indipendenza ! n.16 - GianMarco Dosselli Scrittore
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indipendenza ! n.16 - GianMarco Dosselli Scrittore
n.43 ANNO IX QVADERNI DI STORIA 30/01/2011 INDIPENDENZA ! N.16 di Ernesto Zucconi, Toni Liazza, Gianfranco Spotti, Eleonora Fontana, Harmwulf Scriveteci a: [email protected] 1 PREFAZIONE IL TRADIMENTO É L’AZIONE PIÙ SPORCA, DEGRADANTE E VIGLIACCA CHE POSSA COMPIERE UN UOMO GRAZIE E ONORE A QUEI POCHI CHE RESISTETTERO EROICAMENTE IN ARMI ALL’INVASIONE DELLA NOSTRA PATRIA E AI LORO ALLEATI GERMANICI. PER MERITO LORO NON SI POTRA MAI DIRE CHE L’ITALIA TRADÍ, MA CHE SOLO UN RE FELLONE E LA SUA CRICCA DI AFFARISTI CONSEGNÓ LA NAZIONE AL NEMICO, MENTRE LA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA CONTINUÓ A RAPPRESENTARE E DIFENDERE LA PROPRIA TERRA. CHE LO SI VOGLIA AMMETTERE O NO, I FASCISTI REPUBBLICANI FURONO GLI UNICI, AD OGGI, A COMBATTERE IN ARMI GLI INVASORI AMERICANI Ezio Sangalli 2 IL TRADIMENTO E LA RESA L’8 settembre 1943 il Capo del Governo, Pietro Badoglio, diffuse a mezzo radio la notizia del cosiddetto armistizio concluso tra l’Italia e gli anglo-americani. La precisione del linguaggio è fondamentale quando si tratta di eventi storici: abbiamo usato l’aggettivo cosiddetto nel qualificare come armistizio (così come viene sempre indicato) quel documento, e ne vediamo subito le ragioni. Intanto la parola armistizio deriva dal francese armistice, vocabolo composto dal latino arma+stare (fermarsi): esso equivale a tregua, ossia accordo con cui si stabiliscono le clausole per una sospensione temporanea delle ostilità tra eserciti belligeranti; accordo che tuttavia non fa cessare lo stato di guerra, mentre i contendenti rimangono formalmente su un piano di parità nell’avanzare ciascuno le proprie richieste. Invece il documento firmato dal generale Giuseppe Castellano in qualità di rappresentante del nostro Governo, a Cassibile in provincia di Siracusa il 3 settembre 1943 (vale a dire cinque giorni prima che ne fosse dato l’annuncio via radio La firma del disonore. La guerra a fianco dei in base a quanto ordinato dagli tedeschi non conviene più,: si "volta gabbana" anglo-americani), era di fatto l’accettazione di resa incondizionata imposta dai vincitori. Sottoscrivere una resa incondizionata vuol dire sottostare al libero arbitrio del detentore, il quale impone le proprie regole di assoggettamento. Questo fu il caso dell’Italia in quelle circostanze. Moltissimi italiani, inconsapevoli della reale portata di quegli eventi, a tutta prima esultarono credendo che la guerra fosse finita. Purtroppo non era così e il peggio doveva ancora arrivare. Come si era giunti a tal punto è presto detto. La guerra, a partire dal 1943, stava volgendo decisamente a sfavore dell’asse Roma - Berlino. L’ingresso degli Stati Uniti a fianco dell’Inghilterra e dell’Unione Sovietica aveva cominciato a far pesare la disparità delle forze in campo e, soprattutto, dei mezzi a disposizione. Gli americani, sbarcati in Africa, avevano aiutato in primavera gli inglesi a sconfiggere gli italo-germanici, quindi, dalle sponde della Tunisia, si erano affacciati sul Mediterraneo e avevano invaso la Sicilia risalendo la Penisola. Certo, la situazione per il nostro Paese era critica e s’imponeva l’ovvia necessità di prendere decisioni di importanza capitale: logico, in quelle condizioni, esaminare semmai l’uscita dal conflitto nella maniera più pulita e indolore possibile. Purtroppo le determinazioni prese allora rappresentarono la soluzione peggiore e indegna. Intanto si nascondeva all’alleato tedesco - presente con i nostri soldati a difendere il Paese - la decisione di resa, mentre si sperava in un subitaneo quanto irrealizzabile controllo territoriale da parte degli anglo-americani. In più, centinaia di migliaia di nostri 3 militari, dislocati nell’immenso alla Jugoslavia, dalle isole greche alla Francia), venivano lasciati in balìa della sorte da un comunicato volutamente ambiguo quanto deleterio, nel quale infatti si diceva che, nell’impossibilità di continuare una lotta impari, il nostro Governo aveva concluso un armistizio col nemico contro cui le nostre Forze Armate cessavano le ostilità, salvo reagire ad attacchi provenienti da qualsiasi altra parte. Ora, l’altra parte non poteva essere che quella rappresentata dai tedeschi i quali, dopo aver lottato a fianco a fianco per tre anni con gli italiani, improvvisamente si vedevano rivoltar le armi contro. La loro risposta non poteva pertanto essere che il disarmo e il conseguente internamento dei nostri soldati. E se questi reagivano, venivano annientati (basti pensare al caso di Cefalonia). Ricordiamo che formalmente noi restavamo alleati della Germania, la dichiarazione di guerra avverrà soltanto nell’ottobre successivo. A questo punto i dilemmi che potevano aver nutrito la gran parte degli ufficiali, si tramutarono in vera e propria angoscia, soprattutto quando fu noto il diktat del 3 settembre firmato da Castellano e consistente in 12 punti: il cosiddetto corto armistizio, così chiamato per distinguerlo dall’altro, più dettagliato, che verrà sottoscritto il 29 a Malta, nel possedimento inglese dove si andò a consegnare la nostra flotta. La rivista inglese The Nineteenth Century, nel numero dell’ottobre 1943, rilevava che i termini accettati dall’Italia erano incomparably harsher, incomparabilmente più duri di quelli che Hitler aveva imposto alla Francia (la quale aveva potuto mantenere la flotta e non era stata costretta a combattere l’alleato). Ecco il commento di Attilio Tamaro (Due anni di storia): Era uno strumento di debellazione, di umiliazione, invalido sotto certi aspetti, in quanto la maggior parte degli articoli erano ineseguibili […] non teneva conto della situazione reale. Ed era così composto, che, ben lontano dall’assicurarci la pace voluta dal popolo italiano, ci costringeva ad attaccare i tedeschi.[…] Dovevamo, per i capitoli 6 e 7, rendere tutto il territorio nazionale, tutti i porti e tutti gli aeroporti: implicava scacciarne con le armi i tedeschi, che gli alleati sapevano ovunque installati con forze cospicue. Eisenhower, Alexander o Smith non erano così puerili da immaginare che i tedeschi, udita la notizia dell’armistizio, se ne sarebbero andati dall’Italia mettendo a disposizione loro la potente posizione strategica: dunque noi per rendere quanto ci domandavano e noi c’impegnavamo a dare, dovevamo prima riprendercelo con le armi. Con ciò gli alleati ci costringevano a una collaborazione militare, allo sbaraglio, senza coordinazione di piani e senza contrattazione politica, sottoponendoci a una vera servitù militare. Creavano però una situazione insostenibile, che sarebbe precipitata rovinosamente, con nostro infinito danno […]. Il capitolo 8, che ci obbligava a ritirare tutte le truppe che erano di là dalle frontiere, nei Balcani e in Francia, si risolveva in una tortura. A parte la miserabile manovra, per cui, mentre ci dicevano possibile il ritiro delle unità stanziate in Grecia per la via del mare, gli alleati ci toglievano invece le poche navi mercantili rimasteci e ci rifiutavano le loro, appariva ben chiaro, come conseguenza del detto capitolo, questa triplice ipotesi: quelle truppe o combattevano contro i tedeschi, pur sapendosi sconfitte a priori, o si arrendevano ai tedeschi, passando magari dalla loro parte per ragioni politiche, o si dissolvevano. Si realizzarono poi tutti e tre i casi, non certo l’esigenza del capitolo d’armistizio, rimasto lettera morta, ma costato a noi tanto sangue e tanto onore. Tutti conoscono la risoluzione presa dal principe Junio Valerio Borghese e della sua Decima Mas immediatamente dopo l’8 Settembre: continuazione della guerra a fianco dell’alleato tedesco, in posizione non subalterna ad esso e inoltre senza rivendicazione di etichette politiche, ma con l’unica elevata finalità di difendere il Paese. Borghese, anni dopo, così ricorderà la sua scelta: All’8 settembre, al comunicato di Badoglio, piansi. […] Quel giorno io ho visto il dramma che cominciava per questa nostra disgraziata nazione 4 che non aveva più amici, non aveva più alleati, non aveva più l’onore ed era additata al disprezzo di tutto il mondo per essere stata incapace di battersi anche nella situazione avversa. […] L’8 settembre ci ha messo di fronte a molti dilemmi, a esami di coscienza, alle responsabilità da prendersi verso noi stessi, verso le istituzioni alle quali appartenevamo, per me la Marina, e verso gli uomini che da noi dipendevano. Quindi, cominciato a pesare fattori di ordine spirituale e politico. […] E decisi la mia scelta. Non me ne sono mai pentito. Anzi, quella scelta segna nella mia vita il punto culminante, del quale vado più fiero. E nel momento della scelta, ho deciso di giocare la partita più difficile, la più dura, la più ingrata. La partita che non mi avrebbe aperto nessuna strada ai valori materiali, terreni, ma mi avrebbe dato un carattere di spiritualità e di pulizia morale al quale nessuna altra strada avrebbe potuto portarmi. In ogni guerra, la questione di fondo non è tanto di vincere o di perdere, di vivere o di morire: ma di come si vince, di come si perde, di come si vive, di come si muore. Una guerra si può perdere, ma con dignità e lealtà. La resa e il tradimento bollano per secoli un popolo davanti al mondo. Uno degli aspetti più mortificanti della resa italiana fu la consegna della nostra flotta in casa del nemico, in quanto la generale tradizione marinara, in casi simili, impone l’affondamento del proprio naviglio. Angoscia degli ufficiali italiani, abbiamo detto. Ne abbiamo un esempio emblematico in Carlo Fecia di Cossato, Medaglia d’Oro, asso dei sommergibilisti atlantici, che alla fine di un periodo di tormentato conflitto interiore, si tolse la vita nel 1944 dopo aver scritto queste parole alla madre: […] Da nove me si ho molto pensato alla tristissima posizione morale in cui mi trovo, in seguito alla resa ignominiosa della nostra Marina, a cui mi ero rassegnato solo perché ci è stata presentata come un ordine del Re, che ci chiedeva di fare l’enorme sacrificio del nostro onore militare per poter rimanere il baluardo della Monarchia al momento della pace. Tu conosci che cosa succede ora in Italia e capisci come siamo stati indegnamente traditi e ci troviamo ad aver commesso un gesto ignobile senza alcun risultato […]. Questo il pensiero di un antifascista, Benedetto Croce, espresso nella sua lettera di dimissioni a Bonomi che presiedeva il Governo del Sud: […] Conoscendo i patti della capitolazione, sapute le condizioni tremende alle quali ci siamo vincolati per il presente e per il futuro, viste ad una ad una Carlo Fecia di Cossato le clausole spietate che il popolo tuttora sconosce e che se anche conoscesse forse non sarebbe in grado di valutare come noi che eravamo chiamati a vigilare sulle sue sorti; udito dalla Sua parola, Eccellenza, che niuno sforzo militare e veruno accorgimento diplomatico potrebbe modificare a nostro vantaggio quei patti, mi è apparsa chiara l’inutilità assoluta dell’opera nostra. 5 Ella sa bene che, invece, i patti all’atto della capitolazione non consentiranno agli Italiani né di essere liberi né di lavorare liberamente, né addirittura di chiamarsi liberi. […] La prego perciò, istantaneamente, Eccellenza, di voler accettare le mie dimissioni, assieme ai sensi della mia immutata e personale amicizia e devozione. Il suo Benedetto Croce Su Life del 20 luglio 1944 apparve un appello, firmato dai fuorusciti Toscanini, Salvemini, Borgese, Della Piana, Venturi e Pacciardi, da cui stralciamo i seguenti passi: […] Quanto alle terre dell’impero in Africa, dichiariamo che l’Italia vi rinunzierà solo a patto che anche gli altri Stati coloniali facciano altrettanto nei riguardi dei loro possedimenti, da porsi tutti sotto il controllo di una consociazione internazionale giacché, se l’Africa non è italiana, non si può nemmeno sostenere che sia francese, belga, portoghese, spagnola o inglese. Al popolo italiano non è stato dato nulla e non è stato promesso nulla, eccetto il sarcasmo unito alla schiavitù. In fondo l’Italia è la vittima che deve pagare ogni cosa. All’Italia è stato imposto un armistizio così vergognoso che le parti contraenti hanno accettato di tenerlo nascosto al pubblico. Le ceneri della vergogna sono state sparse sui resti di una Nazione […] Per lungo tempo noi sperammo che la morte del fascismo significasse la vita dell’Italia. Ora l’Italia sta morendo. Questo il clima in cui maturò la decisione da parte di un numero enorme di militari, dalle alte cariche giù giù fino ai soldati semplici dell’Esercito, della Marina, dell’Aviazione, di aderire alla Repubblica Sociale Italiana; imitati, in uno slancio di volontarismo mai prima registrato, da una moltitudine di civili, ragazzi e giovinette, animati tutti da un identico proposito: quello di seguire la via dell’Onore. Ernesto Zucconi 8 SETTEMBRE: RESA INCONDIZIONATA OLTRE ALLE IMPOSIZIONI MILITARI, IL PROTOCOLLO FIRMATO DA BADOGLIO CONTENEVA UMILIANTI CLAUSOLE DI CARATTERE CIVILE CHE RIDUSSERO L’ITALIA A UNA PURA ESPRESSIONE GEOGRAFICA Il 29 settembre 1943 a Malta, sulla nave inglese “Nel-son” viene firmato dal generale Eisenhower e dal Maresciallo Badoglio il protocollo definitivo di armistizio, aggiuntivo al “corto armistizio” del 3 settembre. Il protocollo, formato da 44 articoli e che sancisce la “resa incondizionata” dell’Italia, rappresenta il documento più umiliante e servile che una Nazione in guerra abbia mai sottoscritto e giudicato dallo stesso nemico con profondo e non nascosto disprezzo. Oltre alle imposizioni di carattere militare – già di per se stesse iugulatorie – la “resa incondizionata” ne contiene diverse di carattere ‘civile’ che 6 dimostrano ancora di più il livello di vile acquiescenza raggiunto da Badoglio di fronte all’arroganza alleata. Ne riportiamo alcune. Art. 14 (A) – Tutte le navi italiane mercantili, da pesca ed altre imbarcazioni, ovunque si trovino, nonché quelle costruite o completate durante il periodo di validità del presente atto, saranno dalle competenti autorità italiane messe a disposizione, in buono stato di riparazione e di navigazione, in quei luoghi e per quegli scopi e periodi di tempo che le Nazioni Unite potranno prescrivere... (B) – Tutti i trasporti interni italiani e tutti gli impianti portuali saranno tenuti a disposizione delle Nazioni Unite per gli usi che esse stabiliranno. Art: 16 - ... Le autorità italiane si conformeranno alle disposizioni per il controllo e la censura della stampa e delle altre pubblicazioni, delle rappresentazioni teatrali e cinematografiche, della radiodiffusione e di qualsiasi altro mezzo di intercomunicazione che potrà prescrivere il Comandante Supremo delle Forze Alleate. Art. 20 – Senza pregiudizio alle disposizioni del presente atto, le Nazioni Unite eserciteranno tutti i diritti di una Potenza occupante nei territori e nelle zone di cui all’art. 18, per la cui amministrazione verrà provveduto mediante la pubblicazione di proclami, ordini e regolamenti. Il personale dei servizi amministrativi, giudiziari e pubblici italiani eseguirà le proprie funzioni sotto il controllo del Comandante in capo alleato. Art. 23 – Il Governo italiano metterà a disposizione la valuta italiana che le Nazioni Unite domanderanno. Il Governo italiano ritirerà e riscatterà in valuta italiana entro i periodi di tempo e alle condizioni che le Nazioni Unite potranno indicare, tutte le disponibilità in territorio italiano delle valute emesse dalle Nazioni Unite durante le operazioni militari o l’occupazione, e consegnerà alle Nazioni Unite senza alcuna spesa la valuta ritirata.