Esercizi etnografici all`ombra di Palazzo Nuovo
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Esercizi etnografici all`ombra di Palazzo Nuovo
Luglio 2006, Anno 3, Numero 4 Newsl ett er di S ociol ogia Scrivi alla redazione >> [email protected] 11 Professione Studente P r o f e s s i o n e S t u d e n t e Elisabetta Picchi, redattrice della Newsletter, si è cimentata in una osservazione naturalistica che ha avuto come oggetto i luoghi di sosta e ritrovo antistanti Palazzo Nuovo. Ecco gli esiti delle sue osservazioni. Esercizi etnografici all’ombra di Palazzo Nuovo Non ho ancora perso l’entusiasmo del primo giorno a Palazzo Nuovo: la sensazione di essere immersa in un ambiente nuovo, con spazi da rendere miei giorno dopo giorno. Arrivavo da quattro anni di studi all’Università degli Studi di Milano Bicocca, un polo universitario di recente formazione, alla periferia di Milano. Lì ho imparato ad essere studentessa: muovendomi per scale mobili, mura imbiancate, aule con aria condizionata. Spazi così nuovi, privi di una propria Storia, da sembrare non luoghi (Marc Augè, 1993, No luoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano). Noi studenti abbiamo provato a lasciare una traccia, ad appropriarci degli spazi con le nostre storie, ma di fronte a mura così nuove, ad intonaci non ancora scrostati, ad alberelli non ancora cresciuti, sembrava che i tempi non fossero ancora maturi. Dalle ampie vetrate del bar ho osservato per quattro anni il rapido svilupparsi di quello che credo sia stato, intorno al 2000, il cantiere più grande d’Europa: uno skyline di ciminiere (tracce di insediamenti industriali ormai abbandonati) gru, impalcature di alti palazzi in costruzione. L’insegna della Pirelli, che si accendeva di un rosso neon al calar della sera, e i veloci aperitivi in attesa del treno per tornare a casa. Traiettorie da pendolare, un’università da usare, per seguire le lezioni e poi far ritorno nella propria città. D’altronde l’università stessa non invitava alla sosta. Negli ampi antri e corridoi non una panchina per sedersi. Il cortile voluto dall’architetto Gregotti come luogo per socializzare, lo era in virtù delle nostre pratiche: ci si sedeva in piccoli gruppi per terra, a mangiare, parlare, cantare, prendere il sole. Ma lo spazio in sé non era invitante come avrebbe potuto esserlo l’ombra di un antico chiostro: era alienante nella sua geometria, nei moduli ripetitivi creati dal disporsi di piastrelle, panchine, file di alberelli incapaci di gettare ombra. Non così Palazzo Nuovo, almeno ai miei occhi sembrava così a misura d’uomo. Brutto come solo l’architettura anni ’70 sapeva fare, eppure bello perché inserito in un contesto centrale e di grande patrimonio storico e culturale. E poi quella vitalità che pulsa dentro e fuori l’edificio, un flusso continuo di gente, dai corridoi verso l’esterno delle strade che portano ai simboli culturali della città, la Mole con il cinema Massimo, il Teatro Stabile e il Regio a due passi. Vi sono quindi diversi modi di “essere” università, diversi stili che, d’altronde, possono piacere e non piacere. Palazzo Nuovo ha una sua identità: la struttura in metallo, l’aria quasi da prefabbricato, il fatto di ospitare facoltà umanistiche che crescono il più alto numero di “alternativi”, che vanno all’università indossando una divisa fatta di stracci colorati, zingareschi, sessantottini, tutto questo va a comporre un’identità ben precisa. Che se agli occhi della maggior parte dei suoi iscritti è ritenuto naturale, può causare reazioni talora negative in altre. In particolare da parte di chi non vive la realtà dal di dentro, ma la percepisce solo passando da fuori: la proprietaria dell’alloggio dove abitavo definì la zona pedonale universitaria un souk (per via