Il sistema scolastico tra libertà e liberalizzazione

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Il sistema scolastico tra libertà e liberalizzazione
Il sistema scolastico
tra libertà
e liberalizzazione
U
di Giuseppe Bertagna
Una scuola fondata sulla libertà
Libertà. Siamo abituati a pensare questa parola come l’autorizzazione di ciascuno a fare
ciò che vuole. C’è del vero in questo, perché non esiste libertà senza volontà personale. Ciò
che tace, però, questo significato, è quanto si è raggrumato nella parola fin dalla sua etimologia indoeuropea. Lo spiega bene Conze1, per esempio, quando osserva che Frei, libero, radice germanica Frija, «con il collo libero» (il contrario dello schiavo con i ceppi al collo) è analogo a Lieb, «qualcuno che è caro» e a Freund, «amico». Nessuno è libero da solo e stando
solo e nessuno può esercitare la volontà da e per sé. Non c’è libertà nell’individualismo e nel
solipsismo. La libertà e la volontà si possono esercitare solo dentro un sistema di relazioni
interpersonali, in un mondo con altri.
Tratti semantici che anche Benveniste2 accredita. «Libero», scrive, non richiama, come
si sarebbe portati a credere, «l’essere sbarazzati da qualche cosa», il fare ciò che si vuole
come se esistessimo solo noi, il non avere vincoli, ma dice, appunto, «appartenenti a un gruppo», «legati da relazioni comuni» da accrescere. Per cui, più libertà vuol dire maggiori relazioni interpersonali; più scelte volontarie vuol dire maggiori risposte che si devono dare agli
altri (responsabilità).
Come deve essere, quindi, un sistema di istruzione fondato sulla libertà? Senza cadere
in astrattismi astorici, si può senz’altro rispondere che questo sistema potrebbe corrispondere a quello disegnato dalla nostra Costituzione formale, disinvoltamente violata per oltre sessanta anni, senza troppe indignazioni nemmeno di recenti referendari, dalla Costituzione
materiale di fatto adottata e praticata.
I compiti della Repubblica secondo la Costituzione formale
La Costituzione formale e, in particolare, gli articoli 2, 5, 33 e 34 consentivano già nel
1948 di costruire un sistema di istruzione della Repubblica molto diverso da quello lasciato
in eredità dall’Italia prima liberale e poi fascista.
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La scuola, infatti, non doveva essere un apparato, tanto più ideologico, dello Stato.
Proprio perché non apparato, nemmeno amministrativo, dello Stato, la Costituzione si guardava bene dal solo nominare il termine “ministero della pubblica istruzione”. Non era previsto, cioè, un ministero che emanasse norme minuziose, prescrittive, burocratico-amministrative, e che gestisse i processi di insegnamento attivati nelle istituzioni scolastiche. Né dovevano esistere i Programmi di insegnamento, né le “circolari” o i “decreti” ministeriali.
Nessuna legittimazione, inoltre, alla tendenza avviata nell’Italia liberale dell’Ottocento, e
molto incrementata dal fascismo, di far programmaticamente coincidere le scuole del sistema di istruzione nazionale con le scuole dello Stato, dipendenti dal ministero.
La Repubblica era chiamata ad assumersi la responsabilità di dettare, per legge, solo
«le norme generali sull’istruzione» (art. 33, comma 2). Norme “generali”, non particolari, da
rispettare sia da parte delle scuole istituite dallo Stato sia da quelle espresse da «enti e privati», in nome della sussidiarietà, le quali chiedevano la parità e, per i propri alunni, «un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali» (art. 33, comma 2, 3).
Per la Costituzione formale, lo Stato aveva l’obbligo di «istituire scuole statali per tutti
gli ordini e gradi» (art. 33, comma 2), non potendo la Repubblica permettere che qualche suo
cittadino, per assenza di iniziative “sussidiarie” di suo gradimento in alcune zone del Paese,
non fosse posto nelle condizioni di accedere alla scuola. Era una decisiva questione di democrazia sostanziale. La Repubblica, nel disporre quest’obbligo per lo Stato, riconosceva, con i
commi 3 e 4 dell’art. 33, che la contemporanea presenza di scuole istituite obbligatoriamente dallo Stato e di scuole espresse dalle «formazioni sociali» non statali non solo avrebbe
aumentato gli spazi di libertà per tutti i cittadini, e quindi per la nazione, ma avrebbe favorito il miglioramento della qualità complessiva dell’istruzione nazionale, perché avrebbe stimolato una sana competizione tra scuole statali e non.
