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Singularity University, perché ci si va e che cosa si porta a casa Si trova in Silicon Valley e i suoi corsi promettono di rivoluzionare la vita (e i progetti) di chi la frequenta. Ma servono davvero? Marco Valsecchi Giornalista Pubblicato ottobre 14, 2014 Ray Kurzweil e Peter Diamandis durante una lezione (foto: © Singularity Education Group) Nella ex-base della Nasa dove un tempo stava parcheggiato lo shuttle, a un passo dalla sede di Google e a due dalla Stanford University, Matteo Renzi ci ha messo piede verso la fine di settembre. Con un leggero ritardo, se vogliamo: a bruciargli l’ingresso trionfale alla Singularity University ci aveva pensato infatti Ignazio Marino, volato in Silicon Valley due settimane prima e anche lui transitato subito per le aule dell’organizzazione fondata nel 2008 da Peter Diamandis e Ray Kurzweil con l’obiettivo (recita la presentazione ufficiale) di “educare, ispirare e dare la forza ai leader di utilizzare le tecnologie esponenziali per far fronte alle grandi sfide dell’umanità“. Per essere chiari: stiamo parlando delle stesse aule dove Andrea Guerra, da amminstratore delegato di Luxottica, aveva fatto organizzare un corso su misura per sé e i propri collaboratori. Un caso emblematico, visto che non troppo tempo dopo l’azienda italiana sarebbe diventata partner di Mountain View. Ora, al di là dell’indubbio fatto che scattarsi un selfie da quelle parti sia quanto di più up-to-date un decisore pubblico possa fare, che cosa succede davvero lì dentro? Una domanda che va per forza di cose girata a chi ci ha passato più di un pomeriggio. “La gente viene mandata dalla propria azienda, oppure la scopre per passaparola e ci va per curiosità. Quello che poi si ottiene, è una sintesi dei contenuti e dello spirito di come si vive nella Silicon Valley“, riassume Fabio Troiani. Sulla scrivania del suo ufficio, affacciato su piazza San Babila, ci sono tre oggetti: un robot da combattimento, un secondo robottino in resina e un autoritratto stampato in 3D. Soddisfatto, racconta di averli creati con le proprie mani durante i dieci giorni dell’Executive Program che ha seguito nel maggio 2013. “Il costo del programma riservato ai senior con almeno dieci anni di esperienza nel proprio settore è di circa 10mila dollari. Nel mio corso c’erano anche l’esperto di tecnologia della tv danese e un generale dei marines. A tenere le lezioni sono sia manager che professori“, spiega. Fornendoci poi qualche indicazione sul programma tipo: “Si prendono in considerazione varie aree tecnologiche e i cambiamenti in atto in ciascuna di esse. Per ognuna vengono spiegate anche le implicazioni in ambito sociale, legislativo ed etico. Per esempio, come cambierà il codice della strada con le auto che si guidano da sole. O come si potrà regolare la presenza di droni inviati dai genitori sopra le scuole“. Il quartier generale della Singularity University (foto: © Singularity Education Group) Al momento dell’imbarco per la Silicon Valley, Troiani era già co-fondatore e amministratore delegato di Bip, l’unica multinazionale italiana della consulenza. Al suo ritorno, lui e i suoi soci hanno smesso di definirsi consulenti e hanno messo al centro del proprio lavoro le tecnologie esponenziali (cioè quelle ad altissima accelerazione): “Alla SU ti spiegano anche come funzionano le organizzazioni esponenziali. Che fanno uso di cloud e saas, prendono forniture in leasing e sviluppano a una rete di collaboratori esterni. L’esposizione a questo modo di pensare ha cambiato molto il nostro modo di lavorare“. Dal suo punto di vista, quindi, un ottimo investimento professionale. Certo, c’è da fare la tara su quello che uno sa prima di arrivare e sul campo in cui opera abitualmente. Paolo Gesess, fondatore di United Ventures e alunno dell’Executive Program dello scorso febbraio, la mette in questi termini: “Credo sia un’esperienza interessante, ma non per forza necessaria. Mi occupavo già da 15 anni di nuove tecnologie, molte cose le sapevo. Diciamo che sono rimasto sconvolto a 180°“. Lui ha portato a casa è stato un quadro più completo degli ambiti in cui la tecnologia sta facendo la differenza (“quello biomedico mi ha colpito molto“) e una buona agenda di contatti: “Con uno dei miei compagni di corso ci siamo già visti un paio di volte. Si sta pensando di coinvolgerlo nella valutazione di un’azienda sulla quale investire“. Sull’utilità dei legami che nascono in Singularity University dice la sua anche Roberto Condulmari: “Non è una questione di business, ma di relazioni. Come tutti i network formati da gente in gamba, risulta utile per tenersi aggiornati, così come la newsletter alla quale ci si può iscrivere“. Gestore e socio storico di Kairos, Condulmari dopo il soggiorno nella Valley si è preso un periodo sabbatico e ha iniziato a fare investimenti in proprio (per esempio in musiXmatch). Dall’esperienza statunitense, dice di aver portato a casa anche una certa