delle bancarelle di artigianato) che nel suo immaginario era ben lontano dal rigore che dovrebbe avere un centro di cultura. Pure alcuni miei coetanei berlinesi, giunti in visita a Torino, non si capacitavano di tanta vitalità e movimento intorno all’entrata (arrivarono nel pieno di un concerto di bonghisti): mi dissero che da loro gli studenti, finite le lezioni, non sostano, tornano a casa, e lo dissero con un certo disappunto. Di fronte a queste diverse rappresentazioni della nostra università occorrerebbe porsi il problema riguardo l’immagine che l’università trasmette all’esterno. Quali i simboli culturali, quali le attività e i soggetti che le praticano, quali collegamenti tra interno/esterno della sede? Palazzo Nuovo si ferma sull’atrio d’entrata, sulle scalinate di accesso o prosegue nei tavolini dei bar, sulle gradinate che delimitano il parcheggio, dentro le librerie, le copisterie, l’internet caffè? Raggiunge il Cinema Massimo e ne influenza i palinsesti? Sono domande a cui forse qualcuno avrà già dato risposta in maniera articolata, qui segue un tentativo, più che altro un esercizio senza pretese di descrivere attraverso un’osservazione naturalistica l’area pedonale di Palazzo Nuovo e attraverso di essa contribuire con un tassello a rispondere a suddette domande. Osservare un ambiente familiare può sembrare impresa futile, ma certo non è facile. Implica un controllo dello sguardo che deve liberarsi dell’ovvio, dello sco ntato e dei pregiudizi, presuppone vista acuta per scoprire “l’altro presso di sé” e riflessività per scoprire anche se stessi, in quanto ogni osservazione mette in gioco, oltre all’altro da osservare, un me che osserva. Luglio 2006, Anno 3, Numero 4 Scrivi alla redazione >> [email protected] Newsl ett er di S ociol ogia 12 Premetto che, pur avendo pensato a un disegno della ricerca, non ho poi avuto il tempo per realizzarlo, quindi quello che seguirà può essere solo considerato un tentativo, uno spunto di riflessione che potrebbe essere valutato più seriamente per realizzare un lavoro scientificamente compiuto. L’intento che ha mosso il mio lavoro, è stato quello di descrivere l’area pedonale di Palazzo Nuovo attraverso un’osservazione esplorativa di tipo naturalistico. Non ho scelto come metodo di raccolta del dato l’osservazione partecipante per due motivazioni: il tempo da dedicare alla realizzazione dell’articolo era poco (e proporzionale alle pretese di esso) quindi ho preferito evitare l’onere di un’osservazione partecipante che richiede più tempo nella fase preliminare di accesso al gruppo, di costruzione della relazione di fiducia, di accettazione da parte dei suoi membri. Poi necessitavo di una fase esplorativa, non sapendo con esattezza quali e quanti gruppi in effe tti ci fossero nella zona in osservazione. Ho svolto le mie osservazioni in cinque sedute di all’incirca due ore ciascuna, da metà giugno ai primi di luglio, alla mattina tra le 10 (ora in cui iniziano ad insediarsi le prime persone sulle gradinate) e le 12 e tra le 14 e le 16. Il primo giorno di osservazione ricordo il mio imbarazzo e l’ingenuità con cui mi sono dedicata al lavoro: mi atteggiavo con fare così circospetto, taccuino alla mano, da diventare più io l’oggetto di osservazione da parte degli altri che viceversa. Le volte successive ho imparato a mimetizzarmi, lasciando la parte di annotazione e trascrizione degli appunti etnografici appena terminata l’osservazione, una volta a casa. Con un libro alla mano mi calavo nella parte di una studentessa. La postazione migliore l’ho identificata con il tempo: all’ingresso di Palazzo Nuovo, dove poter dominare lo spazio dall’alto e anche controllare chi, di coloro che stazionano solitamente sulle gradinate entra effettivamente in università (e quindi