Sunniti e sciiti nell`Islam moderno fra guerra civile e

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Sunniti e sciiti nell`Islam moderno fra guerra civile e
Sonderdrucke aus der Albert-Ludwigs-Universität Freiburg
RAINER BRUNNER
Sunniti e sciiti nell’Islam moderno fra guerra civile e
avvicinamento
Originalbeitrag erschienen in:
Giovanni Filoramo (Hrsg.): Le religione e il mondo moderno.
Torino: Einaudi, Bd. 3 (2009), S. [431]-454
rainer brunner
Sunniti e sciiti nell’islam moderno
fra guerra civile e avvicinamento
Nel settembre del 2006, tre anni e mezzo dopo la caduta di Saddam
Hussein e in un periodo in cui in Iraq era in corso una guerra civile piú
o meno aperta, il «New York Times» scrisse che sempre piú iracheni
stavano cambiando i loro nomi propri per non essere immediatamente
riconosciuti come sunniti o sciiti. Si erano verificati ripetuti e sanguinosi incidenti, e appena poche settimane prima le milizie sciite avevano
istituito posti di blocco stradale e, data un’occhiata ai loro documenti
d’identità, ucciso piú di cinquanta persone che avevano in quel modo
identificato come sunnite1. Al posto dei nomi dei primi califfi islamici
‘Umar o ‘Uthman, divenuti per loro estremamente pericolosi, molti preferirono a quel punto chiamarsi neutralmente A®mad o Mu®ammad.
L’episodio illustra in modo inequivocabile fino a che punto questo
contrasto confessionale cosí centrale, le cui origini risalgono ai primi seisette decenni della storia islamica, continui a condizionare anche oggi,
quasi 1400 anni dopo, la vita quotidiana dei musulmani. Chi voglia
capire la ragione per cui sunniti e sciiti tuttora si avversano con tanto
accanimento, deve conoscere lo spunto storico e il significato del conflitto per la rispettiva storia religiosa di salvezza. Per dirla con una frase
di Bernard Lewis: «I nomi di ‘Al¥, Mu‘Çwiya, e Yaz¥d sono contemporanei come il giornale di oggi, più di quelli del giornale di ieri»2.
1. Origine e retroscena del contrasto confessionale nell’islam.
Il contrasto fra sunniti e sciiti, considerato superficialmente, è una
disputa politica sulla successione del Profeta a capo della comunità3. I
«The New York Times», 6 settembre 2006.
b. lewis, The Sh¥‘a in Islamic History, in ID., Islam and the West, Oxford University Press,
New York - Oxford 1993, p. 159.
3
Cfr. b. scarcia amoretti, Sciiti nel mondo, Jouvence, Roma 1994, pp. 15 sgg.
1
2
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sunniti si attengono al dato di fatto secondo cui Mu®ammad sarebbe
morto nell’anno 632 senza aver indicato un successore. Il suo potere
temporale fu trasmesso ai cosiddetti califfi (i «successori»). Secondo la
storiografia sunnita, l’epoca d’oro dei primi quattro califfi, definiti «i
ben guidati», durò ventinove anni, fino a quando, dopo una guerra civile, il governatore della Siria Mu‘Çwiya si impadroní del potere nell’anno 661 dando il via alla dinastia dei umayyadi. Contro la concezione
egalitaria – chiunque, avendone le qualità, sarebbe potuto succedere al
Profeta – si profilò assai presto un’opposizione. Un piccolo gruppo sostenne che Mu®ammad aveva invece designato un successore, e precisamente nella persona del genero ‘Al¥ b. Ab¥ >Çlib. A questi tuttavia,
dopo la morte di Mu®ammad, sarebbe stato impedito dagli avversari,
e in particolare dai due primi califfi Ab Bakr e ‘Umar, di corrispondere alla sua volontà. ‘Al¥ tornò poi in auge oltre vent’anni dopo come
quarto dei «ben guidati» califfi, però troppo tardi per riprendere il controllo della situazione. La sua reggenza fu accompagnata da quella guerra civile che portò infine al potere gli umayyadi, mentre ‘Al¥ fu assassinato.
Dietro questa lotta fra i diadochi si celano tre profondi contrasti di
natura religiosa. Anzitutto, un approccio del tutto diverso alla storia della salvezza. Secondo i sunniti, alla morte di Mu®ammad la sua autorità
religiosa e spirituale si sarebbe trasmessa alla totalità della comunità, e
il suo (effettivo o supposto) esempio normativo è conservato nei cosiddetti ®ad¥th, la raccolta dei suoi detti e delle sue opere, vincolante per
l’ulteriore evoluzione giuridica e religiosa dell’islam. Invece, i seguaci del
«partito di ‘Al¥» (sh¥‘at ‘Al¥), che ha dato il nome agli sciiti, sono convinti che il mondo non può reggersi senza una incarnata «prova di Dio»
(come i teologi formularono in seguito il principio) sotto forma di un capo della comunità insediato e ispirato da Dio. Dopo la morte del Profeta la sua autorità spirituale sarebbe passata ad ‘Al¥ nonché ai diretti discendenti suoi e della moglie FÇ<ima, la figlia del Profeta, via via trasfigurati in capi onniscenti e senza peccato. Solo la mediazione di questi
imam, come furono chiamati, assicurerebbe al fedele la salvezza4. Il che
comporta conseguenze importanti per le fonti scritte dell’autorità: solo
dopo parecchi secoli lo sciismo ha riconosciuto il testo canonico del Corano, ma oggi ancora si disputa attorno all’accusa mossa dagli sciiti secondo cui ne sarebbe stata operata una falsificazione5. Ancor piú com4
Cfr. m. momen, An Introduction to Shi‘i Islam. The History and Doctrine of Twelve Shi‘sm,
George Ronald, Oxford 1985, pp. 147 sgg.
5
Cfr. r. brunner, Die Schia und die Koranfälschung, Ergon, Würzburg 2001.
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plesso è il caso degli ®ad¥th, perché l’autenticità di quasi tutto il corpus
sunnita della tradizione si basa sulle testimonianze di quei compagni del
Profeta che, agli occhi dei loro detrattori, avrebbero vanificato il diritto di ‘Al¥ alla successione. Lo sciismo ha di conseguenza proprie raccolte di ®ad¥th, compilate in severa delimitazione rispetto a quelle dei sunniti, ed è significativo della concezione sciita della storia della salvezza
che la tradizione sia fatta spesso risalire non a Mu®ammad, ma a uno
degli imam. La funzione-insegnamento degli imam e il giudizio sui compagni del Profeta (#a®Çba) sono rimasti fino a oggi i punti di contrasto
di gran lunga piú importanti nella reciproca polemica.
Un altro motivo di contrasto ruota attorno all’escatologica attesa dello sciismo. Secondo la credenza di questa confessione dell’islam, la presenza fisica degli imam nel mondo cessò nell’anno 874 quando, in base
alla concezione sciita, il dodicesimo imam fu relegato in un misterioso
occultamento. Da lí dovrebbe tornare alla fine dei tempi come il «rettamente guidato» (Mahd¥), per istituire un giusto governo e preparare
il giudizio universale6. Mentre per i sunniti simili concezioni del salvatore hanno un ruolo solo secondario, esse garantiscono invece secondo
lo sciismo l’attesa certezza della salvezza. Vi fa ripetutamente riferimento perfino la Costituzione della repubblica islamica dell’Iran.
Il terzo punto di dissidio si basa sulla profonda convinzione dello
sciismo di aver patito un torto storico. Simbolo centrale di questa iniquità è il martirio di ©usayn, figlio di ‘Al¥ nonché terzo degli imam, il quale fu ucciso il 10 Mu®arram dell’anno 61 (10 ottobre 680: giornata chiamata anche ‘ÅshrÇ’) presso Kerbela, nell’Iraq meridionale, per ordine del
califfo Yaz¥d, dopo essere stato sopraffatto dalla soverchiante forza degli umayyadi. Quella che era stata fino ad allora, storicamente, una indistinta corrente di dissidenza si sviluppò fino a diventare la vera e propria cellula germinale dello sciismo: «La morte del terzo imam e dei suoi
compagni è il big bang che crea e mette in movimento il cosmo in rapida espansione dello sciismo»7.
Inoltre il ricordo di Kerbela ha dato luogo a una singolare cultura del
lutto: che non si esprime solo nelle annuali rappresentazioni della passione e in quelle processioni di ‘ÅshrÇ’ che hanno in alcune località il loro spettacolare momento culminante nelle autoflagellazioni; ma anche nella venerazione di cui sono oggetto le tombe degli imam (che secondo la
concezione sciita furono tutti assassinati) e dei loro parenti. Alcuni di
questi luoghi – Najaf, Kerbela e Samarra in Iraq, Qom e Mashhad in Iran –
6
7
Cfr. m. momen, An Introduction to Shi‘i Islam cit., pp. 161 sgg.
h. halm, Der schiitische Islam. Von der Religion zur Revolution, Beck, München 1994, p. 28.