(1) Il Governo italiano prenderà quelle misure che potranno essere richieste dalle Nazioni Unite per il controllo delle banche e degli affari in territorio italiano, per il controllo dei cambi con l’estero, delle relazioni commerciali e finanziarie con l’estero e per il regolamento del commercio e della produzione, ed eseguirà qualsiasi istruzione emessa dalle Nazioni Unite relativa a dette o a simili misure. Art. 25 (B) – Le Nazioni Unite si riservano il diritto di richiedere il ritiro dei funzionari diplomatici e consolari neutrali dal territorio italiano occupato e a prescrivere e a stabilire i regolamenti relativi alla procedura circa i metodi di comunicazione fra il Governo italiano e suoi rappresentanti nei paesi neutrali e riguardo alle comunicazioni inviate da o destinate ai rappresentanti dei paesi neutrali in territorio italiano. Art. 26 – In attesa di ulteriori ordini, ai sudditi italiani sarà impedito di lasciare il territorio italiano eccetto con l’autoriz-zazione del Comando Supremo delle Forze Alleate Art. 33 (B) – Il Governo italiano consegnerà al Comandante Supremo delle Forze Alleate qualsiasi informazione che possa essere prescritta riguardo alle attività sia in territorio italiano sia fuori di esso, appartenenti allo Stato italiano, alla Banca d’Italia, a qualsiasi istituto statale o parastatale italiano. (1)– Si tratta di una clausola voluta dal ministro del Tesoro americano Morgenthau. Lo stesso che nel febbraio del 1945, di fronte alla richiesta di uno sgravio finanziario avanzata dal governo del Sud, in profonda crisi per l’invasione delle ‘amlire’ alleate, dichiarava pubblicamente: «Se il governo di Roma avesse l’impudenza di ripetere una simile richiesta, noi pretenderemmo il rimborso totale del costo dell’invasione (sic!!!) e di tutte le spese accessorie». UN MARESCIALLO BADOGLIO FASCISTA E INTERVENTISTA 7 «UN SOLO GESTO LIBERATORIO: LA GUERRA» Dietro la maschera paciosa e sorridente, c’è il Badoglio approfittatore del Regime, avido di riconoscimenti e di prebende (è nota la sua avidità di denaro sfociata nel cumulo dei suoi stipendi). E c’è il Badoglio senza scrupoli dei suoi 45 giorni di ‘regno’. Lo scoppio del Secondo conflitto mondiale era ormai alle porte. Qual era, all’epoca, il pensiero del Capo di Stato Maggiore Generale, Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio? Ecco alcune sue dichiarazioni, scarno ma eloquente ‘fior da fiore’ tra cento altre. «Tutto il sistema navale e aereo inglese – dichiarava il Maresciallo – sta per orientarsi verso la meta di un completo accerchiamento delle basi terrestri e marittime (italiane – ndr) del Mediterraneo». E ancora: «Churchill, anima nera del-l’Ammiragliato inglese, si batte ancor oggi sulla vecchia piattaforma politica, ispirata al suo irriducibile e feroce odio il DUCE con il vigliacco traditore Badoglio antigermanico e antieuropeo». Su pace o guerra era categorico: «Per sfuggire all’incubo della soffocazione, a noi (il Tripartito – ndr) non resta che una risposta, che un gesto liberatore: la guerra. Guerra di difesa, di legittima difesa contro le crescenti provocazioni omicide, ormai intollerabili, delle Potenze egemoniche della risorta Triplice Intesa, se l’Inghilterra non si ferma a tempo sulla tragica china». Sono del 1940 alcune sue attestazioni di profonda fede fascista, culminate in un messaggio a Mussolini il 23 Marzo, annuale dei Fasci, che così conclude: «A voi, Duce, artefice degli imperiali destini della Patria, al quale le Forze Armate e la Nazione fuse in un unico blocco guardano sempre con più gratitudine e fede». Ma già da allora, nelle alte sfere delle Forze Armate sotto il suo comando, iniziava il sabotaggio alla guerra che si sarebbe concluso – dopo il 25 Luglio – con la più infamante tra le ‘rese incondizionate’ della storia moderna LA BARBARIE DEGLI INVASORI «Vi racconto il bombardamento del 13 luglio ’44». Le sirene, il negozio di barbiere del padre raso al suolo, e il genitore salvo per caso. I ricordi di Annamaria, 78 anni, in 8 «Giornale di Brescia», 14 luglio 1944, p. 9. «Pronto, è il Giornale di Brescia?» Buongiorno signora, dica. «Nelle vostre lettere al direttore si parla del bombardamento del 13 luglio 1943, ma è un errore: era il 13 luglio 1944. Io lo so perché c’ero. Adesso vi racconto...». Da una svista nasce una storia. Già, perché Anna Maria si ricorda quel giorno di 65 anni fa come fosse ieri. E non puoi non starla a sentire. «Io abito al 15 di Tresanda San Nicola, sono nata qui, e ci abito tutt’ora. Sono del ’31. Mio padre aveva una bottega di barbiere all’angolo tra via della Mansione e corso Martiri». «Gli inglesi, la notte prima, avevano bombardato la Piccola velocità e Chiesanuova, perché era zona strategica. E noi eravamo nel rifugio dietro la chiesa di San Francesco, e si sentivano i rumori delle bombe in lontananza... Viene mattina. «C’era il capo fabbricato che si chiamava Franceschini, aveva tre figli e due studiavano da prete. Fu proprio con la moglie di quest’ultimo e con la terza figlia, Franca, che era mia carissima amica che io mi misi in salvo». Alle prime avvisaglie della nuova incursione aerea dopo quella notte che era stata di tregenda, la vicina si affretta a portare al sicuro la figlia e la stessa signora Anna Maria. «"Presto, andiamo" dice la signora Franceschini; io passo davanti al negozio di mio padre che stava lavorando e gli dico "Vado con la signora Cecilia" e ma lui non capisce, poi suona la sirena che era sopra la Casa di Dio, e la gente inizia a scappare». «Passa un triciclo e ci carica su, e con noi c’era anche don Agostino, che era in seminario ed era professore dei due ragazzi Franceschini, e dice: "Se riusciamo ad andare a Torbole c’è un ragazzo che ha la cascina"; intanto iniziano a cadere le bombe e le vedevamo brillanti nel sole, e tremava la terra; noi per ripararci andiamo dentro nel fosso della via che porta a Orzinuovi; la signora Franceschini pensava a suo marito, e noi vedevamo il bombardamento sulla città, bruciava anche il Duomo e si sentiva il sibilo 9 degli aerei».«Mio papà, che era del ’99, non andava volentieri nel rifugio, ma quella volta un amico lo portò; lui prima finì di fare la barba al cliente e poi andò nel rifugio sotto Casa di Dio e non fece neanche le scale perché lo spostamento d’aria lo fece arrivare in fondo». «Quando tornò al negozio vide che era andato giù tutto; gli erano rimaste solo le chiavi in tasca. Nemmeno il rasoio. Aveva già 46 anni e aveva fatto cinque anni di guerra... In piazza Roma, c’era il comando tedesco: ma quello gli americani non l’hanno preso. In compenso hanno preso la bottega di mio papà. Il negozio di barbiere più bello della città». BRESCIA, 13 LUGLIO 1944: LA LEONESSA D'ITALIA AGGREDITA DAI "LIBERATORI". Il 13 luglio 1944, Brescia venne gravemente colpita dal più pesante bombardamento aereo della sua storia. Erano le 11:00 quando il cielo della Leonessa tornò a oscurarsi sotto uno sciame di aerei. Nel giro di una ventina di minuti 186 bombardieri statunitens i sganciarono 518 bombe dirompenti, per un totale di 124 tonnellate di esplosivo, che caddero quasi tutte sul centro cittadino. Le conseguenze furono tanto più devastanti quanto più ampia fu l’area colpita: non la sola linea ferroviaria, ma una vasta fetta di città, dalla Stazione al Castello e al Vantiniano. Ingenti i danni in centro, con interi edifici di piazza Vittoria sventrati, la Queriniana, il Duomo e il Broletto colpiti in pieno. Le vittime furono oltre 200, un centinaio solo tra coloro che avevano cercato scampo dalle bombe nel rifugio posto sotto l’albergo Gambero (nell’odierna piazzetta Boni), che fu invece raso al suolo. Il dramma fu collettivo. E chi vi scampò ancor oggi rivive con dolore quelle ore terribili, nell’auspicio (rivolto all’Amministrazione locale, da anni in tal senso sollecitata anche da alcuni di coloro che persero dei cari) che anche quei morti insieme a quelli degli altri bombardamenti del 1944-45 - possano essere ricordati in un giorno a essi dedicato. (Nella foto il centro di Brescia dopo l'incursione americana del 13 luglio 1944). 10 LA RESISTENZA AGLI INVASORI Due episodi soltanto, due esempi tra i molti momenti di resistenza, del popolo italiano e tedesco, all’invasione delle loro Patrie da parte delle orde democapitaliste Germania da Harmwulf Verso la metà d’aprile del 1945, Lipsia resisteva agli invasori. La città, quinta per dimensioni nel Reich, 750.000 abitanti, era un importante centro d’industrie, commerci e cultura. Sua era una delle università più antiche, sua la sede del Reichsgericht, la Corte suprema tedesca. Il suo nome era legato anche al ricordo della Battaglia delle Nazioni in cui Prussia, Russia, Impero austro-ungarico e Svezia avevano battuto l’esercito di Napoleone nell’ottobre 1813. Gli ultimi bombardamenti terroristici anglo-americani sulla città di Lipsia erano stati effettuati il 6 ed il 10 aprile 1945. La popolazione era terrorizzata sia dalle incursioni aeree (dall’agosto 1942 all’aprile 1945 c’erano stati 24 attacchi aerei, circa 5000 morti, migliaia di feriti e senza tetto) che dalle notizie di distruzione totale che provenivano dalla capitale e da gran parte delle città del Reich. Il 17 aprile i carri armati americani si avvicinavano alla città incontrando poche, ma determinate, sacche di resistenza formate essenzialmente da battaglioni del Volkssturm, la milizia popolare reclutata tra giovani ed anziani, e della Hitlerjugend dotate solo d’armi leggere e Panzerfaust. La difesa della città organizzata attorno a pochi punti strategici, la stazione ferroviaria Hauptbahnhof, la birreria Felsenkeller, l’Elsterbecken, il parco Rosental, il nuovo municipio Neuen Rathaus e l’imponente monumento alla battaglia delle Nazioni Völkerschlachtdenkmal. La 69° Divisione di fanteria dell’esercito americano si avvicina lentamente ma inesorabilmente alla città preceduta dai primi carri armati della 9° Divisione corazzata guidata dal Generale John W. Leonard. Le forze americane provenienti da ovest riescono a conquistare Weissenfels dopo due giorni di furiosi combattimenti e formano un semicerchio attorno a Lipsia che si prepara alla battaglia. Il 17 aprile i colpi dell’artiglieria americana cominciano a piovere attorno alla città e la mattina del 18 le due divisioni sono pronte per l’attacco finale. Le forze disponibili per la difesa sono: un battaglione della riserva del 107° Reggimento di fanteria con 750 uomini tra cui 50 reclute mal addestrate; un battaglione di trasporto di riserva con 250 uomini entrambi sotto il comando della Werhmacht col Generale Hans von Poncet; otto battaglioni del Volkssturm comandati dal vecchio sindaco (in carica fino al 1938) e dirigente locale del partito nazionalsocialista Generale Walter Dönicke; 3.500 uomini della polizia cittadina sotto il comando del Generale Wilhelm von Grolman. Le armi a disposizione sono 11 solamente quelle leggere, poche mitragliatrici, molti Panzerfaust ma nessuna arma pesante o carro armato. La situazione è evidentemente disperata, ma sono organizzate tre linee di difesa: la prima ad ovest della città tenuta dai ragazzi della Hitlerjugend e armata di Panzerfaust per bloccare i carri, la seconda tenuta dalla Werhmacht sì attesa intorno al periplo della città; la terza e principale linea di difesa segue il corso del fiume Elster che separa la parte occidentale più piccola da quella principale ad est. Se i nemici arrivassero sin qui si farebbero saltare tutti i ponti della città. Il 14 aprile si tiene un incontro organizzativo tra il Generale Hans von Poncet, i comandanti militari e civili, il sindaco Alfred Freyberg, il Generale del Volksstrum Walter Dönicke e Generale Wilhelm von Grolman. Tra le titubanze di quest’ultimo che non voleva far saltare i ponti ed impegnare la polizia nella difesa della città, von Poncet spiegò a tutti che era necessario difendere Lipsia fino all’ultimo colpo. Si prepararono le barricate con autobus che sbarravano le strade riempiti di pietre. Gli ultimi ridotti da difendere erano il municipio, la stazione ed il Völkerschlachtdenkmal. Il 17 aprile su ordine di von Poncet il Generale del Volksstrum Walter Dönicke con 500 membri della milizia popolare si barricano nel Neuen Rathaus. Lo stesso von Poncet con 300 dei suoi uomini migliori si asserraglia nel monumento della Battaglia delle Nazioni colmo d’armi, viveri e munizioni: era la rappresentazione ideale dell’indomito spirito di resistenza tedesco, come nel 1813 si doveva tener testa al nemico anche quando tutto sembrava perduto. La notte del 17 aprile 1945 manipoli di SS attraversavano i sobborghi della città obbligando la popolazione a togliere le poche bandiere bianche esposte e ad organizzare la resistenza. La mattina del 18 aprile il 23° battaglione di fanteria, appoggiato da due battaglioni di carri armati, il 741° e il 612° iniziavano ad occupare la città. La popolazione osserva attonita, qualcuno applaude e offre fiori e viveri, la maggioranza osserva silenziosa. Alla fine delle due arterie principali verso i ponti, rimasti intatti per decisione del borgomastro che voleva evitare altre sofferenze alla popolazione, comincia il fuoco dei Panzerfaust. Diversi carri sono centrati e prendono fuoco. Incomincia la lotta casa per casa, i cecchini fanno fuoco sugli americani. Gli scontri si susseguono in tutto l’abitato. L’assalto finale nel centro inizia alle 12,45: la lotta impari prosegue. Con le armi leggere ed i Panzerfaust, i ragazzi della Hitlerjugend attaccano senza sosta le avanguardie nemiche, i tiratori scelti colpiscono gli americani che reagiscono furiosi con colpi d’artiglieria contro le case. Un soldato americano che spara con una mitragliatrice da un balcone sul ponte Zeppelin viene centrato da un tiratore tedesco: la scena è immortalata dal fotografo americano Robert Capa di Life. L’artiglieria si accanisce sui centri di resistenza martellandoli senza sosta. Il 12 monumento delle Nazioni in cui la resistenza diretta da von Poncet è fortissima, la stazione, il municipio sono ripetutamente colpiti dai colpi dei carri e degli obici. La battaglia continua disperata ed inesorabile. Intermediari americani cercano di trattare la resa della città: il Generale von Grolman ha deciso di arrendersi con la polizia ma gli altri non cedono. Alle 21,30 uno strano silenzio cala sulla città e la notte passa tranquilla. La mattina del 19, dopo un pesante bombardamento del Rathaus e altri due assalti falliti, alle 9.30 attraverso la proposta di un prigioniero tedesco mandato a trattare con i difensori del municipio e sotto la minaccia della totale distruzione della struttura con artiglieria pesante e lanciafiamme, parte dei difensori accetta la resa. Vengono catturati un generale e 175 uomini e 13 agenti di polizia. A mezzogiorno il comandante della 69° Divisione di fanteria Generale Reinhardt issa la bandiera americana sull’edificio. Nella Turmzimmern (camera della torre) e nelle stanze adiacenti del sono rinvenuti i cadaveri di nove persone. La scena viene immortalata da diversi fotografi: J.M. Heslop del USA Signal Corps photographer Tech/5, e due famose fotografe americane Lee Miller e Margaret Bourke-White. Lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco ha scelto per la copertina del suo bel romanzo (“Le uova del drago” edito da Mondadori nel 2005) proprio uno degli scatti della Miller. Negli anni tra il 1941 ed il 1945 la Miller lavorò come reporter fotografica di guerra per la rivista Vogue. Tutto il lavoro della fotografa, circa 60.000 negativi, fotografie originali e manoscritti, è conservato nel Lee Miller Archives (Lee Miller Archives: Farley Farm House, Muddles Green, Chiddingly, East Sussex, BN8 6HW, England E-mail: [email protected] web: www.leemiller.co.uk). Essendo “Le uova del drago” uno dei successi editoriali dell’anno, la già famosa fotografia è diventata assai popolare anche in Italia, paese in cui il lavoro di documentazione della Miller è noto solo a pochi specialisti. Nel libro “Lee Miller’s war” (edito da Thames & Hudson, New York, 2005) la fotografa scrive a pagina 176: “In uno degli uffici un uomo dai capelli grigi (Alfred Freyberg) sedeva con la testa appoggiata sulle mani incrociate sul tavolo. Di fronte a lui riversa su una poltrona una donna pallida con gli occhi aperti ed un rivolo di sangue seccato sul mento. Sdraiata sul sofà una ragazza con dei denti straordinariamente belli, dal colorito cereo e impolverata. La sua uniforme da crocerossina è cosparsa di calce segno della battaglia che è continuata fuori dal municipio dopo la loro morte. Nella stanza successiva un mostruoso manichino di un uomo in uniforme da generale del Volksstrum giace sulla schiena. C’è un altro gruppo familiare nella terza anticamera. Nel seminterrato due ufficiali delle SS hanno bevuto del brandy seduti ad un tavolo e si sono suicidati.”