Replica alla Recensione di A. Riccio Luca Mencacci

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Replica alla Recensione di A. Riccio Luca Mencacci
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Replica alla Recensione di A. Riccio
Luca Mencacci
È evidente che il tema della città
occupi ancora un posto di rilievo nell’agenda
dei dibattiti culturali contemporanei. Non si
capirebbe, altrimenti, perché il mio volume su
“L’eclissi dell’utopia urbana” abbia potuto
attrarre gli interessi di alcuni recensori capaci
(Roberto Faben su Il Messaggero, Maurizio
Schoepflin sul Giornale di Brescia,
Giancristiano Desiderio su Liberal). Se
l’approfondimento condotto da Antonio
Riccio è ultimo in ordine di apparizione, si
situa tuttavia fra i più stimolanti, giacché le
sue argomentazioni sono destinate a rilanciare
il dibattito sui fondamenti del sapere in
un’epoca contrassegnata dalla crisi dei
progetti intellettuali basati sugli artificiali
confini disciplinari.
legame spirituale, prima ancora che culturale,
tra la forma della città e la vita dei suoi
cittadini, tra architettura e storia, tra
urbanistica e sociologia.
“Composta di materiali che il passato
ha sedimentato lungo i suoi percorsi, nei suoi
pieni come nei suoi vuoti, punteggiata dalla
dialettica
incessante
tra
costruzione,
distruzione e ricostruzione, la città può essere
interrogata come un testo in cui sono impressi
i significati del tempo.”. Sottolinea Gabriella
Paolucci nel suo Libri di pietra. Città e
memorie
sostenendo
una
prospettiva
semiologica dello spazio urbano, che affonda
le sue radici nelle intuizioni della semiologia
classica di Roland Barthes e di Umberto Eco.
Per entrambi la città poteva essere ridotta a un
complesso insieme di segni, di significanti,
che si riferiscono alla forma del tessuto
urbano o agli elementi architettonici, e di
significati, che invece fanno riferimento al
contenuto e che sono ai primi attribuiti da tutti
coloro che con essa hanno a che fare, dal
primo dei fondatori all’ultimo dei migranti.
Un’impostazione volta a leggere la città in
termini testuali, che può apparire ancora oggi
originale, per certi versi anche eccentrica, ma
ugualmente capace di trovare importanti
conferme in discipline più ortodosse
all’analisi e alla comprensione del fenomeno
urbano. Se infatti Barthes nel suo saggio
“Semiology and the Urban” anticipa che “La
città è un discorso e questo discorso è
davvero un linguaggio”, Giulio Claudio
Argan nel suo Storia dell’arte come storia
della città, arriva a sostenere una precisa
analogia tra la costruzione dello spazio
urbano e la formazione del linguaggio. Se Eco
può ammonire che “ricordare è come
costruire, è come viaggiare attraverso lo
spazio costruito”, allora Giandomenico
Amendola ne La città postmoderna può
finalmente affermare che “la memoria è
Dalle suggestioni della recensione di
Riccio, dunque, ho potuto trarre ulteriori
spunti per proseguire nella ricerca che ho
incominciato già da qualche anno.
“Cos’è la città oggi per noi?” Questa
la domanda, sempre attuale, che si pone Italo
Calvino nella presentazione del suo stesso
libro Le città invisibili. Una domanda cui
prudentemente risponde con enfasi poetica,
piuttosto che con rigorosi chiarimenti. “Le
città sono un insieme di molte cose: di
memoria, di desideri, di segni, di un
linguaggio.” Sembra limitarsi a dire Calvino.
Del resto, la stesse scienze sociali, nella loro
pur breve storia, si sono dovute accontentare
di soluzioni parziali della definizione del
fenomeno urbano, esaltando ora la
dimensione demografica (Wirth) ora quella
economica (Weber) ora quella psicologica
(Simmel). “Le città sono luoghi di scambio,
come spiegano tutti i libri di economia, ma
questi scambi non sono soltanto scambi di
merci, sono scambi di parole, di desideri, di
ricordi.” Ma così facendo Calvino non elude
la risposta, piuttosto rimanda a un intimo
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Bruna Mancini Sguardi su Londra. Immagini
di una città mostruosa ricordando come
l’architetto e urbanista statunitense Kevin
Lynch, allievo di Frank Lloyd Wright, fosse
solito affermare come i romanzieri abbiano
contribuito a costruire le città in cui viviamo
nella stessa misura dei costruttori che le
hanno edificate.
incapsulata nello spazio e ha bisogno di esso.
