Bertrand de Jouvenel Il Potere 1945

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Bertrand de Jouvenel Il Potere 1945
Sociologia
Bertrand de Jouvenel
Il Potere
1945
PERCHÉ LEGGERE QUESTO LIBRO
Il Potere rappresenta uno degli studi più profondi sul processo di crescita dello Stato che
ha caratterizzato la storia europea dalla fine del Medioevo ai tempi nostri. Bertrand de
Jouvenel, scienziato sociale dai molteplici interessi, scrisse questo libro nel corso della
seconda guerra mondiale, l’epoca in cui il Leviatano statale raggiunse la sua massima
potenza concepibile. L’opera suscitò un interesse notevole nel mondo anglosassone. Negli
Stati Uniti, in particolare, Il Potere venne letto come una conferma delle tesi contenute
nel best-seller di Friedrich von Hayek, La via della schiavitù, uscito poco tempo prima. Lo
stesso Hayek nel 1948 lo recensì entusiasticamente, definendolo «un grande libro … uno
studio monumentale … una descrizione magistrale e spaventosa dei meccanismi
impersonali con cui il potere tende ad espandersi fino a divorare l’intera società».
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PUNTI CHIAVE

Nella storia europea la crescita del potere politico è stata inarrestabile

Nel Medioevo il potere monarchico era fortemente limitato

Le aristocrazie e i corpi intermedi sono i migliori baluardi della libertà

Le rivoluzioni rinnovano un potere debole con un potere forte

L’idea democratica della sovranità popolare ha favorito la statalizzazione della
società

Il totalitarismo rappresenta il culmine di un processo secolare di espansione
statale
RIASSUNTO
Prima dello Stato moderno
Negli anni Quaranta del XX secolo tutti gli Stati, totalitari o democratici che siano,
dispongono di strumenti tali da portare la coercizione sugli individui a livelli estremi.
Questo esito novecentesco, secondo lo storico francese Jouvenel, non rappresenta una
parentesi o una casualità storica, ma è il culmine di un processo di accrescimento del
potere governativo che in Europa dura da secoli, e che inizia nella lotta che i re
combattono contro l’aristocrazia all’epoca della costruzione dello Stato moderno. Questo
processo subisce un’accelerazione con la Rivoluzione Francese, e anziché arrestarsi con
l’affermazione del princìpi democratici ha preso da essi nuovo slancio.
Jouvenel indica il Potere politico di governo con la P maiuscola per distinguerlo dagli altri
poteri sociali presenti in ogni comunità. Il Re medievale, spiega de Jouvenel, costituisce il
Potere meno libero e meno arbitrario che si possa immaginare, perché frenato nello
stesso tempo dal Costume e dalla Legge Divina. Il monarca è un re-giudice che deve far
rispettare le leggi preesistenti, ma che non può mai modificare a suo piacimento. Anche
l’idea che il Potere derivi da Dio non aveva lo scopo di indurre i sudditi all’obbedienza, ma
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di invitare il Potere all’obbedienza della legge di Dio. Lungi dal permettere
l’arbitrio del Potere, la Legge divina lo limitava strettamente.
Il Medioevo si caratterizza inoltre per l’esiguità degli eserciti e la brevità delle guerre: «La
guerra assumeva modeste proporzioni perché il Potere era esiguo e non disponeva di due
leve essenziali: l’obbligo militare e il diritto di levare imposte. Per finanziare le sue guerre
il re doveva recarsi successivamente nei principali centri del reame, radunare il popolo,
esporgli i suoi bisogni e chiedere il suo aiuto» (p. 4). Il Potere cercherà in tutti i modi di
ingrandirsi, ma ci riuscirà solo parzialmente e dopo una lunga ed estenuante lotta contro
la nobiltà e gli altri poteri sociali. La grande crisi del Seicento, che trova espressione nelle
rivoluzioni d’Inghilterra, di Napoli e della Fronda francese, «corrispose allo sforzo delle tre
grandi monarchie d’Occidente per aumentare le imposte, e alla violenta reazione dei
popoli» (p. 5).