si presume sia anche iscritto). Ho focalizzato dapprima la mia osservazione sul tratto di strada di Via Verdi che va dall’angolo di via Sant’Ottavio all’angolo di via Roero di Cortanze, prima sull’ambiente in generale, poi sui gruppi che ho identificato. Questo tratto di strada è da inserirsi in un’area pedonale, voluta nel 1995 che si estende da via Po, via Montebello, corso San Maurizio, via Roero di Cortanze e via Sant’Ottavio. L’anno successivo la giunta ha deliberato il progetto di riqualificazione della zona, redatto dallo Studio De Ferrari – Associati che suggerisce “una nuova evidenziazione ed una riscoperta “aulicità” dell’area, coniugando le esigenze della vitalità giovanile così attiva e fervente alle specificità storiche” (Sito del Comune di Torino). Questa zona è interessata da un cospicuo transito pedonale: nei suoi pressi vi sono oltre all’Università, diversi servizi, uffici e biblioteche dell’Università stessa, una scuola media inferiore ed una liceo classico, uno studentato con la sua aula studio n i via Verdi, diversi negozietti e bancarelle di abbigliamento e artigianato, bar e tavole calde, un parcheggio per vetture, scooter e biciclette, la Mole Antonelliana con il suo museo del Cinema e il cinema Massimo. Vi è un tratto in via Verdi dove è possibile sostare: c’è un gradino che percorre il lato di Palazzo Nuovo che da su Via Verdi e di fronte a questo gradino ci sono delle gradinate che delimitano un lato del parcheggio e che si estendono anche sul lato di via Sant’Ottavio, sempre a delimitare il parcheggio. È questa la zona su cui ho posato la mia attenzione in quanto, rispetto ai bar, i gradoni rappresentano una specificità della zona, un esplicito invito alla sosta, al riposo, a vivere lo spazio, un tributo all’ozio, al tempo libero. Flyers 1, graffiti, stencil e stickers 2, sedimentano sui muri, creando originali effetti decoupage-decollage e, coniugandosi al freddo cemento e alle strutture metalliche e spigolose del “nuovo” palazzo degli anni ’70, hanno impresso alla zona un’aria artistica, che in alcune occasioni ha affascinato gli stessi turisti di passaggio per raggiungere la Mole. Osservando le interazioni che si creano in questo tratto di strada ho notato delle dinamiche che potrei riassumere con la metafora del teatro. I gradoni, infatti, sembrano gli spalti di un teatro: di fronte, fino al limite segnato dal gradino che costeggia Palazzo Nuovo si estende la scena. Ma il rapporto tra scena e spalti si può invertire e lo si capisce dagli sguardi di chi sosta: quelli seduti sugli spalti guardano quelli seduti sul gradino e viceversa. Così le persone che passano frettolose per via Verdi sono guardate da entrambi i lati e a loro volta chi passa può lanciare un occhio a chi è seduto, e godersi lo spettacolo. Guardare, osservare è l’attività che domina e accomuna tutte le persone di questa zona. È un’attività che si può fare mentre si mangia un panino, si conversa, si fuma una sigaretta e si attende l’inizio della lezione o l’arrivo di un amico. Solo chi schiaccia un pisolino non osserva, lo fa di sfuggita chi è intento a studiare (ma di solito studiare sulle gradinate è un pretesto per vedere gente). Ma perché si osserva quando si sta sulle gradinate? È prima di tutto un riflesso incondizionato; in secondo luogo si osservano gli altri per vedere se c’è qualcuno che conosciamo, se tra di loro c’è la persona che 1 2 Volantini da lasciare in giro o appendere sui muri che invitano a serate nei locali (discoteche, club, pub, centri sociali). Sono forme di street-art, lo stencil è la tecnica di ottenere immagini con un maschera-modello ed una spruzzata di vernice aerosol, con lo stickers le immagini sono stampate su carta o cartone, riprodotte in più copie e incollate sui