Teatro.persinsala.it - teatrino controverso

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Letizia forever
Rieccoci al Teatro della Contraddizione, luogo in cui, una volta entrati, proprio non si riesce a smettere
di tornare.
Un articolo di Francesca Ruina
Su una piccola sedia su un piccolo palco sta seduto timidamente un grande uomo con una grande
barba. Vestito da donna. È Salvatore Nocera e quel lei/lui di cui veste i panni è Letizia, Letizia forever
– ultima creazione di Rosario Palazzolo. Letizia viene dal profondo sud e la sua parlata,
caricaturalmente dialettale, genera unʼimmediata empatia tra lei e il pubblico. Al suo fianco ha un
vecchio registratore per musicassette, con tre tasti magici impressi sopra: il plai, il revve e la pause.
Sono i tasti che scandiscono la sua vita – più che altro i revve e le pause – e che le consentono di
raccontarci e di raccontarsi cosa le è successo – il plai.
Mentre Pupo dipinge un panorama in cui non cʼè «nemmeno una nuvola» e «lʼamore è una favola»,
Letizia inizia il suo revve, a partire dal giorno in cui è nata, in una caldissima giornata di gennaio del
1963. Dopo aver guardato per tutta lʼadolescenza «il mondo da un oblò» – come canta Gianni Togni
nel plai successivo – con una madre che odia e che cerca in ogni modo di complicarle la vita,
finalmente arrivano i «fabulosi anni 80». È sulla scia delle «canzoni amore» che caratterizzano questo
periodo che Letizia ci sviscera il suo incontro con Salvatore – tra «sguardi lunghi» e «sguardi corti»
sulle scale della chiesa, raccontati con unʼironia che fa piegare il pubblico dalle risate – la loro
partenza per Milano, i figli e lʼentusiasmo per questo nuovo inizio.
Ma cʼè qualcosa che Letizia non ci sta ancora raccontando, qualcosa che «iddi, gli scienziati» – che
forse nemmeno esistono, che forse sono solo una parte di lei – vogliono sapere dal suo inconscio – in
arte, «icoscio». Qualcosa che delle urla strazianti di liti furibonde e rabbie represse lasciano presagire,
mentre gli «schifiosi anni 90» bussano alla porta, tra luci stroboscopiche e fari da interrogatorio.
Da lì in poi è violenza, è dolore, è la realtà – ma quale realtà? – che si frammenta, che si scompone,
che si sgretola e si «garbuglia» tra le mani di Letizia e quelle degli spettatori. È unʼondata di rabbia e
schifo che contrae le mani del bravissimo Nocera, intente ad allungare quel vestitino troppo corto,
mentre il suo sguardo scruta timidamente i volti degli astanti e le braccia si aprono in un non senso
rassegnato, come a voler sollevare unʼepoché sui fatti, su una fantomatica verità che chissà dovʼè. La
raffinatissima drammaturgia di Palazzolo dà il meglio di sé nella parte finale dello spettacolo, aprendo
un ventaglio di interpretazioni possibili.
Chi è davvero Letizia? Di chi sta vestendo i panni Nocera? Di un lui mascherato da lei o di una lei
mascherata da lui? Le identità crollano definitivamente, la realtà evapora e la violenza non ha più
carnefici e vittime, non ha più direzioni.
La violenza avvolge, come avvolge il dolore, come avvolge la vita. E niente di tutto ciò può essere mai
veramente detto, ma solo raccontato, qua e là, tra un revve, una pause e un plai. Non cʼè una
narrazione, ma una frammentazione esistenziale, una ricomposizione di pezzi che si sono sparsi, che
si sono spersi.
Cʼè Letizia, chiunque essa sia – in fondo, che cosa importa? Letizia, è solo un nome, un involucro,
come la realtà. È madre e padre, donna e uomo, vittima e carnefice. È verità e finzione, come il teatro,
come la vita. E lo scroscio di applausi che piove alla fine, tra sorrisi e occhi lucidi, è tutto per lei,
Letizia, che non ha più unʼidentità attoriale, che non è più Salvatore Nocera, ma è diventata un
pezzetto di tutti noi.