L`intervista: Massimo Recalcati

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L`intervista: Massimo Recalcati
L’intervista:
Massimo Recalcati
a cura della redazione de Il Ruolo Terapeutico
Massimo Recalcati è uno tra i più noti psicoanalisti lacaniani in Italia. Si
è formato alla psicoanalisi tra Milano e Parigi. Ha fatto parte dell’Associazione
Mondiale di Psicoanalisi ricoprendo diversi incarichi istituzionali nazionali
e internazionali. Attualmente è tra i membri fondatori di ALI (Associazione
Lacaniana Italiana) di psicoanalisti. Ha insegnato nelle Università di Padova,
Urbino, Bergamo e attualmente insegna Psicologia del comportamento alimentare all’Università di Pavia e Psycopathologie de l’anorexie presso CEPUSPP
(Centre d’enseignement post-universitaire pour la spécialisation en psychiatrie et
psychothérapie) della Università di Losanna.
Nel 2003 ha fondato Jonas Onlus: centro di clinica psicoanalitica per i nuovi
sintomi e dal 2008 è direttore scientifico della Scuola di specializzazione in psicoterapia IRPA (Istituto di ricerca di psicoanalisi applicata). Ha svolto attività di
supervisore clinico presso diverse istituzioni sanitarie. Attualmente è supervisore
clinico presso il reparto di Neuropsichiatria infantile dell’Ospedale S. Orsola di
Bologna.
I suoi interessi sono orientati verso il campo della nuova clinica con particolare
riferimento ai cosiddetti disturbi del comportamento alimentare (DCA), l’insegnamento di Jacques Lacan nell’ambito dello sviluppo della psicoanalisi dopo Freud e
i rapporti tra psicoanalisi e l’esperienza estetica.
Tra le sue pubblicazioni, tradotte in diverse lingue, ricordiamo: L’ultima cena;
anoressia e bulimia (Bruno Mondadori 1997), Clinica del vuoto. Anoressie,
dipendenze e psicosi (Franco Angeli, 2002), Sull’odio (Bruno Mondadori
2004), L’omogeneo e il suo rovescio. Per una clinica psicoanalitica del
piccolo gruppo monosintomatico ( Franco Angeli 2005 ), Il miracolo della
forma. Per un’estetica psicoanalitica (Bruno Mondadori 2007), Elogio dell’inconscio (Bruno Mondadori 2008), Melanconia e creazione in Vincent
Van Gogh (Bollati Boringhieri 2009) e, in corso di stampa: L’uomo senza inconscio? Nuove forme della clinica psicoanalitica (Cortina 2010). Dal 2000
collabora con le pagine culturali de Il Manifesto.
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Come è arrivato alla scelta di questo mestiere?
Attraverso la mia nevrosi. La mia prima vocazione è stata l’arte e la
poesia e in seguito la filosofia. La psicoanalisi è stata per me, negli anni
della mia formazione universitaria, solo un oggetto teorico tra gli altri.
L’inizio della mia prima analisi fu motivato da stati di angoscia e da
sintomi nevrotici che mi rendevano difficile vivere. Fu così che incontrai
davvero la psicoanalisi. Avevo 23 anni e stavo terminando i miei studi
di filosofia. Dopo la discussione della mia tesi dedicata ad un confronto
teoretico tra Freud e Sartre mi era stata offerta una borsa di studio per la
Normale di Pisa o per l’Università di Francoforte. Ero stato fabbricato per
diventare un professore di filosofia. Nel frattempo però il lavoro analitico
sulla mia nevrosi aveva aperto un altro mondo. Radicalizzai il più possibile il mio rapporto con l’inconscio proseguendo la mia analisi personale e
per questa via decisi che sarei diventato un analista o, almeno, che ci avrei
provato. In questo conteso di scelte difficili, nel periodo immediatamente
successivo alla discussione della mia prima tesi di laurea, feci un altro
incontro che si rivelò per me decisivo: quello con il testo di Lacan. Vi dedicai inizialmente tutta l’estate del 1985. Il tempo sufficiente per decidermi:
avrei dedicato anima e corpo alla psicoanalisi.