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si sono sviluppati sino a diventare i piú importanti centri teologici dello sciismo.
Il gruppo sciita di gran lunga maggiore e piú importante è quello detto dei duodecimani o imamiti («dei dodici imam» legittimi). Nell’arco
della storia si sono verificate ripetute scissioni dalla linea genealogica
principale dello sciismo8. I due piú importanti e oggi ancora esistenti sottogruppi sono gli zayditi, ovvero gli sciiti «dei quattro imam legittimi»
che risiedono prevalentemente nello Yemen, e gli ismailiti o sciiti «dei
sette imam legittimi» che proseguono fino ai nostri tempi la successione degli imam e dai quali sono derivati i drusi. Costoro, però, non hanno nei contrasti odierni interni all’islam un ruolo che possa essere paragonato a quello degli sciiti duodecimani.
Ripetutamente nell’arco della storia, in zone di popolazione confessionalmente mista, si sono verificati disordini, non di rado degenerati
in scontri simili a vere e proprie guerre civili, innescati per lo piú dalle
festività sciite del Mu®arram e dalle denigrazioni dei califfi sunniti9. Sotto il profilo della storia spirituale sono stati però anche piú importanti
e significativi gli scambi di scritti di polemica teologica. La diatriba dalle conseguenze piú durature fu quella che oppose due eminenti studiosi delle due parti, lo sciita al-‘AllÇma al-©ill¥ (m. 1325) e il suo contemporaneo sunnita A®mad b. Taymiyya (m. 1328). Questa e altre simili controversie furono riprese da numerosi autori successivi e protratte fino
ai nostri giorni10.
L’assunzione del potere in Iran (nell’anno 1501) da parte della dinastia califfale dei safavidi e la sciitizzazione, protrattasi per diverse generazioni, del paese in precedenza a maggioranza sunnita costituiscono
una fondamentale cesura nella storia islamica. Per la prima volta la confessione sciita fu dichiarata dominante religione di stato e come tale diffusa anche nel popolo11. Nel corso di ripetute guerre con l’Impero ottomano, che si considerava il tutore dell’islam sunnita, la disputa confessionale assunse quella componente politica fra gli stati che da allora non
l’ha più abbandonata. A ciò si aggiunse poi anche una profonda trasformazione nella teologia e nella giurisprudenza sciite12. La base del cambiamento era già stata posta nei secoli precedenti da studiosi come al8
m. momen, An Introduction to Shi‘i Islam cit., pp. 45 sgg., menziona oltre venti formazioni
settarie per lo piú di breve vita.
9
Cfr. h. halm, Der schiitische Islam cit., pp. 55 sgg.
10
Cfr. r. brunner, Islamic Ecumenism in the 20th Century. The Azhar and Shi‘ism between Rapprochement and Restraint, Brill, Leiden 2004, pp. 25 sgg.
11
Cfr. m. momen, An Introduction to Shi‘i Islam cit., pp. 105 sgg.
12
Cfr. ibid., pp. 184 sgg.
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‘AllÇma al-©ill¥ e altri, i quali erano andati oltre lo stabilire il differente valore autoritativo da attribuire agli ®ad¥th degli imam. Insieme al
compito di definire le linee teologiche gli studiosi di religione (‘ulamÇ’)
rivendicarono a quel punto per sé anche il diritto di emettere autonome
pronunce giurisprudenziali (ijtihÇd) in tutte le questioni giuridiche. Questo diritto spetta oggi solo a coloro che hanno compiuto l’intero corso degli studi teologici, ai quali sono gli insegnanti a conferire la corrispondente autorità. Il singolo fedele è invece tenuto, nelle questioni del retto
esercizio della religione, ad attenersi alle indicazioni di uno dei cosiddetti mujtahid e ad astenersi dal farsi una propria opinione teologicogiuridica. In cima a questo clero in tal modo gerarchicamente costituito s’installarono i massimi mujtahid, per la denominazione dei quali si
adottò a partire dal xix secolo il titolo onorifico di «fonte dell’emulazione» (marja‘ al-taql¥d). Il piú delle volte ci sono state contemporaneamente diverse di queste «fonti»; soltanto l’ayatollah Borjerd¥ (m. 1961)
fu universalmente riconosciuto dagli sciiti come l’unico marja‘ della sua
epoca.
Alla rivendicazione di interloquire politicamente da parte dei religiosi sciiti si accompagnò quindi anche una vasta interdizione teologica – e implicitamente pure politica – di una gran parte dei fedeli. Inoltre, fin dai tempi dei safavidi, gli ulema avevano avocato a sé numerose competenze che, secondo la concezione classica, sarebbero spettate
esclusivamente al Mahd¥, divenendone cosí, collettivamente e durante
l’assenza, i rappresentanti. In tal modo risultò spianata la strada alla
convinzione che gli emimenti giurisperiti, ovvero le già citate «fonti
dell’emulazione», fossero in un senso politicamente assai concreto i
mandatari dell’imam nascosto, disponendo quindi anche di parecchie
e notevoli competenze secolari. Nel xx secolo le conseguenze di questo
sviluppo si sono viste sia all’interno dello sciismo sia nei suoi rapporti
con i sunniti.
2. Il dibattito ecumenico del xx secolo.
Il 10-15% circa dell’odierna popolazione mondiale di fede musulmana – dunque fra i 130 e i 200 milioni di persone – è sciita, e la sua parte di gran lunga prevalente si riconosce nello sciismo dei duodecimani.
A prescindere dall’Iran, dove il 90% circa degli iraniani – vale a dire 60
milioni di persone – segue lo sciismo come religione di stato, gruppi sciiti di varia consistenza esistono in quasi tutti i paesi fra il Mediterraneo
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e l’Asia centrale13. A causa delle implicazioni politiche per i vari paesi, è
praticamente impossibile ottenere dati precisi, e le varie stime differiscono per lo piú notevolmente fra loro. Si ritiene comunque che i seguaci
dello sciismo costituiscano la maggioranza dei musulmani in Iraq (65%),
Bahrein e Azerbaigian (75% in entrambi i casi), e siano il maggior gruppo confessionale in Libano (45%). Importanti minoranze sciite esistono
in Arabia Saudita (10%), Kuwait (30%), Qatar (16%), nonché in Pakistan (20%) e in Afghanistan (19%). I circa 11 milioni di sciiti dell’India
rappresentano invece solo l’1% della popolazione del paese, ma sovrastano di gran lunga, per quantità assoluta, il complesso dei loro correligionari che vivono negli stati del Golfo e nel Libano14.
Il xx secolo è stato contrassegnato in quasi tutto il mondo islamico
dall’emergere di movimenti di riforma politica religiosamente ispirati,
ovvero da una crescente politicizzazione del dibattito religioso esattamente come, viceversa, da una crescente islamizzazione della politica.
Il che non è rimasto senza effetti sul rapporto fra i due maggiori gruppi confessionali musulmani. Contrariamente alla polemica, che può guardare a una secolare tradizione, l’auspicio di un accordo o quanto meno
di un avvicinamento dei punti di vista (taqr¥b) è un fenomeno degli ultimi cent’anni. Diversamente da quanto si potrebbe supporre, il panislamismo profilatosi nell’ultimo terzo del xix secolo non riuscí se non
minimamente ad avviare un dibattito ecumenico inter-islamico. Questa
tendenza fu, ai suoi inizi e nei suoi obiettivi, troppo sunniticamente improntata, e troppo evidentemente l’Impero ottomano e il sultano ‘Abd
al-©am¥d II in particolare mirarono a sfruttare gli obiettivi panislamici
per i loro interessi imperiali. Uno dei piú brillanti esponenti del panislamismo, JamÇl al-D¥n al-AfghÇn¥ (m. 1897), arrivò al punto di rinnegare
le sue origini sciite iraniane spacciandosi per sunnita afghano15.
Il primo studioso sunnita di rango a prendere esplicitamente posizione sulla questione di un avvicinamento interno all’islam fu Mu®ammad
Rash¥d Ri£Ç (1865-1935). Sul giornale da lui fondato nel 1898, «alManÇr» («Il faro»), pubblicò fin dagli inizi articoli per chiedere che lo
sciismo fosse riconosciuto come una scuola giuridico-religiosa equiparabile a quelle sunnite. Lí per lí la sua campagna non suscitò eco alcuna
13
Cfr. a. monsutti, s. naef e f. sabahi (a cura di), The other Shiites. From the Mediterranean
to Central Asia, Peter Lang, Bern 2007.
