indipendenza ! n.16 - GianMarco Dosselli Scrittore

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indipendenza ! n.16 - GianMarco Dosselli Scrittore
n.43 ANNO IX
QVADERNI DI STORIA
30/01/2011
INDIPENDENZA !
N.16
di Ernesto Zucconi, Toni Liazza, Gianfranco Spotti,
Eleonora Fontana, Harmwulf
Scriveteci a: [email protected]
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PREFAZIONE
IL TRADIMENTO É L’AZIONE PIÙ SPORCA,
DEGRADANTE E VIGLIACCA CHE POSSA
COMPIERE UN UOMO
GRAZIE E ONORE
A QUEI POCHI CHE RESISTETTERO EROICAMENTE
IN ARMI ALL’INVASIONE DELLA NOSTRA PATRIA E
AI LORO ALLEATI GERMANICI.
PER MERITO LORO NON SI POTRA MAI DIRE CHE
L’ITALIA TRADÍ,
MA CHE SOLO UN RE FELLONE E LA SUA CRICCA
DI AFFARISTI CONSEGNÓ LA NAZIONE AL NEMICO,
MENTRE LA
REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA
CONTINUÓ A RAPPRESENTARE E DIFENDERE LA
PROPRIA TERRA.
CHE LO SI VOGLIA AMMETTERE O NO, I FASCISTI
REPUBBLICANI FURONO GLI UNICI, AD OGGI, A
COMBATTERE IN ARMI GLI INVASORI AMERICANI
Ezio Sangalli
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IL TRADIMENTO E LA RESA
L’8 settembre 1943 il Capo del Governo, Pietro Badoglio, diffuse a mezzo radio la
notizia del cosiddetto armistizio concluso tra l’Italia e gli anglo-americani. La precisione
del linguaggio è fondamentale quando si tratta di eventi storici: abbiamo usato
l’aggettivo cosiddetto nel qualificare come armistizio (così come viene sempre indicato)
quel documento, e ne vediamo subito le ragioni.
Intanto la parola armistizio deriva dal francese armistice, vocabolo composto dal latino
arma+stare (fermarsi): esso equivale a tregua, ossia accordo con cui si stabiliscono le
clausole per una sospensione
temporanea delle ostilità tra
eserciti belligeranti; accordo che
tuttavia non fa cessare lo stato
di guerra, mentre i contendenti
rimangono formalmente su un
piano di parità nell’avanzare
ciascuno le proprie richieste.
Invece il documento firmato
dal
generale
Giuseppe
Castellano
in
qualità
di
rappresentante
del
nostro
Governo,
a
Cassibile
in
provincia di Siracusa il 3
settembre 1943 (vale a dire
cinque giorni prima che ne
fosse dato l’annuncio via radio
La firma del disonore. La guerra a fianco dei
in base a quanto ordinato dagli
tedeschi non conviene più,: si "volta gabbana"
anglo-americani), era di fatto
l’accettazione di resa incondizionata imposta dai vincitori. Sottoscrivere una resa
incondizionata vuol dire sottostare al libero arbitrio del detentore, il quale impone le
proprie regole di assoggettamento. Questo fu il caso dell’Italia in quelle circostanze.
Moltissimi italiani, inconsapevoli della reale portata di quegli eventi, a tutta prima
esultarono credendo che la guerra fosse finita. Purtroppo non era così e il peggio
doveva ancora arrivare.
Come si era giunti a tal punto è presto detto. La guerra, a partire dal 1943, stava
volgendo decisamente a sfavore dell’asse Roma - Berlino. L’ingresso degli Stati Uniti a
fianco dell’Inghilterra e dell’Unione Sovietica aveva cominciato a far pesare la disparità
delle forze in campo e, soprattutto, dei mezzi a disposizione. Gli americani, sbarcati in
Africa, avevano aiutato in primavera gli inglesi a sconfiggere gli italo-germanici, quindi,
dalle sponde della Tunisia, si erano affacciati sul Mediterraneo e avevano invaso la
Sicilia risalendo la Penisola. Certo, la situazione per il nostro Paese era critica e
s’imponeva l’ovvia necessità di prendere decisioni di importanza capitale: logico, in
quelle condizioni, esaminare semmai l’uscita dal conflitto nella maniera più pulita e
indolore possibile. Purtroppo le determinazioni prese allora rappresentarono la soluzione
peggiore e indegna.
Intanto si nascondeva all’alleato tedesco - presente con i nostri soldati a difendere il
Paese - la decisione di resa, mentre si sperava in un subitaneo quanto irrealizzabile
controllo territoriale da parte degli anglo-americani. In più, centinaia di migliaia di nostri
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militari, dislocati nell’immenso alla Jugoslavia, dalle isole greche alla Francia), venivano
lasciati in balìa della sorte da un comunicato volutamente ambiguo quanto deleterio, nel
quale infatti si diceva che, nell’impossibilità di continuare una lotta impari, il nostro
Governo aveva concluso un armistizio col nemico contro cui le nostre Forze Armate
cessavano le ostilità, salvo reagire ad attacchi provenienti da qualsiasi altra parte. Ora,
l’altra parte non poteva essere che quella rappresentata dai tedeschi i quali, dopo aver
lottato a fianco a fianco per tre anni con gli italiani, improvvisamente si vedevano rivoltar
le armi contro. La loro risposta non poteva pertanto essere che il disarmo e il
conseguente internamento dei nostri soldati. E se questi reagivano, venivano annientati
(basti pensare al caso di Cefalonia). Ricordiamo che formalmente noi restavamo alleati
della Germania, la dichiarazione di guerra avverrà soltanto nell’ottobre successivo.
A questo punto i dilemmi che potevano aver nutrito la gran parte degli ufficiali, si
tramutarono in vera e propria angoscia, soprattutto quando fu noto il diktat del 3
settembre firmato da Castellano e consistente in 12 punti: il cosiddetto corto armistizio,
così chiamato per distinguerlo dall’altro, più dettagliato, che verrà sottoscritto il 29 a
Malta, nel possedimento inglese dove si andò a consegnare la nostra flotta.
La rivista inglese The Nineteenth Century, nel numero dell’ottobre 1943, rilevava che i
termini accettati dall’Italia erano incomparably harsher, incomparabilmente più duri di
quelli che Hitler aveva imposto alla Francia (la quale aveva potuto mantenere la flotta e
non era stata costretta a combattere l’alleato). Ecco il commento di Attilio Tamaro (Due
anni di storia): Era uno strumento di debellazione, di umiliazione, invalido sotto certi
aspetti, in quanto la maggior parte degli articoli erano ineseguibili […] non teneva conto
della situazione reale. Ed era così composto, che, ben lontano dall’assicurarci la pace
voluta dal popolo italiano, ci costringeva ad attaccare i tedeschi.[…] Dovevamo, per i
capitoli 6 e 7, rendere tutto il territorio nazionale, tutti i porti e tutti gli aeroporti: implicava
scacciarne con le armi i tedeschi, che gli alleati sapevano ovunque installati con forze
cospicue. Eisenhower, Alexander o Smith non erano così puerili da immaginare che i
tedeschi, udita la notizia dell’armistizio, se ne sarebbero andati dall’Italia mettendo a
disposizione loro la potente posizione strategica: dunque noi per rendere quanto ci
domandavano e noi c’impegnavamo a dare, dovevamo prima riprendercelo con le armi.
Con ciò gli alleati ci costringevano a una collaborazione militare, allo sbaraglio, senza
coordinazione di piani e senza contrattazione politica, sottoponendoci a una vera servitù
militare. Creavano però una situazione insostenibile, che sarebbe precipitata
rovinosamente, con nostro infinito danno […].
Il capitolo 8, che ci obbligava a ritirare tutte le truppe che erano di là dalle frontiere, nei
Balcani e in Francia, si risolveva in una tortura. A parte la miserabile manovra, per cui,
mentre ci dicevano possibile il ritiro delle unità stanziate in Grecia per la via del mare, gli
alleati ci toglievano invece le poche navi mercantili rimasteci e ci rifiutavano le loro,
appariva ben chiaro, come conseguenza del detto capitolo, questa triplice ipotesi: quelle
truppe o combattevano contro i tedeschi, pur sapendosi sconfitte a priori, o si
arrendevano ai tedeschi, passando magari dalla loro parte per ragioni politiche, o si
dissolvevano. Si realizzarono poi tutti e tre i casi, non certo l’esigenza del capitolo
d’armistizio, rimasto lettera morta, ma costato a noi tanto sangue e tanto onore.
Tutti conoscono la risoluzione presa dal principe Junio Valerio Borghese e della sua
Decima Mas immediatamente dopo l’8 Settembre: continuazione della guerra a fianco
dell’alleato tedesco, in posizione non subalterna ad esso e inoltre senza rivendicazione
di etichette politiche, ma con l’unica elevata finalità di difendere il Paese. Borghese, anni
dopo, così ricorderà la sua scelta: All’8 settembre, al comunicato di Badoglio, piansi. […]
Quel giorno io ho visto il dramma che cominciava per questa nostra disgraziata nazione
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che non aveva più amici, non aveva più alleati, non aveva più l’onore ed era additata al
disprezzo di tutto il mondo per essere stata incapace di battersi anche nella situazione
avversa. […] L’8 settembre ci ha messo di fronte a molti dilemmi, a esami di coscienza,
alle responsabilità da prendersi verso noi stessi, verso le istituzioni alle quali
appartenevamo, per me la Marina, e verso gli uomini che da noi dipendevano. Quindi,
cominciato a pesare fattori di ordine spirituale e politico. […] E decisi la mia scelta. Non
me ne sono mai pentito. Anzi, quella scelta segna nella mia vita il punto culminante, del
quale vado più fiero. E nel momento della scelta, ho deciso di giocare la partita più
difficile, la più dura, la più ingrata. La partita che non mi avrebbe aperto nessuna strada
ai valori materiali, terreni, ma mi avrebbe dato un carattere di spiritualità e di pulizia
morale al quale nessuna altra strada avrebbe potuto portarmi.
In ogni guerra, la questione di fondo non è tanto di vincere o di perdere, di vivere o di
morire: ma di come si vince, di come si perde, di come si vive, di come si muore.
Una guerra si può perdere, ma con dignità e lealtà. La resa e il tradimento bollano per
secoli un popolo davanti al mondo.
Uno degli aspetti più mortificanti della resa italiana fu la consegna della nostra flotta in
casa del nemico, in quanto la generale tradizione marinara, in casi simili, impone
l’affondamento del proprio naviglio.
Angoscia degli ufficiali italiani, abbiamo detto. Ne abbiamo un esempio emblematico in
Carlo Fecia di Cossato, Medaglia d’Oro,
asso dei sommergibilisti atlantici, che alla
fine di un periodo di tormentato conflitto
interiore, si tolse la vita nel 1944 dopo aver
scritto queste parole alla madre: […] Da
nove me si ho molto pensato alla tristissima
posizione morale in cui mi trovo, in seguito
alla resa ignominiosa della nostra Marina, a
cui mi ero rassegnato solo perché ci è stata
presentata come un ordine del Re, che ci
chiedeva di fare l’enorme sacrificio del
nostro onore militare per poter rimanere il
baluardo della Monarchia al momento della
pace. Tu conosci che cosa succede ora in
Italia e capisci come siamo stati
indegnamente traditi e ci troviamo ad aver
commesso un gesto ignobile senza alcun
risultato […].
Questo il pensiero di un antifascista,
Benedetto Croce, espresso nella sua lettera
di dimissioni a Bonomi che presiedeva il
Governo del Sud: […] Conoscendo i patti
della capitolazione, sapute le condizioni
tremende alle quali ci siamo vincolati per il
presente e per il futuro, viste ad una ad una
Carlo Fecia di Cossato
le clausole spietate che il popolo tuttora
sconosce e che se anche conoscesse forse non sarebbe in grado di valutare come noi
che eravamo chiamati a vigilare sulle sue sorti; udito dalla Sua parola, Eccellenza, che
niuno sforzo militare e veruno accorgimento diplomatico potrebbe modificare a nostro
vantaggio quei patti, mi è apparsa chiara l’inutilità assoluta dell’opera nostra.
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Ella sa bene che, invece, i patti all’atto della capitolazione non consentiranno agli
Italiani né di essere liberi né di lavorare liberamente, né addirittura di chiamarsi liberi.
[…] La prego perciò, istantaneamente, Eccellenza, di voler accettare le mie dimissioni,
assieme ai sensi della mia immutata e personale amicizia e devozione.
Il suo Benedetto Croce
Su Life del 20 luglio 1944 apparve un appello, firmato dai fuorusciti Toscanini,
Salvemini, Borgese, Della Piana, Venturi e Pacciardi, da cui stralciamo i seguenti passi:
[…] Quanto alle terre dell’impero in Africa, dichiariamo che l’Italia vi rinunzierà solo a
patto che anche gli altri Stati coloniali facciano altrettanto nei riguardi dei loro
possedimenti, da porsi tutti sotto il controllo di una consociazione internazionale
giacché, se l’Africa non è italiana, non si può nemmeno sostenere che sia francese,
belga, portoghese, spagnola o inglese.
Al popolo italiano non è stato dato nulla e non è stato promesso nulla, eccetto il
sarcasmo unito alla schiavitù. In fondo l’Italia è la vittima che deve pagare ogni cosa.
All’Italia è stato imposto un armistizio così vergognoso che le parti contraenti hanno
accettato di tenerlo nascosto al pubblico. Le ceneri della vergogna sono state sparse sui
resti di una Nazione […] Per lungo tempo noi sperammo che la morte del fascismo
significasse la vita dell’Italia. Ora l’Italia sta morendo.
Questo il clima in cui maturò la decisione da parte di un numero enorme di militari,
dalle alte cariche giù giù fino ai soldati semplici dell’Esercito, della Marina,
dell’Aviazione, di aderire alla Repubblica Sociale Italiana; imitati, in uno slancio di
volontarismo mai prima registrato, da una moltitudine di civili, ragazzi e giovinette,
animati tutti da un identico proposito: quello di seguire la via dell’Onore.
Ernesto Zucconi
8 SETTEMBRE: RESA
INCONDIZIONATA
OLTRE ALLE IMPOSIZIONI MILITARI, IL PROTOCOLLO FIRMATO
DA BADOGLIO CONTENEVA UMILIANTI CLAUSOLE DI
CARATTERE CIVILE CHE RIDUSSERO L’ITALIA A UNA PURA
ESPRESSIONE GEOGRAFICA
Il 29 settembre 1943 a Malta, sulla nave inglese “Nel-son” viene firmato dal generale
Eisenhower e dal Maresciallo Badoglio il protocollo definitivo di armistizio, aggiuntivo al
“corto armistizio” del 3 settembre. Il protocollo, formato da 44 articoli e che sancisce la
“resa incondizionata” dell’Italia, rappresenta il documento più umiliante e servile che una
Nazione in guerra abbia mai sottoscritto e giudicato dallo stesso nemico con profondo e
non nascosto disprezzo. Oltre alle imposizioni di carattere militare – già di per se stesse
iugulatorie – la “resa incondizionata” ne contiene diverse di carattere ‘civile’ che
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dimostrano ancora di più il livello di vile acquiescenza raggiunto da Badoglio di fronte
all’arroganza alleata. Ne riportiamo alcune.
Art. 14 (A) – Tutte le navi italiane mercantili, da pesca ed altre imbarcazioni, ovunque si
trovino, nonché quelle costruite o completate durante il periodo di validità del presente
atto, saranno dalle competenti autorità italiane messe a disposizione, in buono stato di
riparazione e di navigazione, in quei luoghi e per quegli scopi e periodi di tempo che le
Nazioni Unite potranno prescrivere... (B) – Tutti i trasporti interni italiani e tutti gli impianti
portuali saranno tenuti a disposizione delle Nazioni Unite per gli usi che esse
stabiliranno.
Art: 16 - ... Le autorità italiane si conformeranno alle disposizioni per il controllo e la
censura della stampa e delle altre pubblicazioni, delle rappresentazioni teatrali e
cinematografiche, della radiodiffusione e di qualsiasi altro mezzo di intercomunicazione
che potrà prescrivere il Comandante Supremo delle Forze Alleate.
Art. 20 – Senza pregiudizio alle disposizioni del presente atto, le Nazioni Unite
eserciteranno tutti i diritti di una Potenza occupante nei territori e nelle zone di cui all’art.
18, per la cui amministrazione verrà provveduto mediante la pubblicazione di proclami,
ordini e regolamenti. Il personale dei servizi amministrativi, giudiziari e pubblici italiani
eseguirà le proprie funzioni sotto il controllo del Comandante in capo alleato.
Art. 23 – Il Governo italiano metterà a disposizione la valuta italiana che le Nazioni Unite
domanderanno. Il Governo italiano ritirerà e riscatterà in valuta italiana entro i periodi di
tempo e alle condizioni che le Nazioni Unite potranno indicare, tutte le disponibilità in
territorio italiano delle valute emesse dalle Nazioni Unite durante le operazioni militari o
l’occupazione, e consegnerà alle Nazioni Unite senza alcuna spesa la valuta ritirata.(1) Il
Governo italiano prenderà quelle misure che potranno essere richieste dalle Nazioni
Unite per il controllo delle banche e degli affari in territorio italiano, per il controllo dei
cambi con l’estero, delle relazioni commerciali e finanziarie con l’estero e per il
regolamento del commercio e della produzione, ed eseguirà qualsiasi istruzione emessa
dalle Nazioni Unite relativa a dette o a simili misure.
Art. 25 (B) – Le Nazioni Unite si riservano il diritto di richiedere il ritiro dei funzionari
diplomatici e consolari neutrali dal territorio italiano occupato e a prescrivere e a stabilire
i regolamenti relativi alla procedura circa i metodi di comunicazione fra il Governo
italiano e suoi rappresentanti nei paesi neutrali e riguardo alle comunicazioni inviate da o
destinate ai rappresentanti dei paesi neutrali in territorio italiano.
Art. 26 – In attesa di ulteriori ordini, ai sudditi italiani sarà impedito di lasciare il territorio
italiano eccetto con l’autoriz-zazione del Comando Supremo delle Forze Alleate
Art. 33 (B) – Il Governo italiano consegnerà al Comandante Supremo delle Forze
Alleate qualsiasi informazione che possa essere prescritta riguardo alle attività sia in
territorio italiano sia fuori di esso, appartenenti allo Stato italiano, alla Banca d’Italia, a
qualsiasi istituto statale o parastatale italiano.