. La descrizione della Miller è parziale e poco accurata. In realtà il suicidio della famiglia di Alfred Freyberg non è mai stato fotografato. La rivista inglese “After the battle” (www.afterthebattle.com) n. 130 dedicata alla battaglia per conquistare Lipsia ci fornisce con maggior precisione i dettagli della fotografia. Il 18 aprile 1945, mentre la città sassone è sotto assedio e resiste agli 13 invasori americani, il Dottor Kurt Lisso (nato il 7/3/1892) vicesindaco e Stadtkämmerer (tesoriere comunale), la moglie Renate Lübbert (nata il 12/4/1895) e la figlia di 21 anni Regina Lisso (nata il 24/5/1924) con la fascia al braccio della croce rossa tedesca si danno la morte avvelenandosi con il cianuro nell’ufficio della Neuen Rathaus. Nel romanzo di Buttafuoco a pagina 30, Regina, diventata Annelise Boldt, viene descritta così: “Tutto qua: Eughenia offre i propri servigi al Führer. Si farà un punto d’onore di continuare ad obbedirgli oltre la sua morte, malgrado la sconfitta militare e l’annientamento della nazione germanica; se ne farà un punto di stile, perciò continuerà la missione trascinandosi dietro, quali cemento, malta e ferro per la cuccia delle sue “Uova”, tre bauli carichi d’oro e di segreti. Perseverante, procederà nel tessere la trama anche quando da Lipsia, nell’aprile del 1945, i servizi segreti inglesi le faranno arrivare sotto gli occhi, a scopo pedagogico, la foto di Annelise Boldt, sua compagna ai tempi dei corsi di preparazione organizzati dallo Stato Maggiore. Una foto niente male, quanto a rapina estatica. E’ uno scatto di Lee Miller, fotografa americana che collezionò le istantanee dei cadaveri di suicidi disseminati ovunque in Germania. Annelise Boldt ha le braccia composte nell’abbandono, sembra colta in un istante di sovrappiù d’assenza. La pelle delle mani è bianchissima. Il volto, bianchissimo. La corona dei denti, intravista tra le labbra socchiuse nell’atto definitivo del mancato respiro, bianchissima. Anche le labbra sono bianchissime, e c’è bianco tutto intorno: un bianco, però, di sporco. Bianco di polvere è il divano di duro cuoio dove Annelise resta distesa, col collo piegato all’indietro come a voler dare spinta ai capelli, biondi ma sporchi di bianco, cosparsi di polvere. Sporco di bianco il corpo, sporco il cappotto militare, sporca la fascia della croce rossa, sporcata di bianco.” Nella stanza accanto si tolgono la vita con la stessa tecnica, l’Oberbürgermeister Alfred Freyberg, sua moglie e la figlia diciannovenne. Stranamente nessuna fotografia viene scattata nonostante la stanza sia adiacente a quella del Dottor Lisso. Bruno Erich Alfred Freyberg era nato a Harsleben bei Halberstadt il 12 luglio 1893, fu avvocato e uomo politico del NSDAP. Studiò giurisprudenza nelle università di Genf, Königsberg, München e Halle. Dal 1923 al 1926 fu impiegato presso il Reichsfinanzverwaltung. Dal 1926 comincio la carriera di avvocato a Quedlinburg. Dal 21 maggio 1932 Alfred Freyberg fu presidente del consiglio del Land Sassonia-Anhalt. Fu il primo nazionalsocialista a raggiungere quella carica. Dal 21 agosto 1939 fu Oberbürgermeister della città di Leipzig (Lipsia). Le foto di Margaret Bourke-White correttamente fanno riferimento al nome Lisso. La didascalia recita “Dr. Kurt Lisso, Leipzig's city treasurer, and his wife and daughter after taking poison to avoid surrender to U.S. troops, Leipzig dal sito http://masters-ofphotography.com”. La versione della fotografa trova conferma anche nel resoconto di Edward Ward della BBC Broadcast del 19 aprile 1945 che descrive correttamente la 14 scena (After the Battle, n. 130 pag. 26). La serie delle famose immagini mostra da diverse angolature i corpi della famiglia Lisso all’interno dell’ufficio comunale. Una sottile coltre di polvere li ricopre e testimonia dei bombardamenti americani di qualche ora prima. La figlia di Kurt Lisso, Regina, bellissima con la cuffietta delle crocerossine ed il volto angelico, è riversa su un divano con le braccia conserte. Tutti e sei hanno scelto la libera morte - suicidio in tedesco di dice anche “Freitod” libera morte - nella tarda mattinata del 18 aprile. Nell’anticamera dello studio del Dr. Lisso giace un uomo: è il dirigente locale del partito nazionalsocialista, precedente Oberbürgermeister e generale della milizia popolare di difesa Volkssturm, Walter Dönicke, strenuo sostenitore della difesa ad oltranza della città. Nella stanza del consiglio comunale ci sono i corpi di due suoi ufficiali: il SA-Oberführer Paul Strobel ed il dirigente del NSDAP Willy Wiederroth. Si sono suicidati la mattina del 19 poco prima della presa dell’edificio. Nove tedeschi hanno mantenuto fede alla promessa dello slogan ripetuto ossessivamente da giornali e radio: Wir kapitulieren nie! Non capitoleremo mai. Al disonore, alla resa ed all’occupazione della patria hanno preferito la morte. Tra pochi giorni altri cadranno e seguiranno l’esempio. La sera del 19 aprile il giorno antecedente al compleanno del Führer il Reichsminister Dottor Joseph Goebbels concluderà il suo messaggio alla radio con queste parole: “La Germania è la terra della fedeltà. Festeggerà nel pericolo il suo più bel trionfo. Parlando di questi giorni, la storia non potrà mai dire che il popolo abbia abbandonato il suo capo o il capo abbia abbandonato il suo popolo. E questa è la vittoria!” Appena dopo queste parole echeggiarono alte, in coro, le strofe di Deutschland hoch in Ehren canto di Ludwig Bauer del 1859: “Haltet aus, haltet aus, laßet hoch das Banner wehn! Zeigen ihm, zeigt dem Feind, daß wir treu zusammenstehn! Daß es unser alte Kraft erprobt, wenn der Sturmwind uns entgegentobt, haltet aus im Sturmgebraus!” (testo al sito Goebbels prima dell'avvento del http://www.liedertafel.business.tNazionalsocialismo, durante un online.de/O_Deutschland.htm ascoltabile al infuocato comizio, circondato dalle sito http://www.liedertafel.business.tSA online.de/odeutschlandmono.mp3 Resistete, resistete, tenete alta la bandiera! Dategli prova, dimostrate al nemico che fedeli restiamo uniti! Mettete alla prova l’antica forza quando il vento furioso ci è avverso, resistete nell’urlo della tempesta!). (vedi A. Romualdi La Battaglia di Berlino Ed. Ar, 1977, pag. 29 www.libreriaar.it ). Dei corpi dei caduti sembra sia stato fatto scempio dai “liberatori”: nonostante le ricerche non è dato sapere la locazione delle tombe dei nove martiri ma forse, tra coloro che leggeranno il mio articolo, ci sarà qualcuno che le troverà nel cimitero di Lipsia Ancora Germania 2 ottobre 1944 15 Le truppe americane giungono nei pressi della prima città tedesca da conquistare, Aquisgrana, la capitale di Carlo Magno. Il comandante della piazza, di fronte alle intimazioni di resa non si scompone, né approfitta de "l'onore delle armi" e risponde «una città dove sono stati incoronati 14 imperatori tedeschi non si arrende senza l’onore di un combattimento". A sua disposizione ha: 21 carri armati, 30 pezzi d'artiglieria e venti contro-carro. Ci vogliono 20 giorni per conquistare la città. Il centro intorno alla cattedrale è tenuto dalle SS che decidono di si sacrificarsi con i loro ufficiali per lasciare il tempo di ritirarsi al resto delle truppe che devono ricostituire il fronte sulla Röer (linea che reggerà per altri 4 mesi). Italia…i Bersaglieri fascisti combattono 1. “. . . l’ora che batte il cuore . . .” Le camionette procedevano a grande velocità, sobbalzando sul fondo sconnesso della SS 306, lungo il fondovalle del Senio. Erano automezzi DKW-Horch nuovi di fabbrica, verniciati nel grigioverde opaco delle macchine della Wehrmacht, che recavano sulla calandra i quattro cerchi della Auto Union. (…) Squadre e plotoni si stavano radunando alla luce tenue dell’alba, quando si udirono i fra-stuoni di uno scontro a fuoco nel bosco a monte della statale, poco oltre lo stretto ponticello in muratura che attraversa il Santerno per la Pieve di Camaggiore. Alcune brevi raffiche di Maschinenpistole e di Thompson, tre o quattro colpi di Mauser e lo scoppio di il fiume Senio una granata a mano. Dopo una mezz’ora, il paesaggio s’era già rischiarato, i bersaglieri videro passare sette soldati americani con lo shoulder patch ritagliato a forma di quadrifoglio, di colore azzurro, il totem della 88a Divisione di Fanteria. Camminavano lentamente, le mani sull’elmetto, scortati da due soldati tedeschi. Una Stealth Patrol del 351° Reggimento aveva sbagliato sentiero ed era transitata a ridosso delle postazioni tedesche. Furono i primi americani che i bersaglieri videro, vestiti tutti sette in uniformi che avevano l’aria d’essere nuove di magazzino, stivaletti di pelle con suola di gomma e grandi elmetti di acciaio verniciato con smalto opaco. Uno di loro, un negro che procedeva dinoccolato, si premeva un tampone sulla guancia destra che sanguinava. Furono condotti ad una casa dalla facciata in blocchi di pietra serena, dove si trovava il Comando del 671. Feld Ersatz Bataillon “Schiffering”. Il 671. Battaglione di Riserva Campale prendeva il nome dal comandante, il capitano (Hauptmann) Schiffering ed era inquadrato nella 715. Infanterie Division, comandata allora del General Major Hanns von 16 Rohr. Per tutta la durata della permanenza al fronte la 1 a Compagnia del “Mameli” fu aggregata al 671. F.E.B. Le Divisioni della Wehrmacht nel 1944 erano aggregati eterogenei, che avevano in comune l’organizzazione e la flessibilità d’impiego. Una delle doti che più le distinsero fu la capacità di creare gruppi tattici con elementi di unità e specializzazioni diverse (Kampfgruppe), come pure di adattare la struttura organizzativa dell’Unità alle necessità operative dei Comandi superiori. Dopo il 22 settembre, fino alla fine del mese, la 1 a Compagnia del “Mameli” fu sotto il comando del 132. Grenadiere Regiment della 44. Infanterie Division “Hoch und Deutschmeister” (Grande Maestro dell’Ordine Teutonico). Alle 08:00 del 22 settembre, sotto un formidabile bombardamento dell’artiglieria americana, che in pochi minuti provocò una fitta nebbia, la Compagnia, ancora priva del V Plotone Aschedamini, fu guidata a prendere posizione lungo il costone che sta alle spalle della Pieve di Camaggiore e domina la confluenza del Diaterna e la statale fino a Scheggianico. I Maschinengewehr furono piazzati in modo da tenere sotto tiro la strada e la scarpata sottostante. Una delle Fuchsbau, le “tane di volpe” scavate a semicerchio per gli uomini addetti ai Maschinengewehr, è visibile ancora oggi, deformata dalle intemperie di decenni. Gli obici da 105 gareggiavano con quelli da 155 in una frenesia di esplosioni che facevano scempio degli alberi. Erano trascorse poche ore dal battesimo del fuoco d’artiglieria e già i ragazzi avevano imparato a scorgere i proietti nel momento in cui, superato il culmine della traiettoria balistica, iniziavano la caduta. Il curioso scio, scio, scio che producevano avvicinandosi stimolava i bersaglieri a lavorare continuamente con la paletta per scavare sempre più in profondità. Vi fu un continuo va e vieni di portaordini tra il Comando di Compagnia, le postazioni sul costone e il Comando di Battaglione, sempre sotto un fuoco infernale. Gli americani ce l’avevano con il Un giovane soldato della ponticello della Pieve. Wehrmacht con la MG-42 in Una salva di batteria spezzò a un paio di metri spalla da terra i tronchi di quattro pioppi del filare che bordava la stradina dal ponte alla Pieve. I tronchi si alzarono verso il cielo come fuscelli, per ricadere oltre il terrapieno.(…). Furono alla Pieve di Camaggiore che era già buio, giusto in tempo per smangiucchiare quello che si erano portato dietro nello zainetto e dormire con gli altri camerati quattro ore, sparpagliati sui pavimenti della chiesa e dei locali della canonica. Quattro ore di sonno che parvero, si e no, dieci minuti. L’artiglieria nemica proseguì nella sua sarabanda fino alle 03:00 del 23 settembre. Sveglia a scrolloni e adunata a gesti, per non fare rumore. Gli artiglieri americani stavano riposando o avevano finito i colpi, più probabilmente, avevano smesso perché i fanti avevano ripreso ad avanzare. Un silenzio irreale era sceso sulla valle. 17 Si sentivano scrosciare sui massi le acque del Santerno, gonfio per le piogge dei giorni passati. In silenzio, i bersaglieri procedettero per la salita che conduce a Monti. La mulattiera, indicata sulle carte come carreggiabile, lasciava la “montanara” alla Rimossa, dopo Coniale, in direzione di Moraduccio. I ragazzi camminarono per un paio d’ore, sostando spesso per le difficoltà, nel buio più assoluto. Una lunga sosta fu fatta alla Chiesa di San Michele, dove fu stabilito il Comando di Compagnia nei locali della canonica. Proseguendo per due distinti sentieri che attraversavano un fitto castagneto sbucarono sulla spianata prativa di Monte Cucco, mentre il cielo iniziava a rischiarare. Osservando i quattro fogli della carta al 25.000 dell’ Istituto Geografico Militare, ciascuno dei quali relega in un angolino una porzione del terreno in cui avvennero i combattimenti, si può notare che a est e a sud i pendii sono ripidi, mentre altrove degradano dolcemente, tanto che ad occhio non è facile apprezzare le differenze di quota tra i diversi punti dello scenario. Nell’ultimo tratto di sentiero, già fuori del castagneto, due bersaglieri del V Plotone rinvennero una scatola di cartone paraffinato delle dimensioni di un mattone, di colore marrone. Recava la scritta U.S. ARMY Field ration K con una serie di diciture in caratteri molto piccoli, che descrivevano il contenuto e le modalità di utilizzazione. Era istintivo ipotizzare che fosse stata dimenticata da una pattuglia ed era ragionevole pensare che la pattuglia avesse riferito che la posizione non era presidiata. Via libera, dunque, per i fanti americani. Il tenente Dani fu immediatamente informato del rinvenimento, cui non fu data molta importanza. Il V Plotone, a ranghi ridotti e rinforzato da una squadra del I, fu inviato alla Crocetta, agli ordini del sottotenente Aschedamini. Complessivamente il gruppo aveva una forza di una trentina di bersaglieri, MG-42 suddivisi in quattro squadre, dotate di due soli Maschinengewehr MG 42 in condizioni di sparare. L’arma di Beppe Filiberti, per un’improvvisa avaria alla valvola di recupero del gas, anziché a raffica, sparava a colpo singolo. In quel punto, chiamato Crocetta, a quota 715, la carreggiabile sterrata che sale da Bordignano si innesta nella sterrata che da Monti conduce a Casalino, al Querceto e a Visignano, sotto il Monte La Fine, m 795, che domina la Valle del Sillaro. Tra Crocetta e Casalino la strada attraversa il Poggio di Marco, una vasta distesa di terreno scoperto, coltivato a granturco, segale ed erba medica. Le posizioni dei bersaglieri sovrastavano di cinque metri il viottolo da cui potevano sbucare gli americani , ma erano dominate dalle pendici del Monte Allovolo, m 780, coperte dalla Selva di Santa Cristina, un bosco formato in prevalenza da castagni, con qualche quercia qua e là. Il terreno era sassoso e attraversato da grosse radici, duro da scavare. La Compagnia non era a ranghi completi, il III e il IV Plotone erano rimasti in fondo valle con il sottotenente Di Lalla. Lungo il muretto a secco e il terrazzamento che tagliavano la cupola del Monte Cucco avevano preso posizione squadre miste di due plotoni. Altri bersaglieri erano stati trattenuti a San Michele. Gli insegnamenti dei pazienti sottufficiali del 615. Lehrbataillon erano stati dimenticati in fretta. 18 Pochi minuti prima delle 07:30 si sentirono lontane le prime raffiche di MG 42, accompagnate da quelle più lente delle Maschinenpistole MP 40 e dai botti vellutati dei Mauser. A chi stava sul Monte Cucco parve che provenissero da dietro il Monte Allovolo, sul versante verso la Valle del Santerno. Al fuoco delle armi tedesche si aggiunse quello delle armi americane, gli spari dei Garand e dei Winchester, le raffiche veloci dei Thompson M1 e quelle lente, cadenzate, dei BAR e delle Browning 0.30. I rumori della battaglia si estesero presto dal sud al nord del Monte Allovolo, investendo tutto il bosco ed aumentando di intensità attorno alla Crocetta, dove si sentivano esplodere anche bombe di mortaio in grande quantità. Nelle Memorie Storiche del 349° Reggimento di Fanteria degli S.U., circa le operazioni del 23 settembre 1944 si legge: “. . . Il mattino del 23 settembre 1944, all’alba, il III Battaglione aveva iniziato l’avanzata con obiettivo quota 15 (quota 659, località La Fronte). La Compagnia K, comandata dal capitano Letfridge W. Honeycutt, era avanzata sulla collina e, non avendo trovata resistenza, alle 07:30 si era sistemata sull’altura. Scavalcando la Compagnia K, il capitano Guzman condusse la Compagnia L verso quota 99, più avanti di 700 yards (630 m), (Monte Allovolo, detto anche Monte Cristino, m 787) . Mentre il sottotenente Jack S. Parker col III Plotone si avvicinava al colle, due mitragliatrici aprirono il fuoco e dopo un istante una salva di colpi da posizioni nascoste fendeva il bo-sco, frantumando i sassi attorno ai soldati che stavano procedendo. Il sottotenente Parker fece aggirare la collina dal suo plotone per attaccare il nemico dal fianco, riconosciuto come una Compagnia di fascisti italiani. Spostandosi da un masso all’altro e avanzando lentamente attraverso il groviglio del sottobosco, i soldati del III Plotone strisciarono verso le posizioni nemiche. In testa ai suoi uomini, il sergente John Belardinelli si sollevò in ginocchio e, sparando a raffica col mitra, uccise due italiani, continuando a sparare finché fu colpito a morte. Il soldato scelto Luther F. Werner, insinuandosi avanti sotto il fuoco di copertura di un BAR (Browning Automatic Rifle), sorprese, ferì e catturò un italiano armato di Maschinen pistole. Mentre i suoi uomini aggiravano le forze nemiche, il sottotenente Parker mandò il sergente maggiore Blair A. Talley con la sua squadra sul fianco destro, ma guidando la manovra il sergente maggiore venne ucciso da raffiche di Maschinenpistole. Preso il comando della squadra, il sergente Korac continuò a far avanzare gli uomini e uccise altri tre fascisti. Quando il fuoco dei mortai, diretto dal sergente George G. Klardie, si abbattè sulle postazioni nemiche, uccidendo quattro tiratori e ferendone di più, il sottotenente Parker guidò l’assalto finale. I suoi uomini caricarono il nemico, mentre semiautomatici e mitragliatrici battevano le postazioni nemiche, devastando i pochi ostinati difensori, che preferirono resistere fino alla morte.” Gli americani glissarono sulle loro perdite effettive ed esagerarono su numero dei bersaglieri caduti. La verità è che gli americani impegnarono nel combattimento una intera compagnia, non un solo plotone, riportando perdite severe. Nel pomeriggio, the Italian muleteers delle mule pack companies divisionali trasportarono a valle un numero di corpse bags imprecisabile, ma molto superiore ai numeri registrati nelle Memorie Storiche del Reggimento. 