Come è morto Cagliostro
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Come è morto Cagliostro
La verità sulla morte del Conte di Cagliostro L’Atto di Morte del conte di Cagliostro, trascritto in data 28 agosto 1795 dall’Arciprete Luigi Marini nel Liber III Mortuorum 1786-1827 presente nell’Archivio Parrocchiale di San Leo, riporta che morì il giorno 26 agosto 1795 alle ore 3 dopo mezzanotte (sub horam 3 cum dimidio noctis), e, nell’ultima riga in fondo alla pagina, precisa che: […] fu tumulato hora 23 del giorno sopraddetto (del 28 agosto, data di stesura dell’Atto), sul ciglio del monte che guarda a occidente […] sul terreno della R.(everenda) C.(amera) A.(postolica). La data di morte dichiarata dell’Arciprete Marini è ufficialmente accettata, anche se nella Rivista ufficiale dei Gesuiti la Civiltà Cattolica del 4 gennaio 1879 è scritto che: […] serrato nella Fortezza di San Leo e sorpreso da un colpo di apoplessia il dì 21 agosto 1795 senza aver dato alcun segno di religione Cagliostro pose fine al suo romanzo che interessò l’Europa, e anche se nella lettera inedita del 29 agosto 1795, trovata tra le carte del gesuita padre Antonio Bresciani, co-fondatore della Rivista La Civiltà Cattolica, il Castellano Comandante la Fortezza, conte Sempronio Semproni, così si esprime: […] nel giorno 21 dell’andante verso il mezzogiorno fu colpito da forte apoplessia il rilegato Giuseppe Balsamo detto Cagliostro, per cui fu dalla guardia ritrovato affatto privo di sentimenti e cognizione […] in tale stato sopravvisse fin circa le ore quattro della stessa sera in cui dovette cedere alla violenza del male e spirò. Per istruzione del nostro Vescovo, è stato questi, per essere sempre vissuto con massime decise da vero eretico né avere dato mai segno di resipiscenza, sepolto fuori di luogo sacro e senza formalità alcuna ecclesiastica. Una versione ambigua, invece, è quella riportata nella lettera di Mons. Fernando Maria Saluzzo, Arcivescovo di Cartagine e Legato Pontificio di Pesaro e Urbino, inviata dalla sede di Urbino al Segretario di Stato Pontificio, il Cardinale Francisco Xaverio de Zelada (nella foto), il 28 agosto 1795, che così recita: […] egli – il Castellano Sempronio Semproni - mi dice dunque che, sorpreso verso il mezzodì (non è precisato se si tratta del 21 o del 26 agosto) il detto Rilegato da un forte colpo di apoplessia, la sera medesima sulle ore quattro cessò di vivere. La diversa indicazione della data reale di morte è tale da suggerire che qualcosa di poco chiaro avvenne in quel periodo a San Leo. Ma non è in discussione solo la data di morte; sulla base della ricerca fatta nel 1962 dal letterato e storico del Montefeltro, l’erudito latinista Italo Pascucci (deceduto nel 1992), stante quanto riportato dall’Arciprete Marini nell’Atto, anche tutto l’orario andrebbe rivisto. Infatti, secondo le sue dotte osservazioni, la morte sarebbe realmente avvenuta alle ore 22,17 (così ha interpretato la dizione sub horam 3 cum dimidio noctis) di martedì 26 agosto 1795, e di conseguenza (però Pascucci non lo conferma espressamente) anche il triste funerale, con successivo seppellimento, dovrebbe essere anticipato, cioè avrebbe avuto luogo alle ore 18,15, invece che a hora 23, del 28 agosto. Anche sulla certezza di questa triste cerimonia pesano seri dubbi. L’unica conferma a quanto successe allora, viene dalle parole di un leontino di nome Marco Perazzoni, sedicente testimone diretto, il quale nel 1878 affermò che vi aveva assistito quando aveva nove anni. Tuttavia, anche se questa versione è finora accettata dagli storici, data la presenza di parecchi aspetti controversi e lacunosi, è necessario analizzarla in modo critico. La prima considerazione è la seguente: era assolutamente impossibile che Marco Perazzoni avesse conosciuto il Cagliostro vivo e morto (come da sue parole) dati i severissimi