La città resta il principale libro su cui la
storia possa essere scritta e soprattutto letta.”
La forma urbana tuttavia non si limita
a riflettere o raccontare il passato di una
comunità. Invece, la ricapitola, o la
reimpagina se vogliamo, la ripropone alla
stregua di un palcoscenico, o di una
biblioteca, dove la conservazione e la
rappresentazione,
talvolta
anche
l’ostentazione,
impongono
non
semplicemente una rilettura, continua anche
se provvisoria, ma una vera e propria
interazione comunicativa, interattiva e
ipertestuale, a chiunque si trovi a percorrere le
sue strade o ad attraversare le sue piazze.
Evidentemente, se si vuole considerare
la città un testo, non si può trascurare che
l’aspetto transitivo del rapporto che lega la
lettura, o se vogliamo la rilettura, alla
scrittura. Giovanni Puglisi nel saggio La città
e il cittadino: immagini di uno specchio,
contenuto nella raccolta significativamente
intitolata Le città di carta, evidenzia il
rapporto strettissimo che lega la città, l’autore
di un romanzo e il lettore. “ Il triangolo che si
viene così a delineare è rettangolo, in quanto
– metaforizzando alcune nozioni di geometria
– l’immagine costruita sull’ipotenusa, la città
è equivalente alla somma delle immagini
costruite sui due cateti, ovvero quella
dell’autore e del suo lettore.” Soprattutto
sottolinea
come
il
romanzo
possa
rappresentare un eccellente mezzo di
espressione per tutti quegli autori che
vogliono declinare il proprio impegno
letterario oltre la dimensione individuale
spingendolo verso un orizzonte pubblico. “Le
scritture narrative hanno segnato spesso sia
lo stato dei costumi e del dibattito etico
politico sia il valore e lo spessore del
coinvolgimento etico degli intellettuali nella
costruzione urbana e nella vita civile della
loro città. Ciò che è entrato in gioco è sempre
stato comunque il rapporto strettissimo tra il
testo letterario, la città della quale esso si fa
ermeneuta o portavoce e il cittadino, che
nelle diverse fattispecie può essere di volta in
volta l’autore o il lettore.”
Ritorna allora in mente l’intuizione
letteraria di Calvino, quando sostiene che “la
città non dice il suo passato, lo contiene come
linee di una mano, scritto negli spigoli delle
vie, nelle griglie delle finestre, nei corrimano
delle scale, nelle antenne dei parafulmini,
nelle aste delle bandiere, ogni segmento
rigato a sua volta di graffi, seghettature
intagli e virgole.” Ma non è solo al flaneur di
Baudelaire, prima ancora che a quello di
Benjamin, che la città si rivolge. Non attrae
solo il passante curioso che vaga senza meta
per i suoi quartieri un po’ dandy, un po’
clochard, piuttosto invita alla conversazione
ogni suo abitante come ogni suo fruitore,
tanto il cittadino quanto il visitatore,
permettendosi di offrire ospitalità, ogni volta
diversa, alla storia personale o alla esperienza
di vita di ciascuno di essi. La città stessa in un
gioco di riflessi senza soluzione di continuità
fa tesoro di ogni incontro come di ogni utenza
e
restituisce
l’eco
dei
commenti,
cristallizzandone la forma nel tempo.