19 Nel grande Florence War Memorial che sorge sulla via Cassia, nei pressi di Impruneta, a sud di Firenze, sono molte le croci dei soldati del III Battaglione del 349° Reggimento di Fanteria caduti il 23 settembre 1944. Nelle cronache di guerra dei fatti avvenuti nella zona in quel giorno non sono menzionati altri combattimenti in cui sia stato impegnato il III Battaglione. La testimonianza più autorevole sui combattimenti alla Crocetta di Monte Cristino, ai bordi del castagneto che copre il monte, indicato come M. Allovolo sulle carte dell’Istituto Geografico Militare, è quella del sergente AU Benito Augusto Pinotti, capo della 1a squadra del V Plotone Aschedamini: “ Nel buio più assoluto , i bersaglieri si inerpicano sul ripido sentiero che a tratti si allarga a mulattiera e a carreggiabile. I ragazzi procedono in fila indiana o su due file, secondo lo spazio, delimitato a monte da tratti di muro a secco che rincalzano il terreno in forte pendenza e a valle da radi arbusti sul-la stretta banchina che si affaccia nel vuoto, aperto sul fondovalle. Il silenzio è rotto ogni tanto dal soffio di un’imprecazione, dal tintinnare di un nastro di pallottole, dall’urto del calcio di una carabina contro una cassetta di munizioni, da un sasso smosso che rotola . . . Lontano, il fragore delle acque del Santerno. Nel buio si intuisce un gruppo di case e, dopo trecento metri, il campanile basso di una piccola chies . Le case sono quelle di Praticino, località a quota 521 e la chiesetta è quella di San Michele, a quota 594, che sorge accanto a un piccolo cimitero, cintato da un muretto. Pochi metri sotto la stradina che sale verso Crocetta, tre case formano la località di Monti. La chiesa e il cimitero sono conosciuti come San Michele a’ Monti. Sergente Allievo Ufficiale Benito Augusto Pinotti Alt della colonna, parlottio di ufficiali e sergenti, poi due pattuglie ispezionano la canonica e le case. Seppure remoto, c’è sempre il pericolo di un agguato dei ribelli. Qualche minuto d’attesa e finalmente una pausa di riposo. Neanche il tempo di abbozzare un pisolino che ordini secchi riportano alla realtà anche i più contemplativi, quelli che si erano afflosciati sul terreno con le armi addosso e le cassette portamunizioni in mano. Il V Plotone incompleto, alcuni uomini del IV ed una squadra del I debbono prendere posizione in località Crocetta, a quota 715. Gli altri del V, il II e due squadre del I si attestano sulla linea che taglia idealmente da NO a SE la cupola pianeggiante di Monte Cucco, a quota 710. Dove siano il III e il IV Plotone non si sa. Il gruppo Aschedamini parte senza indugi;deve raggiungere velocemente il punto più avanzato dello schieramento. L’ordine è di portare con sé più munizioni che sia possibile: tutti, sottufficiali compresi, hanno oltre alla dotazione personale due cassette con due nastri cadauna da cento pallottole per i Maschinengewehr . Le cassette sono pesanti e spigolose, sbattono dappertutto e sono moccoli che volano ad ogni botta contro un ginocchio, (proprio), o un polpaccio (del camerata che precede).La spensieratezza e l’incoscienza dei ragazzi si manifesta con i commenti e le battute di spirito; nessuno pensa che tra qualche ora potrebbe essere morto. 20 “ È giunta l’ora che batte il cuore . . .” Aschedamini ordina l’alt mentre il cielo incomincia a schiarire. È l’alba. Quindici uomini si fermano alla Crocetta e si mettono subito a lavorare con le vanghette per scavare le buche dove appostarsi. Gli altri quindici seguono Aschedamini che scende per la valletta dove sbuca la strada che viene da Bordignano e risale per il pendio sottobosco. Alt, altre buche e la raccomandazione di mimetizzarsi al meglio, per via delle “cicogne”, gli Stinson che dirigono l’artiglieria. Qualcuno borbotta che di artiglieria ha fatti indigestione ieri.Quattro ore di fila che pareva non finissero mai, con quegli aeroplanini che ci svolazzava-no sulla testa a spiarci di continuo. I risultati sono stati miserelli, per fortuna. Un solo ferito, per giunta non grave, che i tedeschi avevano portato via in ambulanza e che ora è al sicuro in qualche ospedale. L’aria fresca mette appetito e si mette mano al pane nero di segale, il Kornbrot tedesco, e alle scatolette, beato chi ne ha! Due bersaglieri si mettono a discutere; dalle voci si riconoscono Nannicini e Onesti, il fio-rentino e il romano, amici per la pelle, che se non litigano stanno male. Il sottotenente Aschedamini si allontana con il caporalmaggiore Fausti per esplorare il ter-reno alle nostre spalle, una selva di castagni e quercie in salita. Improvvisamente scoppia un inferno di fuoco. Sottotenente Franco Si sente urlare dal bosco: “Bazerla, il tenente è ferito”. È Aschedamini certamente Fausti, non può essere che lui. Imprecazioni, scatti, tutti vogliono andare; ma il sergente Pinotti decide di prendere con sé solo Nannicini e Lori. Armi imbracciate, elmetto calcato, i tre scattano allo scoperto. Il fuoco si ravviva, rabbioso. Dalle postazioni, i bersaglieri eseguono efficaci tiri di copertura. Anche la 1 a squadra appoggia con lunghe raffiche di MG. Il volume di fuoco è impressionante. Raffiche lunghe di MG42, Maschinenpistole e mitra , colpi di Mauser, tiri di semiautomatici Garand, raffiche lente di BAR e veloci di Thompson, salve di mortai da 60 sparate in rapida successione, da vicino, con le bombe che cadono giù dritte, come se fossero gli Stinson a lanciarle. Pinotti e Nannicini si buttano a terra; Lori continua a correre fino ad un avallamento e vi si getta dentro, incolume. Nannicini ha trovato un riparo, mentre Pinotti è sempre allo scoperto, sotto il tiro degli americani, che lo vedono bene dall’alto. Indietreggia strisciando, rotola su di un fianco e si mette fuori tiro. Ancora uno scatto e si trova con Lori e Nannicini. Non si sente più chiamare. Dove sono Aschedamini e Fausti? In un attimo che il fuoco scema d’intensità un rantolo fornisce la risposta. Pinotti alza la testa per guardare attorno, ma una raffica di Thompson gliela fa abbassare, non senza avergli dato il modo di scorgere a terra Fausti, ferito a morte. Urla e spara alle ombre tra i castagni, sfogando il dolore per la morte del camerata, un ragazzo impegnato, serio e riflessivo. Pinotti teme che anche Aschedamini sia morto. Erano venuti per riportarli indietro, e non restava che vendicarli. Adriano Lori, esperto mortaista, spara col Mauser dotato di “tromboncino”, il lanciagra- 21 nate che i tedeschi chiamano Panzergewehrgranatewerfer. Spacca alberi in due e fa volare americani che è una bellezza. Dopo una diecina di colpi, la precisione del suo fuoco costrinse gli americani a ritirarsi, in cerca di posizioni più defilate. Nannicini e Pinotti, ora allo scoperto, sparano inginocchiati un caricatore dietro l’altro contro gli americani nascosti tra gli alberi. Ogni tanto se ne vede uno cadere di schianto; altri, invece, lasciano cadere l’arma e si allontanano barcollando come ubriachi. Il fuoco è intenso, parossistico, ma Lori, Nannicini e Pinotti sembrano invulnerabili. La 1a squadra attraversa la valletta e stringe sotto, recando l’ordine di resistere fino all’ulti ma cartuccia. L’ala destra dello schieramento sul Santerno siamo noi. La tenuta del fronte dipende anche da noi, da quello che facciamo. Si combatte da ore e gli americani non sono ancora riusciti a passare. Il fuoco aumenta d’intensità da entrambe le parti. I bersaglieri strisciano verso la selva, Bazerla e Di Stefano ordinano alle loro squadre di scattare in avanti, ma si sente il baccano di una forte sparatoria provenire da destra. Nannicini ha avvistato un gruppo di americani, forse un plotone, che ha aggirato le nostre posizioni e tenta di prenderci alle spalle. Lori, Nannicini e Pinotti sparano . Pinotti cade, colpito nella parte alta dell’emitorace e nel braccio destri. È stato colpito alle spalle dagli americani nascosti tra i castagni. Nannicini gli corre accanto e gli tampona le ferite, poi si rimette a sparare. Spara, spara e finisce le pallottole. Non ci sono più caricatori per il mitra, afferra la Maschinenpistole di Pinotti, spara, ma si accorge presto che anche per quella le munizioni sono finite: i caricatori sono tutti vuoti. Lori non ha più granate, spara le ultime pallottole del Mauser e si prepara ad affrontare gli americani con la carabina impugnata a mo’ di clava. Nell’avvallamento dove si trovano Lori, Nannicini e Pinotti piomba improvvisamente Bazerla, che si è spinto fin là per vedere cos’è successo. Vuole riportarli indietro. Si carica sulle spalle Pinotti e si avvia, seguito da Lori e da Nannicini. Ma non è possibile superare con un ferito sulle spalle, il tratto scoperto di una trentina di metri, in salita, dove gli americani concentrano il fuoco di un plotone. “Vi verrò a riprendere” è la promessa di Bazerla, che sparisce nel fumo delle esplosioni. Un attimo dopo, una raffica falcia Nedo Nannicini, che muore all’istante, colpito al cuore. Gli americani aspettano ancora un paio d’ore, prima di uscire dalla selva: è mezzogiorno passato da un pezzo, quando prendono il controllo della Crocetta. I bersaglieri caduti ora sono cinque: caporalmaggiore AU Pietro Fausti, caporalmaggiore AU Nedo Nannicini, caporale AU Antonio Schejola, caporale AU Giorgio Onesti e Sergio Benaglio. Il sottotenente Franco Aschedamini, gravemente ferito all’addome, è stato catturato con Frare, Lori, Parietti e Pinotti. Aschedamini spirò nella notte tra il 23 e il 24, dopo molte ore di sofferenze, alleviate dalla presenza di Pinotti, che gli americani avevano lasciato al suo fianco. Incurante che fosse in gravi condizioni, un capitano americano lo interrogò: si professò fervente fascista e promise al nemico che, appena guarito, avrebbe tentato in ogni modo di fuggire per ritornare a combattere. Chi lo conosceva, sapeva quanto fosse anomalo il fascismo del sottotenente Aschedamini. 22 Il caporale Pietro Frare, gravemente ferito ad una gamba,di cui poi avrebbe perso l’articolazione del ginocchio, per una serie di circostanze non condivise i lunghi mesi della prigionia con i camerati. Ufficialmente dato per disperso, ma ritenuto morto, fu rintracciato a Vittorio Veneto cin-quanta anni dopo.” Fin qui la testimonianza di Benito Pinotti, che per un vero miracolo non seguì la sorte del suo comandante di plotone. Una pallottola calibro 45 ACP (mm 11,43 x 23) di Thompson M1 gli aveva perforato il polmone destro e fracassato due costole; un’ altra gli aveva trapassato il braccio destro, bucando l’arteria omerale. Il calore della pallottola, esplosa da pochi metri, cauterizzò il vaso, salvandolo dal dissanguamento. Sangue ne perse comunque parecchio, al punto da cadere in profondo torpore, alternato a momenti di lucidità. Gli fu così risparmiato lo squallido spettacolo delle violenze cui furono sottoposti Lori e Parietti, quest’ultimo ferito, ma in condizione di camminare. Risalendo la penisola, gli americani si erano fatta una particolare idea dell’Italia e degli italiani. Trovarsi improvvisamente di fronte a dei ragazzi che professavano fieramente la loro fede fascista fu traumatico per loro. I fascisti erano stati descritti dalla propaganda come individui malvagi, che professavano un’ideologia diabolica, all’ origine di tutti i mali dell’umanità. Furono trattati di conseguenza, contro le regole dell’onore militare, ma in sintonia con lo spirito che avrebbe condizionato il mondo con la morale di Norimberga. Il 23 settembre 1944 il sole sbucò dalle montagne quando i combattimenti erano già in corso e solo allora, volando da sud-ovest, dalla parte di Fiorenzuola, comparvero le “cicogne”, due Stinson L-5, che presero a volare sulla zona degli scontri, abbastanza in alto per non correre rischi. Verso le 10:00 il sottotenente Giuseppe D’Antona guidò una squadra di bersaglieri da Monti alla Crocetta, per dare man forte ad Aschedamini. Non poteva sapere che Aschedamini era già stato ferito e catturato. Dalla Crocetta scendevano bersaglieri feriti, alcuni sulle proprie gambe, altri distesi su teli da tenda, sorretti da quattro bersaglieri. Alle 10:30 scese il sottotenente D’Antona, anch’egli disteso su un telo. Era privo di conoscenza, pallidissimo, con la Kampfbluse che indossava da un paio di giorni insanguinata dal petto al basso ventre. Dalle posizioni di Monte Cucco due MG42 spararono a fuoco libero, Feuer frei, sui fanti americani quando raggiunsero la strada per Casalino, aggirando la Crocetta. Mancava poco alle 12:30 quando gli americani presero il controllo della località. I bersaglieri si erano battuti bene, ma la loro capacità di combattere era andata via via esaurendosi perché i ragazzi erano caduti o erano stati feriti o erano dovuti scendere per trasportare i feriti più gravi. La ricostruzione dei fatti fu possibile solo dopo molto tempo, attraverso le testimonianze dirette dei superstiti. Vi era stata una grave carenza di comando, imputabile principalmente alla mancanza di collegamenti, ma anche all’incompletezza degli organici e all’insufficiente livello di preparazione tattica del personale. Ogni plotone della Fanteria americana era dotato di un complesso radiotelefonico ricetrasmittente portatile, funzionante a valvole termoioniche, voluminoso, pesante e suscettibile di frequenti inconvenienti. Non ancora miniaturizzati al livello dei walkie-talkie, i radio-telefoni mobili erano tuttavia un ottimo mezzo per comunicare in diverse bande di frequenza con gli altri reparti, i comandi, l’artiglieria, gli aerei di supporto e i carri armati. Il personale del Signal Corp, (branca dell’Engineers), il Genio Comunicazioni che seguiva ogni Divisione di Fanteria americana, disponeva di una rete di apparecchiature statiche SR 510 e SR 536, tale da poter offrire un buon servizio di monitoraggio delle 23 apparecchiature tattiche SCR 300 FM, strumenti pesanti oltre quindici chili, ma con una portata superiore a quattro chilometri, in condizioni ambientali buone. I bersaglieri, per contro, non avevano nulla, nemmeno l’ombra del bendiddio che avevano gli americani. I tedeschi qualcosa avevano ancora e comunicavano, quand’era possibile, con i Funker, i radiotelegrafisti che trasmettevano e ricevevano in codice Morse. Usciti di scena Aschedamini e D’Antona, valenti comandanti di plotone, e con Di Lalla in fondovalle, il tenente Dani era venuto a trovarsi in una condizione molto critica: caduta la Crocetta in mano agli americani , che si erano incolonnati per il Poggio di Marco, diretti verso il Monte La Fine, i sottufficiali che erano con i bersaglieri sul Monte Cucco ricevet-tero l’ordine di ripiegare sul Monte Porrara, più defilato ai tiri dei mortai da 60 della Fanteria e degli obici dell’Artiglieria, che bombardavano senza parsimonia dal fondovalle. Le posizioni lungo il muretto a secco e il terrazzamento di Monte Cucco furono così abbandonate, lasciando il campo agli americani. La giornata aveva messo a dura prova la Compagnia, dispersa su un territorio troppo esteso ed impegnata con problemi tattici di difficile soluzione. L’unico mezzo di comunicazione tra il comando di Compagnia, i plotoni e le squadre erano le gambe dei portaordini, che come ogni altro bersagliere non mangiavano da ventiquattr’ ore. Il ripiegamento su Monte Porrara permise di raggruppare gli uomini che rimanevano e di riordinarli, dopo avere fatto il conto delle perdite. Monte Porrara, che a guardarlo viene da chiedersi chi sia stato il topografo burlone che lo elesse a dignità di monte, è un ridicolo scoglio di selenite circondato dalle sterpaglie di un sottobosco. Un vero scherzo della natura, che richiama alla mente l’immagine di un corno che spunta dalla tonsura di un frate. Il punto più alto del Porrara è a quota 626. Per salirvi, i bersaglieri dovettero scendere dalla quota 710 di Monte Cucco fino alla 586 della valletta per San Michele e scorticarsi poi i polpastrelli nel cercare appigli sui lastroni lisci di gesso crudo. L’ordine di ripiegare da Monte Cucco fu malamente digerito dai bersaglieri di due squadre del I Plotone, che con i loro Maschinengewehr e Mauser stavano efficacemente contrastando il passaggio di una compagnia americana su un tratto scoperto. Dal Il Caporale Allievo Ufficiale Porrara, con un solo MG42, perché non v’era lo Antonio Schejola spazio per piazzarne un altro, i bersaglieri ripresero a sparare sugli americani, che si videro costretti ad abbandonare la strada e a tuffarsi precipitosamente nei campi di granturco, prima del Poggio di Marco. Era difficile mantenere l’equilibrio su uno spigolo di selenite aguzzo come la lama di un coltello, qual è il crinale del Porrara, lungo un centinaio di metri. Due bersaglieri si affiancarono allo MG42 e Caporale A.U. Antonio Schejola sfogarono la loro rabbia sparando una cinquan-tina di pallottole, con l’alzo a dieci ettometri. Se i tiri di MG42 e Mauser non furono efficaci, risultarono indubbiamente utili, perché gli americani smisero di avanzare e rimasero appiattiti in mezzo alle piante. 