La libertà è aristocratica
Per diventare un sovrano assoluto il Re deve necessariamente dichiarare guerra a tutti
quei contropoteri che glielo impediscono, primo fra tutti il ceto nobiliare. Infatti, spiega
Jouvenel, «in nessun luogo e in nessun tempo si può costruire un Potere assoluto con
delle aristocrazie. La cura degli interessi di famiglia, la solidarietà di classe, i pregiudizi
dell’educazione, tutto le dissuade dal sacrificare allo Stato l’indipendenza e la fortuna dei
loro simili» (p. 191). L’aristocrazia si oppone quindi all’ascesa di un Potere che disponga di
mezzi d’azione che lo rendano autonomo rispetto alla società, come un’amministrazione
permanente, un esercito permanente, un’imposta permanente.
Per diminuire l’influenza dell’aristocrazia il sovrano assoluto si allea con la plebe, che non
teme l’avanzata dello Stato perché considera più insopportabili i privilegi e i poteri sociali
dei nobili, in quanto molto più prossimi a lei. In questa incessante ricerca di estendere le
proprie prerogative il sovrano tende quindi a livellare la società ma, una volta eliminati
tutti i poteri intermedi, di fronte allo Stato rimangono solo gli individui isolati.
L’uguaglianza di tutti i sudditi e la loro libertà da qualsiasi autorità famigliare o sociale
viene pagata con una completa soggezione allo Stato.
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Jouvenel nota che l’aristocrazia inglese è riuscita a resistere all’assolutismo molto meglio
di quella francese. In Inghilterra il re, dopo una lunga battaglia, non riesce né ad acquisire
il diritto di riscuotere tributi né a costituire un esercito permanente. Il re deve contrattare
con il Parlamento, rimasto un organo dei poteri sociali e non del potere statale, ogni
tentativo di imposizione fiscale, mentre un articolo del Bill of Rights stabilisce l’illegalità
dell’esercito permanente.
La nobiltà francese, invece, fraintende il suo ruolo storico, non comprendendo che il suo
compito non è quello di governare, ma di costituire un ostacolo al governo. Dopo la morte
di Luigi XIV nel 1715 l’aristocrazia ha un’ottima opportunità di rafforzare il proprio ruolo
di contropotere, ma invece di dedicarsi a questo gli aristocratici tentano di impadronirsi
delle leve statali perché non concepiscono più nessuna azione politica che non si serva
dello Stato. Immemore del suo reale ruolo politico, l’aristocrazia francese cede alle
lusinghe del potere, ambisce alle cariche burocratiche e si “statalizza”, legandosi in questo
modo alla causa monarchica. La monarchia e l’aristocrazia vengono così travolte insieme
dalla Rivoluzione Francese.
La Rivoluzione, ovvero il trionfo del Potere
Tutte le rivoluzioni, per Jouvenel, sfociano inevitabilmente in un accrescimento del
Potere. I rivoluzionari credono di abbattere un tiranno, ma in realtà attaccano quello che
è già un mostro impotente. Insieme a lui fanno crollare inoltre tutte le altre autorità
presenti nella società. A quel punto i rivoluzionari hanno campo libero, e una volta entrati
nella “città del comando” possono estendere il loro Potere senza trovare più alcun limite.
La rivoluzione dunque edifica un potere forte a scapito di uno debole. La sua funzione è
quella di rinnovare e rafforzare il Potere.
Si dovrebbe quindi smettere, scrive Jouvenel, di «celebrarle come reazione dello spirito di
libertà contro un potere oppressore! Lo sono talmente poco, che non se ne può citare
una che abbia rovesciato un vero despota» (p. 224). Il vero tiranno è Enrico VIII e non
certo Carlo I, Luigi XIV e non Luigi XVI, Pietro il Grande e non Nicola II. Questi re sono
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morti non per la loro tirannide, ma per la loro debolezza. Cromwell, Robespierre e
Stalin non sono conseguenze fortuite o accidenti sopravvenuti, ma il termine fatale a cui il
rivolgimento tendeva in maniera necessaria. «Il ciclo si aperto con il crollo di un Potere
insufficiente solo per chiudersi con il consolidamento di un Potere più assoluto» (p. 222).