(1)– Si tratta di una clausola voluta dal ministro del Tesoro americano Morgenthau. Lo
stesso che nel febbraio del 1945, di fronte alla richiesta di uno sgravio finanziario
avanzata dal governo del Sud, in profonda crisi per l’invasione delle ‘amlire’ alleate,
dichiarava pubblicamente: «Se il governo di Roma avesse l’impudenza di ripetere una
simile richiesta, noi pretenderemmo il rimborso totale del costo dell’invasione (sic!!!) e di
tutte le spese accessorie».
UN MARESCIALLO BADOGLIO FASCISTA E INTERVENTISTA
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«UN SOLO GESTO LIBERATORIO: LA GUERRA»
Dietro la maschera paciosa e sorridente, c’è il Badoglio approfittatore del Regime, avido
di riconoscimenti e di prebende (è nota la sua avidità di denaro sfociata nel cumulo dei
suoi stipendi). E c’è il Badoglio senza scrupoli dei suoi 45 giorni di ‘regno’.
Lo scoppio del Secondo
conflitto mondiale era ormai alle
porte. Qual era, all’epoca, il
pensiero del Capo di Stato
Maggiore Generale, Maresciallo
d’Italia Pietro Badoglio? Ecco
alcune sue dichiarazioni, scarno
ma eloquente ‘fior da fiore’ tra
cento altre.
«Tutto il sistema navale e
aereo inglese – dichiarava il
Maresciallo – sta per orientarsi
verso la meta di un completo
accerchiamento
delle
basi
terrestri e marittime (italiane –
ndr) del Mediterraneo». E ancora:
«Churchill, anima nera del-l’Ammiragliato inglese, si batte ancor oggi sulla vecchia
piattaforma politica, ispirata al
suo irriducibile e feroce odio
il DUCE con il vigliacco traditore Badoglio
antigermanico e antieuropeo».
Su pace o guerra era categorico: «Per sfuggire all’incubo della soffocazione, a noi (il
Tripartito – ndr) non resta che una risposta, che un gesto liberatore: la guerra. Guerra di
difesa, di legittima difesa contro le crescenti provocazioni omicide, ormai intollerabili,
delle Potenze egemoniche della risorta Triplice Intesa, se l’Inghilterra non si ferma a
tempo sulla tragica china».
Sono del 1940 alcune sue attestazioni di profonda fede fascista, culminate in un
messaggio a Mussolini il 23 Marzo, annuale dei Fasci, che così conclude: «A voi, Duce,
artefice degli imperiali destini della Patria, al quale le Forze Armate e la Nazione fuse in
un unico blocco guardano sempre con più gratitudine e fede».
Ma già da allora, nelle alte sfere delle Forze Armate sotto il suo comando, iniziava il
sabotaggio alla guerra che si sarebbe concluso – dopo il 25 Luglio – con la più
infamante tra le ‘rese incondizionate’ della storia moderna
LA BARBARIE DEGLI
INVASORI
«Vi racconto il bombardamento del 13 luglio ’44». Le sirene, il negozio di barbiere del
padre raso al suolo, e il genitore salvo per caso. I ricordi di Annamaria, 78 anni, in
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«Giornale di Brescia», 14 luglio 1944, p. 9.
«Pronto, è il Giornale di Brescia?» Buongiorno signora, dica. «Nelle vostre lettere al
direttore si parla del
bombardamento del
13 luglio 1943, ma è
un errore: era il 13
luglio 1944. Io lo so
perché
c’ero.
Adesso
vi
racconto...».
Da una svista nasce
una
storia.
Già,
perché Anna Maria
si ricorda quel giorno
di 65 anni fa come
fosse ieri. E non puoi
non starla a sentire.
«Io abito al 15 di Tresanda San Nicola, sono nata qui, e ci abito tutt’ora. Sono del ’31.
Mio padre aveva una bottega di barbiere all’angolo tra via della Mansione e corso
Martiri».
«Gli inglesi, la notte prima, avevano bombardato la Piccola velocità e Chiesanuova,
perché era zona strategica. E noi eravamo nel rifugio dietro la chiesa di San Francesco,
e si sentivano i rumori delle bombe in lontananza...
Viene mattina. «C’era il capo fabbricato che si chiamava Franceschini, aveva tre figli e
due studiavano da prete. Fu proprio con la moglie di quest’ultimo e con la terza figlia,
Franca, che era mia carissima amica che io mi misi in salvo».
Alle prime avvisaglie della nuova incursione aerea dopo quella notte che era stata di
tregenda, la vicina si affretta a portare al sicuro la figlia e la stessa signora Anna Maria.
«"Presto, andiamo" dice la signora Franceschini; io passo davanti al negozio di mio
padre che stava lavorando e gli dico "Vado con la signora Cecilia" e ma lui non capisce,
poi suona la sirena che era sopra la Casa di Dio, e la gente inizia a scappare».
«Passa un triciclo e ci carica su, e con noi c’era anche don Agostino, che era in
seminario ed era professore dei due ragazzi Franceschini, e dice: "Se riusciamo ad
andare a Torbole c’è un ragazzo che ha la cascina"; intanto iniziano a cadere le bombe e
le vedevamo brillanti nel sole, e tremava la terra; noi per ripararci andiamo dentro nel
fosso della via che porta a Orzinuovi; la signora Franceschini pensava a suo marito, e
noi vedevamo il bombardamento sulla città, bruciava anche il Duomo e si sentiva il sibilo
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degli aerei».«Mio papà, che era del ’99, non andava volentieri nel rifugio, ma quella volta
un amico lo portò; lui prima finì di fare la barba al cliente e poi andò nel rifugio sotto Casa
di Dio e non fece neanche le scale perché lo spostamento d’aria lo fece arrivare in
fondo». «Quando tornò al negozio vide che era andato giù tutto; gli erano rimaste solo le
chiavi in tasca. Nemmeno il rasoio. Aveva già 46 anni e aveva fatto cinque anni di
guerra... In piazza Roma, c’era il comando tedesco: ma quello gli americani non l’hanno
preso. In compenso hanno preso la bottega di mio papà. Il negozio di barbiere più bello
della città».
BRESCIA, 13 LUGLIO 1944: LA LEONESSA D'ITALIA
AGGREDITA DAI
"LIBERATORI".
Il 13 luglio 1944, Brescia
venne gravemente
colpita dal più pesante
bombardamento aereo
della sua storia. Erano le
11:00 quando il cielo
della Leonessa tornò a
oscurarsi
sotto
uno
sciame di aerei. Nel giro
di una ventina di minuti
186
bombardieri statunitens
i sganciarono
518
bombe dirompenti, per
un totale di 124 tonnellate di esplosivo, che caddero quasi tutte sul centro
cittadino. Le conseguenze furono tanto più devastanti quanto più ampia fu l’area
colpita: non la sola linea ferroviaria, ma una vasta fetta di città, dalla Stazione al
Castello e al Vantiniano. Ingenti i danni in centro, con interi edifici di piazza
Vittoria sventrati, la Queriniana, il Duomo e il Broletto colpiti in pieno. Le vittime
furono oltre 200, un centinaio solo tra coloro che avevano cercato scampo dalle
bombe nel rifugio posto sotto l’albergo Gambero (nell’odierna piazzetta Boni), che
fu invece raso al suolo. Il dramma fu collettivo. E chi vi scampò ancor oggi rivive
con dolore quelle ore terribili, nell’auspicio (rivolto all’Amministrazione locale, da
anni in tal senso sollecitata anche da alcuni di coloro che persero dei cari) che
anche quei morti insieme a quelli degli altri bombardamenti del 1944-45 - possano
essere ricordati in un giorno a essi dedicato. (Nella foto il centro di Brescia dopo
l'incursione americana del 13 luglio 1944).
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LA RESISTENZA AGLI
INVASORI
Due episodi soltanto, due esempi tra i molti momenti di resistenza, del
popolo italiano e tedesco, all’invasione
delle loro Patrie da parte delle orde
democapitaliste
Germania
da Harmwulf
Verso la metà d’aprile del 1945, Lipsia resisteva
agli invasori. La città, quinta per dimensioni nel
Reich, 750.000 abitanti, era un importante centro
d’industrie, commerci e cultura. Sua era una delle
università più antiche, sua la sede del
Reichsgericht, la Corte suprema tedesca. Il suo
nome era legato anche al ricordo della Battaglia
delle Nazioni in cui Prussia, Russia, Impero
austro-ungarico e Svezia avevano battuto l’esercito di Napoleone nell’ottobre 1813. Gli
ultimi bombardamenti terroristici anglo-americani sulla città di Lipsia erano stati effettuati
il 6 ed il 10 aprile 1945. La popolazione era terrorizzata sia dalle incursioni aeree
(dall’agosto 1942 all’aprile 1945 c’erano stati 24 attacchi aerei, circa 5000 morti, migliaia
di feriti e senza tetto) che dalle notizie di distruzione totale che provenivano dalla
capitale e da gran parte delle città del Reich. Il 17 aprile i carri armati americani si
avvicinavano alla città incontrando poche, ma determinate, sacche di resistenza formate
essenzialmente da battaglioni del Volkssturm, la milizia popolare reclutata tra giovani ed
anziani, e della Hitlerjugend dotate solo d’armi leggere e Panzerfaust. La difesa della
città organizzata attorno a pochi punti strategici, la stazione ferroviaria Hauptbahnhof, la
birreria Felsenkeller, l’Elsterbecken, il parco Rosental, il nuovo municipio Neuen
Rathaus e l’imponente monumento alla battaglia delle Nazioni Völkerschlachtdenkmal.
La 69° Divisione di fanteria dell’esercito americano si avvicina lentamente ma
inesorabilmente alla città preceduta dai primi carri armati della 9° Divisione corazzata
guidata dal Generale John W. Leonard. Le forze americane provenienti da ovest
riescono a conquistare Weissenfels dopo due giorni di furiosi combattimenti e formano
un semicerchio attorno a Lipsia che si prepara alla battaglia. Il 17 aprile i colpi
dell’artiglieria americana cominciano a piovere attorno alla città e la mattina del 18 le
due divisioni sono pronte per l’attacco finale. Le forze disponibili per la difesa sono: un
battaglione della riserva del 107° Reggimento di fanteria con 750 uomini tra cui 50
reclute mal addestrate; un battaglione di trasporto di riserva con 250 uomini entrambi
sotto il comando della Werhmacht col Generale Hans von Poncet; otto battaglioni del
Volkssturm comandati dal vecchio sindaco (in carica fino al 1938) e dirigente locale del
partito nazionalsocialista Generale Walter Dönicke; 3.500 uomini della polizia cittadina
sotto il comando del Generale Wilhelm von Grolman. Le armi a disposizione sono
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solamente quelle leggere, poche mitragliatrici, molti Panzerfaust ma nessuna arma
pesante o carro armato. La situazione è evidentemente disperata, ma sono organizzate
tre linee di difesa: la prima ad ovest della città tenuta dai ragazzi della Hitlerjugend e
armata di Panzerfaust per bloccare i carri, la seconda tenuta dalla Werhmacht sì attesa
intorno al periplo della città; la terza e principale linea di difesa segue il corso del fiume
Elster che separa la parte occidentale più piccola da quella principale ad est. Se i nemici
arrivassero sin qui si farebbero saltare tutti i ponti della città. Il 14 aprile si tiene un
incontro organizzativo tra il Generale Hans von Poncet, i comandanti militari e civili, il
sindaco Alfred Freyberg, il Generale del Volksstrum Walter Dönicke e Generale Wilhelm
von Grolman. Tra le titubanze di quest’ultimo che non voleva far saltare i ponti ed
impegnare la polizia nella difesa della città, von Poncet spiegò a tutti che era necessario
difendere Lipsia fino all’ultimo colpo. Si prepararono le barricate con autobus che
sbarravano le strade riempiti di pietre. Gli ultimi ridotti da difendere erano il municipio, la
stazione ed il Völkerschlachtdenkmal. Il 17 aprile su ordine di von Poncet il Generale del
Volksstrum Walter Dönicke con 500 membri della milizia popolare si barricano nel
Neuen Rathaus. Lo stesso von Poncet con 300 dei suoi uomini migliori si asserraglia nel
monumento
della
Battaglia
delle
Nazioni
colmo
d’armi,
viveri
e
munizioni: era la
rappresentazione
ideale dell’indomito
spirito di resistenza
tedesco, come nel
1813 si doveva
tener
testa
al
nemico
anche
quando
tutto
sembrava perduto.
La notte del 17
aprile
1945
manipoli
di
SS
attraversavano
i
sobborghi della città obbligando la popolazione a togliere le poche bandiere bianche
esposte e ad organizzare la resistenza. La mattina del 18 aprile il 23° battaglione di
fanteria, appoggiato da due battaglioni di carri armati, il 741° e il 612° iniziavano ad
occupare la città. La popolazione osserva attonita, qualcuno applaude e offre fiori e
viveri, la maggioranza osserva silenziosa. Alla fine delle due arterie principali verso i
ponti, rimasti intatti per decisione del borgomastro che voleva evitare altre sofferenze
alla popolazione, comincia il fuoco dei Panzerfaust. Diversi carri sono centrati e
prendono fuoco. Incomincia la lotta casa per casa, i cecchini fanno fuoco sugli
americani. Gli scontri si susseguono in tutto l’abitato. L’assalto finale nel centro inizia alle
12,45: la lotta impari prosegue. Con le armi leggere ed i Panzerfaust, i ragazzi della
Hitlerjugend attaccano senza sosta le avanguardie nemiche, i tiratori scelti colpiscono gli
americani che reagiscono furiosi con colpi d’artiglieria contro le case. Un soldato
americano che spara con una mitragliatrice da un balcone sul ponte Zeppelin viene
centrato da un tiratore tedesco: la scena è immortalata dal fotografo americano Robert
Capa di Life. L’artiglieria si accanisce sui centri di resistenza martellandoli senza sosta. Il
12
monumento delle Nazioni in cui la resistenza diretta da von Poncet è fortissima, la
stazione, il municipio sono ripetutamente colpiti dai colpi dei carri e degli obici. La
battaglia continua disperata ed inesorabile. Intermediari americani cercano di trattare la
resa della città: il Generale von Grolman ha deciso di arrendersi con la polizia ma gli altri
non cedono. Alle 21,30 uno strano silenzio cala sulla città e la notte passa tranquilla. La
mattina del 19, dopo un pesante bombardamento del Rathaus e altri due assalti falliti,
alle 9.30 attraverso la proposta di un prigioniero tedesco mandato a trattare con i
difensori del municipio e sotto la minaccia della totale distruzione della struttura con
artiglieria pesante e lanciafiamme, parte dei difensori accetta la resa. Vengono catturati
un generale e 175 uomini e 13 agenti di polizia. A mezzogiorno il comandante della 69°
Divisione di fanteria Generale Reinhardt issa la bandiera americana sull’edificio. Nella
Turmzimmern (camera della torre) e nelle stanze adiacenti del sono rinvenuti i cadaveri
di nove persone. La scena viene immortalata da diversi fotografi: J.M. Heslop del USA
Signal Corps photographer Tech/5, e due famose fotografe americane Lee Miller e
Margaret Bourke-White. Lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco ha scelto per la copertina
del suo bel romanzo (“Le uova del drago” edito da Mondadori nel 2005) proprio uno
degli scatti della Miller. Negli anni tra il 1941 ed il 1945 la Miller lavorò come reporter
fotografica di guerra per la rivista Vogue. Tutto il lavoro della fotografa, circa 60.000
negativi, fotografie originali e manoscritti, è conservato nel Lee Miller Archives (Lee
Miller Archives: Farley Farm House, Muddles Green, Chiddingly, East Sussex, BN8
6HW, England E-mail: [email protected] web: www.leemiller.co.uk). Essendo “Le
uova del drago” uno dei successi editoriali dell’anno, la già famosa fotografia è diventata
assai popolare anche in Italia, paese in cui il lavoro di documentazione della Miller è
noto solo a pochi specialisti. Nel libro “Lee Miller’s war” (edito da Thames & Hudson,
New
York,
2005)
la
fotografa scrive a pagina
176: “In uno degli uffici un
uomo dai capelli grigi (Alfred
Freyberg) sedeva con la
testa appoggiata sulle mani
incrociate sul tavolo. Di
fronte a lui riversa su una
poltrona una donna pallida
con gli occhi aperti ed un
rivolo di sangue seccato sul
mento. Sdraiata sul sofà
una ragazza con dei denti
straordinariamente belli, dal
colorito cereo e impolverata.
La
sua
uniforme
da
crocerossina è cosparsa di calce segno della battaglia che è continuata fuori dal
municipio dopo la loro morte. Nella stanza successiva un mostruoso manichino di un
uomo in uniforme da generale del Volksstrum giace sulla schiena. C’è un altro gruppo
familiare nella terza anticamera. Nel seminterrato due ufficiali delle SS hanno bevuto del
brandy seduti ad un tavolo e si sono suicidati.”. La descrizione della Miller è parziale e
poco accurata. In realtà il suicidio della famiglia di Alfred Freyberg non è mai stato
fotografato. La rivista inglese “After the battle” (www.afterthebattle.com) n. 130 dedicata
alla battaglia per conquistare Lipsia ci fornisce con maggior precisione i dettagli della
fotografia. Il 18 aprile 1945, mentre la città sassone è sotto assedio e resiste agli
13
invasori americani, il Dottor Kurt Lisso (nato il 7/3/1892) vicesindaco e Stadtkämmerer
(tesoriere comunale), la moglie Renate Lübbert (nata il 12/4/1895) e la figlia di 21 anni
Regina Lisso (nata il 24/5/1924) con la fascia al braccio della croce rossa tedesca si
danno la morte avvelenandosi con il cianuro nell’ufficio della Neuen Rathaus.
Nel romanzo di Buttafuoco a pagina 30, Regina,
diventata Annelise Boldt, viene descritta così: “Tutto qua:
Eughenia offre i propri servigi al Führer. Si farà un punto
d’onore di continuare ad obbedirgli oltre la sua morte,
malgrado la sconfitta militare e l’annientamento della
nazione germanica; se ne farà un punto di stile, perciò
continuerà la missione trascinandosi dietro, quali
cemento, malta e ferro per la cuccia delle sue “Uova”, tre
bauli carichi d’oro e di segreti. Perseverante, procederà
nel tessere la trama anche quando da Lipsia, nell’aprile
del 1945, i servizi segreti inglesi le faranno arrivare sotto
gli occhi, a scopo pedagogico, la foto di Annelise Boldt,
sua compagna ai tempi dei corsi di preparazione
organizzati dallo Stato Maggiore. Una foto niente male,
quanto a rapina estatica. E’ uno scatto di Lee Miller,
fotografa americana che collezionò le istantanee dei
cadaveri di suicidi disseminati ovunque in Germania.