24 Quando il tenente Dani poté finalmente realizzare il quadro della situazione, dopo una mezza giornata di combattimenti, formò una squadra con i bersaglieri che aveva con sé nella canonica di San Michele e alle 13:45 partì per riprendere possesso del Monte Cucco, che fu riconquistato. Fu un’azione veloce, alla quale partecipò un Trupp di otto uomini del 132.Grenadier Regiment, guidati dal Leutnant Lugeo. Sul Monte Cucco e sul Porrara volavano senza soste i due Stinson che si erano alzati col sole. Controllavano il terreno metro per metro, pur volando ad una quota che li teneva fuori della portata delle armi della fanteria, segnalando ai mortaisti ed agli artiglieri ogni movimento sospetto. Attorno alle 15:00 un portaordini recò al sergente maggiore Sternini la notizia che Dani aveva ripreso il controllo di Monte Cucco. Un urlo liberatorio si levò dalla quarantina di giovani bersaglieri che saltellavano da un fianco all’altro del crinale di Monte Porrara, alla continua ricerca dell’ equilibrio e di un riparo dalle schegge che fischiavano da ogni parte. Una voce intonò le prime parole dell’inno di Mameli, seguita subito da un’altra, poi da un’altra, un’altra ancora . . . in un crescendo spontaneo che divenne corale, lento e solenne. Fu una cantata unica, diversa dalle altre, in un ambiente diverso da quello che i ragazzi avevano immaginato aspettando il battesimo del fuoco, avvolto nella nebbiolina densa e puzzolente degli scoppi, in un pomeriggio diverso da quelli dei giorni che l’avevano preceduto e che diverso sarebbe rimasto da tutti quelli che sarebbero venuti dopo, negli anni a venire. Anni che molti di loro non avrebbero mai vissuto. Poco dopo giunsero alla base del Porrara due soldati della Verpflegung che erano saliti da Moraduccio, passando per Castiglioncello, con quattro muli carichi di munizioni e di viveri. Nastri di cartucce per gli MG, scatole di lastrine da cinque colpi per i Mauser, caricatori pieni per le Maschinenpistole e per i mitra Berretta, granate a mano e granate per i tromboncini. Quei vecchi soldati della sussistenza e quei muli ansimanti erano bellissimi. I vecchi, avranno avuto quarantacinque anni, erano belli come le statue greche che i ragazzi avevano viste sui libri di scuola e fieri come guerrieri teutonici; i muli avevano profili nobili e andatura da destrieri di razza. Traveggole di ragazzi che avevano fame di munizioni e di cibo I due figli di Arminio avevano una fretta del diavolo. Diedero una mano a scaricare gli animali e se ne andarono in un amen, dicendo che dovevano ritornare a valle prima che facesse buio. Ai bersaglieri digiuni da oltre ventiquattr’ore i capisquadra distribuirono prodotti di alta gastronomia, autentiche Delikatessen: scatole di salmone affumicato norvegese, scatole di pasticcio di fegato d’oca alsaziano, sardine spagnole e portoghesi, salsicce bavaresi, Pumpernickel, il pane dolce con l’uvetta, Roggenbrot, il pane di segale, e raffinatissime siga-rette greche, egiziane e turche. Peccato che nessuno avesse pensato a portare qualche tanica di acqua! Dopo il lauto rinfresco arrivò per tutti la sete, una sete insopportabile. L’arsura era attenuata dagli Stinson che continuavano a volare.I bersaglieri lanciavano oltre lo spigolo del Porrara le scatolette vuote e, tempo venti secondi, arrivavano due o tre salve di mortaio che spaccavano la selenite e buttavano all’aria le cataste di tronchi accumulate dai montanari al limite del castagneto. Venne la sera e si fece buio. I combattimenti e il fuoco dell’artiglieria erano cessati del tutto. Rumori di battaglia salivano dal fondovalle. Il tenente Dani radunò i bersaglieri sotto lo scoglio del Porrara, fece loro il rapporto sui fatti della giornata e spiegò i motivi che rendevano necessario il ripiegamento. 25 Il Comando del Battaglione, del resto, aveva già ordinato la ritirata, per evitare l’accerchiamento. Era stata una giornata dura, con un bilancio pesante: cinque caduti sulle nostre posizioni, sette dispersi, quattro dei quali feriti ed uno in fin di vita, otto feriti avviati nelle retrovie e due plotoni alla ventura in fondovalle. Il 23 settembre vi furono due casi di diserzione. Antonio Lena, di Palermo, classe 1917, si nascose nel fitto del castagneto pochi istanti prima che si scatenasse il finimondo. Si seppe in seguito che si era arruolato con il fermo proposito di attraversare le linee e ricongiungersi alla famiglia, che non vedeva da anni. Al primo posto di blocco in fondovalle, gli MP lo fermarono e lo spedirono a Scandicci, dove gli agenti dell’ OSS (Office of Strategic Services) lo interrogarono a lungo perché sospetto. Finì in campo di concentramento ad Aversa e a Coltano e ritornò in Sicilia solo alla fine dell’ottobre 1945. Il secondo caso riguardò un ragazzo bresciano del 1927, volontario per convinzione, che non seppe reagire alle Il Tenente Dani con i suoi bersaglieri emozioni di quelle ore. La sera del 23, approfittando del buio, Costante Cocca si nascose nel cassone di cemento che don Gatti, il parroco di San Michele a’ Monti, aveva nel brollo attiguo alla canonica per raccogliervi l’acqua piovana. Visse lassù facendo il bracciante e il sagrestano fino all’estate del ’45. Fatti che succedono in ogni epoca, nei migliori eserciti del mondo. Lena corse seriamente il rischio di finire davanti ad un plotone di esecuzione come spia, (gli Alleati vedevano agenti dei Servizi Speciali della RSI dappertutto), e Cocca corse altrettanto seriamente il rischio di essere “scorciato” dai “patrioti”, che spuntarono come funghi in ogni angolo della vallata, dopo l’arrivo degli americani. Il parroco don Luigi Gatti raccontò all’autore di essere stato insultato, strattonato e minacciato di morte per avere fatto inumare i “fascisti”. Una moltitudine di “partigiani” si attribuirono il merito di avere conquistato quel tal monte e quell’altro, ammazzando fascisti e tedeschi, catturando intere colonne corazzate e distruggendo tutto quello che si poteva distruggere. Aprirono la strada verso la valle del Po agli americani e agli inglesi, che altrimenti sarebbero rimasti inchiodati sugli Appennini, Dio sa per quanto! Ci hanno scritto e ricamato sopra esagerando così tanto, che a confrontare le loro storie con la nuda cronaca dei fatti, così come la si legge nei documenti americani, inglesi e tedeschi, viene da chiedersi di che pasta siano fatti veramente gli italiani. La sera del 23 settembre i bersaglieri erano stati sul punto di essere schiacciati da almeno un paio di Battaglioni americani, a giudicare dal numero di pattuglie che erano state segnalate sul loro percorso, facendo supporre che li stessero seguendo per controllarli. Fu una di quelle pattuglie, una Power Patrol, che ferì gravemente Sergio 26 Savoini, di Trieste, del V Plotone, inviato in avanscoperta. Ebbe il braccio destro quasi segato via da una raffica di Thompson M1. Non era ancora buio pesto quando, sulla mulattiera che dal Porrara scende a Castiglioncello, i bersaglieri incontrarono un Oberleutnant dell’Artiglieria. Capirono che era dell’Artiglieria dal cordoncino colorato di rosso che bordava le spalline. Aveva l’aria di una persona per bene, capitata lì per sbaglio, preoccupata di non potersi tirare dietro gli effetti personali, con cui aveva riempito due valigie di cuoio. Era un osservatore-direttore di tiro, collegato con le batterie che sparavano nel fondovalle mediante una linea telefonica, di cui lo sciagurato trascurava di recuperare il cavo. Dani gli rifiutò l’aiuto per le valigie, incaricando invece due bersaglieri del La spianata delle Almedole recupero del cavo della linea. Nella totale oscurità che intanto era calata, i bersaglieri evitarono le quattro case di Castiglioncello e attraversarono il Santerno su di un ponte traballante fatto con tavole di legno malferme su cavi d’acciaio sfilacciati, a giudicare dai graffi alle mani che si procurarono appoggiandosi ai mancorrenti, pure essi realizzati con cavi dello stesso tipo. Dalle parti di Coniale si combatteva accanitamente, a giudicare dal baccano e dalle vampate che illuminavano a sprazzi la località. Le raffiche brevi degli MG e l’ordinata successione dei colpi dei Mauser rivelavano la presenza di reparti esperti e bene condotti. Alle 23:00, poco prima di Valsalva, i bersaglieri furono fatti scendere in un locale seminterrato che aveva tutta l’aria della palestra di una scuola. Fu loro distribuita un’ottima zuppa di fagioli dove facevano bella mostra pezzi di Speck, accompagnata da pane di segale. Fecero la pulizia delle armi. Ciò che facevano lo facevano molto bene, ma pensavano ad altro. Andò da loro lo Hauptmann Schiffering, comandante del Battaglione, per parlare della giornata trascorsa. Usò il tatto che le persone bene educate usano nei rapporti con chi è stato colpito da grossi dispiaceri. Fu prodigo di elogi e anticipò con poche parole appropriate il riconoscimento che sarebbe stato formalizzato dopo qualche giorno dal Comando della 715a Divisione. Disse che il reparto aveva compiuto azioni degne della riconoscenza dell’ OKW, il quale avrebbe provveduto per un congruo pacchetto di decorazioni al valore.(…). A sera arrivò l’ordine di ripiegare su nuove posizioni ed ogni squadra, prima di andarsene, mandò un bersagliere a cercare qualcosa da mettere sotto i denti nelle case dei contadini. Barattando con un pacchetto di sigarette, i più fortunati riuscirono a rimediare alcune fettine di castagnaccio e di polenta rinsecchita. Era poco per placare la 27 fame dei ragazzi. Più tardi, sistemati nella casa e nella stalla della famiglia Paolini, nel mezzo della spianata delle Almedole, i bersaglieri cenarono con del formaggio fuso e del pane di segale. Il formaggio fuso di quei tempi era conosciuto col nome del prodotto più famoso, il “Roma”, autarchico per eccellenza, che doveva la rinomanza alla facilità con cui andava a male, assumendo una vivace colorazione verdastra. Man mano che virava sul verde, emanava sempre più forte un odore simile a quello dei ratti morti. Ad un certo punto incominciava anche a muoversi, per cui molti lo chiamavano “formaggio automobile”. Fetente o no, i ragazzi non ne lasciarono un briciolo.(…). I sergenti indicarono dove scavare le postazioni individuali e le Fuchsbau per i Maschinengewehr. Con quello schieramento, la mulattiera che congiungeva i ciglioni e attraversava la parte alta della spianata delle Almedole per il Cantagallo rimaneva completamente fuori del controllo dei bersaglieri né si vedevano in giro granatieri tedeschi che si appostassero per turare il buco. I ragazzi avvertirono il presentimento che sarebbe stata una giornata “calda” e si diedero a scavare come dannati. Non possedevano alcuna esperienza, quindi non era dalla memoria che aveva origine il senso di insicurezza e di turbamento che li angustiava. Intuivano che in quelle posizioni v’ era qualcosa di sbagliato, esposte come erano, del tutto scoperte, al tiro dei mortai della Fanteria, al tiro degli obici dell’Artiglieria e al tiro dei cannoni degli Sherman, che prima o poi sarebbero entrati in scena, con la “montanara” che si offriva sotto di loro, in bella vista, per un buon tratto. Alle spalle delle postazioni il declivio del podere costituiva un ostacolo per niente facile da superare. Erano cento metri di terreno arato, tutto in salita e completamente scoperto. I bersaglieri del V Plotone, che si trovavano nelle ultime posizioni in alto, più degli altri non riuscivano a capire in base a quali principi tattici fossero stati schierati. Il terreno del ciglione, guarnito da arbusti tipici della zona, principalmente rosa canina e lentischio italico, era calcareo ma non compatto, e vi si poteva scavare senza troppa fatica. Appena si fece chiaro, l’Artiglieria tedesca avvolse in una sola grande nuvola di fumo grigio la statale e le case di Valsalva, chiesa parrocchiale compresa. Sul ciglione di fronte spuntarono gli americani. Gli Stinson volavano già sulla verticale delle postazioni tenute dai bersaglieri. Raffiche di Browning pesante da 0.50 (12,7 mm) a traccianti rosse partirono dalla finestra al primo piano della grande casa bianca subito a valle dell’innesto della mulattiera per il Cantagallo. Sull’altra mulattiera iniziò il passaggio di centinaia di soldati americani, diretti verso il Monte Acuto. Il tiro degli MG fu concentrato su di un tratto scoperto di una ventina di metri, che gli americani attraversavano di corsa. Agli MG si aggiunsero i Mauser e in breve fu una sparatoria infernale. Sparavano i bersaglieri e sparavano gli americani, ma gli americani sparavano dietro una cortina di fitta vegetazione, mentre i bersaglieri sparavano allo scoperto. L’aria di quel mattino era ancora fredda, abbastanza per rendere bene visibili i fumi degli spari. 28 Caddero le prime salve dei mortai da 60. Sferragliando, sbucarono sulla “montanara” due Sherman che si piazzarono nella piazzola del Monumento ai Caduti della I Grande Guerra, che sarebbe stato demolito anni dopo per fare posto ad una costruzione. Brandeggiarono i 75 ed iniziarono il tiro in cadenza rapida sulle postazioni dei bersaglieri. Tutta la spianata delle Almedole fu un ribollire di esplosioni. Pochi minuti prima i bersaglieri avevano assistito al bombardamento del versante sinistro del Santerno, dalla riva alla cima del Monte Pratolungo. La vegetazione era scomparsa sotto il fumo bianco e grigio delle esplosioni. Molto più bianco che grigio, per via delle granate al fosforo. Ai mortai da 60 ed ai 75 degli Sherman si erano aggiunti gli obici da 105 e da 155 divisionali, che fecero l’inferno, sconvolgendo ogni metro di terreno. Dalle postazioni in alto si vedevano i corpi senza vita dei bersaglieri che avevano tentato di guadagnare posizioni defilate. Per defilarsi bisognava almeno superare il crinale, ma per arrivarci si dovevano fare quei dannati cento metri in salita, si doveva correre sulla terra tritata dalle esplosioni, che l’avevano resa soffice e inconsistente come la sabbia asciutta. Non è facile correre in salita sulla sabbia asciutta.Quando un bersagliere usciva dalla sua buca per tentare di raggiungere il crinale gli americani lo inquadravano nel mirino. L’aria era divenuta irrespirabile, satura dei gas liberati dalle esplosioni: dominava l’odore dell’ ozono, generato dalla frantumazione dei proiettili, mescolato al puzzo acre del Carri Scherman tritolo. Dai ricordi del bersagliere Toni Liazza: “Alle 1200, dopo quattro ore di bombardamento continuo, eravamo rimasti vivi in tre: il sergente Di Stefano, Martignon ed io. Di Stefano autorizzò Martignon a tentare di guadagnare la Casa Paolini, che pareva ancora in piedi, sulla sommità del podere. Erano un centinaio di metri da fare di corsa, in salita, nel terreno reso fine come la sabbia dai molinelli delle esplosioni. Più in basso si vedevano i corpi dei bersaglieri che avevano tentato di raggiungere posizio- ni più defilate, senza successo. Approfittando di una salva che aveva sollevato molta terra e molto fumo, Martignon uscì dalla buca e incominciò a correre.Dalla casa di fronte, gli americani batterono il pendio con le Browning Vedemmo Martignon immobile, supino, ad una trentina di metri da noi. Pensammo che gli fosse andata male e recitammo mentalmente una preghiera per la sua anima. Arrivarono altre salve. Quando il vento schiarì un po’ la scena, Martignon non c’era più. Cercai di fare un rapido esame della situazione.Ero coperto dalla polvere finissima della terra frullata dalle esplosioni, dolorante in diver- se parti del corpo per le contusioni prodotte dai ciottoli o da altri corpi compatti, ma senza ferite. La polvere era entrata 29 dappertutto, in bocca, nel naso, nelle orecchie; era passata attraverso la giacca a vento, il maglione, la camicia, i pantaloni. A valle era da almeno tre ore che non si sentiva sparare. Sopra di noi, si vedeva la canna del Maschinengewehr 42 di Casarini sporgere dalla Fuchsbau, immobile. In alto, sotto la cima di Monte Acuto, i tedeschi combattevano senza soste, alla grande. Gli MG lavoravano dalle prime ore del mattino e non accennavano a pause, se non quelle tecniche, brevissime, per la sostituzione della canna ogni duecento colpi. Le loro posizioni erano defilate dai tiri dei carri. Verso le 1230 Di Stefano aveva lanciato un moccolo, qualcosa come: <ostia, m’hanno beccato>! Uno degli ultimi colpi degli Sherman l’aveva colpito alla gamba destra. Salutai Di Stefano e,subito dopo un’ennesima vampata, uscii dalla buca e mi misi a correre. Mi illudevo di trovare qualcuno disposto ad aiutarmi per rilevare Di Stefano e condurlo al più vicino posto di medicazione, ma i traccianti delle Browning fischiarono tutt’attorno. Mi tuffai nella buca, appena in tempo per sottrarmi alla gragnola di colpi di ogni calibro. Intuii quale sarebbe stato il mio prossimo futuro, che avrei condiviso con Di Stefano. Mi disse che un’altra scheggia aveva spezzato la cassa del mitra. Gli americani adesso avevano smesso di sparare. Non li vedevamo più passare nel tratto scoperto per Monte Acuto. Una decina di elmetti spuntarono dagli arbusti che bordavano la stradina per San Martino e il Cantagallo. Sfilai l’otturatore dal Sullo sfondo il profilo del Monte Acuto Mauser e lo lanciai nel vuoto, con la carabina. Non avevo più pallottole, ma anche se me ne fossero rimaste, a quel punto avrei potuto fa- re ben poco. In tedesco, gli americani ci urlarono di uscire e di andare verso di loro con le mani in alto. Di Stefano scavò frettolosamente con le mani un buco e vi seppellì un involto che conteneva, come mi disse in seguito, un centinaio di fotografie della visita di Benito Mussolini al Battaglione sul Colle delle Grazie, il 9 agosto’44. Gli erano state date da un tenente della PK aggregato alla 29.Panzergrenadiere Div. . Levandomi in piedi, notai il codolo di una bomba da mortaio da 60 che spuntava dalla terra, ad un paio di spanne da dove tenevo la testa. Per l’intervento di qualche angelo custode non era esplosa. Andai da Di Stefano e mi chinai per aiutarlo ad uscire dalla buca. Un paio di raffiche di Thompson ed una serie di improperi in americano mi svegliarono dal torpore in cui ero caduto e segnarono l’inizio di una nuova, molto sgradevole esperienza. La diecina di elmetti che avevamo intravvisto nel fogliame delle siepi sul viottolo erano in realtà un plotone di una quarantina di uomini, al comando di un tenente sempre incollato al radiotelefono, portato a spalla da un enorme soldato di colore. Col calcio dei Garand ci fecero volare gli elmetti. Con un balzo si allontanarono da noi quando si accorsero che portavamo delle granate a uovo appese al cinturone. 