Ai fini della possibilità di questa competizione, c’era, certamente, la questione del
«senza oneri per lo Stato» (art. 33, comma 3), voluto dai liberali (emendamento Corbino) e
votato anche dai socialcomunisti. A parte il fatto che il comma parlava di divieto di finanziamento dello Stato per l’istituzione delle scuole non statali, non per il loro funzionamento, proprio l’equipollenza di trattamento tra studenti delle scuole statali e non statali, disposta nel
comma successivo, apriva la possibilità di
risolvere il problema, senza aggirare l’emendamento Corbino, con la distinzione
Il “buono scuola”,
tra “istituzione” e “funzionamento”:
insomma, era già una
finanziare non il funzionamento delle
possibilità autorizzata,
scuole (statali e non statali paritarie),
bensì gli studenti che, frequentandole, ne
se lo si fosse voluto, dal
avrebbero permesso l’esistenza. Il “buono
testo costituzionale
scuola”, insomma, era già una possibilità
del 1948.
autorizzata, se lo si fosse voluto, dal testo
costituzionale del 1948. Il “buono scuo-
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la” avrebbe aiutato anche la scuola di Stato a capire che, se le spese di istituzione dovevano
essere senza condizioni a carico della collettività, quelle di funzionamento dovevano, invece,
essere in qualche modo meritate. Studenti e famiglie avrebbero continuato, infatti, a scegliere l’offerta formativa delle scuole statali per fiducia e in libertà, non per mancanza di alternative; inoltre, nella valutazione della qualità del servizio si sarebbero coinvolti gli enti locali
e le parti sociali (imprese, sindacati, associazioni di categoria).
Le scuole libere e autonome
In base alle “norme generali”, le istituzioni scolastiche statali e non statali paritarie,
costituenti il sistema pubblico nazionale di istruzione, in nome della libertà di scuola e di
insegnamento dovevano gestirsi in autonomia educativa, organizzativa e didattica, senza
“invasioni” ministerialiste. Le scuole statali e non, nel nuovo quadro sussidiario, infatti, diventavano soggetti istituzionali che realizzavano la propria autonomia funzionale nella promozione professionistica dell’istruzione e della formazione delle nuove generazioni, interloquendo
direttamente con i vincoli di legge e rispondendo in prima persona, anche in giudizio, delle
proprie scelte sia di interpretazione della normativa, sia di risultato educativo e culturale
(accountability). Tra «le norme generali sull’istruzione» stabilite dalla Repubblica e il modo
con cui venivano concretizzate autonomamente da ogni istituzione scolastica, statale o non
statale, non doveva più esserci, in altri termini, il filtro di un modello ministerial-centralista
uniforme. Si trattava, al contrario, di avvalorare la competenza professionale dei protagonisti
di ogni istituzione scolastica, alla luce della sua storia e del peculiare rapporto con le «formazioni sociali» e con il territorio. In questo contesto, si trattava di avvalorare la libertà non
solo di ogni cittadino di eleggere, senza handicap preventivi «di sesso, di razza, di lingua, di
religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» (art. 3, comma 1 della
Costituzione), un’istituzione statale o non statale come luogo della propria educazione, ma
anche di non privare delle medesime prerogative ogni docente. Se il docente non è un funzionario dello Spirito (maiuscolo) dello Stato, infatti, è ragionevole ipotizzare che lo spirito
(minuscolo) di ogni processo educativo reale non possa che configurarsi attraverso le reciproche scelte di libertà degli attori coinvolti, in un percorso cooperativo volontario, basato sulla
fiducia. Si trattava di valorizzare, infine, il corrispettivo di ogni gesto di libertà: la responsabilità. Responsabilità di rispettare i patti stipulati e di “pagare le penali” previste nel caso di
una loro risoluzione parziale o totale. Responsabilità di trovare le soluzioni professionali più
affidabili per la gestione di un processo educativo centrato sul massimo apprendimento, la
massima maturazione e libertà possibile dell’allievo, senza cercare alibi per il disimpegno.
Responsabilità di rendicontare (accountability) le proprie scelte e di rivederle quando non soddisfino i diversi stakeholders sociali, istituzionali e funzionali di riferimento.
Per questo, il sistema scolastico previsto nella Costituzione formale non si prefigurava né
anarchico, né autoreferenziale. La Repubblica, del resto, aveva l’obbligo di controllare, con appo-
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siti organismi, se e quanto le istituzioni autonome, istituite dallo Stato, da enti e da privati, rispettassero le «norme generali sull’istruzione» da essa stabilite e fossero efficaci nei processi di insegnamento, ottenendo così elementi per perequare le risorse, dando di più a chi aveva meno.
La Costituzione materiale
Senza pretendere che questo quadro sussidiario si realizzasse interamente nel secondo
dopoguerra, era però ragionevole aspettarsi che fosse se non altro inaugurato, così da essere
poi via via incrementato nei decenni successivi.