ordini a proposito dei contatti che il conte avrebbe dovuto avere durante la prigionia a San Leo. Nessuno, e tantomeno un bambino di nove anni, poteva riconoscerlo perché nessun altro paesano, salvo il Castellano Comandante la Fortezza (il conte Sempronio Semproni), il Medico del Forte (il dottor Giulio Cesare Pazzaglia), il Tenente Pietro Gandini (Comandante la guarnigione di San Leo), l’Aiutante Marini, il caporale Antonio Nalini, i preti addetti alla Parrocchia e i pochi soldati della guarnigione della Fortezza adibiti alla sua diretta custodia (tra cui c’era anche Gerolamo Venturini detto il Rosso, il quale avrà un ruolo importante nella sua fuga dalla bocca del leone della Fortezza, come vedremo in seguito), l’aveva mai visto in faccia. Lo confermano sia la lettera del Tenente Pietro Gandini al Segretario di Stato Pontificio, il Cardinale Francisco Xaverio de Zelada, del 22 aprile 1791, che fa terra bruciata intorno al conte: […] non entrerà in Città più di sicuro gente incognita ed in numero molto, meno che mai in Fortezza, che anche tra i paesani, la ridurrò come una rigorosa clausura di monache, sia, soprattutto, quella dello stesso Segretario di Stato del luglio 1791, che dà comandi precisi, diretti e indiscutibili: […] per ordine pontificio, non deve avere veruna sorte di commercio con alcuno, niuno deve parlargli nonché vederlo. Pertanto, poiché era assolutamente proibito non solo discorrere con lui, ma addirittura guardarlo in viso, l’affermazione di aver conosciuto il Cagliostro vivo e morto, è del tutto discutibile. In aggiunta a ciò, e a conferma dei dubbi sulla sua versione (così letteralmente disse: […] Io ho conosciuto il Cagliostro vivo e morto; era un uomo di mezzana statura con una barba bianca e lunga, vestiva tutto di bianco e non era brutto […] Quando il conte morì io avevo sette anni e mi ricordo benissimo il suo seppellimento. Mi sembra di vedere scendere dal Castello quattro portatori, reggendo sulle spalle la salma del Balsamo, adagiata su una mezza imposta di una porta. I portatori, affaticati, stanchi e sudati, per riposarsi, ad un certo punto deposero il cadavere sopra il parapetto del pozzo che esiste in piazza ed andarono a bere un bicchiere di vino, poi tornarono, ripresero il tragitto ed andarono al luogo del seppellimento. Io, che ero tenuto per mano da un mio parente, seguii il triste convoglio che, non assistito da nessun sacerdote, assumeva un sinistro carattere di diabolica desolazione. A quella vista, i rari passanti si allontanavano frettolosamente, facendosi il segno CortilediSanLeo della croce. Scavata la fossa, vi calarono il morto; sotto il capo vi misero un grosso sasso e sul viso un vecchio fazzoletto, quindi lo ricopersero di terra. Quel vecchio fazzoletto rappresentava la pietà umana. Qualche anno dopo vennero i polacchi ad occupare il Forte e dettero la libertà ai condannati che, scavata la fossa insieme due soldati, presero il cranio di Cagliostro e vi bevvero dentro, nella cantina del conte Nardini di San Leo), mi permetto anche di esprimere alcune spontanee e semplici osservazioni, dettate solo dal buon senso e dalle perplessità suscitate dalla fin troppo accurata descrizione fatta da Marco Perazzoni: 1) innanzi tutto, il clima: le condizioni del tempo a San Leo alla fine di agosto, a quell’ora (dopo le 18) e a quell’altezza (circa 583 msm) ieri, come oggi, non sono tali da giustificare, per quattro portatori affaticati, stanchi e sudati, la necessità di fare una sosta in osteria per riposarsi e per rinfrescarsi bevendo un bicchiere di vino. Peraltro, i dati offerti dal Direttore dell’Osservatorio Astronomico dell’Università di Bologna a Italo Pascucci hanno rilevato che, allora, il sole tramontava proprio tra le ore 18 e le ore 19. Va altresì precisato che, pur non avendo precise informazioni sulle reali condizioni meteorologiche di quel