Annelise Boldt ha le braccia composte nell’abbandono,
sembra colta in un istante di sovrappiù d’assenza. La
pelle delle mani è bianchissima. Il volto, bianchissimo. La corona dei denti, intravista tra
le labbra socchiuse nell’atto definitivo del mancato respiro, bianchissima. Anche le
labbra sono bianchissime, e c’è bianco tutto intorno: un bianco, però, di sporco. Bianco
di polvere è il divano di duro cuoio dove Annelise resta distesa, col collo piegato
all’indietro come a voler dare spinta ai capelli, biondi ma sporchi di bianco, cosparsi di
polvere. Sporco di bianco il corpo, sporco il cappotto militare, sporca la fascia della
croce rossa, sporcata di bianco.”
Nella stanza accanto si tolgono la vita con la stessa tecnica, l’Oberbürgermeister Alfred
Freyberg, sua moglie e la figlia diciannovenne. Stranamente nessuna fotografia viene
scattata nonostante la stanza sia adiacente a quella del Dottor Lisso. Bruno Erich Alfred
Freyberg era nato a Harsleben bei Halberstadt il 12 luglio 1893, fu avvocato e uomo
politico del NSDAP. Studiò giurisprudenza nelle università di Genf, Königsberg,
München e Halle. Dal 1923 al 1926 fu impiegato presso il Reichsfinanzverwaltung. Dal
1926 comincio la carriera di avvocato a Quedlinburg. Dal 21 maggio 1932 Alfred
Freyberg fu presidente del consiglio del Land Sassonia-Anhalt. Fu il primo
nazionalsocialista a raggiungere quella carica. Dal 21 agosto 1939 fu Oberbürgermeister
della città di Leipzig (Lipsia).
Le foto di Margaret Bourke-White correttamente fanno riferimento al nome Lisso. La
didascalia recita “Dr. Kurt Lisso, Leipzig's city treasurer, and his wife and daughter after
taking poison to avoid surrender to U.S. troops, Leipzig dal sito http://masters-ofphotography.com”. La versione della fotografa trova conferma anche nel resoconto di
Edward Ward della BBC Broadcast del 19 aprile 1945 che descrive correttamente la
14
scena (After the Battle, n. 130 pag. 26). La serie delle famose immagini mostra da
diverse angolature i corpi della famiglia Lisso all’interno dell’ufficio comunale. Una sottile
coltre di polvere li ricopre e testimonia dei bombardamenti americani di qualche ora
prima. La figlia di Kurt Lisso, Regina, bellissima con la cuffietta delle crocerossine ed il
volto angelico, è riversa su un divano con le braccia conserte. Tutti e sei hanno scelto la
libera morte - suicidio in tedesco di dice anche “Freitod” libera morte - nella tarda
mattinata del 18 aprile. Nell’anticamera dello studio del Dr. Lisso giace un uomo: è il
dirigente locale del partito nazionalsocialista, precedente Oberbürgermeister e generale
della milizia popolare di difesa Volkssturm, Walter Dönicke, strenuo sostenitore della
difesa ad oltranza della città. Nella stanza del consiglio comunale ci sono i corpi di due
suoi ufficiali: il SA-Oberführer Paul Strobel ed il dirigente del NSDAP Willy Wiederroth. Si
sono suicidati la mattina del 19 poco prima della presa dell’edificio. Nove tedeschi hanno
mantenuto fede alla promessa dello slogan ripetuto ossessivamente da giornali e radio:
Wir kapitulieren nie! Non capitoleremo mai. Al disonore, alla resa ed all’occupazione
della patria hanno preferito la morte. Tra pochi giorni altri cadranno e seguiranno
l’esempio. La sera del 19 aprile il giorno
antecedente al compleanno del Führer il
Reichsminister Dottor Joseph Goebbels
concluderà il suo messaggio alla radio con
queste parole: “La Germania è la terra della
fedeltà. Festeggerà nel pericolo il suo più bel
trionfo. Parlando di questi giorni, la storia non
potrà mai dire che il popolo abbia abbandonato
il suo capo o il capo abbia abbandonato il suo
popolo. E questa è la vittoria!” Appena dopo
queste parole echeggiarono alte, in coro, le
strofe di Deutschland hoch in Ehren canto di
Ludwig Bauer del 1859: “Haltet aus, haltet aus,
laßet hoch das Banner wehn! Zeigen ihm, zeigt
dem Feind, daß wir treu zusammenstehn! Daß
es unser alte Kraft erprobt, wenn der
Sturmwind uns entgegentobt, haltet aus im
Sturmgebraus!”
(testo
al
sito
Goebbels prima dell'avvento del
http://www.liedertafel.business.tNazionalsocialismo, durante un
online.de/O_Deutschland.htm ascoltabile al
infuocato comizio, circondato dalle sito
http://www.liedertafel.business.tSA
online.de/odeutschlandmono.mp3
Resistete,
resistete, tenete alta la bandiera! Dategli prova, dimostrate al nemico che fedeli restiamo
uniti! Mettete alla prova l’antica forza quando il vento furioso ci è avverso, resistete
nell’urlo della tempesta!). (vedi A. Romualdi La Battaglia di Berlino Ed. Ar, 1977, pag. 29
www.libreriaar.it ). Dei corpi dei caduti sembra sia stato fatto scempio dai “liberatori”:
nonostante le ricerche non è dato sapere la locazione delle tombe dei nove martiri ma
forse, tra coloro che leggeranno il mio articolo, ci sarà qualcuno che le troverà nel
cimitero di Lipsia
Ancora Germania
2 ottobre 1944
15
Le truppe americane giungono nei pressi della prima città tedesca da conquistare,
Aquisgrana, la capitale di Carlo Magno. Il comandante della piazza, di fronte alle
intimazioni di resa non si scompone, né approfitta de "l'onore delle armi" e risponde
«una città dove sono stati incoronati 14 imperatori tedeschi non si arrende senza
l’onore di un combattimento". A sua disposizione ha: 21 carri armati, 30 pezzi
d'artiglieria e venti contro-carro. Ci vogliono 20 giorni per conquistare la città. Il centro
intorno alla cattedrale è tenuto dalle SS che decidono di si sacrificarsi con i loro ufficiali
per lasciare il tempo di ritirarsi al resto delle truppe che devono ricostituire il fronte sulla
Röer (linea che reggerà per altri 4 mesi).
Italia…i Bersaglieri fascisti combattono
1. “. . . l’ora che batte il cuore . . .”
Le camionette procedevano a grande velocità,
sobbalzando sul fondo sconnesso della SS 306, lungo il
fondovalle del Senio.
Erano automezzi DKW-Horch nuovi di fabbrica,
verniciati nel grigioverde opaco delle macchine della
Wehrmacht, che recavano sulla calandra i quattro cerchi
della Auto Union. (…)
Squadre e plotoni si stavano radunando alla luce tenue
dell’alba, quando si udirono i fra-stuoni di uno scontro a
fuoco nel bosco a monte della statale, poco oltre lo stretto
ponticello in muratura che attraversa il Santerno per la
Pieve di Camaggiore.
Alcune brevi raffiche di Maschinenpistole e di
Thompson, tre o quattro colpi di Mauser e lo scoppio di
il fiume Senio
una granata a mano.
Dopo una mezz’ora, il paesaggio s’era già rischiarato, i bersaglieri videro passare
sette soldati americani con lo shoulder patch ritagliato a forma di quadrifoglio, di colore
azzurro, il totem della 88a Divisione di Fanteria. Camminavano lentamente, le mani
sull’elmetto, scortati da due soldati tedeschi.
Una Stealth Patrol del 351° Reggimento aveva sbagliato sentiero ed era transitata a
ridosso delle postazioni tedesche.
Furono i primi americani che i bersaglieri videro, vestiti tutti sette in uniformi che
avevano l’aria d’essere nuove di magazzino, stivaletti di pelle con suola di gomma e
grandi elmetti di acciaio verniciato con smalto opaco. Uno di loro, un negro che
procedeva dinoccolato, si premeva un tampone sulla guancia destra che sanguinava.
Furono condotti ad una casa dalla facciata in blocchi di pietra serena, dove si trovava il
Comando del 671. Feld Ersatz Bataillon “Schiffering”. Il 671. Battaglione di Riserva
Campale prendeva il nome dal comandante, il capitano (Hauptmann) Schiffering ed era
inquadrato nella 715. Infanterie Division, comandata allora del General Major Hanns von
16
Rohr. Per tutta la durata della permanenza al fronte la 1 a Compagnia del “Mameli” fu
aggregata al 671. F.E.B.
Le Divisioni della Wehrmacht nel 1944 erano aggregati eterogenei, che avevano in
comune l’organizzazione e la flessibilità d’impiego.
Una delle doti che più le distinsero fu la capacità di creare gruppi tattici con elementi di
unità e specializzazioni diverse (Kampfgruppe), come pure di adattare la struttura
organizzativa dell’Unità alle necessità operative dei Comandi superiori.
Dopo il 22 settembre, fino alla fine del mese, la 1 a Compagnia del “Mameli” fu sotto il
comando del 132. Grenadiere Regiment della 44. Infanterie Division “Hoch und Deutschmeister” (Grande Maestro dell’Ordine Teutonico).
Alle 08:00 del 22 settembre, sotto un formidabile bombardamento dell’artiglieria
americana, che in pochi minuti provocò una fitta nebbia, la Compagnia, ancora priva del
V Plotone Aschedamini, fu guidata a prendere posizione lungo il costone che sta alle
spalle della Pieve di Camaggiore e domina la confluenza del Diaterna e la statale fino a
Scheggianico. I Maschinengewehr furono piazzati in modo da tenere sotto tiro la
strada e la scarpata sottostante. Una delle
Fuchsbau, le “tane di volpe” scavate a
semicerchio
per gli uomini addetti ai
Maschinengewehr, è visibile ancora oggi,
deformata dalle intemperie di decenni.
Gli obici da 105 gareggiavano con quelli da 155
in una frenesia di esplosioni che facevano
scempio degli alberi. Erano trascorse poche ore
dal battesimo del fuoco d’artiglieria e già i ragazzi
avevano imparato a scorgere i proietti nel
momento in cui, superato il culmine della
traiettoria balistica, iniziavano la caduta. Il curioso
scio, scio, scio che producevano avvicinandosi
stimolava i bersaglieri a lavorare continuamente
con la paletta per scavare sempre più in
profondità.
Vi fu un continuo va e vieni di portaordini tra il
Comando di Compagnia, le postazioni sul costone
e il Comando di Battaglione, sempre sotto un
fuoco infernale. Gli americani ce l’avevano con il
Un giovane soldato della
ponticello della Pieve.
Wehrmacht con la MG-42 in
Una salva di batteria spezzò a un paio di metri
spalla
da terra i tronchi di quattro pioppi del filare che
bordava la stradina dal ponte alla Pieve. I tronchi si alzarono verso il cielo come fuscelli,
per ricadere oltre il terrapieno.(…).
Furono alla Pieve di Camaggiore che era già buio, giusto in tempo per smangiucchiare
quello che si erano portato dietro nello zainetto e dormire con gli altri camerati quattro
ore, sparpagliati sui pavimenti della chiesa e dei locali della canonica.
Quattro ore di sonno che parvero, si e no, dieci minuti.
L’artiglieria nemica proseguì nella sua sarabanda fino alle 03:00 del 23 settembre.
Sveglia a scrolloni e adunata a gesti, per non fare rumore.
Gli artiglieri americani stavano riposando o avevano finito i colpi, più probabilmente,
avevano smesso perché i fanti avevano ripreso ad avanzare.
Un silenzio irreale era sceso sulla valle.
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Si sentivano scrosciare sui massi le acque del Santerno, gonfio per le piogge dei giorni
passati. In silenzio, i bersaglieri procedettero per la salita che conduce a Monti.
La mulattiera, indicata sulle carte come carreggiabile, lasciava la “montanara” alla
Rimossa, dopo Coniale, in direzione di Moraduccio. I ragazzi camminarono per un paio
d’ore, sostando spesso per le difficoltà, nel buio più assoluto. Una lunga sosta fu fatta
alla Chiesa di San Michele, dove fu stabilito il Comando di Compagnia nei locali della
canonica.
Proseguendo per due distinti sentieri che attraversavano un fitto castagneto sbucarono
sulla spianata prativa di Monte Cucco, mentre il cielo iniziava a rischiarare. Osservando i
quattro fogli della carta al 25.000 dell’ Istituto Geografico Militare, ciascuno dei quali
relega in un angolino una porzione del terreno in cui avvennero i combattimenti, si può
notare che a est e a sud i pendii sono ripidi, mentre altrove degradano dolcemente, tanto
che ad occhio non è facile apprezzare le differenze di quota tra i diversi punti dello
scenario.
Nell’ultimo tratto di sentiero, già fuori del castagneto, due bersaglieri del V Plotone
rinvennero una scatola di cartone paraffinato delle dimensioni di un mattone, di colore
marrone. Recava la scritta U.S. ARMY Field ration K con una serie di diciture in
caratteri molto piccoli, che descrivevano il contenuto e le modalità di utilizzazione. Era
istintivo ipotizzare che fosse stata dimenticata da una pattuglia ed era ragionevole
pensare che la pattuglia avesse riferito che la
posizione non era presidiata. Via libera,
dunque, per i fanti americani.
Il tenente Dani fu immediatamente informato
del rinvenimento, cui non fu data molta
importanza. Il V Plotone, a ranghi ridotti e
rinforzato da una squadra del I, fu inviato alla
Crocetta,
agli
ordini
del
sottotenente
Aschedamini.
Complessivamente il gruppo
aveva una forza di una trentina di bersaglieri,
MG-42
suddivisi in quattro squadre, dotate di due soli
Maschinengewehr MG 42 in condizioni di sparare. L’arma di Beppe Filiberti, per
un’improvvisa avaria alla valvola di recupero del gas, anziché a raffica, sparava a colpo
singolo.
In quel punto, chiamato Crocetta, a quota 715, la carreggiabile sterrata che sale da
Bordignano si innesta nella sterrata che da Monti conduce a Casalino, al Querceto e a
Visignano, sotto il Monte La Fine, m 795, che domina la Valle del Sillaro. Tra Crocetta e
Casalino la strada attraversa il Poggio di Marco, una vasta distesa di terreno scoperto,
coltivato a granturco, segale ed erba medica. Le posizioni dei bersaglieri sovrastavano
di cinque metri il viottolo da cui potevano sbucare gli americani , ma erano dominate
dalle pendici del Monte Allovolo, m 780, coperte dalla Selva di Santa Cristina, un bosco
formato in prevalenza da castagni, con qualche quercia qua e là. Il terreno era sassoso
e attraversato da grosse radici, duro da scavare.
La Compagnia non era a ranghi completi, il III e il IV Plotone erano rimasti in fondo
valle con il sottotenente Di Lalla. Lungo il muretto a secco e il terrazzamento che
tagliavano la cupola del Monte Cucco avevano preso posizione squadre miste di due
plotoni. Altri bersaglieri erano stati trattenuti a San Michele.
Gli insegnamenti dei pazienti sottufficiali del 615. Lehrbataillon erano stati dimenticati
in fretta.
18
Pochi minuti prima delle 07:30 si sentirono lontane le prime raffiche di MG 42,
accompagnate da quelle più lente delle Maschinenpistole MP 40 e dai botti vellutati
dei Mauser. A chi stava sul Monte Cucco parve che provenissero da dietro il Monte
Allovolo, sul versante verso la Valle del Santerno. Al fuoco delle armi tedesche si
aggiunse quello delle armi americane, gli spari dei Garand e dei Winchester, le raffiche
veloci dei Thompson M1 e quelle lente, cadenzate, dei BAR e delle Browning 0.30.
I rumori della battaglia si estesero presto dal sud al nord del Monte Allovolo,
investendo tutto il bosco ed aumentando di intensità attorno alla Crocetta, dove si
sentivano esplodere anche bombe di mortaio in grande quantità.
Nelle Memorie Storiche del 349° Reggimento di Fanteria degli S.U., circa le operazioni
del 23 settembre 1944 si legge:
“. . . Il mattino del 23 settembre 1944, all’alba, il III Battaglione aveva iniziato
l’avanzata con obiettivo quota 15 (quota 659, località La Fronte).
La Compagnia K, comandata dal capitano Letfridge W. Honeycutt, era avanzata sulla
collina e, non avendo trovata resistenza, alle 07:30 si era sistemata sull’altura.
Scavalcando la Compagnia K, il capitano Guzman condusse la Compagnia L verso
quota 99, più avanti di 700 yards (630 m), (Monte Allovolo, detto anche Monte Cristino,
m 787) .
Mentre il sottotenente Jack S. Parker col III Plotone si avvicinava al colle, due
mitragliatrici aprirono il fuoco e dopo un istante una salva di colpi da posizioni nascoste
fendeva il bo-sco, frantumando i sassi attorno ai soldati che stavano procedendo.
Il sottotenente Parker fece aggirare la collina dal suo plotone per attaccare il nemico
dal fianco, riconosciuto come una Compagnia di fascisti italiani.
Spostandosi da un masso all’altro e avanzando lentamente attraverso il groviglio del
sottobosco, i soldati del III Plotone strisciarono verso le posizioni nemiche.
In testa ai suoi uomini, il sergente John Belardinelli si sollevò in ginocchio e, sparando
a raffica col mitra, uccise due italiani, continuando a sparare finché fu colpito a morte.
Il soldato scelto Luther F. Werner, insinuandosi avanti sotto il fuoco di copertura di un
BAR (Browning Automatic Rifle), sorprese, ferì e catturò un italiano armato di
Maschinen
pistole. Mentre i suoi uomini aggiravano le forze nemiche, il sottotenente Parker mandò
il sergente maggiore Blair A. Talley con la sua squadra sul fianco destro, ma guidando
la manovra il sergente maggiore venne ucciso da raffiche di Maschinenpistole.
Preso il comando della squadra, il sergente Korac continuò a far avanzare gli uomini e
uccise altri tre fascisti.
Quando il fuoco dei mortai, diretto dal sergente George G. Klardie, si abbattè sulle
postazioni nemiche, uccidendo quattro tiratori e ferendone di più, il sottotenente Parker
guidò l’assalto finale. I suoi uomini caricarono il nemico, mentre semiautomatici e
mitragliatrici battevano le postazioni nemiche, devastando i pochi ostinati difensori, che
preferirono resistere fino alla morte.”
Gli americani glissarono sulle loro perdite effettive ed esagerarono su numero dei
bersaglieri caduti.
La verità è che gli americani impegnarono nel combattimento una intera compagnia,
non un solo plotone, riportando perdite severe.
Nel pomeriggio, the Italian muleteers delle mule pack companies divisionali trasportarono a valle un numero di corpse bags imprecisabile, ma molto superiore ai numeri
registrati nelle Memorie Storiche del Reggimento.