14
Tutti i dati numerici e le percentuali secondo v. nasr, When the Shiites Rise, in «Foreign Affairs», luglio-agosto 2006; http://www.foreignaffairs.org/20060701faessay85405/vali-nasr/whenthe-shiites-rise.html.
15
Cfr. j. b. landau, The Politics of Pan-Islam: Ideology and Organization, Clarendon Press,
Oxford 1990, pp. 9 sgg.
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fra gli studiosi sciiti in Iraq e in Iran, e quando alcuni anni dopo reagirono alle argomentazioni di Rash¥d Ri£Ç, lo fecero con rabbia. Era il
1908 quando egli pubblicò un articolo antisciita a causa del quale fu sommerso da una marea di critiche sciite: l’episodio costituí l’avvio di un
pluriennale contrasto con lo sciismo. Il coinvolgimento dello sciismo in
un discorso ecumenico fu inoltre reso difficile dal fatto che il cosiddetto movimento della salafiyya, del quale facevano parte numerosi studiosi panislamici e modernisti, mirava a ottenere una riabilitazione di tutti
i primi compagni del Profeta (salafiyya deriva dall’arabo salaf: «i retti
antenati»). Il che non poté assolutamente incontrare l’approvazione dello sciismo, che considera notoriamente traditori gran parte di essi.
Due eventi, che a prima vista sembrano aver poco a che fare con lo
sciismo, comportarono negli anni Venti dello scorso secolo l’avvio dei
primi contatti ecumenici16: l’abolizione del califfato da parte della Turchia nel 1924, nonché la conquista nell’autunno di quello stesso anno dei
luoghi santi della Mecca e di Medina da parte di ‘Abd al-‘Az¥z b. Sa‘d.
Quest’ultimo avvenimento costituí per lo sciismo un’indiretta ma assai
grave minaccia, poiché Ibn Sa‘d era alleato con gli ulema wahhabiti.
Tale corrente sunnita estremamente puritana, scaturita da un movimento riformista costituitosi nel xviii secolo attorno all’erudito Mu®ammad
b. ‘Abd al-WahhÇb, riteneva che gli sciiti non fossero altro che degli infedeli che violavano con la loro venerazione per gli imam e con il culto
dei sepolcri il severo monoteismo islamico. Quattro degli imam sciiti sono sepolti a Medina e, come a conferma dei timori sciiti, Ibn Sa‘d fece distruggere nel 1926 le cupole sulle loro tombe. Questo episodio e il
ricordo sciita di precedenti discordie posero le basi di un’inimicizia confessionale d’impronta politica che ebbe continui ritorni di fiamma nel
corso del xx secolo.
L’abolizione del califfato innescò a sua volta fra i musulmani sunniti, in ogni parte del mondo (compresa l’India, che non era mai stata sotto la sovranità dei califfi), una crisi d’identità, essendo venuto a mancare in quel modo l’ultimo, anche se ormai da tempo impotente, simbolo
dell’unità musulmana. La sensazione di essere ora esposti del tutto inermi all’avanzata del colonialismo rafforzò le tendenze unificatrici panislamiche, alle cui discussioni presero parte negli anni seguenti anche studiosi sciiti. La maggior attenzione fu riservata al cosiddetto Congresso
del califfato, convocato nel dicembre del 1931 dal muft¥ di Gerusalemme, Mu®ammad Am¥n al-©usayn¥. Anche l’Azhar, famosa università
del Cairo, si adoperò negli anni precedenti alla seconda guerra mondia16
Cfr. r. brunner, Islamic Ecumenism in the 20th Century cit., pp. 82 sgg.
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le per rafforzare attraverso un dialogo con lo sciismo l’idea unitaria. Tuttavia entrambe le iniziative fallirono, non da ultimo perché gli interlocutori sciiti si accorsero dell’intenzione dell’Azhar di restaurare, ora sotto egida egiziana, quel califfato al quale lo sciismo aveva sempre guardato con scetticismo17.
La prima – e unica, come poi si sarebbe visto – organizzazione che
sarebbe riuscita a protrarre per parecchio tempo un dialogo ecumenico
fra sunniti e sciiti fu l’Associazione per l’avvicinamento delle scuole giuridiche islamiche (JamÇ‘at al-taqr¥b bayn al-madhÇhib al-islÇmiyya) fondata nel 1947 al Cairo dallo sceicco iraniano Mo®ammad Taq¥ Qom¥. In
circostanze politiche mutate – dopo la seconda guerra mondiale la questione del califfato non ebbe più alcun rilievo, e con i sauditi era stato
trovato un modus vivendi – gli ‘ulamÇ’ impegnati nell’associazione, e soprattutto le correnti riformatrici dell’Azhar, si impegnarono per far progredire il dibattito ecumenico. Senonché risultò assai presto che questo
era possibile solo al prezzo di rifuggire completamente ogni discussione
attorno ai veri punti di contrasto che separavano l’una dall’altra le due
confessioni. In particolare, si volle evitare ogni sospetto che si mirasse
a vicendevoli tentativi di conversione o a una fusione delle scuole giuridiche islamiche. Nelle varie prese di posizione ufficiali si diede cosí
l’impressione che sunniti e sciiti fossero d’accordo su tutte le questioni
fondamentali ed esistessero disparità d’opinione soltanto su punti marginali, e che questa discordia fosse alimentata solo dall’esterno, e cioè
dal colonialismo e dai nemici dell’islam18.
L’associazione per l’avvicinamento non riuscí mai, in nessun momento, a diventare un movimento di massa. Rimase piuttosto una palestra per
i tradizionali studiosi di faccende religiose, nella quale gli intellettuali o
gli attivisti maggiormente interessati alle vicende politiche ebbero ruoli solo marginali. Questi ultimi trovarono la loro patria spirituale altrove: i sunniti prevalentemente in raggruppamenti dediti ad attività politico-religiose come i Fratelli Musulmani, e gli sciiti dell’Iran, dell’Iraq e
del Libano – paesi che stavano allora cominciando a profilarsi maggiormente sulla scena politica – spesso in partiti laici o addirittura comunisti
dei rispettivi stati19. Un tema ricorrente del dibattito ecumenico consiCfr. ibid., pp. 103 sgg.
Cfr. ibid., pp. 208 sgg.
19
Cfr. s. naef, “Sh¥‘¥ - Shuy‘¥” or: How to become a Communist in a Holy City, in r. brunner
e w. ende (a cura di), The Twelver Shia in Modern Times. Religious Culture and Political History,
Brill, Leiden 2001, pp. 255-67; v. nasr, The Shia Revival: how Conflicts within Islam will Shape the
Future, Norton, New York 2006 (trad. it. La rivincita sciita. Iran, Iraq, Libano: la nuova mezzaluna,
Università Bocconi, Milano 2007).
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stette perciò nell’assicurazione di non aver nulla a che fare con la politica e di volersi anzi tenere deliberatamente alla larga da simili argomenti. Ciò non significa tuttavia che la politica non influenzasse le sorti di
quest’associazione e del dibattito ecumenico in generale. Anzi: soprattutto il presidente egiziano Nasser non esitò dalla metà degli anni Cinquanta a strumentalizzare il rapporto instaurato con lo sciismo per i propri obiettivi egemonici nel mondo arabo, specie quando l’Arabia Saudita si offrí come rifugio di quei Fratelli Musulmani il cui movimento fu
vietato in Egitto nel 1954.
Il trionfo o il fallimento del dialogo ecumenico, rimasto a lungo in bilico, dipesero strettamente da fattori politici contingenti20. Nel 1959 fu
pubblicato il famoso responso giuridico (fatwÇ), in seguito continuamente citato, con cui il rettore dell’università dell’Azhar, Ma®md Shaltt,
riconobbe lo sciismo come una scuola giuridica musulmana d’uguale diritto e dignità, approvando addirittura casi di reciproca conversione. Ma
ciò che fu festeggiato dalla JamÇ‘at al-taqr¥b come una svolta nel pensiero ecumenico fu in realtà una mossa politica per combattere il regime
iracheno di ‘Abd al-Kar¥m QÇsim. Quando, dopo il colpo di stato del
1958 a Baghdad, fallirono i piani per conseguire un’unione dell’Iraq con
l’Egitto, gli iniziali buoni rapporti fra i due regimi si volsero in una guerra di propaganda nel corso della quale la parte egiziana bollò le presunte tendenze comuniste dei detentori del potere in Iraq. Vero scopo della fatwÇ fu dunque quello di gettare un ponte verso gli studiosi sciiti iracheni che condannavano a loro volta il comunismo. Quindi, di fatto,
non si fecero passi tali da poter contribuire a un miglioramento dei rapporti fra le confessioni.