giorno, nel 1795, stante le cronache dei contemporanei, il mese di gennaio fu freddissimo in tutta Italia, specie al centro-nord, e le gelate durarono a lungo tanto che in primavera e in estate il clima fu peggiore rispetto agli altri anni. Pertanto, in tali condizioni ambientali sarebbe stato più logico accelerare il passo per completare al più presto una mesta cerimonia che assumeva un sinistro carattere di diabolica desolazione, e non certamente indugiare, anche se i motivi addotti dai quattro portatori erano più che validi. Tuttavia, c’è un’altra considerazione più importante: il presunto cadavere del conte era in attesa di essere tumulato già da quarantotto ore, e, per quanto custodito al fresco nella sua cella, non era stato né inserito in una bara, come d’uso, né avvolto in un sudario, tanto che fu visto dallo stesso Perazzoni, per cui le stesse condizioni igieniche avrebbero consigliato di non soffermarsi, e di compiere l’operazione al più presto possibile. Anche per gli occasionali presenti, cioè i rari passanti, compreso il Perazzoni (che allora aveva nove anni e non sette, come da lui stesso dichiarato), non sarebbe stato certamente uno spettacolo piacevole, e l’eventuale riconoscimento diretto difficile, soprattutto per la presenza delle deformazioni post mortem del corpo, secondarie anche al violento attacco di apoplessia, come dice l’Arciprete Marini nell’Atto di morte. Quest’osservazione vale se il cadavere fosse stato quello del conte di Cagliostro, morto ormai da due giorni; se, invece, si fosse trattato del corpo di un altro, morto da meno tempo, allora si spiegherebbe come mai abbia potuto svolgersi tutta la triste cerimonia descritta dal Perazzoni senza che questi particolari ne avessero impedito il riconoscimento. In conclusione, se è vera la versione data da Marco Perazzoni, con tutti i particolari del trasporto del cadavere, di chi era il corpo descritto in modo così generico e anonimo: un uomo di mezzana statura con una barba bianca e lunga, vestito tutto di bianco, e non era brutto? Sicuramente non era quello del defunto rilegato Alessandro conte di Cagliostro alias Giuseppe Balsamo! Forte, invece, è il sospetto che questa sosta avesse avuto come unico scopo la “spettacolarizzazione” del triste convoglio che assumeva un sinistro carattere di diabolica desolazione, e chiunque ne fosse stato coinvolto avrebbe potuto attestare un fatto realmente accaduto; 2) in secondo luogo, l’opportunità: infatti, a chi, anche se interessato o curioso, sarebbe venuto in mente di seguire il triste convoglio per un tragitto non così breve dalla Fortezza fino al generico punto di seppellimento, assistendo alla lugubre cerimonia? Di sicuro, non a un bambino, pur accompagnato da un parente adulto; 3) infine, un’ultima considerazione: la nuova versione dell’orario proposta da Italo Pascucci è incompleta, per cui, a maggior ragione, l’episodio descritto dal Perazzoni non corrisponderebbe al vero; non coincidendo l’ora del seppellimento, neanche i fatti da lui riportati sarebbero credibili. Infatti, il latinista si dilunga solo sulla spiegazione della dizione latina dell’ora di morte di Cagliostro riportata nell’Atto (sub horam tertiam cum dimidio noctis, cioè verso le ore tre dopo la mezzanotte, che secondo i suoi calcoli diventano le ore 22,17) ma non entra nei particolari di quella del seppellimento così scritta, in numero arabo: hora 23, che resterebbe in realtà confermata. Pertanto, se allora erano veramente le ore 23, che ci faceva un ragazzino a quell’ora di notte in giro con un accompagnatore? Chi erano allora i frettolosi passanti che si aggiravano nottetempo nel paese di San Leo? A quell’ora c’erano ancora osterie aperte? Se non faceva tanto caldo verso sera, figuriamoci di notte! Insomma, la descrizione fornita dal Perazzoni, così come da lui entusiasticamente espressa nel 1878 al