muri. Luglio 2006, Anno 3, Numero 4 Scrivi alla redazione >> [email protected] Newsl ett er di S ociol ogia 13 stiamo aspettando, o perché si è incuriositi dalla loro bellezza o dal modo di vestirsi; si guarda poi per vedere se a nostra volta siamo guardati. Il gioco della scena è reciproco, l’importante è esserci, avere un proprio posto in prima fila. Sui gradoni si possono riconoscere diversi gruppi: durante gli orari di apertura dell’università vi è un continuo turn-over di piccoli gruppetti di studenti, la cui attività è facile da osservare e capire, in quanto anch’io potrei farne parte a mia volta, come in effetti mi è capitato. Si tratta di gruppetti che variano da due a cinque membri (raramente superano questi numeri) che sostano per mangiare, chiacchierare, per trascorrere la pausa tra una lezione e l’altra. C’è chi prende l’occasione per ripassare prima di un esame o per ripetere la lezione con un compagno, chi chiude gli occhi per qualche minuto. La sosta dura dal minimo necessario per fumare una sigaretta al massimo di una mezz’ora. C’è chi aspetta un amico e al suo arrivo si unisce a lui per un’altra meta: il caffè, l’aula studio, un giro per il centro. Solitamente poi vi è un gruppetto composto solitamente da una decina tra ragazzi e ragazze, che prende posto sempre all’estremità dei gradoni, verso l’angolo con via Roero di Cortanze. A dominare è lo stile gli accessori: cappelli, borse, zaini, occhiali da sole di marca, uno street-style ricercato. Alcuni arrivano con biciclette tecniche e scooter tirati a lucido. Il gruppo sembra in sintonia con lo stile che predomina nell’aula studio di via Verdi (da molti studenti considerata più una passerella per farsi notare, che un luogo di studio). Potrebbero sostare sulle gradinate per una pausa dallo studio. Oltre a questa realtà in continuo mutamento, poco strutturata al suo interno, caratterizzata più che altro da interazioni sociali, ho riconosciuto un gruppo nel senso pieno del termine, caratterizzato cioè da schemi relativamente stabili e i cui membri si riconoscono come tali. È il gruppo su cui, dopo due sedute, ho deciso di focalizzare la mia osservazione perché l’ho riconosciuto come il più caratterizzante dell’area e il più ambiguo, nel senso che non ho saputo immediatamente collocarlo come affiliato a Palazzo Nuovo. I suoi membri infatti, per stile e attività, non sembrano essere a colpo d’occhio degli studenti. Si tratta di ragazzi e ragazze tra i 20 e i 27 anni che hanno fatto delle gradinate non un luogo di passaggio o di sosta, ma un posto di ritrovo, un vero e proprio punto di riferimento. Infatti giorno dopo giorno riconosco alcune persone che risultano nel tempo sempre presenti. Altri membri sono in continuo movimento: si fermano per poco tempo, al massimo una mezz’ora e se ne vanno, il più delle volte si dirigono dentro Palazzo Nuovo. Questo gruppo è il più esteso in termini numerici e che intesse un volume di relazioni con i passanti molto più alto rispetto agli altri gruppi poco strutturati della scena. I suoi membri passano molte ore sul gradino che percorre il lato sinistro di Palazzo Nuovo, ma con l’afa si spostano all’ombra di un albero nel parcheggio. Sono sempre all’incirca una decina (tra chi arriva e chi va, quindi gli appartenenti saranno molti di più, in tutto), a volte divisi in sottogruppi, identificabili per l’intensità delle relazioni e per alcune differenze di look. Il loro abbigliamento salta all’occhio per essere una contaminazione di più stili: capelli rasati, pantaloni stretti, canotte striminzite, piercing, rasta, capelli colorati con colori shock, o rosso intenso o biondo platino. Per alcuni il total black è di rigore, per altri vi è la ricerca di pezzi di abbigliamento inusuali, come gonne stile