Nemmeno un anno dopo un altro evento politico, peraltro marginale, divenne la causa del fallimento dell’associazione per il riavvicinamento. Quando lo scià di Persia fece quasi incidentalmente sapere durante
una conferenza stampa che l’Iran aveva ormai da tempo riconosciuto lo
Stato di Israele, Nasser reagì immediatamente con la rottura dei rapporti diplomatici con l’Iran. E quando gli ‘ulamÇ’ sciiti iraniani e iracheni
non aderirono all’appello del governo egiziano e dell’Azhar perché contribuissero a far cadere lo scià, questa scelta comportò la fine dell’unico tavolo per un dialogo organizzato nell’islam.
La conseguenza immediata fu una ripresa della polemica antisciita,
promossa ora in crescente misura dall’Arabia Saudita. I protagonisti di
questa polemica, e con particolare spicco il pubblicista Mu®ibb al-D¥n
al-Kha<¥b, poterono riattingere all’intero repertorio delle classiche ac20
Cfr. r. brunner, Islamic Ecumenism in the 20th Century cit., pp. 249 sgg. e 284 sgg.
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cuse rivolte allo sciismo: contestare cioè la dottrina degli imam, la diffamazione dei compagni (sunniti) del Profeta, la credenza nel Mahd¥, il
culto dei sepolcri e i riti di ‘ÅshrÇ’, nonché l’affermazione secondo la
quale lo sciismo non riconosceva il testo canonico del Corano21. Tutto
questo si mosse prevalentemente lungo i noti sentieri della polemica classica ovvero – nelle controargomentazioni degli sciiti – dell’altrettanto
classica apologetica. La sorte toccata all’associazione per il riavvicinamento aveva comunque chiaramente dimostrato come il confessionalismo interno all’islam si prestasse facilmente alla strumentalizzazione politica. Il che avrebbe avuto conseguenze rilevanti per le rivendicazioni
sciite di partecipazione politica che ebbero inizio negli anni Settanta e
per le conseguenti reazioni sunnite.
3. Sunniti e sciiti dopo la Rivoluzione iraniana del 1979.
La rivoluzione che portò nel 1979 alla caduta in Iran del regime dello scià costituí sia per gli sviluppi di storia spirituale che per i rapporti
fra sunniti e sciiti una cesura di un’importanza che non si sbaglia a definire della massima importanza. Fin dagli anni Sessanta si era potuta osservare in molte aree – come per esempio in Libano – una politicizzazione e una rivalutazione dell’identità sciita. Furono tuttavia gli eventi in
Iran a mettere in moto una dinamica fortissima che si estese ben oltre
il paese e portò progressivamente a una maggiore confessionalizzazione
della politica negli stati a popolazione mista, un fenomeno che si è poi
protratto per tre decenni, fino ai nostri giorni. E ovunque fu infine una
pressione esterna, ovvero sunnita, a innescare la mobilitazione degli sciiti: sotto forma di pregiudizio economico e/o politico (Libano), di discriminazione animata da motivi religiosi (Arabia Saudita, Bahrein), di
emarginazione fondamentalista (Pakistan) o di brutale repressione (Iraq).
Allo stesso tempo, si è potuta osservare, dopo una fase di violenti contrasti, la tendenza degli sciiti alla moderazione e all’adeguamento ai sistemi politici vigenti.
In un certo senso il discorso vale anche per lo stesso Iran. Qui, prima della rivoluzione, non operava un regime sunnita, tuttavia lo scià, a
causa della tracotanza con cui alla fine aveva abolito perfino il computo musulmano del tempo e reintrodotto l’antico calendario iraniano, non
era piú considerato da ampi settori del suo popolo un sovrano sciita o
anche solo genericamente musulmano. La sensazione profondamente ra21
Cfr. id., Die Schia und die Koranfälschung cit., pp. 94 sgg.
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dicata del torto storico subito si era quindi potuta volgere piú facilmente ed efficamente in propositi rivoluzionari, tanto piú che la stessa tradizione sciita teneva a disposizione un modello in questo senso, e cioè
il ricordo del martirio di ©usayn a Kerbela. La reinterpretazione di una
passiva storia della passione in un’ideologia dell’azione non fu comunque soltanto opera di teologi. Furono spesso attivisti di sinistra, d’impronta marxista come ‘Al¥ Shar¥‘at¥ (m. 1977), a sferzare il tradizionale quietismo del clero nelle questioni politiche e a indicare nel martirio
di ©usayn una rivoluzionaria via d’uscita dall’oppressione. Lo slogan
che egli coniò, «ogni giorno è ‘ÅshrÇ’, ogni luogo è Kerbela», divenne
forse la parola d’ordine di maggior successo del risveglio sciita, citata
volentieri anche altrove, in altri momenti e in altre circostanze22.
Nessuno ebbe tuttavia, neppure lontanamente, tanto successo quanto l’ayatollah Khomeini23. Costretto all’esilio dallo scià dopo incidenti
avvenuti nel 1963, nel corso dei quali era per la prima volta apparso in
pubblico, verso il 1970 Khomeini delineò nell’irachena Najaf la dottrina del «potere del giurisperito» (wilÇyat-i faq¥h), secondo la quale il giurisperito in questione, da equiparare con il massimo marja‘ al-taql¥d, è
pienamente e concretamente autorizzato, durante l’assenza del Mahd¥,
a esercitare il potere politico. Il che rappresenta per un verso un coronamento conseguente al processo storico in precedenza descritto, nel
corso del quale gli ulema sciiti avevano avocato sempre piú competenze
anche d’indirizzo politico; ma per un altro verso la dottrina di Khomeini costituisce un’eclatante rottura con la tradizione sciita, non solo perché gli ‘ulamÇ’, fatte pochissime eccezioni, avevano sempre assunto nelle questioni politiche un atteggiamento quietista, ma soprattutto perché
nessun marja‘ aveva mai rivendicato alcuna autorità sugli altri. L’intera
portata dell’insegnamento di Khomeini si sarebbe manifestata solo quando, dopo la Rivoluzione del 1979, i suoi enunciati furono trasfusi e incardinati nella Costituzione iraniana24. Per la prima volta nella storia
concezioni sciite d’ordinamento politico, sociale e religioso, per di piú
formulate da un unico studioso, divennero leggi formalmente codificate
di uno stato. D’altra parte Khomeini riuscí a imporre la sua leadership
all’interno dell’Iran, dopo aver messo fuori gioco altri pur apprezzati stu-
22
Cfr. v. nasr, The Shia Revival cit., pp. 127 sgg.; a. r. norton, Hezbollah. A Short History,
Princeton University Press, Princeton N.J. - Oxford 2007, pp. 50 sgg., 66, 85.
23
Cfr. b. moin, Khomeini. Life of the Ayatollah, I. B. Tauris, London - New York 1999, pp.
92 sgg.
24
Cfr. s. a. arjomand, Authority in Shiism and Constitutional Development in the Islamic Republic of Iran, in r. brunner e w. ende (a cura di), The Twelver Shia in Modern Times cit., pp. 300 sgg.
442
Rainer Brunner
diosi come Mo®ammad Kǧem Shar¥‘atmadÇr¥. Fra gli sciiti che vivevano fuori dall’Iran egli fu invece sempre riconosciuto soltanto come una
delle tante «fonti dell’emulazione», e non certo sempre la maggiore. Che
la sua teoria della wilÇyat-i faq¥h fosse un abito tagliato su misura del solo Khomeini in quanto capo carismatico – nel 1988 aveva reclamato per
sé, mediante una modifica della Costituzione, perfino il diritto a un potere «assoluto» anche al di là dell’ambito religioso, ovvero delle leggi in
materia di preghiere, digiuni e pellegrinaggi – lo si poté constatare ben
presto dopo la sua morte. Poiché solo pochi mesi prima Khomeini aveva costretto al ritiro il suo successore designato, l’ayatollah Monta§er¥,
si dovette cambiare nuovamente la Costituzione per spianare la strada
ad ‘Al¥ KhÇmene’¥. Questi fu formalmente nominato ayatollah solo con
l’elezione, senza riuscire però negli anni seguenti a trovare riconoscimento come unico marja‘ al-taql¥d neppure in Iran25. Soprattutto questa
lotta per l’autorità rese evidente come la reinterpretazione di Khomeini
della dottrina sciita in un’ideologia rivoluzionaria non fosse affatto indiscussa e che la tradizione del quietismo sapeva farsi assai ben valere.
Ayatollah come Ab al-QÇsim al-Kh’¥ (m. 1992), ‘Al¥ al S¥stÇn¥, ma anche il libanese Mu®ammad ©usayn Fa£lallÇh hanno continuato e continuano a costituire tuttora un efficace contrappeso rispetto al clero del
governo iraniano, che d’altra parte non sono indiscussi nemmeno nelle
scuole religiose superiori del loro stesso paese.
