Picchi 05-06 - Newsletter di Sociologia

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Picchi 05-06 - Newsletter di Sociologia
Maggio 2006, Anno 3, Numero 3
Newsl ett er di S ociol ogia
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Professione Sociologo
P r o f e s s i o n e
S o c i o l o g o
“La città possibile” è un'associazione educativa e culturale impegnata sui problemi della città e
della vita urbana. Realizza, per conto di enti locali e altri organismi, azioni di sensibilizzazione e
attività di formazione sui diversi temi dell'ecologia urbana e della partecipazione dei cittadini alla
progettazione e gestione urbana. La città possibile studia e sperimenta forme di animazione e di
volontariato civico, iniziative di prevenzione, attività di lavoro e formazione professionale
finalizzate al miglioramento dell'ambiente urbano. Circa venti associazioni e gruppi attivi in
diverse regioni, raccolte in una rete organizzativa permanente, si richiamano alle finalità e alle
metodologie de La città possibile.
Elisabetta Picchi ha intervistato Dario Manuetti, Presidente dell’associazione, un’occasione per
approfondire il tema dell’ecologia urbana e per scoprire le sinergie di due mentalità: la tecnica,
degli amministratori e degli architetti, e quella sociale degli educatori ed animatori sociali.
La città possibile
di Elisabetta Picchi
D: Ho letto sul vostro sito (www.cittapossibile.org) che
l’associazione “La città possibile” di Torino opera dal
1988, mentre l’evento che ha posto le basi per la
costituzione della rete per la città possibile è la
pubblicazione de “La città Possibile – Manuale dei nuovi
cittadini” (RED Edizioni, Como, 1993), di cui lei e Bruno
Gandino siete gli autori. Parliamo dei fondatori
dell’associazione, che sono poi gli autori del manuale, e
di cosa li ha portati a questo progetto.
R: Il progetto nasce a Torino dall’incontro di due persone, un
architetto sensibile alle tematiche educative, Bruno Gandino, e
Dario Manuetti che lavorava nel campo culturale, ed educativo
ma la cui formazione deve molto alle esperienze maturate
all’estero, presso associazioni internazionali in Francia e in
Svizzera soprattutto: la cultura europea per le politiche
dell’infanzia, quindi non solo la scuola come istituzione, ma
l’accento sugli aspetti sociali, la qualità dello spazio del gioco,
la carta dei servizi per l’infanzia erano una grande tradizione in
Francia. I due, impregnati di cultura europea e con una grande
voglia di fare, si incontrano: nasce la città possibile. Coetanei,
condividono un background comune, tra cui i ricordi di
un’infanzia passata a giocare per strade che erano come
piazze: luoghi di incontro, di svariate attività di gioco, di
tempo libero, di incontri tra persone che mentre sedevano
sulle panche, dalla mattina fino a tarda notte, svolgevano
anche la funzione di controllo sociale, creando le condizioni
così per l’esistenza di luoghi sicuri e spazi di socialità.
L’obiettivo dell’associazione è di camminare verso l’Europa,
verso idee di gestione dello spazio urbano che già non erano
più novità, ma pratica comune, non così in Italia.
L’orientamento quindi è pratico, volto al cambiamento culturale. Si parte dal 1988 con l’uscita di diapositive che descrivono
con una documentazione accurata come intervenire nello
spazio urbano per creare una dimensione di incontro, di gioco,
di socialità. Nel tempo abbiamo arricchito il nostro bagaglio di
esperienze: di primaria importanza per la creazione di spazi
verdi e vivibili è la “moderazione del traffico” (precauzioni agli
ingressi delle scuole, la creazione di zone residenziali e zone a
traffico moderato, rotonde, ecc.), l’attenzione al rapporto
bambini e traffico (i loro bisogni nel traffico urbano, i percorsi
casa-scuola, l’educazione stradale, l’influenza del traffico sullo
sviluppo dei bambini), adolescenti e spazi urbani.
La nostra è un’associazione educativa e culturale perché ha
come obiettivo immediato l’antropologia dell’intervento sullo
spazio urbano e quindi opera sul piano educativo, sociale e
nell’insieme agiamo sui due versanti, la qualità della cultura
tecnica e della cultura politica dei decisori che fanno le scelte
della pianificazione, progettazione, gestione degli spazi, e sul
versante di attività di animazione ed educazione che, anziché
svolgersi prevalentemente al chiuso sia proiettato a svolgersi
nello spazio pubblico all’aperto, con attività rivolte ai bambini e
agli adolescenti. Questi ultimi vengono coinvolti in progetti
incentivandoli ad essere una risorsa anziché un disagio: è un
discorso che noi facciamo senza retorica, ma con azioni
concrete come l’esperienza dei cantieri laboratorio sugli spazi
urbani.
D: Di che cosa si tratta?