Lo vede, per quanto la riguarda, più una professione o più la realizzazione di
una vocazione?
Per me fu inizialmente una necessità. Furono, come ho già detto, i miei
sintomi nevrotici e i miei stati di angoscia ad accostarmi alla psicoanalisi. Sentivo l’esigenza di vivere meglio, di intendere meglio da che parte
andava il mio desiderio… Lì nacque la mia passione verso l’inconscio.
Volevo sapere di più su di me. Volevo decifrare la lingua straniera del mio
inconscio. La cosa è poi continuata. Professionalmente? Avere passione
per il soggetto dell’inconscio è una professione o una vocazione? Se per
vocazione s’intende la risposta ad una chiamata non ho difficoltà a dire
che ho risposto con decisione alla chiamata del mio inconscio e che ciò che
faccio come psicoanalista è fare in modo che i miei pazienti non trascurino
l’occasione di trasformazione che questa chiamata rappresenta… Credo
che la psicoanalisi sia una professione che non può però prescindere da
una vocazione.
Il libro, o i libri, che più ha contribuito alla sua formazione, e perché
Lessi negli anni della mia giovinezza L’interpretazione dei sogni di Freud
e ne rimasi folgorato. Lo divorai in pochi giorni. Ricordo che lo portavo
con me anche in metropolitana o in tram dove mi isolavo proseguendo la
mia lettura…. Lo lessi così, freneticamente, per cercare di intendere meglio qualcosa di me. Scoprii solo più tardi che lo lessi con lo stesso spirito
con il quale Freud lo scrisse. Da allora lo studio di Freud è stato, e continua ad essere, un impegno che si rinnova quasi da sé... Più avanti i testi
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decisivi furono quelli di Jacques Lacan. Il primo impatto fu traumatico.
Mi trovai di fronte ad un muro con un sentimento misto di irritazione e
di fascinazione. Ero di fronte ad un muro che però mi stimolava a voler
vedere oltre. Nacque così, attraverso la lettura degli Scritti, il mio transfert,
o se si preferisce, il mio amore per Lacan. In seguito trovai fondamentale
il lavoro di lettura di quel testo promosso da Jacques-Alain Miller. Fu attraverso questo lavoro che imparai a leggere Lacan.
I colleghi “in carne e ossa” che più hanno contribuito alla sua formazione
Oltre a Jacques-Alain Miller, che non fu solo per me un lettore straordinario del testo di Lacan ma anche il mio primo supervisore e successivamente il mio secondo analista e maestro, citerei una serie di colleghi
che ho conosciuto all’interno del movimento lacaniano e avuto modo di
apprezzare sia per la loro originalità e libertà di pensiero che per il loro
modo di praticare la psicoanalisi quali, per esempio, Gennie Lemoine,
François Ansermet, Jorge Aléman, Colette Soler. Ho avuto modo di ascoltarli più volte nel loro commento al testo di Lacan e nella costruzione
del caso clinico e sono sempre state per me lezioni di psicoanalisi fondamentali. Decisivi per la mia formazione sono stati anche i miei altri due
supervisori: Mario Binasco e Eric Laurent che con stili differenti mi hanno
introdotto alla pratica della psicoanalisi. Poi in Italia gli amici e colleghi
della mia generazione coi quali ho avuto modo di lavorare nel campo
della clinica dell’anoressia, nella trasmissione dell’insegnamento di Lacan
e nell’applicazione istituzionale della psicoanalisi alla terapeutica dei cosiddetti nuovi sintomi. Colleghi coi quali abbiamo creato JONAS: Centro
di ricerca psicoanalitica per i nuovi sintomi e IRPA (Istituto di ricerca di
psicoanalisi applicata). Devo aggiungere che non dimentico mai il mio
primo maestro, il filosofo Franco Fergnani con cui mi laureai e dal quale
credo di aver appreso la passione e il metodo dell’insegnamento.
Nel complesso del suo bagaglio professionale teorico-tecnico, che cosa, se c’è,
riconosce come originalmente suo?