La Rivoluzione iraniana, e in particolare la teoria politica di Khomeini che ne costituí il fondamento, polarizzò fin dagli inizi l’ecumene
islamica e accelerò lo svolgersi di un processo che era cominciato nei primi anni Sessanta. Soltanto agli inizi si levarono le voci positive, addirittura entusiastiche, di quanti credettero di cogliere nella caduta dello scià
un segnale di svolta radicale e un cambio di paradigmi politici26. Questa
simpatia per la rivoluzione fu espressa soprattutto da due gruppi: in primo luogo dagli intellettuali di sinistra, critici dei sistemi vigenti, come
il filosofo egiziano ©asan ©anaf¥, il quale pubblicò per i lettori del suo
paese un’edizione della dottrina di governo di Khomeini e difese la
wilÇyat-i faq¥h come una specie di pendant islamico della monarchia assoluta. L’altro, piú importante gruppo, fu quello degli autori islamici che
gravitavano attorno alla Fratellanza Musulmana, i quali si ripromisero di
trarre dal modello iraniano una spinta per la lotta contro i loro regimi.
Fra gli altri si fece sentire in modo particolare il palestinese Fat®¥ ‘Abd
Cfr. ibid., pp. 314 sgg.
Cfr. r. matthee, The Egyptian Opposition on the Iranian Revolution, in j. cole e n. keddie
(a cura di), Shi‘sm and Social Protest, Yale University Press, New Haven Conn. 1986, pp. 247 sgg.
25
26
Sunniti e sciiti nell’islam moderno
443
al-‘Az¥z ShiqÇq¥, il quale scrisse nell’anno stesso della rivoluzione un libro intitolato Khomeini, soluzione islamica e alternativa. Tuttavia l’entusiasmo poi scemò nella misura in cui divenne sempre piú evidente il carattere specificamente sciita della rivoluzione, tanto che anche i Fratelli
Musulmani egiziani dopo poco tempo ripresero le distanze dallo sciismo27.
Non da ultimo, sotto l’impressione della prima guerra del Golfo (19801988) fra Iraq e Iran, nonché della progressiva «sciitizzazione» della Rivoluzione iraniana, si registrò in seguito una vera e propria marea di letteratura antisciita polemica. Richiamandosi alla eresiografia classica ma
anche ad autori del xx secolo come il poc’anzi menzionato Mu®ibb adD¥n al Kha<¥b, gli esponenti di questa nuova polemica considerarono loro preminente dovere quello di aprire gli occhi ai lettori e di dimostrare
che lo sciismo contemporaneo era molto piú pericoloso di quello dei secoli passati28. Una gran parte di questa polemica è avvenuta, e avviene
tutt’oggi, con l’appoggio finanziario o logistico di ambienti (neo) wahhabiti, soprattutto in Arabia Saudita: e nell’èra di Internet, alla diffusione
di questo genere di pamphlet non sono piú posti praticamente limiti29.
È evidente come in questa situazione un dialogo ecumenico istituzionalizzato risulti quasi impossibile. L’Università al-Azhar del Cairo,
che aveva a suo tempo appoggiato la JamÇ‘at al-taqr¥b, assunse fin dall’inizio un atteggiamento di rigetto di fronte al risveglio sciita, e ha poi
in misura crescente cercato di allinearsi con l’establishment religioso dell’Arabia Saudita30. Una riedizione dell’associazione per l’unione ecumenica, inscenata nel 1992 senza molta convinzione, è rimasta completamente senza successo, e se a una ulteriore ripresa annunciata nel marzo
del 2007 con notevole dispendio di mezzi sarà riservato maggior successo è un qualcosa che resta ancora da vedere.
Nel frattempo il governo iraniano aveva preso l’iniziativa anche in
quest’ambito e annunciato nella primavera del 1990 (dunque solo dopo
la morte di Khomeini) un «Foro mondiale per l’avvicinamento delle
scuole giuridiche islamiche»31. Da allora l’organizzazione che se ne occupa ha svolto una vivace attività pubblicistica e organizzato numerose
27
Cfr. w. buchta, Die iranische Schia und die islamische Einheit, 1979-1996, Deutsches OrientInstitut, Hamburg 1997, pp. 205 sgg.
28
Cfr. w. ende, Sunni Polemical Writings on the Shi‘a and the Iranian Revolution, in d. menashri
(a cura di), The Iranian Revolution and the Muslim World, Westview Press, Boulder 1990, pp. 225 sgg.
29
Cfr. i. hasson, Les √¥‘ites vus par les Néo-WahhÇbites, in «Arabica», n. 53 (2006), pp. 313 sgg.
30
Cfr. r. brunner, Islamic Ecumenism in the 20th Century cit., pp. 385 sgg.
31
Cfr. w. buchta, Teheran’s Ecumenical Society (“majma‘ al-taqr¥b”): a Veritable Ecumenical
Revival or a Trojan Horse of Iran?, in r. brunner e w. ende (a cura di), The Twelver Shia in Modern
Times cit., pp. 338 sgg.
444
Rainer Brunner
conferenze internazionali (la sua ventesima riunione si è svolta nell’aprile del 2007 a Teheran), tuttavia la sua vicinanza al regime iraniano e
i suoi obiettivi politici sono inequivocabili. Di un autentico dialogo e di
un clima ecumenico fra le confessioni musulmane non si può, esattamente come prima, se non minimamente parlare. Quanto sia teso il clima anche fra i partecipanti alle odierne conferenze «ecumeniche» si è visto nel
gennaio del 2007, quando sono convenuti a Doha (Qatar) oltre 200 fra
teologi, giuristi e intellettuali di 44 paesi. La conferenza è terminata con
un putiferio quando Ysuf al-Qara£Çw¥, uno dei più influenti pensatori dell’islam sunnita, ha attaccato direttamente il segretario generale del
«Foro mondiale» di Teheran, l’ayatollah Mo®ammed ‘Al¥ Taskh¥r¥, chiedendo agli sciiti di smetterla finalmente di vilipendere i compagni del
Profeta e di continuare a praticare il proselitismo missionario nei paesi
prevalentemente sunniti32.
A livello di rapporti interstatali, l’eco suscitata fra i governi sunniti
dalla Rivoluzione iraniana fu di palese avversione. Il timore di una diretta esportazione della rivoluzione e di una imprevedibile destabilizzazione dell’intera area mediorientale, o quanto meno di singoli paesi, è
stato grande. Il dittatore iracheno Saddam Hussein, che aveva buoni
motivi per temere una mobilitazione sciita nell’Iraq, tentò di prevenirla e nello stesso tempo di corrispondere alle proprie mire egemoniche.
Nel settembre del 1980 – con l’aperta approvazione dell’Occidente e
della maggior parte dei paesi arabi – aggredí lo stato confinante apparentemente indebolito dagli strascichi della rivoluzione. La sua previsione, di riuscire a eliminare rapidamente il regime iraniano, si dissolse
in una guerra di logoramento protrattasi per otto anni, esattamente come, viceversa, le speranze iraniane che la scintilla della rivoluzione si
propagasse anche nell’Iraq. Gli sciiti iracheni rimasero leali al loro governo sunnita e combatterono contro i loro correligionari sciiti dell’Iran.
I principali interlocutori ideologici degli anni Ottanta dello scorso
secolo furono tuttavia l’Arabia Saudita e l’Iran, e non solo a livello pubblicistico. Termometro delle tensioni fu per molti anni il pellegrinaggio
alla Mecca, sfruttato regolarmente dalla parte iraniana per inscenare dimostrazioni politiche. I contrasti ebbero il loro momento culminante nel
1987 quando, nel corso di incidenti avvenuti alla Mecca, più di quattrocento pellegrini furono uccisi33. Dopo un periodo di gelo protrattosi per
«al-Ahram Weekly», 31 gennaio 2007.
Cfr. M. kramer, Khomeini’s Messengers in Mecca, in id., Arab Awakening and Islamic Revival. The Politics of Ideas in the Middle East, Transaction Publishers, New Brunswick - London 1996,
pp. 173 sgg.
Sunniti e sciiti nell’islam moderno
445
parecchi anni, si dovette aspettare la fine del 1990 prima che i due stati normalizzassero di nuovo le loro relazioni: e furono considerazioni politiche a prevalere sui principî confessionali, perché entrambi i paesi avevano interesse ad arginare l’Iraq e a favorire la creazione di un equilibrio regionale. Quest’ultima è anche la ragione per cui il regime saudita
ha assunto nell’attuale discussione attorno alle ambizioni nucleari dell’Iran una posizione che è semmai di mediazione.