19
Nel grande Florence War Memorial che sorge sulla via Cassia, nei pressi di
Impruneta, a sud di Firenze, sono molte le croci dei soldati del III Battaglione del 349°
Reggimento di Fanteria caduti il 23 settembre 1944.
Nelle cronache di guerra dei fatti avvenuti nella zona in quel giorno non sono
menzionati altri combattimenti in cui sia stato impegnato il III Battaglione.
La testimonianza più autorevole sui combattimenti alla Crocetta di Monte Cristino, ai
bordi del castagneto che copre il monte, indicato come M. Allovolo sulle carte dell’Istituto
Geografico Militare, è quella del sergente AU Benito Augusto
Pinotti, capo della 1a squadra del V Plotone Aschedamini:
“ Nel buio più assoluto , i bersaglieri si inerpicano sul ripido
sentiero che a tratti si allarga a mulattiera e a carreggiabile.
I ragazzi procedono in fila indiana o su due file, secondo lo
spazio, delimitato a monte da tratti di muro a secco che
rincalzano il terreno in forte pendenza e a valle da radi arbusti
sul-la stretta banchina che si affaccia nel vuoto, aperto sul
fondovalle.
Il silenzio è rotto ogni tanto dal soffio di un’imprecazione,
dal tintinnare di un nastro di pallottole, dall’urto del calcio di
una carabina contro una cassetta di munizioni, da un sasso
smosso che rotola . . . Lontano, il fragore delle acque del
Santerno. Nel buio si intuisce un gruppo di case e, dopo
trecento metri, il campanile basso di una piccola chies . Le
case sono quelle di Praticino, località a quota 521 e la
chiesetta è quella di San Michele, a quota 594, che sorge
accanto a un piccolo cimitero, cintato da un muretto. Pochi
metri sotto la stradina che sale verso Crocetta, tre case
formano la località di Monti. La chiesa e il cimitero sono
conosciuti come San Michele a’ Monti.
Sergente Allievo
Ufficiale Benito
Augusto Pinotti
Alt della colonna, parlottio di ufficiali e sergenti, poi due pattuglie ispezionano la
canonica e le case. Seppure remoto, c’è sempre il pericolo di un agguato dei ribelli.
Qualche minuto d’attesa e finalmente una pausa di riposo.
Neanche il tempo di abbozzare un pisolino che ordini secchi riportano alla realtà
anche i più contemplativi, quelli che si erano afflosciati sul terreno con le armi addosso e
le cassette portamunizioni in mano. Il V Plotone incompleto, alcuni uomini del IV ed una
squadra del I debbono prendere posizione in località Crocetta, a quota 715.
Gli altri del V, il II e due squadre del I si attestano sulla linea che taglia idealmente da
NO a SE la cupola pianeggiante di Monte Cucco, a quota 710.
Dove siano il III e il IV Plotone non si sa.
Il gruppo Aschedamini parte senza indugi;deve raggiungere velocemente il punto più
avanzato dello schieramento. L’ordine è di portare con sé più munizioni che sia
possibile: tutti, sottufficiali compresi, hanno oltre alla dotazione personale due cassette
con due nastri cadauna da cento pallottole per i Maschinengewehr .
Le cassette sono pesanti e spigolose, sbattono dappertutto e sono moccoli che volano
ad ogni botta contro un ginocchio, (proprio), o un polpaccio (del camerata che
precede).La spensieratezza e l’incoscienza dei ragazzi si manifesta con i commenti e le
battute di spirito; nessuno pensa che tra qualche ora potrebbe essere morto.
20
“ È giunta l’ora che batte il cuore . . .”
Aschedamini ordina l’alt mentre il cielo incomincia a schiarire. È l’alba.
Quindici uomini si fermano alla Crocetta e si mettono subito a lavorare con le
vanghette per scavare le buche dove appostarsi. Gli altri
quindici seguono Aschedamini che scende per la valletta dove
sbuca la strada che viene da Bordignano e risale per il pendio
sottobosco. Alt, altre buche e la raccomandazione di
mimetizzarsi al meglio, per via delle “cicogne”, gli Stinson che
dirigono l’artiglieria. Qualcuno borbotta che di artiglieria ha fatti
indigestione ieri.Quattro ore di fila che pareva non finissero
mai, con quegli aeroplanini che ci svolazzava-no sulla testa a
spiarci di continuo.
I risultati sono stati miserelli, per fortuna. Un solo ferito, per
giunta non grave, che i tedeschi avevano portato via in
ambulanza e che ora è al sicuro in qualche ospedale.
L’aria fresca mette appetito e si mette mano al pane nero di
segale, il Kornbrot tedesco, e alle scatolette, beato chi ne ha!
Due bersaglieri si mettono a discutere; dalle voci si
riconoscono Nannicini e Onesti, il fio-rentino e il romano, amici
per la pelle, che se non litigano stanno male. Il sottotenente
Aschedamini si allontana con il caporalmaggiore Fausti per
esplorare il ter-reno alle nostre spalle, una selva di castagni e
quercie in salita. Improvvisamente scoppia un inferno di
fuoco.
Sottotenente Franco
Si sente urlare dal bosco: “Bazerla, il tenente è ferito”. È
Aschedamini
certamente Fausti, non può essere che lui. Imprecazioni,
scatti, tutti vogliono andare; ma il sergente Pinotti decide di prendere con sé solo
Nannicini e Lori.
Armi imbracciate, elmetto calcato, i tre scattano allo scoperto. Il fuoco si ravviva,
rabbioso. Dalle postazioni, i bersaglieri eseguono efficaci tiri di copertura. Anche la 1 a
squadra appoggia con lunghe raffiche di MG. Il volume di fuoco è impressionante.
Raffiche lunghe di MG42, Maschinenpistole e mitra , colpi di Mauser, tiri di
semiautomatici Garand, raffiche lente di BAR e veloci di Thompson, salve di mortai da
60 sparate in rapida successione, da vicino, con le bombe che cadono giù dritte, come
se fossero gli Stinson a lanciarle.
Pinotti e Nannicini si buttano a terra; Lori continua a correre fino ad un avallamento e
vi si getta dentro, incolume. Nannicini ha trovato un riparo, mentre Pinotti è sempre allo
scoperto, sotto il tiro degli americani, che lo vedono bene dall’alto. Indietreggia
strisciando, rotola su di un fianco e si mette fuori tiro. Ancora uno scatto e si trova con
Lori e Nannicini.
Non si sente più chiamare. Dove sono Aschedamini e Fausti?
In un attimo che il fuoco scema d’intensità un rantolo fornisce la risposta.
Pinotti alza la testa per guardare attorno, ma una raffica di Thompson gliela fa
abbassare, non senza avergli dato il modo di scorgere a terra Fausti, ferito a morte.
Urla e spara alle ombre tra i castagni, sfogando il dolore per la morte del camerata, un
ragazzo impegnato, serio e riflessivo. Pinotti teme che anche Aschedamini sia morto.
Erano venuti per riportarli indietro, e non restava che vendicarli.
Adriano Lori, esperto mortaista, spara col Mauser dotato di “tromboncino”, il lanciagra-
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nate che i tedeschi chiamano Panzergewehrgranatewerfer. Spacca alberi in due e fa
volare americani che è una bellezza.
Dopo una diecina di colpi, la precisione del suo fuoco costrinse gli americani a ritirarsi,
in cerca di posizioni più defilate. Nannicini e Pinotti, ora allo scoperto, sparano
inginocchiati un caricatore dietro l’altro contro gli americani nascosti tra gli alberi.
Ogni tanto se ne vede uno cadere di schianto; altri, invece, lasciano cadere l’arma e si
allontanano barcollando come ubriachi.
Il fuoco è intenso, parossistico, ma Lori, Nannicini e Pinotti sembrano invulnerabili.
La 1a squadra attraversa la valletta e stringe sotto, recando l’ordine di resistere fino
all’ulti ma cartuccia.
L’ala destra dello schieramento sul Santerno siamo noi. La
tenuta del fronte dipende anche da noi, da quello che facciamo.
Si combatte da ore e gli americani non sono ancora riusciti a
passare. Il fuoco aumenta d’intensità da entrambe le parti.
I bersaglieri strisciano verso la selva, Bazerla e Di Stefano
ordinano alle loro squadre di scattare in avanti, ma si sente il
baccano di una forte sparatoria provenire da destra.
Nannicini ha avvistato un gruppo di americani, forse un
plotone, che ha aggirato le nostre posizioni e tenta di prenderci
alle spalle. Lori, Nannicini e Pinotti sparano .
Pinotti cade, colpito nella parte alta dell’emitorace e nel braccio
destri. È stato colpito alle spalle dagli americani nascosti tra i
castagni. Nannicini gli corre accanto e gli tampona le ferite, poi si
rimette a sparare. Spara, spara e finisce le pallottole.
Non ci sono più caricatori per il
mitra, afferra la
Maschinenpistole di Pinotti, spara, ma si accorge presto che
anche per quella le munizioni sono finite: i caricatori sono tutti vuoti. Lori non ha più
granate, spara le ultime pallottole del Mauser e si prepara ad affrontare gli americani
con la carabina impugnata a mo’ di clava.
Nell’avvallamento dove si trovano Lori, Nannicini e Pinotti piomba improvvisamente
Bazerla, che si è spinto fin là per vedere cos’è successo. Vuole riportarli indietro.
Si carica sulle spalle Pinotti e si avvia, seguito da Lori e da Nannicini.
Ma non è possibile superare con un ferito sulle spalle, il tratto scoperto di una
trentina di metri, in salita, dove gli americani concentrano il fuoco di un plotone.
“Vi verrò a riprendere” è la promessa di Bazerla, che sparisce nel fumo delle
esplosioni. Un attimo dopo, una raffica falcia Nedo Nannicini, che muore all’istante,
colpito al cuore. Gli americani aspettano ancora un paio d’ore, prima di uscire dalla
selva: è mezzogiorno passato da un pezzo, quando prendono il controllo della Crocetta.
I bersaglieri caduti ora sono cinque: caporalmaggiore AU Pietro Fausti,
caporalmaggiore AU Nedo Nannicini, caporale AU Antonio Schejola, caporale AU
Giorgio Onesti e Sergio Benaglio. Il sottotenente Franco Aschedamini, gravemente ferito
all’addome, è stato catturato con Frare, Lori, Parietti e Pinotti.
Aschedamini spirò nella notte tra il 23 e il 24, dopo molte ore di sofferenze, alleviate
dalla presenza di Pinotti, che gli americani avevano lasciato al suo fianco.
Incurante che fosse in gravi condizioni, un capitano americano lo interrogò: si professò
fervente fascista e promise al nemico che, appena guarito, avrebbe tentato in ogni modo
di fuggire per ritornare a combattere. Chi lo conosceva, sapeva quanto fosse anomalo il
fascismo del sottotenente Aschedamini.
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Il caporale Pietro Frare, gravemente ferito ad una gamba,di cui poi avrebbe perso
l’articolazione del ginocchio, per una serie di circostanze non condivise i lunghi mesi
della prigionia con i camerati. Ufficialmente dato per disperso, ma ritenuto morto, fu
rintracciato a Vittorio Veneto cin-quanta anni dopo.”
Fin qui la testimonianza di Benito Pinotti, che per un vero miracolo non seguì la sorte
del suo comandante di plotone. Una pallottola calibro 45 ACP (mm 11,43 x 23) di
Thompson M1 gli aveva perforato il polmone destro e fracassato due costole; un’ altra
gli aveva trapassato il braccio destro, bucando l’arteria omerale. Il calore della pallottola,
esplosa da pochi metri, cauterizzò il vaso, salvandolo
dal dissanguamento.
Sangue ne perse comunque parecchio, al punto da cadere in profondo torpore, alternato
a momenti di lucidità. Gli fu così risparmiato lo squallido spettacolo delle violenze cui
furono sottoposti Lori e Parietti, quest’ultimo ferito, ma in condizione di camminare.
Risalendo la penisola, gli americani si erano fatta una particolare idea dell’Italia e degli
italiani. Trovarsi improvvisamente di fronte a dei ragazzi che professavano fieramente la
loro fede fascista fu traumatico per loro. I fascisti erano stati descritti dalla propaganda
come individui malvagi, che professavano un’ideologia diabolica, all’ origine di tutti i mali
dell’umanità. Furono trattati di conseguenza, contro le regole dell’onore militare, ma in
sintonia con lo spirito che avrebbe condizionato il mondo con la morale di Norimberga.
Il 23 settembre 1944 il sole sbucò dalle montagne quando i combattimenti erano già in
corso e solo allora, volando da sud-ovest, dalla parte di Fiorenzuola, comparvero le
“cicogne”, due Stinson L-5, che presero a volare sulla zona degli scontri, abbastanza in
alto per non correre rischi.
Verso le 10:00 il sottotenente Giuseppe D’Antona guidò una squadra di bersaglieri da
Monti alla Crocetta, per dare man forte ad Aschedamini. Non poteva sapere che
Aschedamini era già stato ferito e catturato. Dalla Crocetta scendevano bersaglieri feriti,
alcuni sulle proprie gambe, altri distesi su teli da tenda, sorretti da quattro bersaglieri.
Alle 10:30 scese il sottotenente D’Antona, anch’egli disteso su un telo. Era privo di
conoscenza, pallidissimo, con la Kampfbluse che indossava da un paio di giorni
insanguinata dal petto al basso ventre.
Dalle posizioni di Monte Cucco due MG42 spararono a fuoco libero, Feuer frei, sui
fanti americani quando raggiunsero la strada per Casalino, aggirando la Crocetta.
Mancava poco alle 12:30 quando gli americani presero il controllo della località.
I bersaglieri si erano battuti bene, ma la loro capacità di combattere era andata via
via esaurendosi perché i ragazzi erano caduti o erano stati feriti o erano dovuti
scendere per trasportare i feriti più gravi. La ricostruzione dei fatti fu possibile solo dopo
molto tempo, attraverso le testimonianze dirette dei superstiti. Vi era stata una grave
carenza di comando, imputabile principalmente alla mancanza di collegamenti, ma
anche all’incompletezza degli organici e all’insufficiente livello di preparazione tattica del
personale. Ogni plotone della Fanteria americana era dotato di un complesso
radiotelefonico ricetrasmittente
portatile, funzionante a valvole termoioniche,
voluminoso, pesante e suscettibile di frequenti inconvenienti.
Non ancora miniaturizzati al livello dei walkie-talkie, i radio-telefoni mobili erano
tuttavia un ottimo mezzo per comunicare in diverse bande di frequenza con gli altri
reparti, i comandi, l’artiglieria, gli aerei di supporto e i carri armati.
Il personale del Signal Corp, (branca dell’Engineers), il Genio Comunicazioni che
seguiva ogni Divisione di Fanteria americana, disponeva di una rete di apparecchiature
statiche SR 510 e SR 536, tale da poter offrire un buon servizio di monitoraggio delle
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apparecchiature tattiche SCR 300 FM, strumenti pesanti oltre quindici chili, ma con una
portata superiore a quattro chilometri, in condizioni ambientali buone.
I bersaglieri, per contro, non avevano nulla, nemmeno l’ombra del bendiddio che
avevano gli americani. I tedeschi qualcosa avevano ancora e comunicavano, quand’era
possibile, con i Funker, i radiotelegrafisti che trasmettevano e ricevevano in codice
Morse.
Usciti di scena Aschedamini e D’Antona, valenti comandanti di plotone, e con Di Lalla
in fondovalle, il tenente Dani era venuto a trovarsi in una condizione molto critica:
caduta la Crocetta in mano agli americani , che si erano incolonnati per il Poggio di
Marco, diretti verso il Monte La Fine, i sottufficiali che erano con i bersaglieri sul Monte
Cucco ricevet-tero l’ordine di ripiegare sul Monte Porrara, più defilato ai tiri dei mortai da
60 della Fanteria e degli obici dell’Artiglieria, che bombardavano senza parsimonia dal
fondovalle. Le posizioni lungo il muretto a secco e il terrazzamento di Monte Cucco
furono così abbandonate, lasciando il campo agli americani.
La giornata aveva messo a dura prova la Compagnia, dispersa su un territorio troppo
esteso ed impegnata con problemi tattici di difficile soluzione.
L’unico mezzo di comunicazione tra il comando di Compagnia, i plotoni e le squadre
erano le gambe dei portaordini, che come ogni altro bersagliere non mangiavano da
ventiquattr’ ore. Il ripiegamento su Monte Porrara permise di raggruppare gli uomini che
rimanevano e di riordinarli, dopo avere fatto il conto delle perdite.
Monte Porrara, che a guardarlo viene da chiedersi chi sia stato il topografo burlone
che lo elesse a dignità di monte, è un ridicolo scoglio di selenite circondato dalle
sterpaglie di un sottobosco. Un vero scherzo della natura, che richiama alla mente
l’immagine di un corno che spunta dalla tonsura di un frate.
Il punto più alto del Porrara è a quota 626. Per salirvi, i bersaglieri dovettero scendere
dalla quota 710 di Monte Cucco fino alla 586 della valletta per San Michele e scorticarsi
poi i polpastrelli nel cercare appigli sui lastroni
lisci di gesso crudo. L’ordine di ripiegare da
Monte Cucco fu malamente digerito dai
bersaglieri di due squadre del I Plotone, che con i
loro Maschinengewehr e Mauser stavano
efficacemente contrastando il passaggio di una
compagnia americana su un tratto scoperto. Dal
Il Caporale Allievo Ufficiale
Porrara, con un solo MG42, perché non v’era lo
Antonio Schejola
spazio per piazzarne un altro, i bersaglieri
ripresero a sparare sugli americani, che si videro
costretti ad abbandonare la strada e a tuffarsi
precipitosamente nei campi di granturco, prima
del Poggio di Marco.
Era difficile mantenere l’equilibrio su uno
spigolo di selenite aguzzo come la lama di un
coltello, qual è il crinale del Porrara, lungo un
centinaio di metri.
Due bersaglieri si affiancarono allo MG42 e Caporale A.U. Antonio Schejola
sfogarono la loro rabbia sparando una cinquan-tina di pallottole, con l’alzo a dieci
ettometri.
Se i tiri di MG42 e Mauser non furono efficaci, risultarono indubbiamente utili, perché
gli americani smisero di avanzare e rimasero appiattiti in mezzo alle piante.
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Quando il tenente Dani poté finalmente realizzare il quadro della situazione, dopo una
mezza giornata di combattimenti, formò una squadra con i bersaglieri che aveva con sé
nella canonica di San Michele e alle 13:45 partì per riprendere possesso del Monte
Cucco, che fu riconquistato.