Prelato Oreglia di S. Stefano, a sua volta interpellato da don Giovanni Tucci, parroco di San Leo, affinché ottenesse dalla viva voce dei suoi fedeli un ricordo del conte di Cagliostro, data anche la posizione del pozzo, inesistente a quell’epoca, stante quanto dettagliatamente precisato da mio padre nel suo volume pubblicato nel 1790, suscita parecchie perplessità. Pertanto, nel migliore dei casi possiamo considerarla come il risultato dei vaghi ricordi d’infanzia di un nonagenario; oppure, se ipotizziamo di peggio, rappresenta una testimonianza indotta forzatamente, e maldestramente, a tanti anni di distanza dall’evento proprio per fornire spontanee versioni in grado di confermare in modo definitivo il seppellimento di un corpo che doveva, comunque, essere attribuito al conte di Cagliostro. C’è da aggiungere che questa testimonianza, insieme a quella della leontina di settantotto anni Eugenia Tucci, compare in un articolo pubblicato nel numero del 4 gennaio 1879 della Rivista dei Gesuiti (allora difensori dell’ortodossia della Fede) La Civiltà Cattolica, nel quale viene discusso un unico tema: il ruolo negativo della Massoneria in generale, e del conte di Cagliostro in particolare, nella società laica d’inizio e di fine secolo diciannovesimo. L’intento era quello di criticare il loro pensiero e di dimostrare che l’eresia era ancora viva e presente nel tessuto sociale contemporaneo. Trattasi, pertanto, di una presa di posizione non obiettiva, ma totalmente di parte, che, utilizzando a pretesto alcune informazioni, aveva una precisa finalità. In definitiva, per ottenere ciò, si volle approfittare della pronta disponibilità a collaborare, ma soprattutto dell’ingenuità di una persona anziana qual era il leontino Marco Perazzoni, carpendogli la fiducia e sfruttando la sua semplicità per fargli affermare cose che, per tutti quegli anni e fino a quel momento non aveva mai comunicato a nessuno, e di cui, forse, serbava solo un lontano e confuso ricordo. In realtà, tutto è discutibile e nulla corrisponde al vero: la data, l’orario e l’accertamento della morte, il ricupero del cadavere, l’Atto di Morte, il trasferimento fuori le mura e il seppellimento. E, naturalmente, anche l’episodio fasullo dei soldati dell’Armata francese che, all’indomani della presa di San Leo nel 1798, bevono nel suo cranio, fa parte della leggenda. Solo l’impenitenza fu accettata, in spregio agli episodi fasulli dell’abiura a Roma nel 1791. Bisognava far credere che Cagliostro fosse morto per vie naturali e fosse stato sepolto in luogo non ben precisato e in terra sconsacrata, per offenderlo anche dopo la morte. Si volevano evitare pellegrinaggi postumi per stroncare sul nascere tutti i dubbi sulla vicenda. Per quanto riguarda, invece, le circostanze della morte, è assai interessante la versione riportata da Gian Luigi Berti nel libro del 1995: La vera fine di Cagliostro. Latorre La sua descrizione degli eventi che videro la morte di Cagliostro, alla luce del documento originale del 1854, da lui casualmente ritrovato tra le pagine ingiallite di una vecchia copia del Compendio di Mons. Berberi, riguardante: […] un manoscritto stilato con grafia amanuense abbastanza leggibile, in inchiostro color seppia e inserito tra le pagine 198 e 199, e analizzato nel testo, non solo non è in contrasto con quella fornita da mio padre Raffaele nel volume citato, ma addirittura conferma l’intuizione da lui espressa che: […] un fatto nuovo, inaspettato, non previsto, eccezionale dovette accadere nella Fortezza lasciando tutti sbalorditi e generando in tutti un’immaginabile confusione. Per quanto mio padre non avesse avuto l’opportunità di leggere il volume di Gian Luigi Berti, tuttavia le due versioni avrebbero parecchie analogie. La scomparsa delle Lettere del Carteggio dal 26 aprile in poi, come messo in evidenza da mio padre, effettivamente