preoccupazione: “Le tecnologie esponenziali possono essere come meteoriti. E ce ne sono molti che stano arrivando. Chi si occupa del Paese dovrebbe esserne consapevole“. Motivo per cui, come molti altri ex-alunni, suggerirebbe ai politici soggiorni più lunghi alla Singularity. Il Graduate Program in cifre (fonte: Singularity University Impact Report 2014) Sgomberiamo ora il campo da un equivoco: la Singularity University non è solo per veterani del management. Tutt’altro, racconta il trentatreenne Raffaele Mauro: “Tre anni fa ho seguito il Graduate Program, il più selettivo e impegnativo, oltre che quello con l’età media più bassa. Dieci settimane a cui avevamo avuto accesso in un’ottantina, su qualche migliaio di richieste“. Per un mese si seguono corsi di tutte le discipline dalle 8 alle 22 di ogni giorno. Poi si costituiscono team, si creano startup e progetti di ricerca. Dopo quest’esperienza, Mauro, che era arrivato in Silicon Valley con in tasca un dottorato alla Bocconi, è tornato in Italia e ha continuato per un po’ a lavorare in Annapurna Ventures. Quindi ha svolto due anni di ricerca ad Harvard e infine ha ripreso la via di casa: ora è Innovation Manager di Intesa Sanpaolo. Ma c’è anche chi, tra i suoi compagni di corso, il lavoro se l’è creato in tempo reale: “Durante il mio corso ho visto nascere Matternet, una startup che sta sviluppando la consegna attraverso droni di medicinali nei paesi che mancano di infrastrutture per la mobilità. Non solo: tra quell’anno e il precedente dalla SU sono uscite Glowing Plant, Made in Space e Getaround“. Le SU Companies in cifre (fonte: Singularity University Impact Report 2014) La rete che unisce gli alumni (così si chiamano gli ex studenti) ha maglie più strette nel caso dei giovani. Per questo non è difficile raccogliere le storie degli italiani che hanno frequentato il Graduate Studies Program. Rispetto ai manager navigati, tra loro ricorre più spesso il concetto di “svolta“. A Chiara Giovenzana è andata così: “Per un anno prima di SU avevo lavorato su un progetto cercando di trasformarlo in startup ma senza riuscirci. Una volta tornata in 4 mesi ho scritto io business plan, trovato il team, definito il prodotto, fondato la startup e trovato i primi investitori“. Vito Margiotta prima di andare in Silicon Valley aveva un posto in Google. Dopo, ha lasciato quel posto (“pur essendo un ambiente estremamente stimolante era troppo lento rispetto ai ritmi di SU“) e ha fondato con dei soci Snapp, un’azienda tecnologica che punta a democratizzare la creazione di strumenti digitali nei paesi in via di sviluppo. Ora si trova in chiusura di trattative per diventare partner mobile della stessa Google. Anche Matteo Sarzana ha mollato una multinazionale per una startup: lo trovate in Zooppa. Federico Pistono ha fondato Konoz, una piattaforma di e-learning. Marco Gervasi, avvocato, gestiva un incubatore a Shanghai. Adesso sta per pubblicare un libro sull’e-commerce in Cina basato sui principi appresi alla Singularity e assicura: “Alibaba è solo la punta dell’iceberg“. Per finire, c’è anche chi ha fatto team con un senior del corso Executive: Eric Ezechieli ha unito le forze a quelle di Paolo Di Cesare (già consulente manageriale) e insieme hanno dato vita a Nativa, che si presenta come “prototipo di azienda del XXI secolo“. Il fronte della nuova imprenditorialità, in effetti, è quello dove è più facile misurare l’impatto della Singularity University sul mondo imprenditoriale. Tra il 2009 e il 2013, le startup che hanno beneficiato dei programmi di accelerazione messi a punto dai Singularity University Labs sono state 23: tra loro 10 progetti sviluppati all’interno dei corsi Graduate. Hanno dato lavoro a 165 persone, hanno registrato 20 brevetti e hanno raccolto 100 milioni di dollari di capitale. Gli exalunni usciti da questi cancelli, sempre dal 2009 al 2013, sono stati invece 1315: 80 hanno dato vita a delle aziende e 50 hanno vinto dei premi. Come abbiamo visto, non si può dire che tutti i successi ottenuti o i passi compiuti dopo aver frequentato un corso siano conseguenza diretta del corso stesso. Molto dipende da dove si è partiti, molto da quello che si cercava. Le testimonianze dei manager (meglio: di quelli che accettano di commentare l’esperienza) in genere si dividono in due categorie: chi già si occupava di nuove tecnologie parla di un corso di aggiornamento all’avanguardia, chi non se ne occupava di una full immersion che cambia il tuo modo di pensare. Quelle dei ricercatori raccontano invece di giovani già competenti, che attraverso questo passaggio formativo hanno acquisito la capacità di giocarsela anche a livello imprenditoriale. A mettere d’accordo tutti, una valutazione di fondo: la SU ti permette di sviluppare una certa consapevolezza del presente e ti fornisce una “cassetta degli attrezzi” per provare a trasformarlo. Però non è cosa che si ottenga con una visita lampo. Visitare sarà anche un bene, insomma, ma frequentare è meglio.