Ho costruito una teoria psicoanalitica dell’anoressia al plurale, ovvero
in grado di differenziare diverse declinazioni psicopatologiche di questa
specifica posizione del soggetto in un’epoca, nella prima metà degli anni
Novanta, quando ancora le letture psicoanalitiche di questo fenomeno
clinico, compresa, per certi aspetti, quella di Lacan, restavano vincolate
all’ipotesi che l’anoressia fosse una struttura a sé stante della personalità
(come nel caso dei Kestemberg, di Brusset, di Jammet, della stessa Mara
Selvini Palazzoli). Negli ultimi anni ho provato a leggere certi fenomeni
dell’arte contemporanea attraverso una rivisitazione critica del concetto
classico di sublimazione. In quella prospettiva mi pare di aver dato un
contributo personale al modo di intendere il rapporto tra opera d’arte
e inconscio che si sforza di oltrepassare qualunque uso patografico del
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rapporto tra opera e artista. Infine la mia lettura di Lacan mi pare possa
rivendicare una sua originalità laddove insiste sull’idea che vi sia un Lacan neoesistenzialista che riabilita, in modo paradossale rispetto al suo
strutturalismo di fondo, la centralità del tema etico dell’incarnazione singolare (nella posizione dell’analista nella cura, nella funzione del padre,
nella problematica più generale del soggetto dell’inconscio, nel legame
d’amore).
Può darmi la sua personale definizione di psicoanalisi e di psicoterapia?
Per essere sintetico direi che una psicoterapia ha come suo obbiettivo
primario la risoluzione della sofferenza sintomatica, mentre la psicoanalisi mette a fuoco il rapporto del soggetto con la verità del proprio desiderio
inconscio. Questo non significa però che tra queste due pratiche vi sia un
confine netto. Anzi. Accade che una psicoterapia possa benissimo produrre effetti analitici e che una psicoanalisi, auguriamocelo, possa produrre,
anche se in “sovrappiù” come amava esprimersi Lacan, effetti terapeutici
di riduzione della sofferenza sintomatica.
C’è mai stato un momento nella sua carriera in cui ha pensato di cambiare
mestiere?
No. Mi sono invece trovato più volte a riflettere sul mio modo di
praticare la psicoanalisi e ad introdurre delle modifiche sul mio stile di
conduzione delle cure. Per esempio con gli anni ho acquisito un senso
maggiore della libertà dell’azione analitica, del mio essere in seduta col
paziente. Questo non è mai avvenuto a tavolino ma sempre nel corso della
mia pratica, come in un work in progress.
Qual è, secondo la sua esperienza, il fattore essenziale della sua funzione terapeutica, quello senza il quale tutto il resto non avrebbe efficacia?
È desiderare di essere lì, in quella posizione, in quel rapporto singolare
con quel paziente, di essere lì nella mia funzione di supporto del desiderio inconscio. L’alleanza con il soggetto dell’inconscio è la cosa che trovo
decisiva rispetto a ogni altra nel mio modo di praticare la psicoanalisi. Lacan avrebbe definito questa alleanza come il prodotto della funzione del
desiderio dell’analista, ovvero di quella funzione che non si può ridurre
né al desiderio medico di guarire, né a quello pedagogico di educare, né
a quello didattico di insegnare poichè tende a produrre il soggetto come
differenza pura.
In psicoanalisi, lo scarto tra prassi e teoria è sempre inevitabile? Pensa si possa
colmare?
Quando ho detto che oggi mi sento più libero nel mio modo di praticare la psicoanalisi che in passato è perché penso di meno a quello che
faccio. Ma pensare di meno a quello che si fa significa incarnare la propria
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funzione di oggetto piccolo (a), se posso usare un elemento prezioso dell’algebra lacaniana. Questo significa, tra l’altro, non schermare ciò che il
paziente dice attraverso il ricorso continuo alla categorizzazione teorica.
