1 Geraldina Colombo Andrew Gibson, James Joyce, Il Mulino

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1 Geraldina Colombo Andrew Gibson, James Joyce, Il Mulino
Geraldina Colombo
Andrew Gibson, James Joyce, Il Mulino, Bologna, 2008 (trad. ital. di Giuseppe
Balestrino)
Il volume di Andrew Gibson, James Joyce: A Critical Life, pubblicato a Londra nel
2006 (ediz. Reaktion), ed apparso in Italia per le edizioni Il Mulino a distanza di due
anni, ha suscitato l’approvazione della stampa irlandese ed internazionale, che non ha
esitato a definirlo una “discussion that is so clear and energetic that it requires no
leavening” (James Joyce Literary Supplement), cogliendone l’“eminently sensible
approach” (Irish Independent), la cui “analytical care” (El Pais) contribuisce a renderlo
un “illuminante lavoro” (D. Kiberd, premessa al testo).
L’autore, professore di letteratura moderna presso la Royal Holloway University di
Londra ed eminente studioso joyciano (citiamo, ad esempio, la recente pubblicazione
Joyce’s Revenge: History, Politics and Aesthetics in Ulysses, Oxford University Press,
2002), rilegge la biografia di James Joyce (Dublino, 1882 – Zurigo, 1941) secondo una
prospettiva “critical”, come apprendiamo dal paratesto dell’edizione originale,
discostandosi dall'approccio biografico tradizionale, e collocandosi lungo la scia degli
studi joyciani postcoloniali e storico-politici, matrice dei suoi lavori.
I sentieri biografici joyciani solitamente battuti, soprattutto, in seno alla tradizione
critica americana (è in America, ricordiamo, che si trovano alcune delle principali
fondazioni joyciane), conducono lungo due direzioni, individuate da R. Ellmann e H.
Kenner: il Joyce (uomo e artista) di Ellmann è presentato come un “ambizioso,
concentrato su di sé, dedito alla propria arte” e mosso da “dedizione estetica personale,
se non da semplice vanità”; il Joyce di Kenner, poi, appare come campione del
“modernismo internazionale”, che, “data la sua propensione alla modernità, considerava
l’Irlanda arretrata, provinciale, limitata e gretta” (p. 16). Entrambe le posizioni si
fondano su un comune denominatore: l’esperienza antropologica di Joyce è riletta senza
tenere conto della centralità del cronotopo irlandese, prioritario, invece, nella tesi di
Gibson, rispetto alla formazione personale, politica, culturale joyciana.
La novità di Gibson, dunque, sta nel (ri)considerare Joyce come, fondamentalmente,
“Irishman”, ponendo in primo piano il suo legame con il contesto irlandese (inteso lato
sensu), fonte e punto d’arrivo dell’esperienza letteraria dello scrittore. Passa, dunque, in
secondo piano il ritratto dell’artista come sintesi esemplificativa del modernismo
europeo, e di tutte le sperimentazioni stilistiche che tale movimento culturale-artistico
comportò, solitamente ritenuti all’origine di ogni esito artistico joyciano. Le letture
“euro-avanguardistiche” di Joyce, pertanto, sarebbero frutto di un atteggiamento della
critica, che sposa – per ragioni politico-culturali – l’ottica del “conquistatore” (secondo
cui da un piccolo paese colonizzato come fu l’Irlanda, non sarebbe potuta nascere tanta
avanguardia letteraria quale fu quella che scaturì dalle opere di Joyce, e che solo
l’Europa cosmopolita di inizio ‘900, avrebbe potuto concepire).
