sanzionatorio previdenziale, in Inform. prev., 1993,
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e si registrava solo qualche isolata pronuncia in senso opposto (11).
In realtà la giurisprudenza dominante non teneva conto del
fatto che i termini adoperati dal Legislatore fanno riferimento ad
una condotta di materiale accantonamento della quota da versare
all’Inps per conto del lavoratore allorché gli venga effettivamente
corrisposta la retribuzione. Ne discende conseguentemente che, se
questa non viene concretamente erogata, non può essere neppure
« operata » alcuna « ritenuta » e quindi viene a mancare l’elemento
materiale della condotta punibile.
Inoltre anche a voler tralasciare il dato letterale della norma,
si osserva che il reato di omesso versamento di contributi, alla
luce delle modifiche legislative intervenute fra il 1981 ed il 1983,
non è affatto una sorta di riedizione aggravata delle vecchie contravvenzioni depenalizzate nel 1981, ma costituisce una fattispecie autonoma, il cui disvalore sociale, che giustifica la comminazione di una pena tanto severa, è da ricollegare, non già al
mancato incasso da parte dell’Inps di quanto dovutogli, bensı̀ al
comportamento del datore di lavoro inadempiente che, quale sostituto d’imposta trattiene per sé, quindi in qualche modo si appropria, di quella parte di retribuzione che corrisponde alla quota di
contributo previdenziale gravante sul lavoratore (12).
Se costui però non viene pagato, è evidente che nessuna
somma potrà essere trattenuta e fatta propria dal soggetto su cui
incombe l’obbligo del versamento quale sostituto d’imposta e difetterà quindi quella sorta di appropriazione indebita sui generis che
il Legislatore del 1983 ha voluto colpire con tanto rigore, una volta
degradata a semplice illecito amministrativo la pura omissione del
versamento contributivo.
Né, ad avviso della Suprema Corte, il pur suggestivo argomento, costantemente evocato, secondo il quale, accogliendo tale
1108; GUADALUPI, Un caso di insussistenza del reato di cui all’art. 2 legge 638/83,
in Dir. prat. lav., 1997, 28,1989; CULOTTA, Nota a Cass. sez. pen. 18 aprile 1997, in
Riv. crit. dir. lav., 1998, p. 197.
(11) Cfr.: Cass. pen., Sez. III, 18 aprile 1996, Crotti Rv 20805 1; Cass. pen.,
Sez. III, 18 aprile 1997, Giammanco; Cass. pen., Sez. III, 7 maggio 1997 Pm in
proc. Sassi, Rv 208388; Cass. pen., Sez. III, 30 ottobre 1997, Pm in proc. Silingardi,
Rv 209048; Cass. pen., Sez. III, 24 maggio 2001, Bertolotti, Rv 220099.
(12) CULOTTA, Nota, cit., p. 197.
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tesi si « verificherebbe una situazione di disparità di trattamento
tra il datore che ottenuta la prestazione lavorativa, corrisponde la
retribuzione e quello che non adempie, con una posizione di vantaggio di quest’ultimo, il quale pur avendo tenuto un comportamento contra legem sotto due profili (civile e assicurativo) andrebbe esente anche dalla sanzione penale » può aver alcun rilievo:
infatti, sotto un profilo di stretto diritto, va osservato che il mancato pagamento della retribuzione costituisce un inadempimento
civile, mentre l’omesso versamento delle ritenute previdenziali ed
assistenziali è stato assimilato dal legislatore a una appropriazione
indebita e tale fattispecie criminosa è del tutto autonoma rispetto
al primo comportamento; per altro verso, si deve invece porre in
rilievo che il comportamento del datore di lavoro che omette di pagare la retribuzione ai suoi dipendenti e di versare le ritenute operate sugli emolumenti è solo apparentemente più grave di quella
del datore di lavoro che si limita a trattenere queste ultime. Ciò
è tanto vero che l’omesso versamento delle ritenute è stato equiparato dal legislatore al reato di appropriazione indebita.