30 Tenendoci sotto tiro, ci ordinarono di slacciare i cinturoni e di appoggiarli delicatamente a terra; poi, per riprendersi dallo spavento, ci picchiarono ancora con i calci dei Garand. Non sentivo il dolore dei colpi, anche se il sangue mi colava sul collo. A distanza di cinquantasette anni le cicatrici sulla cuticagna si vedono ancora molto bene. Di Stefano perdeva sangue, non si lamentava, non parlava, ma si capiva dal digrignare dei denti che soffriva. Si appoggiava a me, saltellando sulla gamba sana. Il plotone che ci aveva catturato si era intanto attestato sul punto più alto della mulattiera per San Martino e il Cantagallo, da dove si poteva osservare l’intera spianata delle Almedole. Il tenente affidò gli abbacchiati prigionieri a due fanti armati di semiautomatici Winchester perché fossero condotti nelle retrovie. Scendemmo a Valsalva per la mulattiera che avevamo salito la mattina del 25, incrociando file ininterrotte di fanti in assetto da combattimento che salivano verso il Monte Acuto. Due anni dopo seppi che un paio di centinaia di quei fanti erano scesi a valle a dorso di mulo, chiusi in sacchi di tela gommata. Il ritorno a valle era avvenuto il 27 ed il 28 di settembre, dopo i primi durissimi combattimenti sul Monte Battaglia. Le cronache militari riportano che la conquista del Monte Acuto ed il mantenimento della sommità del Monte Battaglia furono pagati a caro prezzo dai fanti del 350° Reggimento. Nelle prime ore del pomeriggio del 26 settembre erano ancora in buona salute e ce lo dimostrarono gratificandoci con pugni, pedate e colpi con i calci dei Garand sulla testa, sulle spalle e sulla schiena. Sembravano degli invasati, in preda all’odio. Forse si comportavano così perché avevano una grande paura, che speravano di esorcizzare menando i due malcapitati che si erano trovati a portata di mano. Il Duce consacra una bandiera di combattimento dell'Esercito Repubblicano Come Dio volle, arrivammo a Valsalva. Avevamo fatto una sosta di mezz’ora nella rimessa attigua alla casa del cantoniere, in attesa che si sfogasse il fuoco dell’Artiglieria tedesca, molto intenso e preciso. Il Comando del I Battaglione del 351° Reggimento della 88 a Divisione di Fanteria era stato insediato nella palazzina dell’ANAS, tutt’ora esistente sul bordo destro della “montanara”, dove inizia la stradina che conduce alla chiesa e al cimitero della frazione. Appena oltre la soglia, un tavolino di legno era divenuto la scrivania di un giovane capitano, che stava scrivendo appunti su un quaderno a quadretti dalla copertina nera. Scelse una pagina, dove notai che erano segnati i nomi di alcune persone che conoscevo: Aschedamini, Franco, lieutnant, con una croce accanto; Pinotti, Benito, sergeant; Parietti, Felice, private; Lori, Adriano, private. 31 Mi accorsi che il capitano americano portava alla cintola la fondina di cuoio grigioverde con la Berretta 34 cal. 9 corto di Aschedamini. Non potevo sbagliarmi, perché sulla patta era bene visibile una piccola aquila in metallo della Wehrmacht che Aschedamini aveva avuto in regalo da un ufficiale tedesco. Osservai al capitano che non era corretto trascurare la ferita di Di Stefano, e quello, serafico, rispose che la cosa non era importante, perché saremmo stati fucilati al tramonto. Il sergente AU Salvatore Di Stefano, freddo e solenne, alzò il capo e, scandendo le parole, lo mandò a farsi fottere:, <Fottiti, capitano! Scher Dich zum Teufel, Herr Kapitän! Va te faire fiche, capitaine, toi, l’Amerique et ton president, le vieux cochon!”. Per essere sicuro che capisse bene, gliel’aveva detto in italiano, in tedesco e in francese, le lingue che conosceva. Era un Di Stefano che non avevo mai visto, fiero fino 19° SS PANZERGRENADIER DIV. all’alterigia. Il capitano cambiò registro. Mentre ci interrogava, un sergente ci appese al collo un LATVIA cartello bianco di tela gommata con la scritta a caratteri cubitali PRISONER OF WAR, le coordinate topografiche del punto dove era avvenuta la cattura e l’unità che l’aveva effettuata. Al tramonto. seduto sui resti di un muretto, fuori della casa dell’ANAS, Di Stefano fu finalmente medicato da un caporale della Sanità, riconoscibile per i vistosi dischi bianchi con la croce rossa che portava dipinti sul grande elmetto . Coprì lo squarcio sulla gamba con polvere di sulfamidici, fasciò e se ne andò, assicurando che Di Stefano sarebbe stato ricoverato at once, al più presto, in un ospedale da campo. Passammo le ultime ore insieme nella grande stalla della Casa Raspanti, in compagnia di una trentina di soldati in uniforme tedesca, compresi alcuni SS, che recavano sul braccio sinistro uno scudetto con la dicitura LIETUVA ed i colori della bandiera lituana, giallo, verde e rosso a barre orizzontali. La giornata del 26 settembre si chiuse con la perdita di quindici caduti, comprendendo nel numero il bersagliere Antonio Ciarnelli, dato come disperso, ma oramai identificabile nel milite ignoto inumato nell’ossario di Valsalva. I feriti furono tredici, alcuni dei quali con esiti invalidanti. Il KTB (Kriegstagebuch, il Diario Giornaliero di Guerra) del LI Gebirge Armee Korps (LI Corpo d’Armata di Montagna), del quale faceva parte la 44. Inf.Div. “Hoch und Deutschmeister”, che aveva alle dipendenze il 671. FEB, cui erano aggregati i bersaglieri della 1°Compagnia, nel n.4 del 1°ottobre 1944 riportò: 32 “A Monte Acuto e precisamente nel sottostante piano delle Almedole che domina il ponte di Valsalva, si sacrificarono molti bersaglieri rimasti sotto l’infernale fuoco americano, ad impedire, con il tenente Dani, lo sfondamento del fronte”. Il 30 settembre, nei locali della palestra, resi tetri dalla tamponatura con cartoni e pezzi di compensato che avevano sostituito i vetri negli infissi delle finestre, due ufficiali del 671.Feld Ersatz Bataillon diedero corso alla cerimonia, molto sobria secondo le tradizioni della Wehrmacht, della consegna delle Croci di Ferro di Prima e di Seconda Classe assegna-te ai bersaglieri per i fatti del 23. (…) Il comando della 715a aveva deciso di giocare la carta dei bersaglieri per tentare ancora una volta di sloggiare gli americani. Il tenente Dani scelse quaranta bersaglieri, tra i più in arnese. Alle 03:30 del 1° ottobre 1944 i bersaglieri e un Kampfgruppe di una trentina di guastatori del Pionier Bataillon 715 andarono all’assalto del Monte Battaglia. Anche i bersaglieri partecipavano in veste di guastatori. Ad ognuno erano state consegnate due grosse saponette di TNT, trinitrotoluene, un esplo-sivo ad alto potenziale, per devastare definitivamente le postazioni del nemico. Al riparo delle vecchie mura della rocca e nei fortini che erano stati improvvisati tutt’attorno, gli americani, che sarebbero stati rilevati il giorno seguente da fucilieri britannici, opponevano una incredibile resistenza. Avevano piazzato mitragliatrici medie e pesanti e mortai da 60 che battevano il terreno circostante incessantemente. Lo sbarramento dell’artiglieria e dei mortai costituiva un ostacolo molto difficile da superare, ma che si poteva affrontare, preventivando una percentuale di perdite vicina al 30%. La sommità del Monte Battaglia era invece un obiettivo impossibile, isolata come era da una profonda fascia di terreno scoperto, che non offriva alcun riparo agli attaccanti. Salirono per la mulattiera che conduce a Smirra e a Ortali; dalla quota 333 di Ortali proseguirono per Casola di Sopra, ma prima di raggiungerla piegarono a ponente per Chiesuola e Ca’ Bosco, a quota 516, sotto il ripidissimo costone che congiunge il Monte Ba-darello (m 605) con il Monte Battaglia (m 715). Da Casola a Chiesuola (m 459) procedettero in mezzo alle esplosioni delle cannonate britanniche, che arrivavano dal fondovalle del Senio. Sfruttando l’oscurità, i bersaglieri e i pionieri riuscirono a raggiungere la base del costone, duecento metri sotto il crinale, in un grandinare continuo di pallottole e di bombe di mortaio. Gli attaccanti erano costretti ad usare le mani per poter salire, a balzi, nel fuoco. Il costone era ed è ancora oggi ripidissimo, spoglio e liscio come un cranio. Gli obici da 105 e da 155 americani sparati dal fondovalle del Santerno si incrociavano con quelli da 75 e da 90 britannici sparati dal fondovalle del Senio. Era ancora buio pesto, rotto a sprazzi dalle vampate delle esplosioni, che rendevano irreale e sinistro il paesaggio. Gli americani con le Browning 7,62 e 12,7 sparavano traccianti, come la mattina del 26 davanti al Ciglione delle Almedole. Le scie rosse fischiavano a pochi centimetri sugli elmetti dei bersaglieri, che continuavano ad avanzare appiattiti sul terreno, e si sovrapponevano a fasci, incrociandosi nei rari punti dove sarebbe stato possibile tentare di passare. Vicino alla sommità, il frastuono aveva superato il limite di sopportazione: si era al paros-sismo. Procedere in quelle condizioni era umanamente impossibile, né suicidarsi sarebbe servito a qualcosa. Con la prima luce dell’alba, venuta mano la relativa protezione del buio, il tenente Dani impartì l’ordine di ripiegare. La luce stava mostrando 33 in tutta la sua crudezza la tragica realtà dello scenario, punteggiato di corpi umani in diversi stadi di putrefazione. Il fetore della morte, reso più penetrante dall’ ozono dell’acciaio e dai gas delle cannonate, era insopportabile. Scese a valle il ferito più grave, il sergente maggiore Stellini, disteso su una carretta trainata da un mulo, sul quale era stato issato a cavalcioni il caporale Bortolon, ferito seriamente ad una gamba da una grossa scheggia. Gli altri feriti raggiunsero il posto di medicazione più vicino trascinandosi a fatica sulle proprie gambe. La forza della Compagnia era scesa a cinquantadue effettivi, con le perdite salite al 56%. Il tentativo di espugnare la sommità del Monte Battaglia non era stato inutile, perché aveva impegnato ancora una volta il 350° Fanteria americano, che il giorno dopo, 2 ottobre 1944, dovette essere ritirato per le perdite subite. Bersagliere AU Franco Lopez I Pionieri tedeschi, mentre i bersaglieri richiamavano su di sé l’attenzione dei difensori americani, erano riusciti a far saltare in aria un importante posto di osservazione per l’artiglieria, che dominava la Valle del Senio. Il KTB del LI Gebirge Armee Korps ancora una volta riportò: “A Monte Battaglia le nostre truppe lanciarono un nuovo attacco all’alba del 1° ottobre con la partecipazione anche dei 40 bersaglieri superstiti della Compagnia d’Assalto del tenente Dani, che in un attacco concomitante con 40 pionieri eliminarono un posto di osservazione americano” La Compagnia, quello che ne restava, andò a riposo a Riolo Bagni. L’8 ottobre la Compagnia fu condotta con autocarri da Casola Valsenio a Zattaglia, nella Valle del Sintria, un torrente che sorge vicino a Fornazzano, sul confine tra la Romagna e la Toscana, poco distante da Monte Cece (m 759). Il Sintria era gonfio e le acque, scendendo verso il Senio, spumeggiavano e facevano un rumore molto forte. I bersaglieri risalirono la valle fino a Sant’Andrea, un paio di case e una chiesa sotto il Monte della Vecchia (m 657). Il Monte Cece era nelle mani del XIII Corpo britannico, che aveva schierati nella zona gli Sherwood Foresters, i King’s Shropshire con un battaglione di mitraglieri del Royal Middlesex, e i granatieri del Reggimento Duke of Wellington. Il 9 ottobre arrivarono da Verona i primi complementi: i sergenti AU Apollonio e Piancastelli, con sei bersaglieri, che portarono la forza a sessanta uomini. La Compagnia si attestò sulle posizioni in riva destra del Rio Dozzone, un modesto affluente del Senio, che divideva in quel momento il settore in mano alle truppe germaniche da quello in mano ai Britannici. Iniziò subito un’intensa attività di pattuglie. Ricorda il bersagliere AU Franco Lopez, che era appena rientrato alla Compagnia dopo una convalescenza per le ustioni al viso riportate durante il corso per “cacciatori di carri” frequentato a Mordano (Bo) presso il Panzerjäger Abteilung 715 : 34 “Il Battaglione della Wehrmacht cui eravamo stati aggregati ( 671. Feld Ersatz Bataillon della 715. Infanterie Division) combatteva senza interruzioni dalla fine del gennaio 1944, quando dalla Provenza fu inviato attorno alla testa di ponte di Anzio e Nettuno, dove contra stò efficacemente gli anglo-americani. In nove mesi, la sua forza si era assottigliata a circa cento uomini, forza inferiore agli effettivi di una compagnia. La cosa mi impensieriva un poco. Ci sistemammo all’interno di una stalla, che sembrava inutilizzata da tempo. Durante la notte fui svegliato dal sergente Chiorboli. Il tenente Dani lo aveva incaricato di eseguire un’incursione esplorativa, perciò, assieme a Filiberti e a due tedeschi, ci avviammo. Un fiumiciattolo segnava la linea di demarcazione fra le zone presidiate dai tedeschi e quelle occupate dagli inglesi. Lo attraversammo e risalimmo cautamente le prime balze del Monte Cece. Poi ci mettemmo a carponi. Ad un tratto, uno dei due tedeschi si accorse che eravamo entrati in un campo minato. Retrocedemmo con estrema cautela e lo aggirammo. Arrivammo in cima alla collina dove era attestato l’avamposto inglese. Ci acquattammo nel silenzio più assoluto, in attesa del cambio delle sentinelle. Individuammo così sia le postazioni che la casa dove alloggiava la truppa. Poi, sempre mantenendo il più assoluto silenzio, tornammo alla base. Raggiungemmo la nostra stalla e ci mettemmo a dormire. Ci svegliammo nel primo pomeriggio. Il tenente Dani ci radunò e ci comunicò che alle prime luci del giorno seguente avremmo attaccato la postazione inglese. A noi si sarebbe aggregata una squadra tedesca per supportarci con una mitragliatrice pe sante. Se qualcuno fosse rimasto ferito nel corso dell’azione, avrebbe dovuto cercare di tornare alla base per proprio conto. Operavamo all’interno delle linee nemiche e per completare l’azione il reparto doveva contare sull’apporto di tutti gli uomini validi. Alla sera cercai di riposare, ma fu un continuo dormiveglia: l’attesa per l’assalto era fonte di tensione, dato che non sapevo cosa mi aspettasse, ma soprattutto cercavo di immaginare cosa avrei fatto. Fra le due e le tre di notte ci preparammo e partimmo. Arrivammo alle pendici del Monte Cece con tutte le precauzioni ed in assoluto silenzio e iniziammo la salita. Il sergente Chiorboli ed io, essendo già stati sul luogo la sera prima, eravamo accanto al tenente Dani per consigliarlo sul percorso da fare. I bersaglieri aggirarono l’avamposto per prenderlo alle spalle. Gli inglesi non si aspettavano di essere attaccati da quella parte. Le sentinelle erano disposte verso le linee tedesche. Arrivati in cima alla collina ci appostammo. Aspettavamo i primi chiarori dell’alba. Io, che ero armato di un mitra Berretta 38A e di un paio di Stielhandgranate (bombe a ma- no col manico di legno), guardavo il tenente Dani. Ad un suo segnale, avrei dovuto lanciare una delle bombe in direzione della postazione di una delle vedette.Il silenzio era assoluto. A levante, dietro i monti, il cielo incominciò a rischiararsi. Il tenente Dani alzò un bracci… strappato il cordoncino della sicura, lancia la bomba e mi buttai a terra con il mitra imbracciato. Tra gli scoppi delle bombe, il crepitìo dei mitra e delle Maschinenpistole si mescolò alle raffiche ringhianti dei Maschinengewehr. Cominciarono a fischiare attorno a noi le fucilate di risposta degli inglesi. Ad un tratto sentii un forte urto al polso destro, mentre il mitra mi cascava di mano. Mi rivoltai sul dorso e lo zampillo di sangue che stava uscendo dalla ferita mi imbrattò la gola e il viso. La mano destra si era rattrappita e per quanto cercassi non riuscivo ad aprirla. <Cazzo,> pensai <non potrò più andare a caccia!> Poi su di me vidi la faccia di un 35 anziano bersagliere baffuto; era un graduato, di cui purtroppo non ricordo il nome. (Caporalmaggiore Antonio Terranova, cl. 1918, ventiseienne). Equivocò sulla gravità della ferita e urlò: <Vigliacchi .... ti vendicherò!