Significa veramente praticare il principio freudiano secondo il quale l’analista nell’incontro con il paziente deve ogni volta dimenticarsi di quello
che sa. Nondimeno penso anche che una psicoanalisi senza costruzione
teorica sia cieca, allo stesso modo di come rischi di essere vuota una psicoanalisi ridotta a teoria. Nella mia pratica la teoria del caso è sempre
qualcosa che faccio fuori dalla seduta, in un tempo retroattivo. È anche il
modo con il quale intendo il mio lavoro come supervisore: fare la teoria di
quel caso particolare, del reale in gioco in quel caso particolare, offrire al
praticante un orientamento teorico, una lettura possibile del caso secondo
le categorie della psicoanalisi lacaniana.
Come spiega la presenza di diversi orientamenti teorici di matrice psicoanalitica?
Alcuni anni fa avrei ancora risposto a questa domanda sostenendo
che il testo di Freud è un testo che può essere interpretato diversamente e
che il conflitto delle interpretazioni sottintende che almeno una sia quella
vera. E avrei ovviamente aggiunto che quella vera è l’interpretazione lacaniana. Oggi mi trovo a ragionare, per fortuna, diversamente e penso che il
conflitto delle interpretazioni costituisca la storia stessa della psicoanalisi.
E quando ascolto un collega bioniano o kleiniano o winnicottiano i miei
primi pensieri non sono più dell’ordine “ma Lacan avrebbe replicato così
e così”, oppure, “ma questo non è lacaniano”, “ è una distorsione del testo
di Freud” ecc. Oggi mi interessa di più intendere cosa orienta la pratica
di quei colleghi e, soprattutto, cosa io possa imparare da loro. Oggi mi
interessa trovare quello che accomuna più che quello che divide tra loro
gli psicoanalisti.
Qual è la sua personale concezione dell’esistenza: che la vita abbia un senso,
che origine e destino dell’uomo siano, anche se misteriosamente, trascendenti; o,
per quel che riguarda il destino individuale di ciascuno, tutto si esaurisca nel
percorso tra la nascita e la morte? Che rapporto può esserci, se ritiene ci sia, tra
la sua concezione esistenziale e la sua concezione della terapia?
Questa è una domanda davvero difficile. Non lo dico retoricamente.
Ma è difficile per me oggi rispondere. La maggior libertà che sento di aver
acquisito in questi ultimi anni in coincidenza con la mia uscita dalla Scuola lacaniana di psicoanalisi di cui facevo parte mi ha reso ancora più aperto al dubbio e alla sorpresa. Freud ha ribadito più volte che la psicoanalisi
non è una Weltanschauung e che quando lo diventa sono guai, nel senso
che la psicoanalisi si allontana dalla sua pratica e si avventura in territori
che non sono i suoi… Credo che questa sia una delle ragioni profonde
della rottura storica con Jung. Lo psicanalista per Freud non è un Maestro
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spirituale ma un praticante operaio della psicoanalisi… Come psicoanalista non penso però, diversamente da Freud che considerava la religione
un delirio dell’umanità, che, per esempio, una posizione intensamente
religiosa di un paziente sia necessariamente un sintomo da curare… A
volte è piuttosto un ateismo cinico il sintomo da curare… Non si può dire.