L’influsso della Rivoluzione iraniana sugli sciiti che vivevano fuori
dall’Iran e sui conflitti con i sunniti latenti in numerosi paesi fu – direttamente e indirettamente – enorme. Benché la mobilitazione politica
degli sciiti, come in Libano o in Iraq, fosse iniziata anche vent’anni prima della rivoluzione, i nuovi eventi impressero agli sviluppi in atto
tutt’altra dinamica. Di fatto, in tutti i conflitti nei quali gli stati del Vicino e del Medio Oriente sono stati da allora coinvolti, l’identità confessionale delle parti in causa ha svolto un ruolo determinante.
Nell’aprile del 2006 il presidente egiziano Hosni Mubarak ha dichiarato in un’intervista che la lealtà della maggior parte degli sciiti dell’intera area musulmana non è riservata ai loro paesi e governi, ma all’Iran.
Il re di Giordania ‘AbdallÇh si era espresso in termini simili già nel dicembre del 2004, quando aveva messo in guardia il mondo dal profilarsi di una «mezzaluna sciita» che poteva estendersi dalla Siria e dal Libano fino all’Iraq, all’Iran e agli stati del Golfo34. Entrambe le dichiarazioni attestano la profonda diffidenza verso gli sciiti da parte dei sunniti.
I rivolgimenti in Iraq, esattamente come le richieste degli sciiti di compartecipazione alle scelte politiche in Libano e negli stati del Golfo, si
fanno risalire fin troppo facilmente a un supposto influsso iraniano e
mantengono viva la paura di una esportazione della rivoluzione.
È pur vero che in Egitto e in Giordania gli sciiti costituiscono solo
una sparuta minoranza, però entrambi i paesi sono indirettamente colpiti dagli avvenimenti in Iraq per il fatto di aver accolto una rilevante
parte degli ormai oltre due milioni di profughi che hanno lasciato il paese dal 2003. La Giordania è inoltre il paese d’origine di numerosi attentatori suicidi sunniti che hanno appoggiato negli ultimi anni in Iraq la sollevazione antisciita35. L’esempio dell’Egitto dimostra inoltre che non occorre nemmeno la presenza di un consistente gruppo di sciiti nel paese
per innescare dispute confessionali: la minoranza sciita numericamente
quasi insignificante presente in Egitto è fatta prevalentemente di radi-
32
33
34
Cfr. y. nakash, Reaching for Power. The Shi‘a in the Modern Arab World, Princeton University Press, Princeton N.J. 2006, p. 154.
35
Cfr. v. nasr, The Shia Revival cit., pp. 227 sgg.
446
Rainer Brunner
cali convertiti che scrivono per lo piú testi apologetici e sono fra di loro
tutt’altro che concordi. Dopo alcune, sporadiche richieste di riconoscimento come minoranza religiosa, negli ultimi anni nei media si è spesso
violentemente polemizzato contro di loro. In alcuni casi sono stati anche fisicamente aggrediti. Benché da essi non provenga alcun pericolo
per lo stato, spesso vengono arrestati e probabilmente anche torturati36.
Il paese nel quale il conflitto confessionale interno all’islam comporta di gran lunga le piú gravi conseguenze sia a livello nazionale che internazionale è l’Iraq37. Diversamente da quanto l’attuale situazione faccia pensare, il confessionalismo è in Iraq un fenomeno relativamente
nuovo; inoltre solo dagli inizi del xx secolo gli sciiti costituiscono la maggioranza della popolazione, da quando cioè si è convertita allo sciismo
la maggior parte delle tribú arabe sunnite38. Benché nel 1920 sunniti e
sciiti avessero partecipato insieme e in egual misura alla rivolta contro
la potenza mandataria britannica, gli sciiti furono poi di fatto esclusi dal
potere con l’insediamento della monarchia (sunnita) di re Fay#al. Si dovette aspettare fino al 1947 prima che uno sciita divenisse primo ministro. Le discussioni ruotarono tuttavia a lungo non tanto attorno all’identità confessionale, quanto a quella nazionale, con gli sciiti a sostenere una posizione nazionalistica irachena, mentre i sovrani sunniti erano
di gran lunga piú inclini all’idea del panarabismo.
Durante la dominazione di Saddam Hussein, salito al potere nel luglio del 1979, il fossato fra sunniti e sciiti si approfondí sempre piú. Fin
dall’aprile del 1980 Saddam fece mettere a morte, nel corso delle epurazioni seguite a diversi attentati, il popolare giurisperito sciita Mu®ammad
BÇqir al-$adr e sua sorella. Al-$adr aveva fondato nel 1958, con il partito Da‘wa, la prima organizzazione politica dello sciismo iracheno. Successivamente, durante la prima guerra del Golfo, Saddam si spacciò per
il paladino del mondo arabo contro zoroastriani e persiani. Infine, dopo la seconda guerra del Golfo, fece sanguinosamente reprimere nel marzo del 1991 la sollevazione degli sciiti nell’Iraq meridionale (repressione nel corso della quale furono uccise dalle 30 000 alle 60 000 persone)
e privò altre decine di migliaia di loro, mediante il sistematico prosciugamento delle paludi nell’Iraq meridionale, delle basi dell’esistenza. I
capi spirituali degli sciiti furono perseguitati (l’ayatollah Kh’¥ morì nel
1992 agli arresti domiciliari; Mu®ammad $Çdiq al-$adr, successore del cugino Mu®ammad BÇqir alla guida del partito Da‘wa, fu assassinato nel
Cfr. «al-Ahram Weekly», 19 ottobre 2006.
Cfr. y. nakash, Reaching for Power cit., pp. 72 sgg.
38
Cfr. id., The Shi‘is of Iraq, Princeton University Press, Princeton N.J. 1994, pp. 25 sgg.
36
37
Sunniti e sciiti nell’islam moderno
447
1999), mentre Saddam strumentalizzava l’islam sunnita per la legittimazione del suo potere.
Eppure, di una pianificata politica di discriminazione confessionale
ai tempi di Saddam Hussein si può parlare solo relativamente: i sunniti
curdi non hanno sofferto di meno sotto il suo regime, e verso gli sciiti
Saddam praticò proprio negli anni Novanta una costante politica in bilico fra il bastone e la carota. Il confessionalismo sistematico e istituzionalizzato fu ironicamente solo la conseguenza del tentativo – dopo l’invasione statunitense del 2003 – di istituire un nuovo ordinamento politico39. L’epurazione delle forze di sicurezza, del partito Ba‘th e soprattutto
dell’esercito, che erano stati considerati dalla maggior parte degli iracheni istituzioni nazionali e non confessionali, colpí i sunniti in modo particolarmente duro e costituí l’avvio di quella profonda spaccatura confessionale che minaccia oggi di lacerare il paese. Particolarmente funesta si
rivelò la circostanza che il Supreme Council for the Islamic Revolution
in Iraq (sciri, ridenominato nel 2007 Islamic Supreme Council of Iraq,
isci) assumesse dopo le elezioni del gennaio 2005, largamente boicottate dai sunniti per protesta, il controllo del Ministero degli Affari Interni. Si trattava di un’organizzazione che era stata fondata nel 1982 da
uno studioso iracheno in esilio, Mu®ammad BÇqir al-©ak¥m, con l’appoggio dei detentori del potere a Teheran; al-©ak¥m, tornato in patria,
cadde vittima di un attentato nell’agosto del 200340. Lo sciri e le milizie Badr sue alleate approfittarono dell’occasione per avviare una campagna di ritorsioni contro i sunniti, che innescò poi a sua volta un indiscriminato contro-terrore sunnita41. Va tuttavia precisato che lo sciismo
iracheno è tutt’altro che omogeneo. Il maggior rivale ideologico dello
sciri/isci – tutto proteso a tentare di sbarazzarsi della fama di essere
una longa manus dell’Iran – è il movimento di Muqta£Ç al-$adr (un figlio del Mu®ammad $Çdiq al-$adr assassinato nel 1999), personaggio irrilevante per statura religiosa ma dal vasto seguito, il quale dispone, con
il cosiddetto esercito del Mahd¥, di una potente milizia. Gli si contrappone ‘Al¥ al-S¥stÇn¥, un rappresentante del tradizionale clero sciita, cui
il quietismo di principio non ha impedito di assumere un’importanza determinante nel dibattito costituzionale e nella partecipazione dei parti39
Cfr. icg (international crisis group), The Next Iraqi War? Sectarianism and Civil Conflict,
Middle East Report 51 (27 febbraio 2006), pp. 8 sgg.; http://www.crisisgroup.org/home/index.
cfm?id=3980&l=1.
40
Cfr. v. nasr, The Shia Revival cit., p. 192.
41
Cfr. icg, The Next Iraqi War? cit., pp. 17 sgg.; id., Shiite Politics in Iraq. The Role of the Supreme Council, Middle East Report 70 (15 novembre 2007), pp. 11 sgg.; http://www.crisisgroup.org/
home/index.cfm?id=5158l=1.