fa supporre che qualcosa di molto nuovo e sicuramente inaspettato era accaduto: il tentativo di fuga andato a male? Grande confusione e sconcerto traspaiono anche dall’analisi della fitta corrispondenza intercorsa dal 27 al 29 agosto del 1795 tra il Cardinale Francisco Xaverio de Zelada (Segretario di Stato Pontificio), il conte Sempronio Semproni (Castellano Comandante la Fortezza di San Leo), e il Cardinale Ferdinando Maria Saluzzo (nuovo Legato Pontificio di Pesaro e Urbino). Quale poteva essere la causa di queste perplessità? Già il conte, tempo prima, aveva cercato di fuggire da San Leo senza successo, così come riportato sia da Luigi Natoli nel suo libro: Cagliostro, sia da Gian Luigi Berti; tuttavia, tutto fa supporre che Cagliostro, in seguito, avesse fatto un nuovo tentativo con l’aggressione al frate cappuccino e, dopo il trauma subìto (così come descritto nel manoscritto anonimo), fosse veramente entrato in uno stato di malinconia in attesa della morte naturale del povero Michele Rinaldi (rilegato di 89 anni che morì il 26 agosto 1795, cioè nella stesso giorno attribuito al conte), e con l’intenzione di aggiungere il proprio corpo, ormai ritenuto cadavere dopo le inutili stimolazioni (ma in realtà in stato di catalessi volontaria) al suo con l’aiuto della guardia Gerolamo Venturini, detto il Rosso. Non era forse dote del conte, mago e occultista, conoscere i Misteri della Vita e della Morte e controllare le Forze della Natura? Nella Fortezza di San Leo vigeva l’usanza di gettare i cadaveri dei detenuti “comuni” giù dalla torre per essere eventualmente raccolti in seguito, e lì sommariamente seppelliti; Cagliostro era un “detenuto particolare” meritevole di un “diverso trattamento”, ma Michele Rinaldi no, lui era solo un “rilegato comune”. In questo modo sarebbe scappato per sempre, calato con lui dalla Rupe, una volta dichiarati entrambi defunti, e, finalmente lontano dal carcere che l’aveva tenuto ben stretto per più di cinque lunghi anni (esattamente, quattro anni, quattro mesi e cinque giorni), nessuno avrebbe più trovato il suo corpo, dando così luogo a fantasie e a leggende, come se si fosse letteralmente volatilizzato. Ecco lo stratagemma: prima la finta conversione, poi le botte del cappuccino e, infine, la catalessi (vuoi per i pugni subiti vuoi per malinconia per l’insuccesso, oppure per entrambi i motivi) diagnosticata col termine generico di apoplessia, in attesa della vera morte di Rinaldi, che già da qualche tempo agonizzava nella sua cella. Quest’ipotesi non è frutto di fantasia, ma si basa su testimonianze ufficialmente documentate; infatti, nella già citata Civiltà Cattolica del 4 gennaio 1879 è riportata, alla pagina 103, anche la deposizione di Eugenia Tucci, leontina di circa settantotto anni, che, interrogata nel 1878, così depose: […] di aver inteso sempre dire dalla sua madre che il Cagliostro tentasse di strozzare un frate, che egli aveva chiesto con il pretesto di confessarsi, con l’intenzione di vestirsi dei suoi abiti e così fuggire dalla prigione – evento documentato dal manoscritto anonimo ritrovato e divulgato da Gian Luigi Berti – e che lo stesso Cagliostro più volte si finse morto e durava qualche tempo a starsene come senza fiato per essere sepolto e così evadere – circostanza che conferma l’ipotesi prospettata da mio padre, il quale precisa anche che si era allenato talmente bene, e a lungo, a indurre nel proprio corpo uno stato di catalessi profonda, da riuscire a simulare una morte reale per poter poi evadere insieme al cadavere di Michele Rinaldi, così come presumibilmente avvenne, con la complicità di Gerolamo Venturini - e che i medici, per farlo rinvenire, gli davano fuoco sotto la pianta dei piedi – procedura attestata dalle testimonianze dell’epoca - il che fecero per l’ultima volta. L’episodio non è datato nel manoscritto trovato dal