Fu un’azione veloce, alla quale partecipò un Trupp di otto uomini del 132.Grenadier
Regiment, guidati dal Leutnant Lugeo.
Sul Monte Cucco e sul Porrara volavano senza soste i due Stinson che si erano alzati
col sole.
Controllavano il terreno metro per metro, pur volando ad una quota che li teneva fuori
della portata delle armi della fanteria, segnalando ai mortaisti ed agli artiglieri ogni
movimento sospetto.
Attorno alle 15:00 un portaordini recò al sergente maggiore Sternini la notizia che
Dani aveva ripreso il controllo di Monte Cucco. Un urlo liberatorio si levò dalla
quarantina di giovani bersaglieri che saltellavano da un fianco all’altro del crinale di
Monte Porrara, alla continua ricerca dell’ equilibrio e di un riparo dalle schegge che
fischiavano da ogni parte. Una voce intonò le prime parole dell’inno di Mameli, seguita
subito da un’altra, poi da un’altra, un’altra ancora . . . in un crescendo spontaneo che
divenne corale, lento e solenne. Fu una cantata unica, diversa dalle altre, in un ambiente
diverso da quello che i ragazzi avevano immaginato aspettando il battesimo del fuoco,
avvolto nella nebbiolina densa e puzzolente degli scoppi, in un pomeriggio diverso da
quelli dei giorni che l’avevano preceduto e che diverso sarebbe rimasto da tutti quelli che
sarebbero venuti dopo, negli anni a venire. Anni che molti di loro non avrebbero mai
vissuto.
Poco dopo giunsero alla base del Porrara due soldati della Verpflegung che erano
saliti da Moraduccio, passando per Castiglioncello, con quattro muli carichi di munizioni
e di viveri. Nastri di cartucce per gli MG, scatole di lastrine da cinque colpi per i Mauser,
caricatori pieni per le Maschinenpistole e per i mitra Berretta, granate a mano e granate
per i tromboncini. Quei vecchi soldati della sussistenza e quei muli ansimanti erano
bellissimi. I vecchi, avranno avuto quarantacinque anni, erano belli come le statue
greche che i ragazzi avevano viste sui libri di scuola e fieri come guerrieri teutonici; i muli
avevano profili nobili e andatura da destrieri di razza. Traveggole di ragazzi che avevano
fame di munizioni e di cibo
I due figli di Arminio avevano una fretta del diavolo. Diedero una mano a scaricare gli
animali e se ne andarono in un amen, dicendo che dovevano ritornare a valle prima che
facesse buio. Ai bersaglieri digiuni da oltre ventiquattr’ore i capisquadra distribuirono
prodotti di alta gastronomia, autentiche Delikatessen: scatole di salmone affumicato
norvegese, scatole di pasticcio di fegato d’oca alsaziano, sardine spagnole e portoghesi,
salsicce bavaresi, Pumpernickel, il pane dolce con l’uvetta, Roggenbrot, il pane di
segale, e raffinatissime siga-rette greche, egiziane e turche. Peccato che nessuno
avesse pensato a portare qualche tanica di acqua! Dopo il lauto rinfresco arrivò per tutti
la sete, una sete insopportabile. L’arsura era attenuata dagli Stinson che continuavano a
volare.I bersaglieri lanciavano oltre lo spigolo del Porrara le scatolette vuote e, tempo
venti secondi, arrivavano due o tre salve di mortaio che spaccavano la selenite e
buttavano all’aria le cataste di tronchi accumulate dai montanari al limite del castagneto.
Venne la sera e si fece buio. I combattimenti e il fuoco dell’artiglieria erano cessati del
tutto. Rumori di battaglia salivano dal fondovalle.
Il tenente Dani radunò i bersaglieri sotto lo scoglio del Porrara, fece loro il rapporto sui
fatti della giornata e spiegò i motivi che rendevano necessario il ripiegamento.
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Il Comando del Battaglione, del resto, aveva già ordinato la ritirata, per evitare
l’accerchiamento. Era stata una giornata dura, con un bilancio pesante: cinque caduti
sulle nostre posizioni, sette dispersi, quattro dei quali feriti ed uno in fin di vita, otto feriti
avviati nelle retrovie e due plotoni alla ventura in fondovalle.
Il 23 settembre vi furono due casi di diserzione.
Antonio Lena, di Palermo, classe 1917, si nascose nel fitto del castagneto pochi istanti
prima che si scatenasse il finimondo. Si seppe in seguito che si era arruolato con il
fermo proposito di attraversare le linee e ricongiungersi alla famiglia, che non vedeva da
anni. Al primo posto di blocco in fondovalle, gli MP lo fermarono e lo spedirono a
Scandicci,
dove
gli
agenti dell’ OSS (Office
of Strategic Services) lo
interrogarono a lungo
perché sospetto. Finì in
campo
di
concentramento
ad
Aversa e a Coltano e
ritornò in Sicilia solo alla
fine dell’ottobre 1945.
Il secondo caso
riguardò un ragazzo
bresciano del 1927,
volontario
per
convinzione, che non
seppe
reagire
alle
Il Tenente Dani con i suoi bersaglieri
emozioni di quelle ore.
La sera del 23, approfittando del buio, Costante Cocca si nascose nel cassone di
cemento che don Gatti, il parroco di San Michele a’ Monti, aveva nel brollo attiguo alla
canonica per raccogliervi l’acqua piovana. Visse lassù facendo il bracciante e il
sagrestano fino all’estate del ’45.
Fatti che succedono in ogni epoca, nei migliori eserciti del mondo.
Lena corse seriamente il rischio di finire davanti ad un plotone di esecuzione come
spia, (gli Alleati vedevano agenti dei Servizi Speciali della RSI dappertutto), e Cocca
corse altrettanto seriamente il rischio di essere “scorciato” dai “patrioti”, che spuntarono
come funghi in ogni angolo della vallata, dopo l’arrivo degli americani.
Il parroco don Luigi Gatti raccontò all’autore di essere stato insultato, strattonato e
minacciato di morte per avere fatto inumare i “fascisti”.
Una moltitudine di “partigiani” si attribuirono il merito di avere conquistato quel tal
monte e quell’altro, ammazzando fascisti e tedeschi, catturando intere colonne
corazzate e distruggendo tutto quello che si poteva distruggere. Aprirono la strada verso
la valle del Po agli americani e agli inglesi, che altrimenti sarebbero rimasti inchiodati
sugli Appennini, Dio sa per quanto!
Ci hanno scritto e ricamato sopra esagerando così tanto, che a confrontare le loro
storie con la nuda cronaca dei fatti, così come la si legge nei documenti americani,
inglesi e tedeschi, viene da chiedersi di che pasta siano fatti veramente gli italiani.
La sera del 23 settembre i bersaglieri erano stati sul punto di essere schiacciati da
almeno un paio di Battaglioni americani, a giudicare dal numero di pattuglie che erano
state segnalate sul loro percorso, facendo supporre che li stessero seguendo per
controllarli. Fu una di quelle pattuglie, una Power Patrol, che ferì gravemente Sergio
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Savoini, di Trieste, del V Plotone, inviato in avanscoperta. Ebbe il braccio destro quasi
segato via da una raffica di Thompson M1.
Non era ancora buio pesto quando, sulla mulattiera che dal Porrara scende a Castiglioncello, i bersaglieri incontrarono un Oberleutnant dell’Artiglieria. Capirono che era
dell’Artiglieria dal cordoncino colorato di rosso che bordava le spalline. Aveva l’aria di
una persona per bene, capitata lì per sbaglio, preoccupata di non potersi tirare dietro gli
effetti personali, con cui aveva riempito due valigie di cuoio. Era un osservatore-direttore
di tiro, collegato
con le batterie
che sparavano
nel fondovalle
mediante una
linea telefonica,
di
cui
lo
sciagurato
trascurava
di
recuperare
il
cavo. Dani gli
rifiutò l’aiuto per
le
valigie,
incaricando
invece
due
bersaglieri del
La spianata delle Almedole
recupero
del
cavo della linea.
Nella totale oscurità che intanto era calata, i bersaglieri evitarono le quattro case di
Castiglioncello e attraversarono il Santerno su di un ponte traballante fatto con tavole di
legno malferme su cavi d’acciaio sfilacciati, a giudicare dai graffi alle mani che si
procurarono appoggiandosi ai mancorrenti, pure essi realizzati con cavi dello stesso
tipo.
Dalle parti di Coniale si combatteva accanitamente, a giudicare dal baccano e dalle
vampate che illuminavano a sprazzi la località. Le raffiche brevi degli MG e l’ordinata
successione dei colpi dei Mauser rivelavano la presenza di reparti esperti e bene
condotti.
Alle 23:00, poco prima di Valsalva, i bersaglieri furono fatti scendere in un locale
seminterrato che aveva tutta l’aria della palestra di una scuola. Fu loro distribuita
un’ottima zuppa di fagioli dove facevano bella mostra pezzi di Speck, accompagnata da
pane di segale. Fecero la pulizia delle armi. Ciò che facevano lo facevano molto bene,
ma pensavano ad altro. Andò da loro lo Hauptmann Schiffering, comandante del
Battaglione, per parlare della giornata trascorsa. Usò il tatto che le persone bene
educate usano nei rapporti con chi è stato colpito da grossi dispiaceri. Fu prodigo di
elogi e anticipò con poche parole appropriate il riconoscimento che sarebbe stato
formalizzato dopo qualche giorno dal Comando della 715a Divisione. Disse che il reparto
aveva compiuto azioni degne della riconoscenza dell’ OKW, il quale avrebbe provveduto
per un congruo pacchetto di decorazioni al valore.(…).
A sera arrivò l’ordine di ripiegare su nuove posizioni ed ogni squadra, prima di
andarsene, mandò un bersagliere a cercare qualcosa da mettere sotto i denti nelle case
dei contadini. Barattando con un pacchetto di sigarette, i più fortunati riuscirono a
rimediare alcune fettine di castagnaccio e di polenta rinsecchita. Era poco per placare la
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fame dei ragazzi. Più tardi, sistemati nella casa e nella stalla della famiglia Paolini, nel
mezzo della spianata delle Almedole, i bersaglieri cenarono con del formaggio fuso e
del pane di segale. Il formaggio fuso di quei tempi era conosciuto col nome del prodotto
più famoso, il “Roma”, autarchico per eccellenza, che doveva la rinomanza alla facilità
con cui andava a male, assumendo una vivace colorazione verdastra. Man mano che
virava sul verde, emanava sempre più forte un odore simile a quello dei ratti morti. Ad un
certo punto incominciava anche a muoversi, per cui molti lo chiamavano “formaggio
automobile”. Fetente o no, i ragazzi non ne lasciarono un briciolo.(…).
I sergenti indicarono dove scavare le postazioni individuali e le Fuchsbau per i
Maschinengewehr.
Con quello schieramento, la mulattiera che congiungeva i ciglioni e attraversava la
parte alta della spianata delle Almedole per il Cantagallo rimaneva completamente fuori
del controllo dei bersaglieri né si vedevano in giro granatieri tedeschi che si
appostassero per turare il buco.
I ragazzi avvertirono il presentimento che sarebbe stata una giornata “calda” e si
diedero a scavare come dannati. Non possedevano alcuna esperienza, quindi non era
dalla memoria che aveva origine il senso di insicurezza e di turbamento che li
angustiava. Intuivano che in quelle posizioni v’ era qualcosa di sbagliato, esposte come
erano, del tutto scoperte, al tiro dei mortai della Fanteria, al tiro degli obici dell’Artiglieria
e al tiro dei cannoni degli Sherman, che prima o poi sarebbero entrati in scena, con la
“montanara” che si offriva sotto di loro, in bella vista, per un buon tratto. Alle spalle delle
postazioni il declivio del podere costituiva un ostacolo per niente facile da superare.
Erano cento metri di terreno arato, tutto in salita e completamente scoperto. I bersaglieri
del V Plotone, che si trovavano nelle ultime posizioni in alto, più degli altri non
riuscivano a capire in base a quali principi tattici fossero stati schierati.
Il terreno del ciglione, guarnito da arbusti tipici della zona, principalmente rosa canina
e lentischio italico, era calcareo ma non compatto, e vi si poteva scavare senza troppa
fatica. Appena si fece chiaro, l’Artiglieria tedesca avvolse in una sola grande nuvola di
fumo grigio la statale e le case di Valsalva, chiesa parrocchiale compresa.
Sul ciglione di fronte spuntarono gli americani.
Gli Stinson volavano già sulla verticale delle postazioni tenute dai bersaglieri.
Raffiche di Browning pesante da 0.50 (12,7 mm) a traccianti rosse partirono dalla
finestra al primo piano della grande casa bianca subito a valle dell’innesto della
mulattiera per il Cantagallo. Sull’altra mulattiera iniziò il passaggio di centinaia di soldati
americani, diretti verso il Monte Acuto. Il tiro degli MG fu concentrato su di un tratto
scoperto di una ventina di metri, che gli americani attraversavano di corsa. Agli MG si
aggiunsero i Mauser e in breve fu una sparatoria infernale. Sparavano i bersaglieri e
sparavano gli americani, ma gli americani sparavano dietro una cortina di fitta
vegetazione, mentre i bersaglieri sparavano allo scoperto. L’aria di quel mattino era
ancora fredda, abbastanza per rendere bene visibili i fumi degli spari.
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Caddero le prime salve dei mortai da 60. Sferragliando, sbucarono sulla “montanara”
due Sherman che si piazzarono nella piazzola del Monumento ai Caduti della I Grande
Guerra, che sarebbe stato demolito anni dopo per fare posto ad una costruzione.
Brandeggiarono i 75 ed iniziarono il tiro in cadenza rapida sulle postazioni dei
bersaglieri. Tutta la spianata delle Almedole fu un ribollire di esplosioni.
Pochi minuti prima i bersaglieri avevano assistito al bombardamento del versante
sinistro del Santerno, dalla riva alla cima del Monte Pratolungo. La vegetazione era
scomparsa sotto il fumo bianco e grigio delle esplosioni. Molto più bianco che grigio, per
via delle granate al fosforo. Ai mortai da 60 ed ai 75 degli Sherman si erano aggiunti gli
obici da 105 e da 155 divisionali, che fecero l’inferno, sconvolgendo ogni metro di
terreno.
Dalle postazioni in alto si vedevano i corpi senza vita dei bersaglieri che avevano
tentato di guadagnare posizioni defilate.
Per defilarsi bisognava almeno superare il crinale, ma per arrivarci si dovevano fare
quei dannati cento metri in salita, si
doveva correre sulla terra tritata dalle
esplosioni, che l’avevano resa soffice
e inconsistente come la sabbia
asciutta. Non è facile correre in salita
sulla sabbia asciutta.Quando un
bersagliere usciva dalla sua buca per
tentare di raggiungere il crinale gli
americani lo inquadravano nel mirino.
L’aria era divenuta irrespirabile, satura
dei gas liberati dalle esplosioni:
dominava
l’odore
dell’
ozono,
generato dalla frantumazione
dei
proiettili, mescolato al puzzo acre del
Carri Scherman
tritolo.
Dai ricordi del bersagliere Toni Liazza:
“Alle 1200, dopo quattro ore di bombardamento continuo, eravamo rimasti vivi in tre: il
sergente Di Stefano, Martignon ed io.
Di Stefano autorizzò Martignon a tentare di
guadagnare la Casa Paolini, che pareva ancora in piedi, sulla sommità del podere.
Erano un centinaio di metri da fare di corsa, in salita, nel terreno reso fine come la
sabbia dai molinelli delle esplosioni. Più in basso si vedevano i corpi dei bersaglieri che
avevano tentato di raggiungere posizio- ni più defilate, senza successo.
Approfittando di una salva che aveva sollevato molta terra e molto fumo, Martignon uscì
dalla buca e incominciò a correre.Dalla casa di fronte, gli americani batterono il pendio
con le Browning Vedemmo Martignon immobile, supino, ad una trentina di metri da noi.
Pensammo che gli fosse andata male e recitammo mentalmente una preghiera per la
sua anima. Arrivarono altre salve. Quando il vento schiarì un po’ la scena, Martignon
non c’era più.
Cercai di fare un rapido esame della situazione.Ero coperto dalla polvere finissima
della terra frullata dalle esplosioni, dolorante in diver- se parti del corpo per le contusioni
prodotte dai ciottoli o da altri corpi compatti, ma senza ferite. La polvere era entrata
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dappertutto, in bocca, nel naso, nelle orecchie; era passata attraverso la giacca a vento,
il maglione, la camicia, i pantaloni. A valle era da almeno tre ore che non si sentiva
sparare. Sopra di noi, si vedeva la canna del Maschinengewehr 42 di Casarini sporgere
dalla Fuchsbau, immobile.
In alto, sotto la cima di Monte Acuto, i tedeschi combattevano senza soste, alla
grande. Gli MG lavoravano dalle prime ore del mattino e non accennavano a pause, se
non quelle tecniche, brevissime, per la sostituzione della canna ogni duecento colpi. Le
loro posizioni erano defilate dai tiri dei carri.
Verso le 1230 Di Stefano aveva lanciato un moccolo, qualcosa come: <ostia, m’hanno
beccato>! Uno degli ultimi colpi degli Sherman l’aveva colpito alla gamba destra.
Salutai Di Stefano e,subito dopo un’ennesima vampata, uscii dalla buca e mi misi a
correre. Mi illudevo di trovare qualcuno disposto ad aiutarmi per rilevare Di Stefano e
condurlo al più vicino posto di medicazione, ma i traccianti delle Browning fischiarono
tutt’attorno. Mi tuffai nella buca, appena in tempo per sottrarmi alla gragnola di colpi di
ogni
calibro.
Intuii
quale
sarebbe stato il mio prossimo
futuro, che avrei condiviso con
Di Stefano. Mi disse che
un’altra
scheggia
aveva
spezzato la cassa del mitra. Gli
americani adesso avevano
smesso di sparare. Non li
vedevamo più passare nel tratto
scoperto per Monte Acuto. Una
decina di elmetti spuntarono
dagli arbusti che bordavano la
stradina per San Martino e il
Cantagallo. Sfilai l’otturatore dal
Sullo sfondo il profilo del Monte Acuto
Mauser e lo lanciai nel vuoto,
con la carabina. Non avevo più pallottole, ma anche se me ne fossero rimaste, a quel
punto avrei potuto fa- re ben poco.
In tedesco, gli americani ci urlarono di uscire e di andare verso di loro con le mani in
alto. Di Stefano scavò frettolosamente con le mani un buco e vi seppellì un involto che
conteneva, come mi disse in seguito, un centinaio di fotografie della visita di Benito
Mussolini al Battaglione sul Colle delle Grazie, il 9 agosto’44. Gli erano state date da un
tenente della PK aggregato alla 29.Panzergrenadiere Div. .