> Nel frattempo l'azione continuava e gli Inglesi lentamente stavano abbandonando le posizioni; alla fine si sarebbero ritirati disordinatamente, lasciando i Bersaglieri padroni del campo. Il caposaldo fu conquistato, ma poi, a causa della sua esposizione al fuoco di rivalsa della artiglieria britannica, risultò indifendibile." I fatti ricordati dal bersagliere AU Franco Lopez avvennero nella notte tra il 13 e il 14 ottobre e all’alba del 15 ottobre 1944. Obiettivo furono le le postazioni dei Fucilieri britannici Sherwood Foresters a quota 514 sul versante occidentale del Monte Cece (m 759). Il Monte Cece si trova a circa 5.750 m in linea d’aria a SSE di Monte Battaglia ed è un buon punto di osservazione a cavallo delle Valli del Senio e del Sintria.(…) Il 22 novembre, i superstiti della 1 a Compagnia ebbero un breve incontro con i camerati della 2a Compagnia, che aveva lasciato Verona il 14 novembre. Si incontrarono a Ortodonico, una località tra Sasso Morelli e Tréntola, sei chilometri a N di Imola. Il 24 novembre i superstiti della 1 a Compagnia giunsero a Legnago, in provincia di Verona, per una sorta di quarantena sanitaria, prima di essere fatti rientrare alla vecchia caserma dell’8°. Riceverono il soldo arretrato, tre mesi compiuti, che, tra allarmi e bombardamenti aerei quotidiani, fu speso interamente per lavori di sartoria sulle uniformi e generose consumazioni nelle trattorie. A Verona furono sottoposti a visita medica e rimessi velocemente in ordine.(…) Il mese di dicembre fu denso di avvenimenti significativi: la consegna delle ricompense al valor militare concesse per i fatti d’ armi nelle valli del Santerno, del Senio e del Sintria e l’udienza alla Villa delle Orsoline di Gargnano, dal Capo della RSI. Fu un’esaltante fine d’anno quel dicembre del 1944. Tutti o quasi sapevano che la guerra era ormai perduta; ma il discorso del Duce la mattina del sabato 16 dicembre al Teatro Lirico di Milano, le scene dell’entusiasmo popolare e le notizie diffuse dalla radio sull’offensiva sferrata nelle Ardenne da von Rundstedt avevano contribuito a creare un’ atmosfera che aveva del magico. Domenica 17 dicembre il maresciallo Graziani lasciò il Duce a Milano e andò a Verona, dove fu accolto nella vecchia caserma dell’8° dai superstiti della 1 aCompagnia e da una com-pagnia del III Battaglione “Enrico Toti”. Il maresciallo tenne un breve discorso, al termine del quale appuntò sul petto dei bersaglieri e delle madri dei Caduti le medaglie concesse dal Capo della RSI. Toccò prima alle madri dei bersaglieri Sergio Benaglio, Lamberto Brindesi e Ferdinando Piazzoli, poi, via via, ai viventi. Ultimo fu il tenente Ilario Dani, sul cui petto Graziani appuntò la medaglia d’argento, mentre gli rivolgeva espressioni di prammatica. Era una giornata fredda e nebbiosa e stava già facendosi buio quando, nel primo pomeriggio, il maresciallo partì per ritornare a Milano. I giovani bersaglieri vissero quella domenica con orgoglio e commozione, consapevoli che i riconoscimenti ufficiali e le ricompense al valore militare individuali premiavano l’intero reparto, primi fra tutti i Caduti. 36 I “ragazzini” della 1a Compagnia si erano comportati bene in condizioni particolarmente avverse, che avrebbero messo a dura prova veterani di provata esperienza.(…) La mattina di mercoledì 20 dicembre 1944 i bersaglieri decorati della 1 a Compagnia partirono in autocarro dalla caserma di Verona per andare a Gargnano, sulla riva occidentale del Lago di Garda, dove era il Quartier Generale, sede di guerra del Governo della Repubblica Sociale Italiana. Da poco più di un mese, precisamente dal 18 novembre, il Quartier Generale era stato trasferito dalla Villa Feltrinelli alla Villa delle Orsoline , poco distante. La Villa Feltrinelli era, e lo sarebbe stata fino al 18 aprile 1945, la residenza di Benito Mussolini e della sua famiglia. Alla Villa delle Orsoline, i bersaglieri, dopo una lunga attesa, furono ammessi alla presenza del Duce, nello studio al primo piano. Si ricreò come per un incantesimo l’atmosfera del 9 agosto, quando Mussolini passò in rassegna il Battaglione nel Parco di Villa Tosi a Covignano, sul Colle delle Grazie, a ponente di Rimini. Dopo essere stati presentati dal generale Alessandro Melchiori, Ispettore del Corpo dei Bersaglieri, i ragazzi conversarono con il Duce, rispondendo alle domande che egli rivolgeva loro, dimostrando sincero interesse per i fatti di cui erano stati protagonisti. Fece chiamare un fotografo ed uscì insieme a loro sul terrazzo che guarda il lago. Si fece riprendere nel mezzo del gruppo, avendo alla sua destra il generale Melchiori e il sergente maggiore Stellini, ed alla sua sinistra il tenente Dani e il sottotenente D’Antona. Le ore trascorse a Gargnano entusiasmarono i bersaglieri, che rientrarono a Verona in stato di grazia.(…) Quindici mesi dopo l’armistizio, il disfacimento delle forze armate del regno, la fuga del governo e della famiglia reale e l’invasione del territorio nazionale fino alla Linea Gotica, l’Italia del Nord viveva costituita in stato repubblicano, secondo proprie leggi e propri ordinamenti. Gli avvenimenti del settembre 1943 erano ormai lontani, appartenevano ad un altro periodo della vita, un momento doloroso che aveva marcato le coscienze e segnato l’inizio di un travagliato processo di trasformazione. Erano passati venticinque mesi da El Alamein, ventiquattro da Stalingrado, diciotto dalla resa dell’Armata italo-germanica in Tunisia, diciassette dall’inizio dell’invasione del territorio nazionale, sei dalla caduta di Roma e dallo sbarco in Normandia, e quattro dai primi aspri combattimenti sulla Linea Gotica. Archi di tempo tra grandi battaglie perdute e avvenimenti che avrebbero sconvolto l’Europa, nei quali si stava delineando in modo drammatico la disparità delle forze in campo. 132. Reggimento Granatieri Dal Comando di Reggimento, il 25.9.1944 37 Durante i pesanti combattimenti difensivi del 23 settembre 1944 la Compagnia Bersaglieri aggregata al Reggimento attraverso la 715 I.D., agli ordini del Ten.Ilario DANI, si è battuta con valore straordinario. Sull'ala destra del Reggimento ad occidente della Valle del Santerno la Compagnia ha mantenuto le posizioni dominanti su Monte Cucco, Monte Porrara e San Michele contro due attacchi condotti dal nemico con forte accompagnamento di artiglieria e di mortai. Quando, dopo un ulteriore attacco, la resistenza dei difensori italiani è stata infranta ed il nemico è riuscito a sfonda-re, il Monte Cucco è stato riconquistato con un audace contrattacco, condotto dal Tenente Ilario Dani e dal Sottotenente Lugeo. In questi combattimenti di difesa e di attacco malgrado le proprie elevate perdite la Compagnia ha inflitto al Il bollettino di guerra del nemico perdite ancor più comando tedesco menziona sanguinose. La Compagnia possiede l'eroico comportamento dei un superiore spirito di combattimento Bersaglieri del Mameli. Sotto e un raro slancio di attacco. la traduzione in italiano fatta Essa ha tenuto l'ala destra scoperta dai tedeschi del Reggimento ed è risultata determinante per la difesa dell' intero settore del Santerno. f.to Maggiore Leitner Allegato 10 per il Bollettino della Wehrmacht del 10.10.44, n° 196 Dal libro “QUELLI del “MAMELI”, a cura di Toni Liazza L’AVANZATA DEI “LIBERATORI” IN TERRA ITALIANA 38 DA UN TACCUINO DI GUERRA I mezzi di trasporto erano pressoché scomparsi. Per unire Frascati alla zona di campagna dove avevamo trovato rifugio negli ultimi tempi di guerra c’era ancora qualche “littorina”, il trenino che aveva a suo tempo sostituito, ammirato da tutti, il vecchio “tram”. Per andare a Roma – poco più di una ventina di chilometri - c’era invece ancora il vecchio tram, per salire sul quale la gente, non riuscendo ad entrare dalle porte affollate, si ingegnava ad entrare dai finestrini. E poi restava il più antico mezzo di comunicazione terrestre: le gambe. Molto usate in quegli anni, quando sembrava logico fare chilometri per spostarsi dove fosse necessario. Così accadde più volte che i venti e più chilometri che separavano campagna da la casa di noi li Roma facessimo a piedi. Con pessime calzature, accomodate non si sa quante volte e dalla cui suola, di sughero o legno, finiva sempre per spuntare qualche chiodo; alle volte La Littorina bisognava fermarsi per dare un po’ di sollievo ai piedi. Ma la difficoltà del viaggio non era tutta lì. Il peggio era quando arrivavano, calandosi rapidamente verso terra, gli aerei americani. Fuga rapida, il più rapida possibile, verso le cunette che fiancheggiavano la strada, per accoccolarsi lì, unico “riparo”. Gli aviatori mitragliavano calandosi a bassa quota i civili che percorrevano la strada, per poi riprendere rapidamente quota e scomparire. E per tornare magari dopo mezz’ora. Non vi era nessun obiettivo militare lungo quella strada, mai visto nemmeno l’ombra di militare italiano o tedesco. Erano evidentemente distrazioni di aviatori che non sapevano come impiegare il tempo libero. Ricordo il giorno in cui un mulo, impaurito, fu sul punto di calpestare con i suoi zoccoli una donna rannicchiata nella cunetta. Rialzandosi, poi, ci si passava la mano sui vestiti sporchi di terra, e si riprendeva a camminare. Fino al prossimo rombo di aerei e sventolate di mitra dall’alto. 39 “Liberator”. Non è chiaro perché gli aerei da bombardamento americani si chiamassero così. Quello che è certo è che, dopo il segnale di allarme, si avvertiva il loro suono cupo, inconfondibile. E gli spari della contraerea. E il fragore delle bombe sganciate che cadevano. Su obiettivi militari come su case ed edifici civili. L’incursione poteva durare poco o molto, dei suoi risultati ne davano notizia il giorno dopo la radio e i giornali; si sapeva così più esattamente dei quartieri colpiti e anche, più o meno, il numero dei morti. Di quella volta non ricordo segnale di allarme, probabilmente non ci fu. E perché poi avrebbe dovuto esserci? Il 3 settembre 1943 l’armistizio fra era stato firmato l’Italia e gli Stati controbelligeranti. Tutti avevano tirato un respiro di sollievo: la guerra era finita, anche se con un risultato tristissimo per l’Italia. Ma erano finiti i bombardamenti, le azioni di guerra, le distruzioni delle B 25 Liberator uccidono civili italiani nostre città e la morte di tanti cittadini. Sarebbe finito “l’oscuramento” di sera, perché nessuna luce trapelasse dalle finestre e indicasse, nel caso di incursioni, dove fosse il centro abitato. Non sarebbe più stato necessario “decorare” i vetri con strisce di carta incollate per dritto e per traverso, in modo da fare una sorta di grata così che negli spostamenti di aria quelli non si frantumassero schizzando via, ma restassero in qualche modo aderenti al telaio. Forse presto non sarebbe stato più necessario fare lunghe file davanti ai negozi per acquistare qualsiasi genere alimentare, cominciando dal pane. La tregua. Si poteva alzare il capo e guardare il cielo, tranquilli. Il rombo cupo colse tutti all’improvviso, ci fu appena tempo di rendersi conto di quello che stava accadendo. Diretti rapidi su Frascati, la più bella cittadina dei Castelli Romani, i “Liberator” si erano inequivocabilmente annunciati. Furono sopra l’abitato e non tardarono a “sganciare”. Un bombardamento a tappeto, fitto: il fragore, gli schianti, si succedevano ininterrottamente. Per quanto tempo? La durata, nel ricordo, è svanita. Solo immagini: insieme a mia madre e alle mie sorelle ci appoggiavamo, come a cercare riparo, a una parete. La casa dove abitavamo era a quattro chilometri dalla città 40 e a ogni schianto fragoroso l’aria tremava, le nostre vesti oscillavano. Nel ricordo vi è, alla fine, il suono cupo che si allontanava. I primi che, uscendo dai ripari, o miracolosamente rimasti in vita in una via, una piazza, riuscirono a volgere il capo intorno, scorsero, accecati dalla polvere, cumuli di macerie. Lì, stata loro la dove città. era Si ergeva ancora il Duomo, colpito ma non distrutto, come punto di riferimento. Lo stordimento, l’incredulità di essere ancora in vita; poi Frascati bombardata dai "liberatori" gli scavi, con disperazione. Sotto quelle macerie c’erano molti morti, ma anche dei vivi. Un solo angolo della città era stato risparmiato: quello dove c’erano le caserme tedesche, sede del feldmaresciallo Kesserling; il bombardamento “a tappeto”, avvenuto violando i patti dell’armistizio, aveva mancato, oltre tutto, l’obiettivo evidentemente propostosi. I militari tedeschi uscirono dalle caserme e si misero all’opera anche per dirigere le operazioni di scavo. Che cosa è una città dopo un bombardamento del genere? Difficile rendersene conto, per chi non l’abbia vissuto. Vi erano i “rifugi”, vale a dire scantinati, locali interrati che spesso si rivelavano micidiali trappole quando l’edificio che li sovrastava crollava o comunque veniva sbarrata da macerie l’uscita. Non mancarono anche a Frascati coloro che dal rifugio non uscirono più. Vi fu chi, restato a lungo sotto le macerie e sopravvissuto quasi miracolosamente, morì appena estratto dalla sua trappola per aver respirato d’improvviso l’aria esterna. Scavare, cercare; dove c’erano case rimaste in piedi anche pericolanti, i superstiti andavano disperatamente a cercare qualcosa da recuperare. Molti non trovarono più nulla, altro non possedevano più che gli indumenti che indossavano; si organizzarono in fretta una sorta di dormitori nelle “grotte” - e il nome dice tutto – per potersi distendere su una branda la notte. Via via che si scavava, molte speranze lasciavano il posto alla disperazione. Su 12.000 abitanti le statistiche poi ne dichiararono rimasti in vita 6.000. Tra questi 41 superstiti di famiglie smembrate, semidistrutte: chi aveva perso moglie e figli; chi aveva perso marito e figli. L’armistizio era stato firmato. L’assurdo bombardamento era arrivato. Ora non c’era che cercare per i superstiti di rimettersi in piedi. Ma molti in piedi non ci si rimisero mai. Perché non più i “Liberator”, ma altri apparecchi tornarono sulla cittadina distrutta: per mitragliare. Non una volta: più volte, più giorni. Raffiche di mitra, mirate; qualcuno, sotto quelle raffiche, cadeva. Poi gli aerei, rapidamente come erano venuti, si allontanavano. Davanti alla casa dove abitavo passava ogni mattina un giovane, lo ricordo ancora vestito di un maglione blu e di un paio di pantaloni grigi, gli unici indumenti che ormai possedeva. Era l’unico rimasto in vita di una famiglia, gli altri erano rimasti sotto alle macerie. Si fermava per chiedere acqua, l’unica cosa che si poteva offrire, di cibo ce n’era giusto per sopravvivere. Prese due bottiglie di acqua e fatte due chiacchiere, si avviava solitamente verso un campo che possedeva poco lontano: per piantare legumi, patate, quello che poteva servire per nutrirsi nell’immediato futuro. Era una visita quotidiana che portava anche notizie di come procedevano le cose nella città. Notizie di vivi e di morti, ritrovati questi dopo giorni di scavi accaniti e di speranze inutili. Poi, un giorno quel giovane non venne più: scampato alle bombe, era caduto sotto una raffica di mitra, evidentemente ben mirata. I liberatori – intendo quelli chiamati da allora con tale nome - erano arrivati, per lo meno in buona parte d’Italia. Tra di essi, quelli con la divisa americana sono rimasti nel mio ricordo con una bottiglia di whisky a portata di mano, nella tasca dei pantaloni; e a caccia di “segnorine”. Tristissimo fenomeno questo, incrementato dalla povertà in cui si trovava l’Italia. Però, bisogna dire che, almeno stando alle testimonianze di chi conosceva bene la cosa, per pagare pagavano. Ma i liberatori erano anche di altre nazionalità. Vi erano Eleonora Fontana, autrice di questo ricordo, all'età di quattordici anni 42 quelli francesi. Questi portavano senz’altro la divisa con più stile, per lo meno sembravano non aver bisogno di avere sempre il whisky a portata di mano. Forse quel loro atteggiamento, certamente militarmente, dipendeva anche dal più consono fatto di aver con loro truppe di colore, racimolate nelle loro colonie. Disponevano quindi di una sorta di manovalanza, assoldata questa, secondo le usanze locali, con la promessa del “sacco”. Sacco un po’ difficile nelle città, molto più facile nelle campagne. Lì non ci voleva molto. Un esempio è dato dal ricordo di quella volta che, salendo agilmente sul filo spinato che circondava il giardino, come fosse una scaletta fatta allo scopo, alcuni di quei liberatori si precipitarono prima nel giardino e poi dentro la nostra casa. In quanti fossero non lo ricordo esattamente, io ne vidi chiaramente ricordo bene perché me li trovai davanti, all’improvviso: i loro mitra a un palmo del mio petto. Avevo quattordici anni: ho ancora davanti a me l’espressione di quei visi che, a chiamarli così, offendono la nobiltà insita nella parola viso. due. Li Sofia Loren nel film "La Ciociara", che rievoca gli stupri alle donne italiane da parte dei “liberatori” Facce contratte e mani che tremavano sull’arma che sorreggevano. Mani contratte che tremavano… il mio sguardo era calamitato da quelle. Nessuno saprà mai perché quella non sia stata l’ultima mia visione su questa terra. Delle grida, probabilmente di richiamo e ovviamente incomprensibili, fecero d’improvviso girare il capo dei due; un immediato dietrofront e sparirono. Non ho avuto la forza di vedere se abbiano risalito il filo spinato per uscire e tanto meno per vedere dove si dirigevano. Si udivano grida da altre case vicine. Erano grida di donne. Ricordo poi, alto ed elegante, l’ufficiale