Berti; tuttavia potrebbe essere accaduto il 21 agosto 1795, giorno riportato sia nella Rivista Civiltà Cattolica del 4 gennaio 1879 sia nella Lettera inedita del Castellano di San Leo al Segretario di Stato del 29 agosto 1795. Questa data è inoltre accennata anche nelle due lettere inviate il 27 agosto 1795 al Segretario di Stato de Zelada da Mons. Fernando Maria Saluzzo, Legato Pontificio di Pesaro e Urbino, il quale, dopo aver rilevato: […] alcune circostanze che mi riescono nuove, afferma: […] che si sta attualmente occupando non solo di inviare a Vostra Eminenza i più dettagliati schiarimenti, ma soprattutto:[…] per poter combinare ancora quell’accomodamento che si degna pormi in veduta, onde soddisfare le autorevoli premure dell’Eminenza Vostra. Il testo anonimo citato nel libro di Gian Luigi Berti così riporta: […] dopo questo fatto vedendo di non poter più sfuggire la stretta del carcere, venne in tanta malinconia che alla fine di agosto 1795 fu colpito da un attacco di apoplessia che il percosse a morte. Pertanto, il conte non sarebbe morto subito dopo le botte del frate, e lo stato di malinconia sarebbe durato dal 21 al 26 agosto, data del decesso di Rinaldi, quando effettivamente entrò in catalessi prima di avere un attacco di apoplessia. Secondo un’altra ipotesi, invece, potrebbe avere subìto il trauma da parte del frate il 21 agosto ed essere entrato di lì a poco in catalessi, definita anche vagamente come uno stato di malinconia, fino a essere dato per morto a causa di apoplessia il 26 agosto. Comunque si siano svolti i fatti e qualunque sia la versione da attribuire all’andamento degli eventi, la sostanza non cambia; in ogni caso sarebbe fuggito utilizzando i modi sopra descritti. A prescindere dalla data d’inizio della catalessi, e dopo l’accertamento di morte, il corpo del conte, infatti, calato dalle mura della Fortezza insieme a quello del Rinaldi, sarebbe sparito per sempre dalla vista dei carcerieri. Tuttavia, superato l’iniziale smarrimento dei suoi custodi, tutto fu messo a tacere da parte della Curia, e si dichiarò il conte ufficialmente morto il 26 agosto dell’anno suddetto verso le ore tre dopo la mezzanotte. Non c’è certezza di chi fosse il corpo trasportato e sepolto dove riferisce l’Atto di Morte stilato dall’Arciprete Marini; infatti, come già detto, nessuno, nemmeno il Perazzoni, avrebbe potuto riconoscerlo giacché a pochi era noto il suo volto, stante quanto scritto nella lettera che il tenente Pietro Gandini inviò il 22 aprile del 1791 al Cardinale de Zelada: […] niuno tra i viventi vedrà più la faccia del surriferito Relegato, ed io giammai non permetterò, che egli mi parli in secreto (temeva qualche sortilegio, oppure, più verosimilmente, di essere ipnotizzato?) ed in confidenza in Città non entrerà più di sicuro gente incognita o in numero; molto meno poi in Fortezza, che anche per i paesani la ridurrò come una rigorosa clausura di monache, e stante quanto rigorosamente imposto dal Segretario di Stato Pontificio Xaverio de Zelada, e ribadito nel mese di luglio del 1791 dal Legato Pontificio di Pesaro e Urbino, il Cardinale Doria Pamphili, predecessore di Mons. Saluzzo: [...] egli, per ordine pontificio, non deve avere veruna sorte di commercio con alcuno, niuno deve parlargli nonché vederlo […] è stato insomma proibito perfino di discorrere con lui. Pertanto, nessuno avrebbe potuto confermare, con sicurezza, che quello era il cadavere di Cagliostro. In caso contrario, e alla presenza di seri dubbi, difficile e triste sarebbe stata l’ammissione che l’imprendibile preda era veramente sfuggita al cappio della Chiesa! Su tutta la faccenda, avvolta nel più fitto mistero, fu imposta segretezza assoluta, che fu rispettata rigorosamente. Ma poi, ci fu veramente una sepoltura là dove riferisce l’Atto? Se si mette in dubbio la testimonianza del Perazzoni, come dimostrato