ballerina, minigonne, stampati dai motivi psichedelici, top colorati aperti sulla schiena, stratificazioni di più vestiti, contrasti tra volumi larghi e stretti, cuciture asimmetriche.3 Un sottogruppo è vicino alle caratteristiche dei punkabbestia, ragazzi che vivono per la strada, si arrangiano con espedienti, e fanno dei cani tenuti rigorosamente sciolti (meticci in genere derivanti da pit bull terrier o bulldog) il loro segno distintivo. Ho anche visto una ragazza arrivare con una piccola gabbietta con al suo interno alcuni criceti che a turno faceva uscire per farli giocare tra le sue mani. Generalmente i cani sono tranquilli, ma a volte combinano qualche danno: un pomeriggio, ad esempio, un cane ha sbranato, senza che il padrone lo richiamasse, un pupazzone, e la sera l’intera zona e in particolare il parcheggio erano cosparsi di pezzi di spugna. Trascorrono la maggior parte del tempo passandosi cylum, bottiglie di birra, narghilé, rollando canne. Sono attività che fatte sotto il sole di giugno, rendono i movimenti lenti, i discorsi rarefatti: domina l’inattività, il tempo sembra dilatarsi all’infinito, un secondo è uguale all’altro e così per tutta la giornata (a volte ho provato noia ad osservarli: sedevo aspettando di registrare un evento insolito, invece tutto piatto, già visto altre volte). Ma a volte ecco un guizzo, una scintilla accendersi e scatenare a volte una rissa, a volte un semplice diverbio. Oppure l’idea di giocare a tirarsi l’acqua addosso o i sassi contro le ragazze e allora il piazzale si anima, i ragazzi si inseguono, i cani abbaiano. Raggiungono la zona con motorini e auto malandate. L’automobile diventa a volte centrale nelle attività: si usa l’autoradio per ascoltare ad alto volume la musica, più spesso l’abitacolo diventa rifugio per due o tre persone. Ogni tanto qualcuno, da solo o in coppia, si alza e se ne va a piedi o in macchina, si assenta per una decina di minuti, una mezz’ora e poi torna. 3 È lo stile “frav”, noto negozio di abbigliamento torinese, in cui si identificano ragazzi che sono vicini al mondo dei raver. Luglio 2006, Anno 3, Numero 4 Scrivi alla redazione >> [email protected] Newsl ett er di S ociol ogia 14 Ad una semplice osservazione non mi è stato facile capire chi fossero i componenti del gruppo: iscritti all’università? O semplicemente amici di studenti? Alcuni indizi riconducevano certi membri all’ambiente universitario: a volte, in concomitanza con il periodo degli esami, hanno preso a sfogliare appunti o bigini e ho visto un ragazzo leggere la guida di Scienze Politiche. Ho cercato di superare i limiti dell’osservazione naturalistica per poterli conoscere più a fondo: non sono riuscita però a studiare un modo valido per inserirmi nel gruppo. Non conoscendo nessuno ed essendo così lontana nelle pratiche, nello stile di vita, avrei dovuto muovermi con circospezione: se avessi scelto di inserirmi nel gruppo in maniera coperta avrei dovuto recitare, calarmi in una parte per risultare credibile. E rispetto ad un’entrata scoperta, come avrebbero reagito? Sarebbero stati contenti di essere oggetto di studio o avrebbero reagito chiudendosi? Sono riuscita a raggirare il problema per casualità: qualche giorno fa sono venuta a contatto con un amico di un mio amico (la forza dei legami deboli!) che ho scoperto essere un ex frequentatore dei gradoni. Così, dicendogli che devo fare una ricerca per un esame sulla vita nell’area pedonale di Palazzo Nuovo sono riuscita a farmi raccontare diverse cose. Mi dice che sono ragazzi della zona, più che altro della Vanchiglia. Nei gradoni trovano un luogo ideale per incontrarsi: è in centro, è un luogo di passaggio, ma soprattutto è frequentatissimo da giovani: “c’è movimento”. Questa locuzione racchiude tutto il senso del loro