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l’amore come le meduse
3.
La seconda grande separazione la patimmo quando Teo
andò a Roma per sostenere il concorso di magistratura.
Avevamo studiato assieme tutti gli esami dell’università, nel senso che io stavo seduto e composto in
una sedia del salotto col libro aperto sul tavolo e lui se
ne stava a mani nude, stravaccato sul divano alle mie
spalle e mi ascoltava sonnacchioso mentre leggevo e
ripetevo a voce alta le noiosissime lezioni di diritto.
Si rianimava solo quando arrivava il momento
della pausa che solitamente trascorrevamo in cortile
facendo infinite gare di tiri liberi a un canestro appeso al muro di uno sfortunato vicino di casa. Quando
ritornavamo in salotto, Teo si sdraiava nuovamente sul
divano dove rimaneva in stato catatonico sino all’ora
di pranzo o di cena.
Com’è, come non è, quando poi andavamo a dare
l’esame lui prendeva sempre un voto più alto del mio.
Nonostante babbo avesse alle spalle una mediocre
carriera scolastica interrotta in una mai meglio precisata
classe dell’istituto agrario, aveva imposto a me e Teo
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di fare l’università in giurisprudenza perché, secondo
la sua ingenua ma convinta opinione, qualunque cosa
avessimo voluto fare nella vita, sarebbe stato comunque
importante sapere cosa fosse giusto e cosa sbagliato.
In realtà non ne avevamo mai parlato con Teo,
ma io ero convinto che tra noi ci fosse uno scontato e
tacito accordo che, una volta laureati, ci saremmo fatti
compagnia nell’azienda di famiglia. Evidentemente mi
sbagliavo, e infatti quando mi disse che stava partendo
per dare l’esame di magistratura, caddi dalle nuvole.
«Ci tieni tanto a condannare la gente?» Gli domandai con tono piuttosto piccato.
«Tranquillo, Vincenzo, tanto mi bocciano!»
In quegli anni avevamo omesso di dirci troppe
cose che, almeno io, davo erroneamente per scontate.
A differenza di tutti gli altri, compreso babbo che
accolse la notizia del proposito di Teo con un sorriso
scettico se non ironico, io ero convinto che quel concorso l’avrebbe vinto.
E infatti lo vinse.
Come primo incarico, il ventiquattrenne dottor Teo
accettò il quasi eroico mandato di sostituto procuratore
presso la Procura della Repubblica di Nuoro. Eroico
perché la Procura di Nuoro è storicamente sottodimensionata a causa di una scarsa propensione dei ragazzi
barbaricini a intraprendere la carriera inquirente e una
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altrettanto scarsa propensione dei ragazzi continentali
a trasferirsi in Barbagia.
Arrivato lì, poi, Teo dovette fare i conti con l’enigmatico ambiente nuorese difficilmente comprensibile
anche per noi sardi del sud, o almeno così gli avevano
detto. I primi tempi si buttò sulle scartoffie vivendo in
uno stato di clausura dal quale usciva solo raramente
quando veniva a Carloforte pallido come un padano in
autunno e subiva le prese in giro dei ragazzi del bar
Marina per niente intimoriti dalla sua nuova carica istituzionale. Poi capì che di enigmatico a Nuoro non c’era
un bel niente e che i nuoresi sono molto più simpatici
dei cagliaritani, le ragazze barbaricine sono più belle
delle campidanesi, il Cannonau è più buono del Monica
e tutto sommato il mare dista solo una cinquantina di
chilometri di strada larga e dritta al termine della quale
ti trovi davanti l’isola di Tavolara che ti meraviglia con
uno dei paesaggi più belli del mondo.
Sul piano professionale dovette misurarsi con lo
spessore dei criminali della zona e con la ostica competenza degli avvocati di quel Foro e fece quindi una
buona gavetta che gli consentì di diventare ben presto
un bravo magistrato e di acquisire il punteggio necessario per scegliere la successiva destinazione.
A quel punto tutti pensavano che avrebbe chiesto
di rientrare a Cagliari, tutti tranne me che ormai avevo
capito che ciò che stava accadendo non era un caso,
ma una scelta che Teo aveva già fatto tanti anni prima.
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Chiese e ottenne di essere trasferito a Milano e
di passare alla magistratura giudicante. E così diventò
pretore, pretore a Milano. Fu il periodo più bello della
sua vita professionale perché, a suo dire, quel ruolo gli
permetteva di ammirare la varia umanità che popola
e vivacizza il mondo e che ogni giorno gli scorreva
davanti impegnata in liti, beghe e piccoli imbrogli che
lui poteva gestire senza la tensione dei grandi processi
e delle severe condanne.
Ma era solo il primo scalino di quella che si sarebbe dimostrata una brillante carriera. La competenza e
l’inaspettata efficienza lo portarono ancora giovanissimo
al Tribunale collegiale come giudice a latere e dopo
alcuni anni, non ancora quarantenne, venne nominato
Presidente di collegio.
Chi l’avrebbe mai detto?
Io. L’avrei detto io.
Terminata l’università senza infamia né lode, io andai
a occupare una delle due scrivanie che nostro padre ci
aveva fatto trovare apparecchiate negli uffici dell’azienda
di famiglia. L’altra scrivania è rimasta vuota.
Sposai Cloe, la mia fidanzata storica e la donna
che nell’opinione comune avrebbe dovuto diventare
mia moglie.
Il senso romantico del matrimonio è durato un paio
d’anni. Il tempo di prendere la mira, concepire Bella,
vederla nascere, festeggiare il suo primo compleanno e
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osservare Cloe, di spalle, elegante, uscire dal portone
di casa a passi brevi ma rapidi, con una valigia in una
mano e una valigia nell’altra. Senza girarsi.
Spesso mi sono chiesto perché se ne fosse andata,
non mi pare fosse successo niente di grave. Non l’ho
mai capito, ma non ho mai avuto nemmeno voglia di
chiederglielo o di indagare. Non è stata una questione
di paura né di opportunità, ho sempre pensato che non
valesse la pena sviscerare il problema.
I tre mesi trascorsi ad accudire da solo la minuscola
Bella furono i più belli della mia vita. O almeno così
me li ricordo adesso, perché in realtà, a pensarci bene,
furono faticosissimi. O forse è proprio quella immane
fatica che, come capita in tutte le imprese più eroiche,
me li fa ricordare così piacevoli.
Con la pupa ci sapevo fare perché sin dal primo
giorno avevo insistito con Cloe affinché mi permettesse
di collaborare nelle mansioni quotidiane che, infatti,
avevamo imparato assieme a svolgere. Presi un periodo
di aspettativa, e senza pensarci tanto portai Bella a
Carloforte, nella nostra casetta in paese.
Tutte le mattine, prima che il sole si alzasse troppo,
la portavo nella spiaggia del Giunco dove la inducevo a
fare i primi passi sulla sabbia morbida e i primi bagni
aggrappata al mio petto. Trascorrevamo il pomeriggio
tra casa e carruggi dove Bella veniva presa in consegna e coccolata dalle signore del paese. La sera spesso
tornavamo al mare per goderci il tramonto e la notte
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spingevo la sua carrozzina lungo il molo accompagnati
dal suono delle sartie carezzate dal vento.
Quando a settembre inoltrato tornammo a Cagliari,
trovammo dentro casa Cloe che ci aspettava come se
fossimo usciti poche ore prima.
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