« Il primo comportamento, infatti, non si presta ad essere occultato, e in tempi assai brevi — alla fine della settimana lavorativa o del mese — i lavoratori dovranno necessariamente prendere
cognizione dell’inadempimento e potranno esperire i rimedi opportuni; mentre il mancato versamento delle ritenute assicurative e
previdenziali può rimanere celato anche per lunghi periodi e costituisce dunque una condotta insidiosa, capace di procurare al lavoratore danni assai gravi. E analogo ragionamento può, infine, farsi
per le ipotesi di lavoro in nero, pure prospettate in qualche sentenza come casi in cui — aderendo alla tesi qui accolta — si finirebbe con il lasciare il datore di lavoro esente da pena per
l’omesso versamento delle ritenute; peraltro, per tali ipotesi giova
in aggiunta osservare che l’ordinamento giuridico ha previsto altri
specifici rimedi, di indubbia efficacia dissuasiva ».
Appare, dunque, assolutamente ineccepibile l’interpretazione
ora adottata dalle Sezioni Unite. Ciò che stupisce, invece, è che
per tanti anni la giurisprudenza — sia di merito che di legittimità
— abbia adottato una tesi opposta, palesemente contraria sia alla
« limpidezza dell’interpretazione letterale » sia all’« interpretazione
logica » che, infine, alla stessa ratio legis: per usare le parole degli stessi Giudici di legittimità, non è mai « opportuna l’adozione
di un metodo interpretativo che superi il confine invalicabile costi-
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tuito dalla “parola della legge”, giacché esso finirebbe con l’affidare
l’applicazione della norma giuridica alle vedute soggettive e quindi
all’arbitrio del giudice ».
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3. Con sentenza in data 17 aprile 2003 la Corte di Cassazione, Sezione V penale ha statuito che l’abrogazione della norma
di cui all’art. 2624 c.c. (Prestiti e garanzie della società) (13) e la
sua sostituzione con una norma assolutamente diversa (Falsità
nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione) (14),
non comporta l’abrogazione tacita dell’art. 136 (Obbligazioni degli
esponenti bancari) del d.lgs. n. 385/1993 (Testo Unico delle leggi in
materia bancaria e creditizia).
Nel caso di specie il Presidente del Consiglio di Amministrazione di un istituto di credito era stato condannato alla pena di
mesi otto di reclusione e Lit. 600.000. di multa per il reato di cui
all’art. 136 T.U. (15), per aver contratto con l’istituto di credito, in
carenza di qualsiasi delibera adottata da parte dell’organo ammi-
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(13) Art. 2624 (Prestiti e garanzie della società): « Gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori che contraggono prestiti sotto qualsiasi forma,
sia direttamente sia per interposta persona, con la società che amministrano o con
una società che questa controlla o da cui è controllata, o che si fanno prestare da
una di tali società garanzie per debiti propri, sono puniti con la reclusione da uno
a tre anni e con la multa da lire quattrocentomila a quattro milioni.
Per gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori delle società che hanno per oggetto l’esercizio del credito si applicano le disposizioni delle
leggi speciali ».
(14) Art. 2624 (Falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di
revisione): « I responsabili della revisione i quali, al fine di conseguire per sé o per
altri un ingiusto profitto, nelle relazioni o in altre comunicazioni, con la consapevolezza della falsità e l’intenzione di ingannare i destinatari delle comunicazioni,
attestano il falso od occultano informazioni concernenti la situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società, ente o soggetto sottoposto a revisione, in
modo idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni sulla predetta
situazione, sono puniti, se la condotta non ha cagionato loro un danno patrimoniale, con l’arresto fino a un anno.
Se la condotta di cui al primo comma ha cagionato un danno patrimoniale ai
destinatari delle comunicazioni, la pena è della reclusione da uno a quattro anni ».