La vecchia tradizione laica, liberale e azionista (Benedetto Croce per primo) fu, tuttavia, spaventata da questo quadro che, soprattutto secondo i cattolici, si poteva ricavare dal
testo formale della Costituzione. Temeva, se lo si fosse attuato, una forte clericalizzazione
della scuola, vista la forza, allora, delle scuole cattoliche, che raccoglievano la fiducia di larghi strati della popolazione.
Accadde, quindi, che i laici liberali e azionisti convennero, tutto sommato, sul disegno
di “tornare al 1923” in tema di istruzione: pulire i Programmi di insegnamento e i libri di testo
dalle infiltrazioni fasciste più incompatibili con il nuovo spirito democratico, ma per il resto
lasciare inalterato lo statalismo scolastico ministerialista, potenziato dal fascismo sull’onda
dell’eredità liberale.
La sinistra, e in particolare i comunisti, nella speranza di sostituire quanto prima i
democristiani al potere, trovò comodo aderire a questo disegno laico liberale-azionista, sebbene con motivazioni diverse. D’altra parte, il centralismo, con annesso statalismo, del Pci fu
sempre proverbiale. I prefetti, i direttori generali del ministero della Pubblica istruzione, i
provveditori agli studi, i presidi “vigili scolte” delle disposizioni del ministro, i docenti impiegati dello Stato parvero, così, la garanzia che rassicurava, per motivi diversi, ma convergenti,
sia i laici, sia i comunisti.
Anche i democristiani, alla fine degli anni Quaranta, si adeguarono a questa scelta, e
anzi la adottarono con entusiasmo. Furono, di conseguenza, i cattolici a gestire l’esplosione
della scuola di massa con il cosiddetto “ministerialismo statalista”. Con grande disdoro di
Sturzo. Il paradosso fu che una cultura sociale e politica nata, con il popolarismo, per l’autonomia, la sussidiarietà, il regionalismo, il decentramento, la parità reale tra scuole statali e
non statali, la libertà dei soggetti dell’educazione si trovò, invece, in questo modo, a praticare scelte e strategie esattamente di segno contrario.
Libertà e liberalizzazione
Divenne così normale pensare che le scuole del sistema scolastico fossero uffici periferici di proprietà dello Stato e che lo Stato dovesse dettare sull’istruzione regole di funzio-
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namento uniformi e minuziose. Divenne
anche normale, però, a mano a mano che
Divenne anche
crescevano le consapevolezze democratinormale, però, a mano
che, ritenere che lo Stato proprietario
della scuola dovesse progressivamente
a mano che crescevano
“liberalizzare” i propri domini e allentare
le consapevolezze
le rigidità analitiche con cui li gestiva. Per
democratiche, ritenere
esempio, cedere a terzi, nel nostro caso
che lo Stato
alle scuole stesse, o alle famiglie (1973),
alcuni aspetti della propria sovranità in
proprietario della
ordine ad alcune scelte organizzative e
scuola dovesse
funzionali. Ma si rimaneva sempre in un
progressivamente
orizzonte concessivo. Quasi filantropico.
“liberalizzare” i propri
Un pò come allungare la catena del cane
al guinzaglio. Ampliare gli spazi di libertà
domini e allentare le
di diversi protagonisti del sistema scolastirigidità analitiche con
co, docenti, famiglie, studenti, formazioni
cui li gestiva.
sociali, ma nell’ottica sorvegliata di chi
verifica se sono “maturi” per assumersi
questa responsabilità. Un processo, potremmo dire, di graduale “liberalizzazione” di un sistema proprietario statale, piuttosto che il recupero di un sistema di istruzione fondato strutturalmente sulla libertà e sulla responsabilità delle persone e delle formazioni sociali nelle quali
esse sviluppano la loro personalità (art. 2 della Costituzione).
Bisognerà aspettare gli anni a cavallo del nuovo millennio, per vedere riproposto, in un
nuovo contesto, l’impianto istituzionale del sistema di istruzione e di formazione prefigurato
nella Costituzione formale. Autonomia delle istituzioni scolastiche (1997, 1999), parità
(2000), sussidiarietà (2001, riforma del Titolo V) e, soprattutto, le «norme generali sull’istruzione» (2003-2005) sono le tappe di questa significativa ripresa che, speriamo, si possa portare finalmente a termine, senza restaurazioni anacronistiche.
Note e indicazioni bibliografiche
1 W. Conze, Prefazione, in AA.VV., Libertà, Marsilio, Venezia 1991, p. 3.
2 E. Benveniste, Vocabolario delle istituzioni indoeuropee vol. I, Einaudi, Torino 1976, pp. 247-255.
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