Credo che lo psicoanalista debba assicurare la libertà del suo paziente di
scegliersi la sua via. Non è così facile come sembra. Lacan ribadisce questo concetto in modi diversi. Per esempio quando afferma che il compito
dell’analista non è quello di guidare il paziente nella vita ma di guidare la
cura… Ma questa domanda, se ho bene inteso, è rivolta, come si usa dire,
all’uomo e non allo psicoanalista… Allora qui le cose si complicano. Tutta
la mia formazione, prima di incontrare la psicoanalisi, è stata orientata dal
marxismo critico della Scuola di Francoforte e dalle filosofie dell’esistenza (Kiekegaard, Nietzsche, Heidegger e Sartre) insieme alla mia lettura
assidua di Freud. Poi ho conosciuto meglio, attraverso Lacan, lo strutturalismo e soprattutto il post-strutturalismo francese (Deleuze e Foucault
in particolare). Sarebbe scontato allora dire che la vita è tutta qui, che ciò
che conta è l’immanenza in cui siamo presi, che non esiste una trascendenza se non all’interno di questa immanenza. Ma questa risposta non mi
soddisfa più. Non rinnego nulla della mia formazione. Gli autori che ho
citato continuano ad orientare il mio modo di dare senso alle cose. Siamo
difettosi, siamo gettati nel mondo senza averlo scelto, siamo senza punti
di orientamento saldi, navigatori di mari sconosciuti, “soli e senza scuse”
come direbbe Sartre… Continuo dunque a credere che l’Altro non esista,
che non esista soprattutto l’Altro dell’Altro. Ma in tutto questo si è introdotta una fiamma nuova. Sarà semplicemente legata alla mia ripresa seria
del confronto con i testi biblici? Ai miei contatti rinnovati e al mio confronto critico con il mondo cattolico socialmente impegnato? All’incontro
di qualche anno fa con il Centro San Domenico di Bologna? Oppure, come
ironizzano i miei amici e colleghi, sarà l’effetto di qualche Angelo che mi
visita la notte? Oggi credo che la potenza del messaggio di Cristo abbia un
valore unico e che questo per me è sufficiente a modificare il mio sguardo
sulla vita, cioè a renderlo più aperto al mistero e all’interrogazione. Resto
nel dubbio e nell’incertezza, lontano dal dono autentico della fede, ma sono convinto che la dimensione del mistero non sia solo un modo per ricoprire l’incandescenza senza senso della vita, per avere una qualche forma
di consolazione, ma per mantenersi aperti all’incontro sempre possibile e
sconcertante col reale. D’altra parte se dovessi sintetizzare brutalmente il
messaggio di Cristo, cosa vi troverei di unico? Qualcosa che ritrovo nella
psicoanalisi: non rinunciare ai tuoi talenti, non rinunciare al tuo desiderio
perché nei tuoi talenti, nel tuo desiderio, è il Bene.
Si parla tanto di etica della psicoanalisi ma, secondo lei, qual è o quale dovrebbe
essere la posizione della psicoanalisi di fronte all’etica?
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Noi come psicoanalisti siamo impegnati in una battaglia culturale decisiva. La psicoanalisi non è solo un metodo terapeutico, ma è una teoria
critica della società e una nuova etica del desiderio. Ma il desiderio non è
il capriccio, non è la spinta al godimento immediato, non è la dissipazione
dell’esperienza verso la ricerca continua di nuove sensazioni. Il desiderio
esige responsabilità, la responsabilità della sua assunzione soggettiva. Io
sono diventato davvero lacaniano quando mi sono imbattuto in questa
frase di Lacan: “l’unico senso di colpa valido per la psicoanalisi è quello
di cedere sul proprio desiderio”. Ebbene se c’è, come io credo, una etica
della psicoanalisi, essa ci orienta verso questa assunzione difficile del
nostro desiderio. È il passo più solitario ed estremo che un essere umano
possa fare. Lo sappiamo; è molto più facile rinunciare al proprio desiderio,
soddisfare il desiderio degli altri per continuare ad essere amabili ai loro
occhi, oppure per evitare il rischio del fallimento, dell’incontro con i nostri limiti, per continuare a vivere nel lamento, nell’imputazione dell’Altro
come causa del nostro male… Sostenere l’etica del desiderio nella nostra
epoca è una vera e propria battaglia culturale. Il trionfo ipermoderno del
conformismo e del godimento a portata di tutti, a portata di bocca, di
orecchio, di sguardo, di corpo, tende a far declinare la spinta sovversiva
del desiderio riducendola a mera trasgressione. Ma oggi la trasgressione,
come notava già Lacan, è una nuova forma superegoica di dovere. Non c’è
nessuna originalità in essa, nessun desiderio, nessuna vitalità.
Come si è modificato, nel tempo, il suo modo di operare nella stanza d’analisi?
Come ho già detto mi sento più libero e meno assillato dal dovere di
intendere tutto ciò che il paziente dice. Ho più fede nell’inconscio, se si
può dire così. Considero più importante il modo singolare con il quale
l’analista incarna la sua funzione che non l’idea, presente in un certo lacanismo cosiddetto ortodosso, che la funzione dell’analista agisca come
scorporata dalla soggettività di chi la incarna. Mi emoziono quando un
paziente trova la sua via. È la gioia più grande del nostro mestiere. Ridare
al soggetto la possibilità di incontrare il proprio desiderio.