Levandomi in piedi, notai il codolo di una bomba da mortaio da 60 che spuntava dalla
terra, ad un paio di spanne da dove tenevo la testa. Per l’intervento di qualche angelo
custode non era esplosa. Andai da Di Stefano e mi chinai per aiutarlo ad uscire dalla
buca. Un paio di raffiche di Thompson ed una serie di improperi in americano mi
svegliarono dal torpore in cui ero caduto e segnarono l’inizio di una nuova, molto
sgradevole esperienza. La diecina di elmetti che avevamo intravvisto nel fogliame delle
siepi sul viottolo erano in realtà un plotone di una quarantina di uomini, al comando di un
tenente sempre incollato al radiotelefono, portato a spalla da un enorme soldato di
colore. Col calcio dei Garand ci fecero volare gli elmetti. Con un balzo si allontanarono
da noi quando si accorsero che portavamo delle granate a uovo appese al cinturone.
30
Tenendoci sotto tiro, ci ordinarono di slacciare i cinturoni e di appoggiarli
delicatamente a terra; poi, per riprendersi dallo spavento, ci picchiarono ancora con i
calci dei Garand. Non sentivo il dolore dei colpi, anche se il sangue mi colava sul collo.
A distanza di cinquantasette anni le cicatrici sulla cuticagna si vedono ancora molto
bene. Di Stefano perdeva sangue, non si lamentava, non parlava, ma si capiva dal
digrignare dei denti che soffriva. Si appoggiava a me, saltellando sulla gamba sana.
Il plotone che ci aveva catturato si era intanto attestato sul punto più alto della
mulattiera per San Martino e il Cantagallo, da dove si poteva osservare l’intera spianata
delle Almedole. Il tenente affidò gli abbacchiati
prigionieri a due fanti armati di semiautomatici
Winchester
perché fossero condotti nelle
retrovie. Scendemmo a Valsalva per la
mulattiera che avevamo salito la mattina del
25, incrociando file ininterrotte di fanti in
assetto da combattimento che salivano verso
il Monte Acuto.
Due anni dopo seppi che un paio di
centinaia di quei fanti erano scesi a valle a
dorso di mulo,
chiusi in sacchi di tela
gommata.
Il ritorno a valle era avvenuto il 27 ed il 28
di settembre, dopo i primi durissimi combattimenti sul Monte Battaglia. Le cronache militari
riportano che la conquista del Monte Acuto ed
il mantenimento della sommità del Monte
Battaglia furono pagati a caro prezzo dai
fanti del 350° Reggimento.
Nelle prime ore del pomeriggio del 26 settembre
erano ancora in buona salute e ce lo dimostrarono
gratificandoci con pugni, pedate e colpi con i calci
dei Garand sulla testa, sulle spalle e sulla schiena.
Sembravano degli invasati, in preda all’odio. Forse si comportavano così perché
avevano una grande paura, che speravano di esorcizzare menando i due malcapitati
che si erano trovati a portata di mano.
Il Duce consacra una bandiera di
combattimento dell'Esercito
Repubblicano
Come Dio volle, arrivammo a Valsalva.
Avevamo fatto una sosta di mezz’ora nella rimessa attigua alla casa del cantoniere, in
attesa che si sfogasse il fuoco dell’Artiglieria tedesca, molto intenso e preciso. Il
Comando del I Battaglione del 351° Reggimento della 88 a Divisione di Fanteria era stato insediato nella palazzina dell’ANAS, tutt’ora esistente sul bordo destro della
“montanara”, dove inizia la stradina che conduce alla chiesa e al cimitero della frazione.
Appena oltre la soglia, un tavolino di legno era divenuto la scrivania di un giovane
capitano, che stava scrivendo appunti su un quaderno a quadretti dalla copertina nera.
Scelse una pagina, dove notai che erano segnati i nomi di alcune persone che
conoscevo: Aschedamini, Franco, lieutnant, con una croce accanto; Pinotti, Benito,
sergeant; Parietti, Felice, private; Lori, Adriano, private.
31
Mi accorsi che il capitano americano portava alla cintola la fondina di cuoio grigioverde
con la Berretta 34 cal. 9 corto di Aschedamini. Non
potevo sbagliarmi, perché sulla patta era bene
visibile una piccola aquila in metallo della
Wehrmacht che Aschedamini aveva avuto in regalo
da un ufficiale tedesco. Osservai al capitano che
non era corretto trascurare la ferita di Di Stefano, e
quello, serafico, rispose che la cosa non era
importante, perché saremmo stati fucilati al
tramonto. Il sergente AU Salvatore Di Stefano,
freddo e solenne, alzò il capo e, scandendo le
parole, lo mandò a farsi fottere:, <Fottiti, capitano!
Scher Dich zum Teufel, Herr Kapitän! Va te faire
fiche, capitaine, toi, l’Amerique et ton president, le
vieux cochon!”. Per essere sicuro che capisse
bene, gliel’aveva detto in italiano, in tedesco e in
francese, le lingue che conosceva. Era un Di
Stefano che non avevo mai visto, fiero fino
19° SS
PANZERGRENADIER DIV. all’alterigia. Il capitano cambiò registro. Mentre ci
interrogava, un sergente ci appese al collo un
LATVIA
cartello bianco di tela gommata con la scritta a
caratteri cubitali PRISONER OF WAR, le coordinate topografiche del punto dove era
avvenuta la cattura e l’unità che l’aveva effettuata. Al tramonto. seduto sui resti di un
muretto, fuori della casa
dell’ANAS, Di Stefano fu
finalmente medicato da un
caporale
della
Sanità,
riconoscibile per i vistosi
dischi bianchi
con la
croce rossa che portava
dipinti sul grande elmetto .
Coprì lo squarcio sulla gamba
con polvere di sulfamidici,
fasciò e se ne andò,
assicurando che Di Stefano sarebbe stato ricoverato at once, al più presto, in un
ospedale da campo. Passammo le ultime ore insieme nella grande stalla della Casa
Raspanti, in compagnia di una trentina di soldati in uniforme tedesca, compresi alcuni
SS, che recavano sul braccio sinistro uno scudetto con la dicitura LIETUVA ed i colori
della bandiera lituana, giallo, verde e rosso a barre orizzontali.
La giornata del 26 settembre si chiuse con la perdita di quindici caduti, comprendendo
nel numero il bersagliere Antonio Ciarnelli, dato come disperso, ma oramai
identificabile nel milite ignoto inumato nell’ossario di Valsalva.
I feriti furono tredici, alcuni dei quali con esiti invalidanti.
Il KTB (Kriegstagebuch, il Diario Giornaliero di Guerra) del LI Gebirge Armee Korps (LI
Corpo d’Armata di Montagna), del quale faceva parte la 44. Inf.Div. “Hoch und
Deutschmeister”, che aveva alle dipendenze il 671. FEB, cui erano aggregati i
bersaglieri della 1°Compagnia, nel n.4 del 1°ottobre 1944 riportò:
32
“A Monte Acuto e precisamente nel sottostante piano delle Almedole che domina
il ponte di Valsalva, si sacrificarono molti bersaglieri rimasti sotto l’infernale
fuoco americano, ad impedire, con il tenente Dani, lo sfondamento del fronte”.
Il 30 settembre, nei locali della palestra, resi tetri dalla tamponatura con cartoni
e
pezzi di compensato che avevano sostituito i vetri negli infissi delle finestre, due ufficiali
del 671.Feld Ersatz Bataillon diedero corso alla cerimonia, molto sobria secondo le
tradizioni della Wehrmacht, della consegna delle Croci di Ferro di Prima e di Seconda
Classe assegna-te ai bersaglieri per i fatti del 23. (…)
Il comando della 715a aveva deciso di giocare la carta dei bersaglieri per tentare ancora
una volta di sloggiare gli americani.
Il tenente Dani scelse quaranta bersaglieri, tra i più in arnese.
Alle 03:30 del 1° ottobre 1944 i bersaglieri e un Kampfgruppe di una trentina di
guastatori del Pionier Bataillon 715 andarono all’assalto del Monte Battaglia. Anche i
bersaglieri partecipavano in veste di guastatori. Ad ognuno erano state consegnate due
grosse saponette di TNT, trinitrotoluene, un esplo-sivo ad alto potenziale, per devastare
definitivamente le postazioni del nemico. Al riparo delle vecchie mura della rocca e nei
fortini che erano stati improvvisati
tutt’attorno, gli americani, che sarebbero stati
rilevati il giorno seguente da fucilieri britannici, opponevano una incredibile resistenza.
Avevano piazzato mitragliatrici medie e pesanti e mortai da 60 che battevano il terreno
circostante incessantemente. Lo sbarramento dell’artiglieria e dei mortai costituiva un
ostacolo molto difficile da superare, ma che si poteva affrontare, preventivando una
percentuale di perdite vicina al 30%. La sommità del Monte Battaglia era invece un
obiettivo impossibile, isolata come era da una profonda fascia di terreno scoperto, che
non offriva alcun riparo agli attaccanti. Salirono per la mulattiera che conduce a Smirra
e a Ortali; dalla quota 333 di Ortali proseguirono per Casola di Sopra, ma prima di
raggiungerla piegarono a ponente per Chiesuola e Ca’ Bosco, a quota 516, sotto il
ripidissimo costone che congiunge il Monte Ba-darello (m 605) con il Monte Battaglia (m
715). Da Casola a Chiesuola (m 459) procedettero in mezzo alle esplosioni delle
cannonate britanniche, che arrivavano dal fondovalle del Senio.
Sfruttando l’oscurità, i bersaglieri e i pionieri riuscirono a raggiungere la base del
costone, duecento metri sotto il crinale, in un grandinare continuo di pallottole e di
bombe di mortaio. Gli attaccanti erano costretti ad usare le mani per poter salire, a
balzi, nel fuoco. Il costone era ed è ancora oggi ripidissimo, spoglio e liscio come un
cranio. Gli obici da 105 e da 155 americani sparati dal fondovalle del Santerno si
incrociavano con quelli da 75 e da 90 britannici sparati dal fondovalle del Senio.
Era ancora buio pesto, rotto a sprazzi dalle vampate delle esplosioni, che rendevano
irreale e sinistro il paesaggio. Gli americani con le Browning 7,62 e 12,7 sparavano
traccianti, come la mattina del 26 davanti al Ciglione delle Almedole.
Le scie rosse fischiavano a pochi centimetri sugli elmetti dei bersaglieri, che
continuavano ad avanzare appiattiti sul terreno, e si sovrapponevano a fasci,
incrociandosi nei rari punti dove sarebbe stato possibile tentare di passare.
Vicino alla sommità, il frastuono aveva superato il limite di sopportazione: si era al
paros-sismo. Procedere in quelle condizioni era umanamente impossibile, né suicidarsi
sarebbe servito a qualcosa. Con la prima luce dell’alba, venuta mano la relativa
protezione del buio, il tenente Dani impartì l’ordine di ripiegare. La luce stava mostrando
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in tutta la sua crudezza la tragica realtà dello scenario, punteggiato di corpi umani in
diversi stadi di putrefazione. Il fetore della morte, reso più penetrante dall’ ozono
dell’acciaio e dai gas delle cannonate, era insopportabile.
Scese a valle il ferito più grave, il sergente maggiore Stellini, disteso su una carretta
trainata da un mulo, sul quale era stato issato a cavalcioni il caporale Bortolon, ferito
seriamente ad una gamba da una grossa scheggia. Gli altri feriti raggiunsero il posto di
medicazione più vicino trascinandosi a fatica sulle proprie gambe.
La forza della Compagnia era scesa a cinquantadue effettivi, con le perdite salite al
56%.
Il tentativo di espugnare la sommità del Monte Battaglia non era stato inutile, perché
aveva impegnato ancora una volta il 350° Fanteria americano, che il giorno dopo, 2
ottobre 1944, dovette essere ritirato
per le perdite subite.
Bersagliere AU Franco Lopez
I Pionieri tedeschi, mentre i
bersaglieri richiamavano su di sé
l’attenzione dei difensori americani,
erano riusciti a far saltare in aria un
importante posto di osservazione per
l’artiglieria, che dominava la Valle del
Senio.
Il KTB del LI Gebirge Armee Korps
ancora una volta riportò:
“A Monte Battaglia le nostre
truppe lanciarono un nuovo
attacco all’alba del 1° ottobre con
la partecipazione anche dei 40
bersaglieri superstiti della Compagnia d’Assalto del tenente Dani, che in un
attacco concomitante con 40 pionieri eliminarono un posto di osservazione
americano”
La Compagnia, quello che ne restava, andò a riposo a Riolo Bagni.
L’8 ottobre la Compagnia fu condotta con autocarri da Casola Valsenio a Zattaglia,
nella Valle del Sintria, un torrente che sorge vicino a Fornazzano, sul confine tra la
Romagna e la Toscana, poco distante da Monte Cece (m 759).
Il Sintria era gonfio e le acque, scendendo verso il Senio, spumeggiavano e facevano
un rumore molto forte. I bersaglieri risalirono la valle fino a Sant’Andrea, un paio di
case e una chiesa sotto il Monte della Vecchia (m 657).
Il Monte Cece era nelle mani del XIII Corpo britannico, che aveva schierati nella zona
gli Sherwood Foresters, i King’s Shropshire con un battaglione di mitraglieri del Royal
Middlesex, e i granatieri del Reggimento Duke of Wellington.
Il 9 ottobre arrivarono da Verona i primi complementi: i sergenti AU Apollonio e
Piancastelli, con sei bersaglieri, che portarono la forza a sessanta uomini.
La Compagnia si attestò sulle posizioni in riva destra del Rio Dozzone, un modesto
affluente del Senio, che divideva in quel momento il settore in mano alle truppe
germaniche da quello in mano ai Britannici.
Iniziò subito un’intensa attività di pattuglie.
Ricorda il bersagliere AU Franco Lopez, che era appena rientrato alla Compagnia
dopo una convalescenza per le ustioni al viso riportate durante il corso per “cacciatori di
carri” frequentato a Mordano (Bo) presso il Panzerjäger Abteilung 715 :
34
“Il Battaglione della Wehrmacht cui eravamo stati aggregati ( 671. Feld Ersatz
Bataillon della 715. Infanterie Division) combatteva senza interruzioni dalla fine del
gennaio 1944, quando dalla Provenza fu inviato attorno alla testa di ponte di Anzio e
Nettuno, dove contra stò efficacemente gli anglo-americani.
In nove mesi, la sua forza si era assottigliata a circa cento uomini, forza inferiore agli
effettivi di una compagnia. La cosa mi impensieriva un poco.
Ci sistemammo all’interno di una stalla, che sembrava inutilizzata da tempo.
Durante la notte fui svegliato dal sergente Chiorboli.
Il tenente Dani lo aveva
incaricato di eseguire un’incursione esplorativa, perciò, assieme a Filiberti e a due
tedeschi, ci avviammo. Un fiumiciattolo segnava la linea di demarcazione fra le zone
presidiate dai tedeschi e quelle occupate dagli inglesi. Lo attraversammo e risalimmo
cautamente le prime balze del Monte Cece. Poi ci mettemmo a carponi. Ad un tratto,
uno dei due tedeschi si accorse che eravamo entrati in un campo minato.
Retrocedemmo con estrema cautela e lo aggirammo. Arrivammo in cima alla collina
dove era attestato l’avamposto inglese. Ci acquattammo nel silenzio più assoluto, in
attesa del cambio delle sentinelle. Individuammo così sia le postazioni che la casa dove
alloggiava la truppa. Poi, sempre mantenendo il più assoluto silenzio, tornammo alla
base.
Raggiungemmo la nostra stalla e ci mettemmo a dormire.
Ci svegliammo nel primo pomeriggio. Il tenente Dani ci radunò e ci comunicò che alle
prime luci del giorno seguente avremmo attaccato la postazione inglese.
A noi si sarebbe aggregata una squadra tedesca per supportarci con una mitragliatrice
pe sante. Se qualcuno fosse rimasto ferito nel corso dell’azione, avrebbe dovuto cercare
di tornare alla base per proprio conto. Operavamo all’interno delle linee nemiche e per
completare l’azione il reparto doveva contare sull’apporto di tutti gli uomini validi.
Alla sera cercai di riposare, ma fu un continuo dormiveglia: l’attesa per l’assalto era
fonte di tensione, dato che non sapevo cosa mi aspettasse, ma soprattutto cercavo di
immaginare cosa avrei fatto.
Fra le due e le tre di notte ci preparammo e partimmo. Arrivammo alle pendici del
Monte Cece con tutte le precauzioni ed in assoluto silenzio e iniziammo la salita.
Il sergente Chiorboli ed io, essendo già stati sul luogo la sera prima, eravamo accanto
al tenente Dani per consigliarlo sul percorso da fare. I bersaglieri aggirarono
l’avamposto per prenderlo alle spalle. Gli inglesi non si aspettavano di essere attaccati
da quella parte. Le sentinelle erano disposte verso le linee tedesche.
Arrivati in cima alla collina ci appostammo. Aspettavamo i primi chiarori dell’alba.
Io, che ero armato di un mitra Berretta 38A e di un paio di Stielhandgranate (bombe a
ma- no col manico di legno), guardavo il tenente Dani. Ad un suo segnale, avrei dovuto
lanciare una delle bombe in direzione della postazione di una delle vedette.Il silenzio era
assoluto. A levante, dietro i monti, il cielo incominciò a rischiararsi. Il tenente Dani alzò
un bracci… strappato il cordoncino della sicura, lancia la bomba e mi buttai a terra con
il mitra imbracciato. Tra gli scoppi delle bombe, il crepitìo dei mitra e delle
Maschinenpistole si mescolò alle
raffiche ringhianti dei Maschinengewehr.
Cominciarono a fischiare attorno a noi le fucilate di risposta degli inglesi. Ad un tratto
sentii un forte urto al polso destro, mentre il mitra mi cascava di mano. Mi rivoltai sul
dorso e lo zampillo di sangue che stava uscendo dalla ferita mi imbrattò la gola e il viso.
La mano destra si era rattrappita e per quanto cercassi non riuscivo ad aprirla.
<Cazzo,> pensai <non potrò più andare a caccia!> Poi su di me vidi la faccia di un
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anziano bersagliere baffuto; era un graduato, di cui purtroppo non ricordo il nome.
(Caporalmaggiore Antonio Terranova, cl. 1918, ventiseienne). Equivocò sulla gravità
della ferita e urlò: <Vigliacchi .... ti vendicherò!>
Nel frattempo l'azione continuava e gli Inglesi lentamente stavano abbandonando le
posizioni; alla fine si sarebbero ritirati disordinatamente, lasciando i Bersaglieri padroni
del campo. Il caposaldo fu conquistato, ma poi, a causa della sua esposizione al fuoco
di rivalsa della artiglieria britannica, risultò indifendibile."