Ma alcune rivoluzioni, come la Gloriosa Rivoluzione inglese o quella americana, non
hanno fatto progredire la causa della libertà? Jouvenel in realtà non le considera vere
rivoluzioni, perché hanno avuto un carattere limitato al solo cambiamento della forma di
governo, e si sono richiamate ai diritti tradizionali della consuetudine politica britannica.
Furono controrivoluzioni conservatrici, più che rivoluzioni radicali.
Non è un caso che la Rivoluzione francese riesca a realizzare in pochi mesi ciò che in
centinaia d’anni l’assolutismo non aveva mai avuto la forza di attuare. La rivoluzione
distrugge le autonomie provinciali che tenevano a freno la monarchia, ottiene i mezzi
finanziari che erano stati rifiutati al re, introduce la coscrizione militare obbligatoria. Si
apre così, spiega Jouvenel, un’era nuova della storia militare: quella della carne da
cannone. Nessun generale dell’Antico Regime avrebbe osato gettare i suoi uomini in
colonne profonde sotto il fuoco nemico. I generali della Rivoluzione e dell’Impero
sperperarono invece le vite dei loro soldati senza badare a spese, perché il Potere
attingeva per loro alla Nazione tutt’intera.
Il Potere riesce inoltre a prevalere sul Diritto e a ottenere la potestà legislativa. L’idea che
gli uomini possano fare leggi contrarie al Costume o alla Legge naturale è assolutamente
estranea al Medioevo e all’Antico Regime. Il corpus juris è un «potente mezzo di disciplina
sociale che non deve nulla al Potere, che gli si oppone e gli s’impone, che lo limita e tende
a regolarlo» (p. 213). Con la Rivoluzione francese si impone il concetto che si può creare il
Diritto, e non semplicemente constatarlo. Per la prima volta viene attribuita all’autorità
politica la possibilità di rimettere in discussione, in qualsiasi momento, i diritti e i modelli
di condotta degli uomini. L’assorbimento dei Diritto da parte dello Stato, combinato con
la soppressione dei corpi sociali, pone le basi per l’edificazione di uno Stato monolitico, in
cui non esiste alcun potere fuori dal Potere esercitato dallo Stato, e nessun Diritto fuori
da quello enunciato dallo Stato. Nel mondo anglosassone, invece, il Diritto che nasce dalle
pronunce dei giudici nei tribunali riesce a svolgere meglio la sua funzione di limite al
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Potere. La Common Law, spiega Jouvenel, è «un Diritto per nulla ispirato dai
bisogni specifici del Potere, ma rispondente soltanto a quelli del corpo sociale. E dai suoi
arcani nacquero quelli che sono chiamati in Inghilterra i “principi della Costituzione” e che
non sono altro che una “generalizzazione dei diritti che i tribunali garantiscono agli
individui”» (p. 322). È questa la ragione del grande prestigio e dell’autorità morale che
godono ancora oggi i giudici delle Corti inglesi e nordamericane.
Dalla democrazia al totalitarismo
L’insieme dei diritti, funzioni e di mezzi che si era costituito nell’era monarchica a
beneficio del Re è semplicemente passato in altre mani: quelle dei rappresentanti del
popolo. Il Potere, tuttavia, non ha subito una diminuzione, ma un accrescimento. Un
tempo, spiega Jouvenel, il Potere era una volontà che urtava contro altre volontà degne
di rispetto, mentre ora si è tramutato nella volontà generale; un tempo rappresentava un
interesse all’interno della società, ora è divenuto l’interesse della società. Chi mai potrà
ergersi contro di esso?
Sotto la monarchia «la società diffida del Potere come di un possibile invasore e monta la
guardia alle frontiere della libertà. Ma appena il potere viene fondato sulla sovranità di
tutti, il diffidare di esso appare senza ragione, la vigilanza inutile e i limiti messi
all’Autorità cessano di essere difesi» (p. 264). In realtà non esistono istituzioni che
permettano di far partecipare ogni persona all’esercizio del potere, perché il Potere è
comando e non tutti possono comandare. Pertanto, continua Jouvenel, la sovranità del
popolo non è che una finzione, in un regime che è praticamente di sovranità
parlamentare. Questa finzione, tuttavia, alla lunga non può che distruggere le libertà
individuali.