I passi allora possono essere
paragonati alle parole, le frasi a passeggiate e
“gli sguardi sulla, nella e dalla città fungono
più che mai da vera e propria riscrittura del
testo urbano; soprattutto quando essi
prendono forma artistica e narrativa e la città
viene vista e mostrata attraverso gli occhi
degli artisti, degli scrittori dei poeti dei
registi e dei loro personaggi.” Suggerisce
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Poiché l’attenzione verso il passato
conduce sempre all’analisi del presente e
provoca spesso la progettazione del futuro, le
immagini, che la città ci offre con la sua
architettura, e le suggestioni, che lei riflette
attraverso la letteratura, assurgono a intima
chiave di accesso dell’animo di coloro che la
costruiscono o la modificano, la vivono o la
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visitano, la ricordano o la immaginano. E
forniscono soprattutto una privilegiata fonte
interpretativa delle loro aspettative e dei loro
timori, così come dei loro entusiasmi e delle
loro delusioni, interessante fonte di analisi
sociologiche.
che nessuna survey o ricerca empirica riesce
a concretizzare altrettanto vividamente.”
La consapevolezza dell’autore e la
complicità del lettore, contribuiscono a
determinarne il rilievo sociologico, ovvero la
sua capacità di evocare rappresentazioni e
metafore, anche in concorrenza con altri
media. Per questo, la sociologa della
letteratura Graziella Pagliano, nel suo Profilo
di sociologia della letteratura, evidenzia che
il testo letterario, “se riflette la realtà, la
riflette in modo incompleto e parziale, ma se
opera ciò esplicitamente, assolve a un
compito non sostituibile con la conoscenza
scientifica (che ha i suoi propri strumenti),
cioè un compito rivelatore, in quanto la
frammentazione dell’immagine evoca la
stratificata complessità della realtà.”
Attribuire all’immaginario letterario
una sua peculiare funzione epistemologica nel
campo sociale non sembra essere poi
un’impostazione del tutto arbitraria e
autoreferenziale. Se non come fonte, almeno
come sussidio. Rinunciarvi comporta il
rischio di ancorare la ricerca sociologia al
presente, privando la città di una sua
dimensione fondamentale, quella temporale,
dove le speranze e le delusioni trovano il loro
incessante e significativo avvicendamento.
Del
resto,
ampia
produzione
accademica testimonia come l’esame e l’uso
degli immaginari evocati dalla narrazione
letteraria sia stato strumento fondamentale di
analisi e conoscenza del sociale, adottato da
una lunga teoria pensatori definibili come
classici del pensiero sociologico. Non è certo
questa la sede per citarli tutti o anche solo i
maggiori, magari addentrandosi nell’elenco,
invero esauriente quanto sorprendente, redatto
nello studio I sociologi e lo spazio letterario
di Fabio Tarzia. Maggiore rilevanza sembra
invece attribuibile alle motivazioni che
possono averli indotti a indagare una simile
fonte. A tale proposito Gabriella Turnaturi ne
l’Immaginazione
sociologica
e
immaginazione letteraria sostiene che “la
fascinazione intellettuale che il romanzo, la
finzione letteraria può esercitare su chi tenti
una lettura delle società e dei progressi
sociali nasce soprattutto da quel suo
dispiegare dinanzi agli occhi, come un
caleidoscopio, più mondi, più realtà. Il
romanzo può funzionare come fonte di
ideazione, come interruttore che accende idee
e ipotesi embrionali, confuse e troppo astratte
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In quello che oggi viene sovente
definito come lo spazio dei flussi il luogo
urbano, non semplicemente la città, meno che
mai la metropoli, restituisce il senso della
posizione. Attraverso la sua feconda dialettica
tra le pietre e le parole alimenta le aspirazioni
ideali della sua cittadinanza, conservandone la
misura della realizzabilità e subendone i limiti
della realizzazione.
Se allora si vuole sostenere che
scrivere possa equivalere a costruire, leggere
potrà significare vivere, camminare e abitare
gli spazi urbani. Quegli stessi spazi reali e
locali che Bauman chiama “la discarica di
problemi causati dalla globalizzazione” ove
oggi è possibile rinvenire lo scarto tanto dei
tentativi falliti di dare soluzioni locali alle
contraddizioni globali quanto del confronto
tra la città immaginata come ideale e quella
realizzata come possibile. Uno scarto la cui
cognizione potrà assurgere a oggetto,
inesauribile sin dai tempi di Zenone, per una
nuova atipica sociologia, a metà strada tra
quella urbana e quella della letteratura. La
sociologia degli scarti.
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