I fatti ricordati dal bersagliere AU Franco Lopez avvennero nella notte tra il 13 e il
14 ottobre e all’alba del 15 ottobre 1944.
Obiettivo furono le le postazioni dei Fucilieri britannici Sherwood Foresters a quota
514 sul versante occidentale del Monte Cece (m 759).
Il Monte Cece si trova a circa 5.750 m in linea d’aria a SSE di Monte Battaglia ed è un
buon punto di osservazione a cavallo delle Valli del Senio e del Sintria.(…)
Il 22 novembre, i superstiti della 1 a Compagnia ebbero un breve incontro con i
camerati della 2a Compagnia, che aveva lasciato Verona il 14 novembre.
Si incontrarono a Ortodonico, una località tra Sasso Morelli e Tréntola, sei chilometri a
N di Imola.
Il 24 novembre i superstiti della 1 a Compagnia giunsero a Legnago, in provincia di
Verona, per una sorta di quarantena sanitaria, prima di essere fatti rientrare alla vecchia
caserma dell’8°. Riceverono il soldo arretrato, tre mesi compiuti, che, tra allarmi e
bombardamenti aerei quotidiani, fu speso interamente per lavori di sartoria sulle
uniformi e generose consumazioni nelle trattorie. A Verona furono sottoposti a visita
medica e rimessi velocemente in ordine.(…)
Il mese di dicembre fu denso di avvenimenti significativi: la consegna delle
ricompense al valor militare concesse per i fatti d’ armi nelle valli del Santerno, del
Senio e del Sintria e l’udienza alla Villa delle Orsoline di Gargnano, dal Capo della RSI.
Fu un’esaltante fine d’anno quel dicembre del 1944. Tutti o quasi sapevano che la
guerra era ormai perduta; ma il discorso del Duce la mattina del sabato 16 dicembre al
Teatro Lirico di Milano, le scene dell’entusiasmo popolare e le notizie diffuse dalla radio
sull’offensiva sferrata nelle Ardenne da von Rundstedt avevano contribuito a creare un’
atmosfera che aveva del magico.
Domenica 17 dicembre il maresciallo Graziani lasciò il Duce a Milano e andò a
Verona, dove fu accolto nella vecchia caserma dell’8° dai superstiti della 1 aCompagnia e
da una com-pagnia del III Battaglione “Enrico Toti”. Il maresciallo tenne un breve
discorso, al termine del quale appuntò sul petto dei bersaglieri e delle madri dei Caduti
le medaglie concesse dal Capo della RSI. Toccò prima alle madri dei bersaglieri Sergio
Benaglio, Lamberto Brindesi e Ferdinando Piazzoli, poi, via via, ai viventi. Ultimo fu il
tenente Ilario Dani, sul cui petto Graziani appuntò la medaglia d’argento, mentre gli
rivolgeva espressioni di prammatica. Era una giornata fredda e nebbiosa e stava già
facendosi buio quando, nel primo pomeriggio, il maresciallo partì per ritornare a Milano.
I giovani bersaglieri vissero quella domenica con orgoglio e commozione, consapevoli
che i riconoscimenti ufficiali e le ricompense al valore militare individuali premiavano
l’intero reparto, primi fra tutti i Caduti.
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I “ragazzini” della 1a Compagnia si erano comportati bene in condizioni particolarmente
avverse, che avrebbero messo a dura prova veterani di provata esperienza.(…)
La mattina di mercoledì 20 dicembre 1944 i bersaglieri decorati della 1 a Compagnia
partirono in autocarro dalla caserma di Verona per andare a Gargnano, sulla riva
occidentale del Lago di Garda, dove era il Quartier Generale, sede di guerra del
Governo della Repubblica Sociale Italiana. Da poco più di un mese, precisamente dal
18 novembre, il Quartier Generale era stato trasferito dalla Villa Feltrinelli alla Villa delle
Orsoline , poco distante. La Villa Feltrinelli era, e lo sarebbe stata fino al 18 aprile 1945,
la residenza di Benito Mussolini e della sua famiglia.
Alla Villa delle Orsoline, i bersaglieri, dopo una lunga attesa, furono ammessi alla
presenza del Duce, nello studio al primo piano.
Si ricreò come per un incantesimo l’atmosfera del 9 agosto, quando Mussolini passò
in rassegna il Battaglione nel Parco di Villa Tosi a Covignano, sul Colle delle Grazie, a
ponente di Rimini.
Dopo essere stati presentati dal generale Alessandro Melchiori, Ispettore del Corpo
dei Bersaglieri, i ragazzi conversarono con il Duce, rispondendo alle domande che egli
rivolgeva loro, dimostrando sincero interesse per i fatti di cui erano stati protagonisti.
Fece chiamare un fotografo ed uscì insieme a loro sul terrazzo che guarda il lago.
Si fece riprendere nel mezzo del gruppo, avendo alla sua destra il generale Melchiori
e il sergente maggiore Stellini, ed alla sua sinistra il tenente Dani e il sottotenente
D’Antona.
Le ore trascorse a Gargnano entusiasmarono i bersaglieri, che rientrarono a Verona in
stato di grazia.(…)
Quindici mesi dopo l’armistizio, il disfacimento delle forze armate del regno, la fuga del governo e della famiglia reale e l’invasione del territorio nazionale fino alla Linea
Gotica, l’Italia del Nord viveva costituita in stato repubblicano, secondo proprie leggi e
propri ordinamenti.
Gli avvenimenti del settembre 1943 erano ormai lontani, appartenevano ad un altro
periodo della vita, un momento doloroso che aveva marcato le coscienze e segnato
l’inizio di un travagliato processo di trasformazione.
Erano passati venticinque mesi da El Alamein, ventiquattro da Stalingrado, diciotto
dalla resa dell’Armata italo-germanica in Tunisia, diciassette dall’inizio dell’invasione del
territorio nazionale, sei dalla caduta di Roma e dallo sbarco in Normandia, e quattro dai
primi aspri combattimenti sulla Linea Gotica.
Archi di tempo tra grandi battaglie perdute e avvenimenti che avrebbero sconvolto
l’Europa, nei quali si stava delineando in modo drammatico la disparità delle forze in
campo.
132. Reggimento Granatieri
Dal Comando di Reggimento, il 25.9.1944
37
Durante i pesanti combattimenti difensivi del 23 settembre 1944
la Compagnia Bersaglieri aggregata al Reggimento attraverso la
715 I.D., agli ordini del Ten.Ilario DANI, si è battuta con
valore straordinario. Sull'ala destra del Reggimento ad occidente della Valle del Santerno la Compagnia ha mantenuto le
posizioni dominanti su Monte Cucco,
Monte Porrara e San Michele contro
due attacchi condotti dal nemico con
forte accompagnamento di artiglieria e
di mortai. Quando, dopo un ulteriore
attacco, la resistenza dei difensori
italiani è stata infranta ed il nemico
è riuscito a sfonda-re, il Monte Cucco
è stato riconquistato con un audace
contrattacco, condotto dal Tenente
Ilario Dani e dal Sottotenente Lugeo. In
questi combattimenti di difesa e di
attacco malgrado le proprie elevate
perdite la Compagnia ha inflitto al
Il bollettino di guerra del
nemico perdite ancor più
comando tedesco menziona
sanguinose. La Compagnia possiede
l'eroico comportamento dei
un superiore spirito di combattimento
Bersaglieri del Mameli. Sotto e un raro slancio di attacco.
la traduzione in italiano fatta Essa ha tenuto l'ala destra scoperta
dai tedeschi
del
Reggimento
ed
è
risultata
determinante per la difesa dell' intero settore del Santerno.
f.to Maggiore Leitner
Allegato 10 per il Bollettino della Wehrmacht del 10.10.44, n°
196
Dal libro “QUELLI del “MAMELI”, a cura di Toni
Liazza
L’AVANZATA DEI
“LIBERATORI” IN TERRA
ITALIANA
38
DA UN TACCUINO DI GUERRA
I mezzi di trasporto erano pressoché scomparsi. Per unire Frascati alla zona di
campagna dove avevamo trovato rifugio negli ultimi tempi di guerra c’era ancora
qualche “littorina”, il trenino che aveva a suo tempo sostituito, ammirato da tutti, il
vecchio “tram”. Per andare a Roma – poco più di una ventina di chilometri - c’era invece
ancora il vecchio tram, per salire sul quale la gente, non riuscendo ad entrare dalle porte
affollate, si ingegnava ad entrare dai finestrini. E poi restava il più antico mezzo di
comunicazione terrestre: le gambe. Molto usate in quegli anni, quando sembrava logico
fare chilometri per spostarsi dove
fosse necessario. Così accadde
più volte che i venti e più chilometri
che
separavano
campagna
da
la
casa
di
noi
li
Roma
facessimo a piedi. Con pessime
calzature, accomodate non si sa
quante volte e dalla cui suola, di
sughero o legno, finiva sempre per
spuntare qualche chiodo; alle volte
La Littorina
bisognava fermarsi per dare un po’ di sollievo ai piedi. Ma la difficoltà del viaggio non
era tutta lì. Il peggio era quando arrivavano, calandosi rapidamente verso terra, gli aerei
americani. Fuga rapida, il più rapida possibile, verso le cunette che fiancheggiavano la
strada, per accoccolarsi lì, unico “riparo”. Gli aviatori mitragliavano calandosi a bassa
quota i civili che percorrevano la strada, per poi riprendere rapidamente quota e
scomparire. E per tornare magari dopo mezz’ora. Non vi era nessun obiettivo militare
lungo quella strada, mai visto nemmeno l’ombra di militare italiano o tedesco. Erano
evidentemente distrazioni di aviatori che non sapevano come impiegare il tempo libero.
Ricordo il giorno in cui un mulo, impaurito, fu sul punto di calpestare con i suoi zoccoli
una donna rannicchiata nella cunetta. Rialzandosi, poi, ci si passava la mano sui vestiti
sporchi di terra, e si riprendeva a camminare. Fino al prossimo rombo di aerei e
sventolate di mitra dall’alto.
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“Liberator”. Non è chiaro perché gli aerei da bombardamento americani si chiamassero
così. Quello che è certo è che, dopo il segnale di allarme, si avvertiva il loro suono cupo,
inconfondibile. E gli spari della contraerea. E il fragore delle bombe sganciate che
cadevano. Su obiettivi militari come su case ed edifici civili. L’incursione poteva durare
poco o molto, dei suoi risultati ne davano notizia il giorno dopo la radio e i giornali; si
sapeva così più esattamente dei quartieri colpiti e anche, più o meno, il numero dei
morti.
Di quella volta non ricordo segnale di
allarme, probabilmente non ci fu. E
perché poi avrebbe dovuto esserci? Il 3
settembre 1943
l’armistizio
fra
era stato firmato
l’Italia
e
gli
Stati
controbelligeranti. Tutti avevano tirato un
respiro di sollievo: la guerra era finita,
anche se con un risultato tristissimo per
l’Italia. Ma erano finiti i bombardamenti,
le azioni di guerra, le distruzioni delle
B 25 Liberator uccidono civili italiani
nostre città e la morte di tanti cittadini.
Sarebbe finito “l’oscuramento” di sera, perché nessuna luce trapelasse dalle finestre e
indicasse, nel caso di incursioni, dove fosse il centro abitato. Non sarebbe più stato
necessario “decorare” i vetri con strisce di carta incollate per dritto e per traverso, in
modo da fare una sorta di grata così che negli spostamenti di aria quelli non si
frantumassero schizzando via, ma restassero in qualche modo aderenti al telaio. Forse
presto non sarebbe stato più necessario fare lunghe file davanti ai negozi
per
acquistare qualsiasi genere alimentare, cominciando dal pane. La tregua. Si poteva
alzare il capo e guardare il cielo, tranquilli.
Il rombo cupo colse tutti all’improvviso, ci fu appena tempo di rendersi conto di quello
che stava accadendo. Diretti rapidi su Frascati, la più bella cittadina dei Castelli Romani,
i “Liberator” si erano inequivocabilmente annunciati. Furono sopra l’abitato e non
tardarono a “sganciare”. Un bombardamento a tappeto, fitto: il fragore, gli schianti, si
succedevano ininterrottamente. Per quanto tempo? La durata, nel ricordo, è svanita.
Solo immagini: insieme a mia madre e alle mie sorelle ci appoggiavamo, come a
cercare riparo, a una parete. La casa dove abitavamo era a quattro chilometri dalla città
40
e a ogni schianto fragoroso l’aria tremava, le nostre vesti oscillavano. Nel ricordo vi è,
alla fine, il suono cupo che si allontanava. I primi che, uscendo dai ripari, o
miracolosamente rimasti in vita in una via, una piazza, riuscirono a volgere il capo
intorno, scorsero, accecati
dalla polvere, cumuli di
macerie.
Lì,
stata
loro
la
dove
città.
era
Si
ergeva ancora il Duomo,
colpito ma non distrutto,
come punto di riferimento.
Lo
stordimento,
l’incredulità
di essere
ancora in vita; poi
Frascati bombardata dai "liberatori"
gli
scavi, con disperazione.
Sotto
quelle
macerie
c’erano molti morti, ma anche dei vivi.
Un solo angolo della città era stato risparmiato: quello dove c’erano le caserme
tedesche, sede del feldmaresciallo Kesserling; il bombardamento “a tappeto”, avvenuto
violando i patti dell’armistizio, aveva mancato, oltre tutto, l’obiettivo evidentemente
propostosi. I militari tedeschi uscirono dalle caserme e si misero all’opera anche per
dirigere le operazioni di scavo. Che cosa è una città dopo un bombardamento del
genere? Difficile rendersene conto, per chi non l’abbia vissuto. Vi erano i “rifugi”, vale a
dire scantinati, locali interrati che spesso si rivelavano micidiali trappole quando l’edificio
che li sovrastava crollava o comunque veniva sbarrata da macerie l’uscita. Non
mancarono anche a Frascati coloro che dal rifugio non uscirono più. Vi fu chi, restato a
lungo sotto le macerie e sopravvissuto quasi miracolosamente, morì appena estratto
dalla sua trappola per aver respirato d’improvviso l’aria esterna. Scavare, cercare; dove
c’erano case rimaste in piedi anche pericolanti, i superstiti andavano disperatamente a
cercare qualcosa da recuperare. Molti non trovarono più nulla, altro non possedevano
più che gli indumenti che indossavano; si organizzarono in fretta una sorta di dormitori
nelle “grotte” - e il nome dice tutto – per potersi distendere su una branda la notte.
Via via che si scavava, molte speranze lasciavano il posto alla disperazione. Su
12.000 abitanti le statistiche poi ne dichiararono rimasti in vita 6.000. Tra questi
41
superstiti di famiglie smembrate, semidistrutte: chi aveva perso moglie e figli; chi aveva
perso marito e figli.
L’armistizio era stato firmato. L’assurdo bombardamento era arrivato. Ora non c’era
che cercare per i superstiti di rimettersi in piedi. Ma molti in piedi non ci si rimisero mai.
Perché non più i “Liberator”, ma altri apparecchi tornarono sulla cittadina distrutta: per
mitragliare. Non una volta: più volte, più giorni. Raffiche di mitra, mirate; qualcuno, sotto
quelle raffiche, cadeva. Poi gli aerei, rapidamente come erano venuti, si allontanavano.
Davanti alla casa dove abitavo passava ogni mattina un giovane, lo ricordo ancora
vestito di un maglione blu e di un paio di pantaloni grigi, gli unici indumenti che ormai
possedeva. Era l’unico rimasto in vita di una famiglia, gli altri erano rimasti sotto alle
macerie. Si fermava per chiedere acqua, l’unica cosa che si poteva offrire, di cibo ce
n’era giusto per sopravvivere. Prese due bottiglie di acqua e fatte due chiacchiere, si
avviava solitamente verso un campo che possedeva poco lontano: per piantare legumi,
patate, quello che poteva servire per nutrirsi nell’immediato futuro. Era una visita
quotidiana che portava anche notizie di come
procedevano le cose nella città. Notizie di vivi
e di morti, ritrovati questi dopo giorni di scavi
accaniti e di speranze inutili. Poi, un giorno
quel giovane non venne più: scampato alle
bombe, era caduto sotto una raffica di mitra,
evidentemente ben mirata.
I liberatori – intendo quelli chiamati da allora
con tale nome - erano arrivati, per lo meno in
buona parte d’Italia. Tra di essi, quelli con la
divisa americana sono rimasti nel mio ricordo
con una bottiglia di whisky a portata di mano,
nella tasca dei pantaloni; e a caccia di
“segnorine”. Tristissimo fenomeno questo,
incrementato dalla povertà in cui si trovava
l’Italia. Però, bisogna dire che, almeno stando
alle testimonianze di chi conosceva bene la
cosa, per pagare pagavano. Ma i liberatori erano anche di altre nazionalità. Vi erano
Eleonora Fontana, autrice di questo
ricordo, all'età di quattordici anni
42
quelli francesi. Questi portavano senz’altro la
divisa con più stile, per lo meno sembravano non aver
bisogno di avere sempre il whisky a portata di mano. Forse
quel
loro
atteggiamento,
certamente
militarmente, dipendeva anche dal
più
consono
fatto di aver con loro
truppe di colore, racimolate nelle loro colonie. Disponevano
quindi di una sorta di manovalanza, assoldata questa,
secondo le usanze locali, con la promessa del “sacco”.
Sacco un po’ difficile nelle città, molto più facile nelle
campagne. Lì non ci voleva molto. Un esempio è dato dal
ricordo di quella volta che, salendo agilmente sul filo spinato
che circondava il giardino, come fosse una scaletta fatta allo
scopo, alcuni di quei liberatori si precipitarono prima nel giardino e poi dentro la nostra
casa. In quanti fossero non lo ricordo esattamente, io ne vidi chiaramente
ricordo bene perché me li trovai davanti, all’improvviso: i
loro mitra a un palmo del mio petto. Avevo quattordici anni:
ho ancora davanti a me l’espressione di quei visi che, a
chiamarli così, offendono la nobiltà insita nella parola viso.
due. Li
Sofia Loren nel film
"La Ciociara", che
rievoca gli stupri alle
donne italiane da parte
dei “liberatori”
Facce contratte e mani che tremavano sull’arma che sorreggevano. Mani contratte che
tremavano… il mio sguardo era calamitato da quelle. Nessuno saprà mai perché quella
non sia stata l’ultima mia visione su questa terra. Delle grida, probabilmente di richiamo
e ovviamente incomprensibili, fecero d’improvviso girare il capo dei due; un immediato
dietrofront e sparirono. Non ho avuto la forza di vedere se abbiano risalito il filo spinato
per uscire e tanto meno per vedere dove si dirigevano. Si udivano grida da altre case
vicine. Erano grida di donne.