Joyce, insomma, irlandese, prima che europeo. Di certo, la dimensione “Irish” e
quella europea non si autoescludono: al contrario, convivono in Joyce, al punto che il
Joyce “europeo” non può prescindere da quello “irlandese”, e viceversa. La prospettiva
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di Gibson, quindi, punta a ricostruire la parabola biografica joyciana secondo il criterio
della complementarità, considerando Joyce come “glocal”; per cui, suggerisce Gibson,
l’irlandesità dello scrittore è ciò a cui va ricondotta, in primis, ogni sua scelta artistica o
esistenziale, ed è ciò da cui si origina la sua apertura all’Europa (intesa sia in senso
“logistico” – Joyce abbandonò volontariamente la sua, paralizzata, terra natìa, per
stabilirsi fra Italia, Francia e Svizzera, a periodi alterni –, che in senso “culturale” –
Joyce ripudiò il provincialismo e la grettezza della società irlandese post-parnelliana).
Ecco, allora, che Gibson mette in luce il forte legame fra le tradizioni storicopolitiche irlandesi, la famiglia e l’educazione di Joyce, fornendo così una ricostruzione
non (soltanto) della “vita” dell’autore, ma del “contesto” in cui essa si colloca.
L’evoluzione letteraria del Nostro, pare inevitabilmente incrociarsi con le vicende
politiche di C. S. Parnell (Gibson, ripetutamente, enfatizza il ruolo centrale che il leader
assunse per Joyce), col fallimento dei movimenti nazional-insurrezionalisti all’inizio del
XX secolo, con gli sviluppi dell’ Irish cultural revival. Addirittura, lo studioso ipotizza,
ad esempio, che l’esilio di Joyce sul suolo europeo, si possa inserire nella secolare
tradizione irlandese dell’emigrazione (si pensi alle celebri “Wild Geese”), e che non si
tratti, dunque, di “volontà di abbandono” della terra madre. O, ancora, egli evidenzia
che il disinteresse di Joyce nei confronti della Grande Guerra, rispecchia la posizione
irlandese del tempo, ostile al conflitto, la cui esplosione, col conseguente
coinvolgimento dell’Inghilterra, aveva significato per l’Irlanda una sospensione del
processo relativo all’“Home Rule”.
Volendo, ora, soffermarsi su come l’approccio di Gibson emerga rispetto alla
presentazione delle opere di Joyce, osserviamo, ad esempio, come in Dedalus (A
Portrait of the Artist as a Young Man) la lotta di Stephen per un’indipendenza artistica e
personale (suggellata dal celebre imperativo “Non serviam!”), sia proiezione del
desiderio di “libertà anche per l’Irlanda” (p. 111). Con riferimento alle pratiche
linguistiche messe a punto da Joyce in Ulysses, poi, si mette in rilievo la volontà di
sovvertire l’ottica coloniale: deformando la lingua del “conquistatore” (l’inglese),
immettendovi, talvolta, l’elemento linguistico irlandese, impuro, il “conquistato” prende
la sua rivincita, invadendo ed espropriando un territorio altrui. Rispetto a Finnegans
Wake, infine, la riflessione sulla Storia universale, si interseca di continuo con quella
sulla storia irlandese (come non riconoscere nel titolo, “Finnegans[,] svegliati[!]”, un
invito rivolto alla nazione, affinché essa si allontani dal suo passato – la radice “Finn” di
“Finnegans” è un chiaro richiamo al movimento nazionalista “Sinn Féin” – e si apra al
presente – “Wake” –?).
L’affermazione eliotiana “Home is where one starts from” (T. S. Eliot, Four
Quartets – “East Coker”, 1940), potrebbe ben riassumere l’ottica centripeta (e
centrifuga, al tempo stesso!) secondo la quale Gibson ci introduce ai giorni e alle opere
di James Joyce: l’atlante culturale joyciano muove dal “centro” (l’omphalos Dublino,
sede della paralisi), subendo una trasfigurazione simbolica che gli consente di assumere
una portata “europea” (movimento centrifugo), innestando (ed integrando), così, una
statica autoreferenziale su uno sfondo globale, che, sempre, se riletto ed analizzato con
attenzione, riconduce all’originario nucleo irlandese.
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