(15) Art. 136 (Obbligazioni degli esponenti bancari): « 1. Chi svolge funzioni
di amministrazione, direzione e controllo presso una banca non può contrarre obbligazioni di qualsiasi natura o compiere atti di compravendita, direttamente o indirettamente, con la banca che amministra, dirige o controlla, se non previa deliberazione dell’organo di amministrazione presa all’unanimità e col voto favorevole
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nistrativo dell’ente, numerosi prestiti ottenuti tramite sconfinamento di fondi ovvero attraverso operazioni di cambio assegni per
cassa.
La difesa nel ricorrere per cassazione avverso la sentenza di
assoluzione per prescrizione pronunciata dalla Corte d’Appello
aveva sostenuto — tra l’altro — che l’incriminazione della condotta
descritta dall’art. 136 del T.U. è stata tacitamente abrogata per
via dell’abrogazione dell’art. 2624 c.c., sostituito da una norma assolutamente diversa all’art. 1, Titolo XI, Capo I del d.lgs. 11 aprile
2002, n. 61. La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendone l’infondatezza.
Infatti, secondo i Giudici di legittimità, l’art. 136 del T.U. non
è una norma incriminatrice fornita contestualmente di precetto e
sanzione, ma una norma di rinvio. Rinvio che, tuttavia, « deve ritenersi non formale, ma ricettizio nel senso che richiama la pena
dell’art. 2624 c.c. nella sua vecchia formulazione, per farla propria
« e cioè per incorporarla ». Ne consegue che la pena prevista dal
vecchio art. 2624 (reclusione da uno a tre anni e multa da lire
quattrocentomila a quattro milioni) deve essere considerata come
trascritta nel testo dell’art. 136 stesso. D’altra parte secondo la
Suprema Corte la circostanza che il legislatore non consideri più
penalmente rilevante la condotta dell’amministratore, direttore,
sindaco e liquidatore di società che contraggano prestiti o si facciano prestare garanzie dalla società che amministrano è questione
di politica legislativa che non può influire sulla diversa ipotesi di
chi svolge funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso
una banca, che il legislatore ben può ritenere più grave e tuttora
meritevole di tutela penale. Conferma di ciò si trae del resto « dall’art. 8 del d.lgs. n. 61/2002 che abroga espressamente gli artt.
di tutti i componenti dell’organo di controllo, fermi restando gli obblighi di astensione previsti dalla legge.
2. Le medesime disposizioni si applicano anche a chi svolge funzioni di amministrazione, direzione e controllo, presso una banca o società facenti parte di un
gruppo bancario, per le obbligazioni e per gli atti indicati nel comma 1 posti in
essere con altra società o con altra banca del gruppo. In tali casi l’obbligazione o
l’atto sono deliberati, con le modalità previste dal comma 1, dagli organi della società o banca contraente e con l’assenso del capogruppo.
3. L’inosservanza delle disposizioni dei commi 1 e 2 è punita con le pene stabilite dall’art. 2624, primo comma del codice civile ».
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134, 137, comma 1, e 138 del d.lgs. n. 385/1993, per cui, se il legislatore avesse inteso abrogare anche l’art. 136, lo avrebbe incluso nella norma sopra citata. ».
Si tratta di una conclusione assolutamente esatta e condivisibile che evidenzia bene quell’« indifferenza prossima al disfattismo » rispetto alla coerenza del sistema e più in generale all’efficacia repressiva della normativa in materia diritto penale societario, dell’attuale Legislatore il quale, nonostante il problema fosse
emerso nei lavori preparatori, « non ha aggiornato nemmeno il rinvio all’art. 2624 c.c. » (16).
(16) LOSAPPIO, Le infedeltà. I Reati degli esponenti e dei dipendenti contro la
banca, in Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di BELLI,
CONTENTO, PATRONI GRIFFI, PORZIO, SANTORO, Bologna, 2003, p. 2295.
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