La democrazia accentratrice appare a Jouvenel come il periodo d’incubazione della
tirannide totalitaria novecentesca: «Grazie all’apparenza innocente che essa ha conferito
al Potere, questo ha avuto uno sviluppo di cui un despotismo e una guerra senza
precedenti ci hanno dato l’esatta misura. Se Hitler fosse stato l’immediato successore di
Maria Teresa, avrebbe forse potuto foggiare tanti strumenti moderni di oppressione? Non
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era necessario che li trovasse già preparati?» (p. 12). Il regime totalitario mobilita
la popolazione, ma la coscrizione obbligatoria è stata istituita in periodo democratico;
s’impossessa delle ricchezze del paese, ma fa uso dell’imponente apparato fiscale creato
dalla democrazia; l’indottrinamento degli animi fin dall’infanzia è stato preparato dal
monopolio più o meno completo della pubblica istruzione introdotto dalla democrazia; il
plebiscito non conferirebbe al dittatore nessun potere, se la volontà generale non fosse
stata proclamata fonte dell’autorità; anche il Partito, strumento di consolidamento del
Potere, è stato foggiato in età democratica.
Su quali basi, allora, si possono salvaguardare le libertà individuali? Jouvenel rifiuta il
costituzionalismo liberale, perché considera utopistico il suo tentativo di limitare il Potere
con qualche ben studiato congegno istituzionale: «Mi spiace attaccare la tendenza
liberale [ma] la sua concezione del Potere non risponde alla realtà di alcun tempo e di
alcun paese». Il sistema formale della separazione dei poteri, ad esempio, è
completamente inutile, se a tali poteri non corrispondono forze sociali diverse con
interessi sociali contrapposti: «È quindi impossibile limitare il Potere per mezzo di una
semplice dislocazione dell’Imperium, assegnando le parti costitutive a organi distinti. La
sua limitazione esige interessi frazionari tanto formati, coscienti e armati da arrestare il
potere quando avanzi sul loro terreno, e un Diritto abbastanza indipendente per valere da
arbitro dei conflitti, e non ridursi a semplice strumento del potere centrale» (p. 307)
Rifiutando decisamente l’individualismo, Jouvenel si fa portavoce di un liberalconservatorismo pluralistico, che vede nelle associazioni, nella comunità locali, nei corpi
intermedi e nelle aristocrazie naturali le uniche forze sociali che possono contrastare
l’innata tendenza espansiva del Potere. Jouvenel è stato criticato per aver idealizzato il
Medioevo, visto come un’età dell’oro dalla quale ci saremmo allontanati. In realtà lo
studioso francese non nega i caratteri d’ingiustizia della società medievale. Egli ritiene
tuttavia che quell’epoca abbia mostrato alcune peculiari virtù “libertarie”: il sospetto
verso ogni forma di potere centralizzato e la deferenza verso la legge naturale e
consuetudinaria, invece che verso la volontà umana. Il Medioevo ci ha mostrato quindi un
modello politico in cui il potere era più limitato e meno arbitrario rispetto a quello che si è
affermato in epoca moderna e contemporanea.
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CITAZIONI RILEVANTI
Dal Re medievale al Re Sole
«Prendiamo, ad esempio, lo Stato di Filippo Augusto. Nessuna imposta generale: il re vive,
come un qualsiasi altro proprietario, dei redditi delle sue terre. Nessun esercito, ma una
modesta guardia che egli nutre alla propria tavola. Nessun funzionario, ma degli
ecclesiastici che egli impiega e dei servitori che delega ai pubblici affari … Il suddito non
incontra mai quel superbo signore, che non esige da lui tributi, non gli impone il servizio
militare, non promulga nessuna legge che investa la sua esistenza. Al termine del regno di
Luigi XIV come appare mutata la situazione! Il popolo è stato condotto, con un
accanimento secolare, a riempire regolarmente i forzieri del sovrano. Il monarca
mantiene un esercito permanente di duecentomila uomini. I suoi intendenti lo fanno
obbedire in tutte le province, la sua polizia malmena i malcontenti. Egli promulga leggi,
perseguita duramente coloro che non pregano come vuole lui, un vasto corpo di
funzionari innerva e muove la nazione. La volontà del Potere si è imposta» (p. 131).