448
Rainer Brunner
ti sciiti alle elezioni (l’ultima volta nel dicembre del 2005). Rappresenta
tuttora l’autorità dello sciismo iracheno maggiormente rispettata. Infine non vanno dimenticate le forze sciite laiche, che detengono attualmente con JawÇd al-MÇlik¥ la carica di primo ministro. Per il momento
è difficile dire se si giungerà alla «balcanizzazione» dell’Iraq temuta dai
sunniti, ovvero se il paese si scinderà lungo confini etnici (i curdi sunniti sono legati agli sciiti da una mera alleanza di comodo) e confessionali, e quale delle correnti sciite alla fine prevarrà. Certo è in ogni caso
che la mobilitazione politica dello sciismo in Iraq ha registrato un trionfo
spettacolare.
Tutt’altra è invece la situazione nella penisola arabica, dove i gruppi di popolazioni sciite dell’Arabia Saudita, del Bahrein e del Kuwait
soggiaciono alla dominazione sunnita, anche se in condizioni diverse secondo il caso. Gli sciiti dell’Arabia Saudita vivono prevalentemente nella provincia orientale ricca di petrolio conquistata dai sauditi fin dal
1913; altre piccole comunità sono presenti alla Mecca e a Medina, e una
comunità ismailita si trova a Najran, nella parte sudoccidentale del paese, presso il confine con lo Yemen. La tradizionale ostilità dei wahhabiti verso gli sciiti (cui si è già accennato) ha comportato per loro decenni
di discriminazione politica e religiosa oltre che pregiudizio economico.
Nei testi scolastici si affermava apertamente che gli sciiti erano infedeli anche peggiori dei cristiani e degli ebrei. Attivisti sciiti come ©asan
al-$affÇr potevano far sentire la loro voce solo dall’esilio, e un’«Organizzazione della rivoluzione islamica nella penisola arabica» fondata nel
1975 rimase inefficace esattamente come alcune sollevazioni ispirate dalla Rivoluzione iraniana negli anni 1979-80 e sistematicamente represse
dai sauditi. La situazione cambiò solo dopo la seconda guerra del Golfo,
quando gli sciiti condannarono l’invasione irachena del Kuwait e appoggiarono la politica adottata in quella circostanza dal governo saudita.
Nel 1993 si addivenne cosí a un accordo informale che vige tuttora nelle sue linee essenziali e che ha garantito agli sciiti migliori condizioni di
vita e maggiori spazi di libertà religiosa. Sotto l’impressione dei mutamenti globali in atto – compresa l’esposizione della stessa Arabia Saudita al terrorismo e il profilarsi della guerra in Iraq – esponenti dello sciismo si impegnarono al fianco di un movimento riformatore e resero pubblica nel gennaio del 2003 una petizione che era nel contempo anche
una dichiarazione di lealtà verso la nazione saudita. In seguito gli sciiti
presero parte anche a iniziative nazionali di dialogo42. Attualmente sem42
Cfr. id., The Shiite Question in Saudi Arabia, Middle East Report 45 (19 settembre 2005),
pp. 5 sgg; http:/www.crisisgroup.org/home/index.cfm?id=3678&l=1.
Sunniti e sciiti nell’islam moderno
449
brano essere tacitamente tollerate perfino manifestazioni connesse allo
‘ÅshrÇ’, però non si può ignorare che l’establishment wahhabita continua a essere l’arbitro della situazione e che i progetti riformisti di re
‘AbdallÇh incontrano una forte resistenza anche all’interno del governo43. La condizione confessionale degli sciiti sauditi dipende totalmente dal beneplacito del governo, e non c’è da aspettarsi una effettiva equiparazione con i sunniti.
La situazione nel Bahrein è differente, soprattutto nel senso che qui
una minoranza sunnita domina già dal tardo xviii secolo una popolazione in maggioranza sciita. Un primo esperimento di monarchia costituzionale naufragò dopo soli due anni, nel 1975, quando il sovrano e il suo
entourage, ignorando la Costituzione, sciolsero il parlamento. La crescente insoddisfazione fra gli sciiti finí col manifestarsi verso la metà degli
anni Novanta in quattro anni di continue rivolte. Una riforma politica annunciata a un certo punto dallo shaykh ©amad al-Khal¥fa fu approvata nel
2001 da una schiacciante maggioranza, ma rimase poi lettera morta perché non si riuscí ad addivenire a un’autentica compartecipazione popolare all’esercizio del potere politico. Da allora si osservano di nuovo crescenti tensioni che, a causa dei rapporti di forza all’interno della popolazione, assumono quasi automaticamente tratti confessionali44.
Nel Kuwait invece, dove gli sciiti costituiscono una minoranza relativamente forte, la casa regnante degli Ål $abÇ® è finora riuscita a tenerli fuori dalle stanze del potere, senza tuttavia renderseli ostili. Questo è stato possibile grazie a una pluriennale prassi della tolleranza che
ha consentito agli sciiti di ricoprire importanti ruoli nell’economia, nelle forze armate e anche nei consessi politici. In tal modo sono stati integrati nello stato e non sono considerati, come nel caso dell’Arabia Saudita e del Bahrein, potenziali nemici45. Il Kuwait è attualmente l’unico
paese dell’intera regione a non avere problemi di natura confessionale.
Il paese in cui il confessionalismo – e in questo caso non limitato ai
sunniti e agli sciiti – è stato elevato a principio di stato è invece il Libano. Il patto nazionale del 1943 aveva stabilito che il presidente dovesse essere sempre un cristiano maronita, il primo ministro un sunnita e
il presidente del parlamento uno sciita. La suddivisione del potere fra
le complessivamente 18 comunità religiose riconosciute si basa sull’ul-
43
Cfr. m. doran, The Saudi Paradox, in «Foreign Affairs», n. 83 (gennaio-febbraio 2004):
http://www.foreignaffairs.org/20040101faessay83105/michael-scott-doran/the-saudi-paradox.html.
44
Cfr. icg, Bahrain’s Sectarian Challenge, Middle East Report 40 (6 maggio 2005), pp. 5 sgg.;
http://www.crisisgroup.org/home/index.cfm?id=3404&l=1.
45
Cfr. y. nakash, Reaching for Power cit., pp. 42 sgg.
450
Rainer Brunner
timo censimento della popolazione, risalente però al 193246. Benché ognuno sappia che la realtà è oggi diversa, nessuno osa intaccare queste basi
dello stato, perché le conseguenze diverrebbero fin troppo palesi. Si può
comunque ritenere che gli sciiti costituiscano oggi la maggior comunità
religiosa del Libano.
La mobilitazione politica degli sciiti libanesi è indissolubilmente legata alla persona di MsÇ al-$adr, venuto nel 1959 dall’Iran. Negli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo riuscí a dare voce agli sciiti,
fino ad allora il gruppo maggiormente svantaggiato sotto il profilo sociale ed economico47. Molti sciiti che in precedenza – come altrove nel Vicino Oriente – avevano manifestato simpatie per partiti laici o comunisti (guidati spesso da cristiani), presero a professare in misura crescente
la loro identità confessionale. Nel 1969 MsÇ al-$adr fondò il Consiglio
supremo sciita, e nel 1974 il Movimento dei diseredati, dal quale scaturí poi la milizia Amal. Il passaggio dello sciismo libanese dal quietismo
all’attivismo è sopravvissuto fino a oggi anche alla tuttora inspiegata
scomparsa di al-$adr nel corso di un viaggio da lui intrapreso in Libia nel
1978. La guerra civile innescata dal problema palestinese e l’occupazione
israeliana del Libano meridionale dopo il 1982 comportarono tuttavia
una radicalizzazione e una scissione dello sciismo, concretizzatasi nella
costituzione di Hezbollah (il «Partito di Dio», ©izb AllÇh), fortemente
appoggiato dalla Siria e soprattutto dall’Iran48. Uno dei molti teatri di
guerra degli anni Ottanta in Libano fu la lotta fra Amal e Hezbollah per
il predominio fra gli sciiti.
Alla guerra civile libanese fu formalmente posto fine nell’autunno
del 1989 con l’accordo di Ta’if, nel contesto del quale fu confermato,
sia pure in modo modificato, il sistema confessionale del 1943. Negli
anni seguenti Hezbollah acquisí una chiara prevalenza fra gli sciiti, non
da ultimo grazie ai suoi molto articolati ed estesi servizi sociali che hanno nel frattempo fatto dell’organizzazione uno stato nello stato49. Dagli
anni Novanta, anche su pressione dell’ayatollah Mu®ammad ©usayn
Fa£lallÇh, assai vicino al «Partito di Dio», Hezbollah si è trasformato
da forza rivoluzionaria in un partito politico che partecipa dal 1992 alle elezioni, e dal 2005 è rappresentato anche nel governo. Tuttavia, anche dopo l’accordo di Ta’if, Hezbollah si è sempre tenacemente rifiutato di farsi disarmare. E anche dopo il ritiro israeliano del 2000 ha proCfr. a. r. norton, Hezbollah cit., pp. 11 sgg.