R: Attraverso i servizi sociali e di educativa territoriale,
informagiovani, scuole, associazioni la nostra equipe di
animatori e gli operatori dei servizi tecnici entrano in contatto
con adolescenti (tra i 14 e i 19 anni), coinvolgendoli in attività
pratiche come mantenimento, abbellimento, pulizia di uno
spazio urbano. La trasformazione del luogo viene progettata
dai giovani con la consulenza dei nostri progettisti. Gli
animatori invogliano i ragazzi a coltivare uno spirito critico e
ad immaginare scenari di città possibile sempre però rivolti
all’azione concreta che ne segue. Il nostro obiettivo è una
reale progettazione. Io mi rifaccio sempre alla “scala della
partecipazione” di Roger Hart che indica diversi tipi di
coinvolgimento: si parte da un coinvolgimento di facciata per
arrivare, in 8 stadi, ai progetti iniziati dai giovani e gestiti dagli
adulti, quello che noi facciamo e che ottiene un grande
consenso tra i giovani, è che sono invogliati ad assumere
nuovi comportamenti di cura e attenzione verso gli spazi creati
e non di vandalismo.
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D: Le vostre azioni hanno prevalentemente al centro
bambini e adolescenti. Inoltre mi ha colpito molto nel
manuale una riflessione che liberamente traduco in due
immagini dicotomiche: la città dell’adulto frenetico e
stressato, chiuso nell’abitacolo della sua automobile, e
quella del bambino che gioca sereno in un parco. Allora
significa che una città è qualitativamente migliore se a
misura di bambino?
R: In realtà avevamo posto l’accento sui bambini all’inizio del
nostro percorso. Ora, non è che non facciamo più attività con
loro, anzi, ma siamo andati oltre. La nostra riflessione è
andata oltre. Parlavamo di città “a misura di bambino” anni fa
quando queste cose non le diceva nessuno, era uno slogan che
serviva a smuovere i tecnici progettisti, gli assessori che non
concepivano un intervento sul traffico in termini di
moderazione, ma vedevano nella creazione di isole felici per lo
spazio gioco la soluzione del problema. Il traffico non era
discutibile. Adesso a livello di concetto è condivisa l’importanza
dell’ambiente, della qualità della vita, una volta non ci si
poneva il problema dell’inquinamento dell’aria, dei costi sociali
del traffico, mentre altri paesi europei ci stavano già
lavorando. Siamo un paese arretrato, e solo grazie ai
provvedimenti presi dall’Unione Europea abbiamo iniziato a
prendere in considerazione queste cose.
D: Perché l’Italia era, e forse lo è tuttora, così arretrata
rispetto alle tematiche dell’ambiente?
R: Devi tener conto che nel dopoguerra abbiamo avuto il boom
economico, che ha comportato un aumento delle automobili a
fronte di tassi di scolarizzazione tuttora, rispetto alla media
europea, bassi. A questo fatto dobbiamo ricordare altre
peculiarità italiane: l’inattendibilità dei controlli e delle
sanzioni, una situazione che non possiamo paragonare con
nessun altro paese europeo. Per questo abbiamo portato
avanti vere e proprie battaglie per sensibilizzare il Paese a
tematiche già prese in considerazione negli altri paesi europei
a partire dagli anni 70…
D: La città possibile è presente a Torino, Como, Udine, e
nel sito si parla di “rete per la città possibile”. Quali
caratteristiche ha? È presente solo sul territorio
nazionale o ha legami anche all’estero?
R: La Rete per la città possibile si è creata a partire dai
rapporti stabiliti con regioni ed enti locali, università e centri
culturali, scuole, cooperative, associazioni e gruppi locali
d’iniziativa a partire dai materiali di documentazione e dalle
iniziative di informazione e formazione, consulenza tecnica e
organizzativa realizzate in gran parte dalla nostra associazione
di Torino e Como (attiva dal 1994). In un incontro delle
associazioni e dei gruppi già collegati è stato individuato un
percorso per lo sviluppo della Rete che prevede l’adesione
formale dei diversi soggetti interessati attraverso specifici
accordi di collaborazione da sottoscrivere di volta in volta, una
volta accertata la compatibilità reciproca dei programmi
d’azione e dopo un’esperienza di lavoro comune su progetti di
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ecologia urbana. La rete si estende in tutta Italia e siamo
andati a collaborare anche all’estero, manteniamo contatti con
associazioni simili in Francia, Germania, Spagna.
L’intervista viene interrotta da una telefonata. Intuisco che
dall’altra parte del filo è un’assessore a parlare: deve
organizzare con la città possibile la creazione di un’area gioco
in un giardino che collega una scuola alla biblioteca comunale.
Ecco, hai assistito in diretta al nostro lavoro…
D: Sì, vediamo di ricostruire i passaggi: mi sembra di
capire dalla telefonata che l’assessore, cioè il comune
per cui lavora coinvolgerà una scuola con l’appoggio
della città possibile…
R: Esattamente, funziona proprio così!
D: Ma la proposta in genere da chi nasce? Da voi, dagli
assessori o da un insegnante della scuola?
R: Dipende. Diciamo che noi abbiamo messo in rete (sia reale,
sia virtuale tramite il nostro sito ed il sito della Regione
Piemonte) del materiale informativo, dei quaderni, delle
diapositive e dei cd. Quindi, una volta informati, qualsiasi
soggetto può contattarci per la realizzazione del progetto che
facciamo in maniera partecipata, mai calata dall’alto, ma con il
coinvolgimento, nel caso delle scuole, delle insegnanti, degli
alunni, delle loro famiglie.