da mio padre e come da me ribadito, si può anche dubitare di quanto scritto nell’Atto di Morte; cioè, si può supporre che, pur considerando la confusione sulle date – 21 o 26 agosto? – non solo non ci fu l’evidenza della morte di Cagliostro, dichiarata nell’Atto, ma neanche un suo mesto funerale e tantomeno una sepoltura, poiché non c’è sicurezza nemmeno del posto. Infatti, mentre l’Atto di Morte del 28 agosto, compilato dall’Arciprete Marini, dice che: [...] il cadavere fu tumulato sul ciglio del monte che guarda ad occidente, quasi ad uguale distanza fra le due torri destinate alle sentinelle, comunemente note con il nome «il Palazzotto» il «Casino» sul terreno della R(verenda) C(amera) A(postolica) il giorno del suddetto mese alle ore 23, il testo anonimo riportato da Berti così precisa: […] fu sepolto come bestia a piè del muro della torretta e vi restò fino in sino al 1797; cioè sarebbe stato sepolto in luogo diverso da quello descritto nell’Atto di Morte. Inoltre, in una lettera del 4 settembre 1795 del Cav. Luigi Angiolini, Ministro del Granduca di Toscana presso la Corte di Roma, così è scritto: […] quel provvido Castellano Semproni […] l’ha fatto seppelire in un legnaio dove gli erano sempre rubate le legna, all’oggetto che i ladri possano in avvenire avere spavento di un uomo così temuto nell’approssimarvisi. Pertanto, dove fu veramente seppellito il cadavere attribuito a Cagliostro? Chi ha effettivamente ragione? E, soprattutto, di chi era il corpo? Domande, per ora, senza risposta. Insomma - pensava il conte di Cagliostro - con l’atto di aggressione al frate e a seguito della sua violenta reazione, si sarebbe attribuito credito e colpa della sua morte a un rappresentante della Chiesa stessa, però, senza che il cadavere fosse rinvenuto. Cioè, sarebbe semplicemente sparito nel nulla; tutto qui. Il progetto del conte, così com’era sua intenzione, avrebbe gettato i paesani di San Leo, gli occupanti della Fortezza, e naturalmente i Prelati della Curia di Roma, nel più cupo terrore di essere tutti vittime di un atto di stregoneria, di un rito magia nera. Che strano destino; il Tribunale della Chiesa Cattolica Romana lo cattura, dopo lunghe indagini l’incolpa di vari reati gravi, lo processa, emette la Sentenza, lo grazia dalla pena capitale con la sua Santa Pietà, ma soprattutto per non creare un martire massone vittima delle atrocità papaline, proprio come scritto in un articolo del Corriere della Sera del 16 dicembre 1995, l’imprigiona a vita in attesa del suo pentimento, ma sarà proprio per mano di un modesto frate cappuccino che andrà incontro alla morte! Se questo era il piano di fuga, allora il progetto di Cagliostro fu veramente diabolico: scomparire per sempre, senza lasciar traccia del proprio corpo, fingendo la morte per mano e per colpa dei carnefici a dispetto della Sentenza che voleva punirlo, e umiliarlo, con la detenzione perpetua senza alcuna speranza di Grazia da parte del Papa e della Chiesa di Roma. Così, infatti, scrive Luigi Natoli, riferendo la risposta di Cagliostro al Commissario Ludovico Stefani che voleva percuoterlo con un nerbo per fargli confessare i nomi degli eventuali complici nella sua precedente fuga: [...] in realtà il frate cappuccino avrebbe dovuto renderne conto al Papa perché avrebbe appunto disubbidito alla sua volontà, che è di farmi morire lentamente [...] avrebbe annullato la sentenza del Sommo Pontefice. Il Commissario Stefani desistette, il frate cappuccino, pur non intenzionalmente ma solo per difesa, no. In tal modo, mentre lui era libero, la Storia si sarebbe ricordata di un’altra ingiustizia compiuta nei suoi confronti. Purtroppo ancora una volta si dimostrò ingenuo; tutto fu insabbiato e messo a tacere con la solita ipocrisia. Fantasia? A volte le ipotesi da romanzo sono più corrispondenti alla realtà di quanto ci si possa immaginare.