trovare casa all’ombra di Palazzo Nuovo. Mi spiega che alcuni dei ragazzi del gruppo lavorano, altri si sono iscritti all’università per avere la scusa di frequentare l’ambiente. È interessante questa prospettiva perché ribalta l’uso dello spazio che normalmente ne fanno gli studenti: se la maggior parte dei ragazzi va all’università e usa le gradinate per trovarvi un momento di pausa, per questo gruppo l’università è un pretesto per poter usufruire dell’area pedonale. Dai discorsi del mio informatore apprendo che la sua attività principale era di pusher (di hashish) e intuisco che ora non frequenta più il gruppo per qualche questione legata a droghe e pagamenti. Il giro di spaccio pare rimanga circoscritto al loro interno e raramente coinvolge anche gli altri universitari. Oltre a questa parte di ricerca basata sull’osservazione e sul fondamentale apporto avuto dall’informatore nel capire la fenomenologia del gruppo, ho avuto modo di intrecciare delle utili conversazioni con alcuni studenti con cui per casualità mi sono messa a parlare del mio studio. Ne è nata una discussione in cui ho avuto modo di confrontare il mio punto di vista, di rafforzare o meno le mie ipotesi sul gruppo. In particolare prima di questi incontri brancolavo nel buio, incapace di dare una valida descrizione dello stile di vita dei membri. L’incontro decisivo, capace di togliermi dall’impasse è avvenuto con una mia amica alla quale ho spiegato il mio obiettivo di ricerca e i miei interrogativi rispetto a quel gruppo così particolare che sfuggiva per certi versi alla mia comprensione. Lei mi ha risposto lapidaria: “ma quelli sono bonci!”. Boncio fa parte dello slang giovanile dei ventenni e che io prima di allora non conoscevo. Per spiegarne il significato vorrei citare la definizione di una ragazza, trovata su www.forumtorino.it il 6 dicembre 2004: “i bonci sono una nuova categoria di giovani torinesi che hanno le seguenti caratteristiche: sono ricchi sfondati, posseggono villoni dove organizzano spettacolari feste con milioni di persone stile rave; nonostante le loro portentose finanze, si fingono dei poveracci e vanno in giro a chiedere centesimi per la birra o per dar da mangiare ai 6/7 cani che di solito li accompagnano; amano drogarsi pesantemente e frequentare centri sociali e rave; ascoltano musica elettronica e hardcore; adorano rubare tutto quello che riescono per poi rivenderlo e aumentare le loro già spropositate finanze”. Questa definizione va comunque presa con le dovute cautele essendo formulata da giovani ventenni che hanno il loro punto di vista, fatto anche di stereotipi. Conferma comunque quella sensazione di finzione che il gruppo lasciava trapelare, finzione comunque in perfetta coerenza con lo spazio scenico in cui sono inseriti. In conclusione, quale immagine si ricava di Palazzo Nuovo, visto dalle sue gradinate? Tornando alla metafora del palcoscenico, per gli studenti questo è uno spazio dove prepararsi alla scena, è il dietro le quinte dove ci si arrabbia per un esame non passato, e se è andato bene ci si prende il meritato riposo, dove tra compagni ci si scambiano le dritte per un corso o per il piano di studi. O ancora si creano progetti, si parla del futuro, ed ecco la vitalità e la creatività di cui parlava l’architetto De Ferrari prendere vita in discorsi che non lasciano segni visivi, ma nutrono di senso e stimoli gli orizzonti degli studenti. I bonci, poi, sono lì a sottolineare l’informalità del luogo, uno spazio e un tempo sospeso da regole e divieti, dove non passa la polizia, dove i professori non contano più nulla. È la vitalità di una giovinezza che sfugge dalle responsabilità. Che poi sia giusto o meno è una questione di giudizi che non trovano qui lo spazio giusto per essere espressi.