D: Mi interessa, da ultimo, capire se e come affrontate
il problema del disagio delle periferie, che in quanto tali
sono spesso ai margini, non integrate con il centro
della città. Così carenza di servizi, spazi urbani
degradati e funzionalmente inefficienti contribuiscono
al crescere del disagio sociale.
R: Per le periferie i comuni si avvalgono di programmi di
recupero urbano e progetti di quartiere per l’integrazione. Ma,
pur essendoci attenzione per la qualità dell’aspetto urbano e
per la qualità del rapporto tra persone, la grande città tende a
fare questi interventi in zone mirate, con interventi ad hoc per
quelle situazioni, si creano solamente degli interventi ad isole
verso situazioni di crisi. La nostra prospettiva è diversa:
secondo noi manca l’adozione di una cultura tecnica condivisa,
non esiste un progetto complessivo per coordinare tutte le
azioni, anche le più piccole e banali. Manca la volontà a livello
politico di rinnovare la cultura dei geometri, architetti e
progettisti dei comuni che non sanno cosa vuol dire progettare
il verde come spazio sociale. I master generalmente si limitano
a trasmettere qualche competenza in più (come costruire un
questionario o gestire un focus group), ma rimane tutto a
livello teorico, non vi è nulla di concreto.
Il lavoro proposto dalla città possibile si può fare in un
normale ufficio tecnico che sia però capace di dialogare con
l’ufficio istruzione, con le scuole, con l’educativa territoriale per
realizzare proposte specifiche, intento che noi abbiamo
realizzato con la formula dei cantieri-laboratorio per i giovani.
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Per creare uno spazio pubblico urbano che sia la base per una
convivenza serena, basata sulla fiducia da parte dei residenti,
bisogna saper progettare a livelli più alti di quelli che
l’università italiana fornisce. Partire dalla sua collocazione, in
quale contesto è inserito, quindi progettare anche la viabilità
del traffico circostante. Non ha senso creare una zona di
verde, un’isola felice, se poi è irraggiungibile per i pedoni e i
ciclisti! Finirà per diventare un luogo di scarso transito, isolato,
con tutte le conseguenze del caso. Invece saper progettare
significa domandarsi chi può transitare nel verde e attraverso
quali percorsi di accesso. Invogliare le persone a transitare nel
parco significa non perdere l’occasione di creare spazio sociale,
di permettere un naturale controllo da parte delle persone
stesse che vivono quello spazio. Nello spazio verde, inoltre non
basta mettere due panchine e una giostra, ma pensare a quali
gruppi lo frequenteranno (anziani, bambini, adolescenti),
creare spazi appositi a seconda delle esigenze, così da
permettere una fruizione dello spazio soddisfacente, tranquilla
e non pericolosa. Tutto questo significa anche permettere ai
bambini di accedere al parco da soli in tranquillità, altrimenti i
bambini potranno andare a giocare solo quando qualcuno
potrà accompagnarli e quindi, solitamente, per il poco tempo a
disposizione degli adulti.
D: La sociologia può venire in aiuto?
R: La sociologia può essere di aiuto non solo per rilevare i
bisogni della gente, ma per capire come mai i progetti per le
zone verdi vengono sempre così male! Ricreare condizioni di
gioco e di socializzazione per i bambini, gli adolescenti e gli
abitanti in genere richiede la combinazione di sensibilità,
conoscenze e competenze specifiche da parte di chi progetta lo
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spazio urbano e di chi opera con l'infanzia e l'adolescenza con
responsabilità educative e di animazione. Bisogna quindi
creare una “zona” dove mentalità tecnica e mentalità
educativa possano incontrarsi, sovrapporsi. Infatti, i “tecnici”
sono di regola privi di formazione e di esperienze di
pianificazione, progettazione e gestione dei nuovi spazi da
creare. Gli educatori, costretti a sviluppare le attività ludiche e
di animazione sociale nelle attuali proibitive condizioni spaziali
e quasi mai chiamati a contribuire alla progettazione dello
spazio urbano per il gioco e la socialità, devono acquisire
sensibilità e conoscenze che portino loro a partecipare
attivamente a processi reali di trasformazione urbana e non
solo ai processi formativi della “progettazione partecipata”, a
dare contributi per la lettura dei bisogni e dei comportamenti
degli abitanti, a organizzare azioni di sensibilizzazione,
formazione e animazione sociale, a valutare cambiamenti
culturali e comportamentali, a fornire indicazioni spendibili in
sede di progettazione e capaci di orientare tecnici a loro volta
alle prime armi.
Il problema di fondo è la mentalità dell’amministrazione
pubblica che necessita di un rinnovamento…
D: Non è ottimista a riguardo? Non crede che in un
futuro le cose potrebbero migliorare?
R: Sono anni che lavoro come tecnico in Regione e porto
avanti le mie idee con la “città possibile”. Forse sarei dovuto
starmene tranquillo, fare semplicemente il tecnico…