Cfr. y. nakash, Reaching for Power cit., pp. 99 sgg.
48
Cfr. a. r. norton, Hezbollah cit., pp. 27 sgg.
49
Cfr. ibid., pp. 107 sgg.
Sunniti e sciiti nell’islam moderno
451
seguito, con una politica dei colpi di spillo sostenuta dalla Siria, la sua
mirata opposizione a Israele, giunta nell’estate del 2006 a un’escalation
culminata in una guerra durata 34 giorni. Questo confronto, esattamente come la crescente opposizione alla Siria dopo l’assassinio dell’ex primo ministro Raf¥q ©ar¥r¥ (2005), ha rimesso nuovamente a dura prova
in Libano il sistema dell’equilibrio confessionale. Nell’autunno del 2006
Hezbollah si è ritirato dal governo, e quando nell’autunno del 2007 non
si è riusciti a eleggere il successore del presidente filosiriano Lahd, l’enorme potere di Hezbollah è divenuto evidente esattamente come la minaccia di una disintegrazione del paese lungo i suoi confini confessionali.
Come in quasi tutti i casi finora esaminati, anche in Pakistan è stata la combinazione di due fattori ad accelerare negli ultimi trent’anni la
mobilitazione degli sciiti: la discriminazione da parte dei sunniti e l’entusiasmo per la Rivoluzione iraniana. Qui lo sciismo, con una stima del
20%, è una forte minoranza, che basta per farne, con una popolazione
totale di 160 milioni di persone, il secondo paese sciita dopo l’Iran50.
L’identità confessionale non ebbe fin verso la metà degli anni Settanta
un ruolo di rilievo in Pakistan, creato nel 1947 come repubblica islamica.
La situazione cambiò quando, nel 1977, il generale Zia ul-Haq andò al potere e cominciò a praticare una politica di «islamizzazione», ovvero di
«sunnitizzazione», che incontrò una vasta opposizione fra gli sciiti. Dopo
il 1979 il clima di tensione confessionale peggiorò sensibilmente51, tanto
piú quando, sullo sfondo del conflitto in Afghanistan, divennero evidenti i tratti di una guerra per interposte fazioni: numerosi gruppi sciiti avevano ottenuto l’appoggio dell’Iran, mentre sull’altro fronte i wahhabiti
sauditi stavano finanziando i raggruppamenti sunniti. Attentati per uccidere avversari politico-religiosi non furono una rarità. Obiettivo di
non pochi sunniti radicali è tutt’oggi quello di riservare allo sciismo la
stessa sorte che toccò alla A®madiyya, un movimento riformista sorto
alla fine del xix secolo che nel 1974 venne escluso dall’islam con una
formale delibera del parlamento.
Finita nel 1988 la dittatura militare di Zia, i numerosi governi civili (fra l’altro quello di Benazir Bhutto, uccisa nel dicembre del 2007, anche lei di origine sciita), esattamente come il nuovo regime militare instaurato dal generale Musharraf, non sono riusciti a venire a capo della
crescente radicalizzazione che ha coinvolto tutte le province del paese
e soprattutto le maggiori città. Il proposito di Musharraf di procedere
46
47
Cfr. v. nasr, The Shia Revival cit., pp. 159 sgg.
Cfr. m. q. zaman, Sectarianism in Pakistan: The Radicalization of Shi’i and Sunni Identities,
in «Modern Asian Studies», n. 32 (1998), pp. 693 sgg.
50
51
452
Rainer Brunner
drasticamente contro estremismo e confessionalismo non è andato al di
là di proclamazioni meramente superficiali52. Anzi, le forze religiose sono state sfruttate per contenere nei limiti quell’opposizione laica ritenuta da tutti troppo pericolosa. La confessionalizzazione del Pakistan
ha nel frattempo assunto tratti paurosi: il numero delle scuole religiose
dalle quali tutti i raggruppamenti traggono i loro seguaci è passato dalle 137 del 1947 alle 10 430 del 2003. Ora questo paese è frammentato
dal punto di vista religioso anche più dell’Iraq e del Libano: nel 2005
c’erano in Pakistan 58 partiti religiosi e non meno di 245 raggruppamenti religiosi, la maggior parte dei quali con un proprio programma politico-teologico53. Per il futuro del paese e dei rapporti fra sunniti e sciiti tutto questo non promette nulla di buono.
Considerata la multiforme lotta intrapresa un po’ ovunque dagli sciiti per la partecipazione politica, non bisogna trascurare due stati in cui
lo sciismo è al potere: l’Iran e la Siria. In entrambi, tuttavia, non si osserva attualmente un particolare potenziale di conflitto confessionale.
La minoranza sunnita in Iran (il 10% circa della popolazione) è etnicamente frammentata (curdi, arabi, beluci, turkmeni) e vive in territori
economicamente svantaggiati. Il ruolo dello sciismo in quanto religione
di stato sancisce la loro discriminazione religiosa, tanto che a Teheran
pare non esserci neppure una moschea sunnita54. A parte qualche attività clandestina, i sunniti sono troppo deboli per poter riuscire a modificare questa situazione. Il regime siriano si regge a sua volta sul gruppo
particolare degli ‘alawiti o nu#ayr¥, in passato una setta esoterica a lungo respinta dallo sciismo duodecimano in quanto «esagerata» (nella venerazione di ‘Al¥). Fra i due indirizzi religiosi si verificò poi nel corso
del xx secolo una sorta di avvicinamento interno allo sciismo55, mentre
nei confronti dei sunniti il governo siriano – che assume verso l’esterno
un atteggiamento marcatamente laico e sembra voler evitare ogni conflitto confessionale – pratica una politica religiosa di repressione e di
persecuzione burocratica. In particolare, i Fratelli Musulmani locali non
si sono più ripresi da quando nel 1982 è stata stroncata a Hama una rivolta islamico-sunnita.
Nei trent’anni seguiti alla Rivoluzione iraniana si è potuta osserva52
Cfr. icg, The State of Sectarianism in Pakistan, Asia Report 95 (18 aprile 2005), pp. 23 sgg.;
http://www.crisisgroup.org/home/index.cfm?id=3374&l=1.
53
Cfr. ibid., p. 6.
54
Cfr. w. buchta, Die iranische Schia und die islamische Einheit cit., pp. 171 ssg.
55
Cfr. M. kramer, Syria’s Alawis and Shi‘ism, in id., Arab Awakening and Islamic Revival. The
Politics of Ideas in the Middle East, Transaction Publishers, New Brunswick - London 1996, pp.
189-207.
Sunniti e sciiti nell’islam moderno
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re un po’ ovunque nel mondo una mobilitazione politica degli sciiti. Non
è stato tuttavia soltanto l’entusiasmo rivoluzionario a mettere in moto
questo processo. Numerosi sciiti, dopo aver a lungo appoggiato partiti
laici e comunisti, si sono per cosí dire trovati sospinti anche dalla pressione e dalla repressione sunnita a partecipare a una specie di competizione per l’identità confessionale. Come punto di riferimento si è loro
imposta, pressoché necessariamente, la radicale, originaria scissione della comunità musulmana, in quanto dimora di tutti i miti e i simboli che
si potevano evocare e strumentalizzare al servizio di una moderna ideologia. Il grido di battaglia «ogni giorno è ‘ÅshrÇ’, ogni luogo è Kerbela»
chiarisce fino a che punto il lontano conflitto fra ‘Al¥ e Mu‘Çwiya e il
martirio di ©usayn sono stati reinterpretati come un’archetipica lotta
per la storia. Fatta eccezione per il Pakistan, che vive precariamente in
un costante stato di anarchia confessionale, si è potuto osservare ovunque, dopo un periodo di entusiasmo rivoluzionario, un sorprendente passaggio degli sciiti verso il pragmatismo e l’adeguamento ai sistemi vigenti. Questa considerazione vale nel modo piú evidente anche per lo Hezbollah libanese, che fa oggi parte integrante dell’establishment. Anche
gli sciiti sauditi, e perfino quelli del Bahrein, sono disposti a cooperare
nell’ambito dei rispettivi ordinamenti, senza corrispondere in alcun modo alle (sicuramente esistenti) avances iraniane. L’esempio dell’Iraq dimostra infine che una presa del potere da parte degli sciiti è possibile
anche senza che si instauri un temuto stato teocratico. Dimostra però
anche che i sunniti non sono disposti a sgomberare il campo senza combattere. Il vaso di Pandora è aperto, e sarà probabilmente difficile richiuderlo.
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