francese che comandava il gruppo stanziato nella zona. Ci rivolgemmo a quello, ovvero ci si rivolse mia madre a nome anche di altre donne che formavano un piccolo gruppo. - Ma gli uomini del villaggio dove erano, dove sono? – chiese quello dopo aver udito l’accaduto. Già, dove erano gli uomini del “villaggio”? Forse su qualche fronte, nell’Italia squarciata dalla guerra e dalla politica non mancavano i fronti su cui combattere. O forse erano in qualche campo di prigionia chissà dove. O forse non c’erano più. 43 Le conclusioni dell’ufficiale furono rapide: - Bon, se tornano uccideteli pure. Ma attenti a non ferirli soltanto. Mi sono sempre chiesta, ricordando quel giorno e le grida femminili che si udivano in altre case, che cosa fosse accaduto in quelle. Si sa che difficilmente le donne violentate parlano. Anche adesso. E figuriamoci allora. Nota: Un bivacco di truppe marocchine in Italia I Goumiers erano marocchini di razza berbera, nativi delle montagne dell'Atlante, che costituivano le truppe coloniali irregolari francesi appartenenti ai Goums Marocains, un reparto delle dimensioni approssimative di una divisione ma meno rigidamente organizzato, che formavano il cosiddetto C.E.F. (Corps Expeditionnaire Francais) insieme ad altre quattro divisioni. Questi uomini selvaggi in bourms (mantello di lana con cappuccio) e turbante, avvolti in sporchi barracani, erano denominati "goumiers", perche' non erano organizzati in divisioni regolari, ma in "goums", ossia gruppi composti da una settantina di uomini, molto spesso legati tra loro da vincoli di parentela. Nelle ore successive allo sfondamento della linea Gustav, 7000 soldati marocchini, liberi dal comando, si avventarono su di un'ampia area della provincia di Frosinone e della provincia di Latina. Le conseguenze furono spaventose: secondo alcune fonti ufficiali furono stuprate piu' di 60.000 donne dagli 8 agli 85 anni. Furono sodomizzati all'incirca ottocento uomini; tra di essi anche il prete di Santa Maria di Esperia che morì poi per le ferite. Poi furono uccisi impalati gli uomini che cercavano di proteggere le donne e i bambini. Fu razziato il 90% del bestiame. Eleonora Fontana 44 COMPORTAMENTO DI SOLDATI TEDESCHI QUANDO NON SPARAVANO LORO ALLE SPALLE Trascritta dal cyberamanuense Gianfranco Spotti L'episodio che voglio raccontare, narratomi diverse volte da mio padre Ennio molti anni fa, è un fatto realmente avvenuto e getta una luce diversa sui soldati tedeschi nostri alleati, in particolar modo dopo l'8 Settembre 1943. Erano all'incirca i giorni tra il 15 ed il 20 Settembre 1943, mio padre lavorava un fondo agricolo dal nome "Podere Croce " al civico N° 89 di Via delle Cinque Vie a Soragna (Provincia di Parma) assieme a mia madre, in quel mese in attesa del primo figlio, mio fratello maggiore, e mia nonna paterna. Era una giornata tiepida e soleggiata. Dalla cucina della casa i miei genitori udirono rumori di motori e voci di persone. Mio padre uscì e vide sulla strada una colonna di soldati tedeschi con alcuni camion ed alcune motociclette. Davanti al cancello stava un ufficiale tedesco. Mio padre si avvicinò al cancello e si accorse che si trattava di un capitano delle SS e così pure tutti i militari della colonna erano SS. L'ufficiale, di cui mio padre non ricordava il nome e nemmeno il reparto, si presentò parlando in un ottimo italiano che aveva imparato da ragazzo in un istituto religioso in Liguria e dove era rimasto fino al momento del suo arruolamento in Germania. Gli chiese se poteva accamparsi con i suoi uomini (circa 150) nell'area del podere agricolo per il tempo necessario a ricevere ordini via radio dal comando circa la destinazione del reparto. Vista la situazione, mio padre acconsentì, nonostante nutrisse alcuni timori e paure visto il periodo delicato che si stava attraversando. Iniziò l'allestimento dell'accampamento in un campo vicino al frutteto ed al vigneto. Vennero messi quattro punti di guardia per le sentinelle, uno per ogni punto cardinale. I miei genitori guardavano incuriositi tutti questi preparativi che avvenivano con ordine e disciplina e senza recare danno alle colture o alle infrastrutture del podere. Addirittura i servizi igienici furono allestiti in fondo al campo, scavati con vanga e badile dai militari tedeschi badando di creare una specie di "conduttura fognaria" che defluisse al fosso principale. Il capitano tedesco chiese poi a mio padre di poter utilizzare l'acqua del pozzo per le cucine e le docce. Mentre questi lavori erano in pieno svolgimento, l'ufficiale accompagnato da due guardie, chiese a mio padre di accompagnarlo per un giro di ispezione della casa colonica dalla cantina al soffitto per ragioni di sicurezza e per verificare che non vi fossero armi o estranei nascosti. Mio padre ovviamente acconsentì ma fu scosso da un brivido, non tanto per i mitra spianati dalle guardie con le quali faceva il giro dei locali della casa, ma per il fatto che il podere era di proprietà di italiani emigrati tempo prima in Inghilterra e divenuti poi, a tutti gli effetti, cittadini inglesi ed essendo in quegli anni l'Inghilterra in guerra con la Germania lascio immaginare cosa 45 sarebbe successo se queste persone fossero state trovate sul posto o se fossero state rinvenute prove della loro presenza. Fortunatamente queste persone ritornarono in patria alcune settimane prima. Prima di sera, dello stesso giorno, mio padre si accorse che le cucine da campo tedesche erano state montate troppo vicino al fienile con rischio che qualche scintilla o qualche lingua di fuoco potesse causare un incendio. Il cuoco parlava solo tedesco e sembrava non capire le rimostranze di mio padre o forse, semplicemente, non aveva intenzione di spostare le cucine. Intervenne allora il capitano che con un severissimo e secco ordine, impartì ad alcuni militari di spostare il tutto lontano da fieno e paglia. Mio padre lo ringraziò del suo intervento. Dopo un paio di giorni tra la mia famiglia ed i militari tedeschi iniziava un rapporto amichevole e di reciproca fiducia. Nessun animale da cortile fu toccato, nemmeno il grasso maiale rinchiuso in un recinto all'aperto. Non un gesto di libero arbitrio da parte di alcun militare. Se avevano bisogno di qualcosa, questo veniva chiesto gentilmente tramite il loro ufficiale. Mio padre, durante i suoi racconti, si chiedeva spesso che cosa sarebbe successo se, al posto di 150 SS, si fossero accampati altrettanti partigiani, non certamente noti per la loro gentilezza nel chiedere le cose. Probabilmente non sarebbe rimasto nè una gallina, ne tantomeno il maiale. Alcuni soldati tedeschi, saputo dello stato di attesa di mia madre, si prodigavano a portarle ad assaggiare i cibi che normalmente cucinavano per loro. Mia madre, stupita e lusingata di queste loro attenzioni, accettava. Vi erano cose buone e altre meno, ma di queste ultime essa badava bene a non farlo capire ai militari per non offenderli o mancare loro di rispetto. Mia madre ricambiava facendo assaggiare ai militari i prodotti nostri tipici, ovviamente non sufficienti per 150 giovanotti ma che comunque apprezzarono molto. L'ufficiale tedesco arrivò addirittura a proporre a mio padre di mettergli a disposizione qualche suo ragazzo che lo aiutasse nei lavori in campagna, che, a quel tempo erano più duri di oggi. Mio padre ringraziò e disse che se fosse stato necessario, glielo avrebbe chiesto. Si instaurò così un rapporto quasi di amicizia e mio padre raccontò al capitano delle sue vicende di guerra in Spagna, in Grecia fino al congedo ottenuto a fine Dicembre del 1942. Il capitano prese allora ad invitarlo ogni sera dopo cena all'osteria "Stella d'Oro" nel centro del paese, assieme ad alcuni sottufficiali, per farsi una bevuta. I giorni passavano tranquilli e quei 150 "temibili" SS erano ormai di casa e spesso si udivano canti e musiche che uscivano da una specie di vecchia fisarmonica ed un armonica a bocca. Con l'avvicinarsi della fine di Settembre, l'uva del vigneto era in piena maturazione ed alcuni soldati chiesero il permesso a mio padre di raccogliere alcuni grappoli, perchè essi, Una Compagnia di Waffen SS sfila in parata 46 essendo originari del nord della Germania, non avevano vitigni nelle loro zone. Mio padre fu lieto di accontentare questi ragazzi che non avevano più di venti anni e che, dietro alle austere divise da SS, erano normalissimi giovani come tanti altri. Un giorno avvenne un episodio che fece aumentare la tensione, seppur per qualche ora: un mattino un signore in bicicletta fu fermato da una sentinella tedesca vicino al cancello. Il capitano gli andò incontro chiedendo che cosa volesse. Il tizio chiedeva di mio padre e disse che doveva fare dei controlli nella casa colonica. L'ufficiale andò da mio padre riferendogli l'accaduto e gli chiese che cosa volesse veramente questa persona, perchè, a prima vista, non gli era piaciuta. Mio padre disse che si trattava di un controllo dell'Annonaria per controllare che nelle case di campagna non ci fossero cereali o granaglie non dichiarati e spiegò anche che, essendo i tempi quelli che erano, ogni contadino teneva qualche scorta nascosta, non dichiarata non per il gusto di commettere una frode, ma per garantire una migliore sussistenza della famiglia facendo il pane in casa, come spesso si usava allora nelle campagne. Se quel tizio avesse constatato quest'inadempienza, mio padre avrebbe ricevuto una denuncia ed una relativa ammenda che avrebbe sicuramente pesato non poco sui bilanci familiari, a quel tempo abbastanza magri. L'ufficiale tedesco, indignato dal fatto che iniqui controlli potessero togliere del pane ad una famiglia, disse a mio padre di stare tranquillo e che ci avrebbe pensato lui. Tornò dal tizio al cancello e gli disse che in quella casa era tutto a posto e che poteva ritornarsene da dove era venuto. Il tizio non si dette per vinto ed insistette che doveva entrare. A quel punto l'ufficiale arretrò di qualche metro, chiamò alcune delle sue SS e diede ordine di sparare per terra a pochi centimetri dalle scarpe del malcapitato. Questi, in un batter d'occhio, saltò sulla bicicletta scomparendo in brevissimo tempo e non si fece mai più rivedere. Un dettaglio importante è quello che mio padre, volutamente, omise di dire al capitano tedesco che quel tizio, che lui ebbe modo di vedere altre volte in paese, era un ebreo e che quindi gli era debitore per aver taciuto quest'informazione che gli salvò la vita. Tra la fine di Settembre e i primi di Ottobre del 43 il capitano ricevette l'ordine via radio dal comando di procedere in direzione di Cremona e quindi, un mattino, dopo aver smontato l'accampamento e dopo aver pulito e risistemato il campo il capitano andò da mio padre per accomiatarsi e per pagarlo del disturbo arrecato in quel periodo. Mio padre stupito di vedere quest'uomo, che rappresentava ormai un esercito "nemico" grazie ad un vile tradimento, prendere del denaro per ricompensarlo, gli prese la mano invitandolo a mettere via quei soldi perchè non voleva un centesimo. Gli chiese nome, cognome e indirizzo invitandolo a ritornare in Italia a trovarlo dopo che la guerra fosse finita. Il capitano, commosso, lo abbracciò e lo Dopo pochi minuti la colonna si stava allontanando in direzione Nord. I miei genitori la guardarono finchè non scomparve in lontananza. Passarono gli anni e mio padre si accorse di aver perso quel biglietto che gli aveva dato l'ufficiale tedesco ma lo ha sempre ricordato con stima, affetto e nostalgia. Avrebbe voluto incontrarlo nuovamente dopo la guerra in momenti e clima diversi, ma purtroppo non ebbe più notizie di quel gentiluomo la cui divisa poteva forse incutere paura ma il cui animo traboccava di sincerità e dignità, doti assai rare negli animi dei "vincitori". Gianfranco Spotti 47 Hanno combattuto e sono morti per la nostra Terra Testo del "patto d'acciaio" che siglava l'alleanza tra la l'Italia fascista e la Germania nazionalsocialista S. M. il Re d'Italia e di Albania, Imperatore d'Etiopia, e il Cancelliere del Reich tedesco, ritengono giunto il momento di confermare con un Patto solenne gli stretti legami di amicizia e di solidarietà che esistono fra l'Italia fascista e la Germania nazionalsocialista. Considerato che, con le frontiere comuni, fissate per sempre, è stata creata tra l'Italia e la Germania la base sicura per un reciproco aiuto ed appoggio, i due Governi riconfermano la politica, che è stata già da loro precedentemente concordata nelle sue fondamenta e nei suoi obbiettivi e che si è dimostrata altamente proficua tanto per lo sviluppo degli interessi dei due paesi quanto per la sicurezza della pace in Europa. Il popolo italiano ed il popolo tedesco, strettamente legati tra loro dalla profonda affinità delle loro concezioni di vita e dalla completa solidarietà dei loro interessi, sono decisi a procedere, anche in avvenire, l'uno a fianco dell'altro e con le forze unite per la sicurezza del loro spazio vitale e per il mantenimento della pace. Su questa via indicata dalla storia, l'Italia e la Germania intendono, in mezzo ad un mondo inquieto ed in dissoluzione, adempiere al loro compito di assicurare le basi della civiltà europea. Allo scopo di fissare, a mezzo di un Patto, questi principi, hanno nominato loro plenipotenziari: Sua Maestà il Re d'Italia e di Albania, Imperatore d'Etiopia: Il Ministro degli Affari Esteri Conte Galeazzo Ciano di Cortellazzo (Italia), 48 Il Cancelliere del Reich Tedesco; Joachim von Ribbentrop (Germania) i quali, dopo essersi scambiati i loro Pieni Poteri, trovati in buona e debita forma, hanno convenuto i seguenti articoli: Art. I. - Le Parti contraenti si manterranno permanentemente in contatto allo scopo di intendersi su tutte le questioni relative ai loro interessi comuni o alla situazione generale europea. Art. 2. - Qualora gli interessi comuni delle Parti contraenti dovessero esser messi in pericolo da avvenimenti internazionali di qualsiasi natura, esse entreranno senza indugio in consultazione sulle misure da prendersi per la tutela di questi loro interessi. Qualora la sicurezza o altri interessi vitali di una delle Parti contraenti dovessero essere minacciati dall'esterno, l'altra Parte contraente darà alla Parte minacciata il suo pieno appoggio politico e diplomatico allo scopo di eliminare questa minaccia. Art. 3. - Se, malgrado i desideri e le speranze delle Parti contraenti, dovesse accadere che una di esse venisse ad essere impegnata in complicazioni belliche con un'altra o con altre Potenze, l'altra Parte contraente si porrà immediatamente come alleata al suo fianco e la sosterrà con tutte le sue forze militari, per terra, per mare e nell'aria. Art. 4. - Allo scopo di assicurare per il caso previsto la rapida applicazione degli obblighi di alleanza assunti coll'articolo 3, i membri delle due Parti contraenti approfondiranno maggiormente la loro collaborazione nel campo militare e nel campo dell'economia di guerra. Analogamente i due Governi si terranno costantemente in contatto per l'adozione delle altre misure necessarie all'applicazione pratica delle disposizioni del presente Patto. I due Governi costituiranno, agli scopi indicati nei summenzionati paragrafi 1 e 2, Commissioni permanenti che saranno poste sotto la direzione dei due ministri degli Affari esteri. Art. 5. - Le Parti contraenti si obbligano fin da ora, nel caso di una guerra condotta insieme, a non concludere armistizi e paci se non di pieno accordo fra loro. Art. 6. - Le due Parti contraenti, consapevoli dell'importanza delle loro relazioni comuni colle Potenze loro amiche, sono decise a mantenere ed a sviluppare di comune accordo anche in avvenire queste relazioni, in armonia cogli interessi concordati che le legano a queste Potenze. Art. 7. - Questo Patto entra in vigore immediatamente al momento della firma. Le due parti contraenti sono d'accordo nello stabilire in dieci anni il primo periodo della sua 49 validità. Esse prenderanno accordi in tempo opportuno, prima della scadenza di questo termine, circa il prolungamento della validità del Patto. Berlino, li 22 maggio 1939, Anno XVII dell'Era Fascista LORO HANNO MANTENUTO LA PROPRIA PAROLA NONOSTANTE TUTTO E FINO IN FONDO I coraggiosi ragazzi della Hitlerjugend 50 Un eroico sabotatore fascista fucilato dagli invasori Waffenquesto SS francesi organizzano la difesa di Berlino, ormai persa ad Leggendo libro si ha la sensazione davvero, rispetto altri racconti, di trovarsi tra quei ragazzi, in zona d’operazioni, sotto i tiri dei mortai, all’assalto di una postazione fortificata nemica, con il sangue delle ferite e la commozione per i camerati caduti. Ma anche con la spensieratezza di diciottenni intrepidi e scavezzacollo, decisi ad andare fino in fondo per fermare l’avanzata dei nemici invasori. Un libro da leggere per comprendere chi erano i giovani soldati che combattevano una guerra persa indossando la divisa del “Male assoluto” A cura di Toni Liazza 51 Bersagliere classe 1929 (15 anni all’epoca dei fatti) 1Cmp., II° Btg Bersaglieri “G.Mameli” Per acquistare il libro digitare “Quelli del Mameli” su internet (Google) e scegliere tra le varie offerte di vendita. Oppure contattare “Edizioni Settimo Sigillo al numero tel. 06-39722155 52