Stato totale e guerra totale
«Mentre i monarchi feudali dovevano sostenere i conflitti con i soli mezzi dei loro domini,
i loro eredi dispongono dell’intero reddito nazionale. Il popolo delle città medievali
poteva benissimo ignorare la guerra, sol che fosse un po’ lontano dal teatro delle
operazioni. Oggi nemici e alleati gli bruciano la casa, gli massacrano la famiglia e valutano
le loro gesta a ettari devastati. La stessa cultura, un tempo sdegnosa di tali conflitti, è oggi
mobilitata al servizio delle imprese di conquista per proclamare la virtù incivilitrice dei
massacratori o degli incendiari. Impossibile non riconoscere in questa gravissima
degradazione della nostra civiltà i frutti dell’assolutismo statale. Tutto è gettato nella
guerra perché il Potere dispone di ogni cosa» (p. 156).
L’idea della sovranità popolare rafforza il Potere
«Perché lo Stato [rivoluzionario] non incontra … nessuna resistenza sindacale del popolo?
Sotto l’Antico Regime tale resistenza esisteva; essa era opposta dai rappresentanti dei
diversi elementi della Nazione che lottavano insieme contro il Potere. Ma, nel regime
moderno, essi sono divenuti il Potere, e il popolo è rimasto senza difensori. Coloro che
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sono lo Stato riservano a loro stessi il diritto esclusivo di parlare in nome della
Nazione e non ammettono alcun interesse della Nazione distinto dall’interesse dello
Stato. Essi schiaccerebbero come una ribellione quella che la monarchia accoglierebbe
come una rimostranza» (p. 156-157).
L’AUTORE
Bertrand de Jouvenel (1903-1987) nasce il 31 ottobre 1903 a Parigi. Il padre è un noto
giornalista ed esponente del partito radicale. Anche il giovane Bertrand intraprende la
carriera giornalistica in un giornale di sinistra, e nel 1928 pubblica il suo primo libro,
L’Economie dirigée, in cui propone una forte statalizzazione dell’economia. Nel 1933
viaggia negli Stati Uniti colpiti dalla recessione, e al suo ritorno pubblica un fortunato
volume, La crise du capitalisme américain, in cui analizza quegli aspetti del capitalismo
americano che a suo parere hanno favorito la crisi del 1929. A metà degli anni Trenta,
però, cambia radicalmente posizione, passando su posizioni nazionaliste e autoritarie. Si
dedica all’attività di reporter per altri giornali, e come inviato speciale ha la possibilità di
intervistare i maggiori personaggi dell’epoca, come Churchill, Chamberlain, Hitler e
Mussolini. Nel 1943 abbandona la Francia e si trasferisce con la famiglia in Svizzera, vicino
a Losanna, dove comincia a scrivere Il Potere. Con la pubblicazione, nel 1945, di questa
importante opera Jouvenel chiude una fase della sua vita, e passa dall’impegno politico e
giornalistico all’insegnamento accademico in Inghilterra, negli Stati Uniti e infine a Parigi.
Anche le sue posizioni ideologiche cambiano profondamente, avvicinandosi al liberalismo.
Nel 1947 è infatti tra i fondatori della Mont Pelerin Society insieme a Friedrich A. von
Hayek. In altre sue opere (come L’etica della redistribuzione del 1951 e La sovranità del
1955) continua a denunciare l’estensione smisurata del potere statale nella società. Nei
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primi anni Ottanta lo storico israeliano Zeev Sternhell gli riprovera però la sua
intervista giovanile a Hitler, ritenuta troppo condiscendente, e lo accusa di essere stato
filo-fascista. Jouvenel lo denuncia per diffamazione, vincendo la causa. Jouvenel muore a
Parigi il 1° marzo 1987, a ottantaquattro anni.
NOTA BIBLIOGRAFICA
Bertrand de Jouvenel, Il Potere, Rizzoli, Milano, 1947, a cura di Paolo Serini, p. 388.
(Altra edizione: Bertrand de Jouvenel, Del Potere. Storia naturale della sua crescita,
Sugarco, Milano, 1991, traduzione a cura di Sergio de La Pierre, p. 464)
Titolo originale: Du Pouvoir.
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