Ricordo poi, alto ed elegante, l’ufficiale francese che comandava il gruppo stanziato
nella zona. Ci rivolgemmo a quello, ovvero ci si rivolse mia madre a nome anche di altre
donne che formavano un piccolo gruppo.
- Ma gli uomini del villaggio dove erano, dove sono? – chiese quello dopo aver udito
l’accaduto.
Già, dove erano gli uomini del “villaggio”? Forse su qualche fronte, nell’Italia
squarciata dalla guerra e dalla politica non mancavano i fronti su cui combattere. O
forse erano in qualche campo di prigionia chissà dove. O forse non c’erano più.
43
Le conclusioni dell’ufficiale
furono rapide: - Bon, se tornano
uccideteli pure. Ma attenti a non
ferirli soltanto.
Mi
sono
sempre
chiesta,
ricordando quel giorno e le grida
femminili che si udivano in altre
case, che cosa fosse accaduto in
quelle. Si sa che difficilmente le
donne violentate parlano. Anche
adesso. E figuriamoci allora.
Nota:
Un bivacco di truppe marocchine in Italia
I Goumiers erano marocchini di
razza berbera, nativi delle
montagne dell'Atlante, che costituivano le truppe coloniali irregolari francesi appartenenti
ai Goums Marocains, un reparto delle dimensioni approssimative di una divisione ma
meno rigidamente organizzato, che formavano il cosiddetto C.E.F. (Corps
Expeditionnaire Francais) insieme ad altre quattro divisioni. Questi uomini selvaggi in
bourms (mantello di lana con cappuccio) e turbante, avvolti in sporchi barracani, erano
denominati "goumiers", perche' non erano organizzati in divisioni regolari, ma in
"goums", ossia gruppi composti da una settantina di uomini, molto spesso legati tra loro
da vincoli di parentela.
Nelle ore successive allo sfondamento della linea Gustav, 7000 soldati marocchini, liberi
dal comando, si avventarono su di un'ampia area della provincia
di Frosinone e della provincia di Latina.
Le conseguenze furono spaventose: secondo alcune fonti ufficiali furono stuprate piu' di
60.000 donne dagli 8 agli 85 anni.
Furono sodomizzati all'incirca ottocento uomini; tra di essi anche il prete di Santa Maria
di Esperia che morì poi per le ferite.
Poi furono uccisi impalati gli uomini che cercavano di proteggere le donne e i bambini.
Fu razziato il 90% del bestiame.
Eleonora Fontana
44
COMPORTAMENTO DI
SOLDATI TEDESCHI QUANDO
NON SPARAVANO LORO
ALLE SPALLE
Trascritta dal cyberamanuense Gianfranco Spotti
L'episodio che voglio raccontare, narratomi diverse volte da mio padre Ennio molti anni
fa, è un fatto realmente avvenuto e getta una luce diversa sui soldati tedeschi nostri
alleati, in particolar modo dopo l'8 Settembre 1943. Erano all'incirca i giorni tra il 15 ed il
20 Settembre 1943, mio padre lavorava un fondo agricolo dal nome "Podere Croce " al
civico N° 89 di Via delle Cinque Vie a Soragna (Provincia di Parma) assieme a mia
madre, in quel mese in attesa del primo figlio, mio fratello maggiore, e mia nonna
paterna. Era una giornata tiepida e soleggiata. Dalla cucina della casa i miei genitori
udirono rumori di motori e voci di persone. Mio padre uscì e vide sulla strada una
colonna di soldati tedeschi con alcuni camion ed alcune motociclette. Davanti al cancello
stava un ufficiale tedesco. Mio padre si avvicinò al cancello e si accorse che si trattava
di un capitano delle SS e così pure tutti i militari della colonna erano SS. L'ufficiale, di cui
mio padre non ricordava il nome e nemmeno il reparto, si presentò parlando in un ottimo
italiano che aveva imparato da ragazzo in un istituto religioso in Liguria e dove era
rimasto fino al momento del suo arruolamento in Germania.
Gli chiese se poteva accamparsi con i suoi uomini (circa 150) nell'area del podere
agricolo per il tempo necessario a ricevere ordini via radio dal comando circa la
destinazione del reparto. Vista la situazione, mio padre acconsentì, nonostante nutrisse
alcuni timori e paure visto il periodo delicato che si stava attraversando. Iniziò
l'allestimento dell'accampamento in un campo vicino al frutteto ed al vigneto. Vennero
messi quattro punti di guardia per le sentinelle, uno per ogni punto cardinale. I miei
genitori guardavano incuriositi tutti questi preparativi che avvenivano con ordine e
disciplina e senza recare danno alle colture o alle infrastrutture del podere. Addirittura i
servizi igienici furono allestiti in fondo al campo, scavati con vanga e badile dai militari
tedeschi badando di creare una specie di "conduttura fognaria" che defluisse al fosso
principale. Il capitano tedesco chiese poi a mio padre di poter utilizzare l'acqua del
pozzo per le cucine e le docce. Mentre questi lavori erano in pieno svolgimento,
l'ufficiale accompagnato da due guardie, chiese a mio padre di accompagnarlo per un
giro di ispezione della casa colonica dalla cantina al soffitto per ragioni di sicurezza e per
verificare che non vi fossero armi o estranei nascosti. Mio padre ovviamente acconsentì
ma fu scosso da un brivido, non tanto per i mitra spianati dalle guardie con le quali
faceva il giro dei locali della casa, ma per il fatto che il podere era di proprietà di italiani
emigrati tempo prima in Inghilterra e divenuti poi, a tutti gli effetti, cittadini inglesi ed
essendo in quegli anni l'Inghilterra in guerra con la Germania lascio immaginare cosa
45
sarebbe successo se queste persone fossero state trovate sul posto o se fossero state
rinvenute prove della loro presenza. Fortunatamente queste persone ritornarono in
patria alcune settimane prima. Prima di sera, dello stesso giorno, mio padre si accorse
che le cucine da campo tedesche erano state montate troppo vicino al fienile con rischio
che qualche scintilla o qualche lingua di fuoco potesse causare un incendio. Il cuoco
parlava solo tedesco e sembrava non capire le rimostranze di mio padre o forse,
semplicemente, non aveva intenzione di spostare le cucine. Intervenne allora il capitano
che con un severissimo e secco ordine, impartì ad alcuni militari di spostare il tutto
lontano da fieno e paglia. Mio padre lo ringraziò del suo intervento.
Dopo un paio di giorni tra la mia famiglia ed i militari tedeschi iniziava un rapporto
amichevole e di reciproca fiducia. Nessun animale da cortile fu toccato, nemmeno il
grasso maiale rinchiuso in un recinto all'aperto. Non un gesto di libero arbitrio da parte di
alcun militare. Se avevano bisogno di qualcosa, questo veniva chiesto gentilmente
tramite il loro ufficiale. Mio padre, durante i suoi racconti, si chiedeva spesso che cosa
sarebbe successo se, al posto di 150 SS, si fossero accampati altrettanti partigiani, non
certamente noti per la loro gentilezza nel chiedere le cose. Probabilmente non sarebbe
rimasto nè una gallina, ne tantomeno il maiale. Alcuni soldati tedeschi, saputo dello stato
di attesa di mia madre, si prodigavano a portarle ad assaggiare i cibi che normalmente
cucinavano per loro. Mia madre, stupita e lusingata di queste loro attenzioni, accettava.
Vi erano cose buone e altre meno, ma di queste ultime essa badava bene a non farlo
capire ai militari per non offenderli o mancare loro di rispetto. Mia madre ricambiava
facendo assaggiare ai militari i prodotti nostri tipici, ovviamente non sufficienti per 150
giovanotti ma che comunque apprezzarono molto. L'ufficiale tedesco arrivò addirittura a
proporre a mio padre di mettergli a disposizione qualche suo ragazzo che lo aiutasse nei
lavori in campagna, che, a quel tempo erano più duri di oggi. Mio padre ringraziò e disse
che se fosse stato necessario, glielo avrebbe chiesto. Si instaurò così un rapporto quasi
di amicizia e mio padre raccontò al capitano delle sue vicende di guerra in Spagna, in
Grecia fino al congedo
ottenuto a fine Dicembre
del 1942. Il capitano prese
allora ad invitarlo ogni sera
dopo
cena
all'osteria
"Stella d'Oro" nel centro
del paese, assieme ad
alcuni sottufficiali, per farsi
una bevuta. I giorni
passavano tranquilli e quei
150 "temibili" SS erano
ormai di casa e spesso si
udivano canti e musiche
che uscivano da una
specie
di
vecchia
fisarmonica
ed
un
armonica a bocca. Con
l'avvicinarsi della fine di
Settembre,
l'uva
del
vigneto era in piena
maturazione ed alcuni soldati chiesero il permesso a mio padre di raccogliere alcuni
grappoli,
perchè
essi,
Una Compagnia di Waffen SS sfila in parata
46
essendo originari del nord della Germania, non avevano vitigni nelle loro zone. Mio
padre fu lieto di accontentare questi ragazzi che non avevano più di venti anni e che,
dietro alle austere divise da SS, erano normalissimi giovani come tanti altri.
Un giorno avvenne un episodio che fece aumentare la tensione, seppur per qualche
ora: un mattino un signore in bicicletta fu fermato da una sentinella tedesca vicino al
cancello. Il capitano gli andò incontro chiedendo che cosa volesse. Il tizio chiedeva di
mio padre e disse che doveva fare dei controlli nella casa colonica. L'ufficiale andò da
mio padre riferendogli l'accaduto e gli chiese che cosa volesse veramente questa
persona, perchè, a prima vista, non gli era piaciuta. Mio padre disse che si trattava di un
controllo dell'Annonaria per controllare che nelle case di campagna non ci fossero
cereali o granaglie non dichiarati e spiegò anche che, essendo i tempi quelli che erano,
ogni contadino teneva qualche scorta nascosta, non dichiarata non per il gusto di
commettere una frode, ma per garantire una migliore sussistenza della famiglia facendo
il pane in casa, come spesso si usava allora nelle campagne. Se quel tizio avesse
constatato quest'inadempienza, mio padre avrebbe ricevuto una denuncia ed una
relativa ammenda che avrebbe sicuramente pesato non poco sui bilanci familiari, a quel
tempo abbastanza magri. L'ufficiale tedesco, indignato dal fatto che iniqui controlli
potessero togliere del pane ad una famiglia, disse a mio padre di stare tranquillo e che ci
avrebbe pensato lui. Tornò dal tizio al cancello e gli disse che in quella casa era tutto a
posto e che poteva ritornarsene da dove era venuto. Il tizio non si dette per vinto ed
insistette che doveva entrare. A quel punto l'ufficiale arretrò di qualche metro, chiamò
alcune delle sue SS e diede ordine di sparare per terra a pochi centimetri dalle scarpe
del malcapitato. Questi, in un batter d'occhio, saltò sulla bicicletta scomparendo in
brevissimo tempo e non si fece mai più rivedere. Un dettaglio importante è quello che
mio padre, volutamente, omise di dire al capitano tedesco che quel tizio, che lui ebbe
modo di vedere altre volte in paese, era un ebreo e che quindi gli era debitore per aver
taciuto quest'informazione che gli salvò la vita. Tra la fine di Settembre e i primi di
Ottobre del 43 il capitano ricevette l'ordine via radio dal comando di procedere in
direzione di Cremona e quindi, un mattino, dopo aver smontato l'accampamento e dopo
aver pulito e risistemato il campo il capitano andò da mio padre per accomiatarsi e per
pagarlo del disturbo arrecato in quel periodo. Mio padre stupito di vedere quest'uomo,
che rappresentava ormai un esercito "nemico" grazie ad un vile tradimento, prendere del
denaro per ricompensarlo, gli prese la mano invitandolo a mettere via quei soldi perchè
non voleva un centesimo. Gli chiese nome, cognome e indirizzo invitandolo a ritornare in
Italia a trovarlo dopo che la guerra fosse finita. Il capitano, commosso, lo abbracciò e lo
Dopo pochi minuti la colonna si stava allontanando in direzione Nord. I miei genitori la
guardarono finchè non scomparve in lontananza. Passarono gli anni e mio padre si
accorse di aver perso quel biglietto che gli aveva dato l'ufficiale tedesco ma lo ha
sempre ricordato con stima, affetto e nostalgia. Avrebbe voluto incontrarlo nuovamente
dopo la guerra in momenti e clima diversi, ma purtroppo non ebbe più notizie di quel
gentiluomo la cui divisa poteva forse incutere paura ma il cui animo traboccava di
sincerità e dignità, doti assai rare negli animi dei "vincitori".
Gianfranco Spotti
47
Hanno combattuto e sono morti per la
nostra Terra
Testo del "patto d'acciaio" che
siglava l'alleanza tra la
l'Italia fascista e la
Germania nazionalsocialista
S. M. il Re d'Italia e di Albania, Imperatore d'Etiopia, e il Cancelliere del Reich tedesco,
ritengono giunto il momento di confermare con un Patto solenne gli stretti legami di
amicizia e di solidarietà che esistono fra l'Italia fascista e la Germania nazionalsocialista.
Considerato che, con le frontiere comuni, fissate per sempre, è stata creata tra l'Italia e
la Germania la base sicura per un reciproco aiuto ed appoggio, i due Governi
riconfermano la politica, che è stata già da loro precedentemente concordata nelle sue
fondamenta e nei suoi obbiettivi e che si è dimostrata altamente proficua tanto per lo
sviluppo degli interessi dei due paesi quanto per la sicurezza della pace in Europa. Il
popolo italiano ed il popolo tedesco, strettamente legati tra loro dalla profonda affinità
delle loro concezioni di vita e dalla completa solidarietà dei loro interessi, sono decisi a
procedere, anche in avvenire, l'uno a fianco dell'altro e con le forze unite per la
sicurezza del loro spazio vitale e per il mantenimento della pace. Su questa via indicata
dalla storia, l'Italia e la Germania intendono, in mezzo ad un mondo inquieto ed in
dissoluzione, adempiere al loro compito di assicurare le basi della civiltà europea. Allo
scopo di fissare, a mezzo di un Patto, questi principi, hanno nominato loro
plenipotenziari:
Sua Maestà il Re d'Italia e di Albania, Imperatore d'Etiopia:
Il Ministro degli Affari Esteri Conte Galeazzo Ciano di Cortellazzo (Italia),
48
Il Cancelliere del Reich Tedesco;
Joachim von Ribbentrop (Germania)
i quali, dopo essersi scambiati i loro Pieni Poteri, trovati in buona e debita forma, hanno
convenuto i seguenti articoli:
Art. I. - Le Parti contraenti si manterranno permanentemente in contatto allo scopo di
intendersi su tutte le questioni relative ai loro interessi comuni o alla situazione generale
europea.
Art. 2. - Qualora gli interessi comuni delle Parti contraenti dovessero esser messi in
pericolo da avvenimenti internazionali di qualsiasi natura, esse entreranno senza indugio
in consultazione sulle misure da prendersi per la tutela di questi loro interessi. Qualora la
sicurezza o altri interessi vitali di una delle Parti contraenti dovessero essere minacciati
dall'esterno, l'altra Parte contraente darà alla Parte minacciata il suo pieno appoggio
politico e diplomatico allo scopo di eliminare questa minaccia.
Art. 3. - Se, malgrado i desideri e le speranze delle Parti contraenti, dovesse accadere
che una di esse venisse ad essere impegnata in complicazioni belliche con un'altra o
con altre Potenze, l'altra Parte contraente si porrà immediatamente come alleata al suo
fianco e la sosterrà con tutte le sue forze militari, per terra, per mare e nell'aria.
Art. 4. - Allo scopo di assicurare per il caso previsto la rapida applicazione degli obblighi
di alleanza assunti coll'articolo 3, i membri delle due Parti contraenti approfondiranno
maggiormente la loro collaborazione nel campo militare e nel campo dell'economia di
guerra. Analogamente i due Governi si terranno costantemente in contatto per
l'adozione delle altre misure necessarie all'applicazione pratica delle disposizioni del
presente Patto. I due Governi costituiranno, agli scopi indicati nei summenzionati
paragrafi 1 e 2, Commissioni permanenti che saranno poste sotto la direzione dei due
ministri degli Affari esteri.
Art. 5. - Le Parti contraenti si obbligano fin da ora, nel caso di una guerra condotta
insieme, a non concludere armistizi e paci se non di pieno accordo fra loro.
Art. 6. - Le due Parti contraenti, consapevoli dell'importanza delle loro relazioni comuni
colle Potenze loro amiche, sono decise a mantenere ed a sviluppare di comune accordo
anche in avvenire queste relazioni, in armonia cogli interessi concordati che le legano a
queste Potenze.
Art. 7. - Questo Patto entra in vigore immediatamente al momento della firma. Le due
parti contraenti sono d'accordo nello stabilire in dieci anni il primo periodo della sua
49
validità. Esse prenderanno accordi in tempo opportuno, prima della scadenza di questo
termine, circa il prolungamento della validità del Patto.
Berlino, li 22 maggio 1939, Anno XVII dell'Era Fascista
LORO HANNO MANTENUTO LA PROPRIA PAROLA
NONOSTANTE TUTTO E FINO IN FONDO
I coraggiosi ragazzi della Hitlerjugend
50
Un eroico sabotatore fascista fucilato
dagli invasori
Waffenquesto
SS francesi
organizzano
la difesa di Berlino,
ormai
persa ad
Leggendo
libro
si ha la sensazione
davvero,
rispetto
altri racconti, di
trovarsi tra quei
ragazzi, in zona
d’operazioni, sotto i
tiri dei mortai,
all’assalto di una
postazione
fortificata nemica,
con il sangue delle
ferite e la
commozione per i
camerati caduti. Ma
anche con la
spensieratezza di
diciottenni intrepidi
e scavezzacollo,
decisi ad andare
fino in fondo per
fermare l’avanzata
dei nemici invasori.
Un libro da leggere
per comprendere
chi erano i giovani
soldati che combattevano una guerra persa indossando la
divisa del “Male assoluto”
A cura di Toni Liazza
51
Bersagliere classe 1929
(15 anni all’epoca
dei fatti) 1Cmp., II° Btg
Bersaglieri “G.Mameli”
Per acquistare il libro digitare “Quelli del Mameli” su internet
(Google) e scegliere tra le varie offerte di vendita.
Oppure contattare “Edizioni Settimo Sigillo al numero
tel. 06-39722155
52