Secondo lei, la psicoanalisi ha un futuro?
La psicoanalisi è oggi a rischio di estinzione. È sotto gli occhi di tutti.
I colleghi si lamentano di non avere più pazienti, di non lavorare più come prima. Si riducono le sedute settimanali per non restare senza lavoro,
si accettano domande inconsistenti. Non lo dico per criticare. È un fatto.
Dovremmo trarne delle conseguenze invece di rinchiuderci nelle nostre
stanze di analisi. Il rischio che fra vent’anni la psicoanalisi sia divenuta
un capitolo della storia delle idee del secolo scorso è reale e imminente.
Siamo assediati dalle neuroscienze, dal potere chimico dello psicofarmaco,
dalla pretesa efficacia delle psicoterapie cognitivo-comportamentali, dall’esigenza del discorso del capitalista di ottimizzare, riducendoli, i tempi
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della cura e di centrare l’attività psicoterapeutica sul cosiddetto sintomobersaglio, ovvero sul ripristino il più rapido possibile del funzionamento
normale del pensiero o del corpo. Il vento che tira non è un buon vento
e certamente non è più il vento dell’inconscio che ora rischia di diventare un oggetto arcaico e superstizioso privo di alcun valore epistemico e
clinico. Se l’inconscio è strutturato come un cervello o come un’anomalia
della macchina del corpo o del pensiero siamo davvero alla fine… E se la
psicoanalisi non avrà più un futuro sarebbe una catastrofe o addirittura
una mutazione antropologica senza precedenti perché sono gli psicoanalisti a fare esistere l’inconscio… E senza la psicoanalisi anche il soggetto
dell’inconscio rischierebbe l’estinzione… E cosa sarebbe un uomo senza
inconscio? Me lo chiedo e già ne vedo delle incarnazioni inquietanti. Un
robot? Una macchina pulsionale? Un tiranno? Un burocrate?
Cosa significa essere psicoanalisti nel XXI secolo?
Il nostro non è più il secolo della psicoanalisi. Quell’epoca è finita. Si
tratta di dare il proprio contributo perché la psicoanalisi non si estingua.
Coloro che rifiutano di considerare questo dato di realtà vivono e lavorano al di fuori dalla scena del mondo. I giovani psicologi sono aumentati
enormemente di numero. Arrivano alla fine dei loro studi senza mai aver
letto una riga di Freud. Chi di loro intraprende una formazione psicoterapeutica ad indirizzo analitico si deve preparare ad un futuro di disoccupazione o adattarsi a svolgere il ruolo di educatore o di assistente sociale
in qualche comunità con retribuzioni misere. Anche per loro dobbiamo
fare in modo di unire le nostre risorse per mantenere la psicoanalisi nel vivo del disagio attuale della civiltà. Dobbiamo creare nuove situazioni per
permettere che la loro lunga e difficile formazione non si infranga contro
il muro della realtà e la psicoanalisi possa dare prova della sua efficacia
trasformativa. Ma per fare sopravvivere i sogni ci vuole tenacia e forza.
L’avanzata diffusa del discorso della scienza esige che i nostri risultati terapeutici vengano valutati obbiettivamente. Questo era un problema inesistente nel secolo della psicoanalisi. Oggi invece è diventato centrale. Cosa
fare? Ignorare l’Altro della valutazione, evocare l’irriducibilità della nostra
pratica a qualunque procedura di quantificazione oppure rinunciare al
nostro “splendido isolamento” (che tanto splendido più non è) e accettare
la sfida senza degradare la nostra originalità? E cosa significherebbe accettare la sfida? Come possiamo mostrare al nostro Altro sociale l’efficacia
terapeutica della psicoanalisi senza snaturare la nostra cultura di gruppo?
Credo che gli psicoanalisti di diverse scuole dovrebbero lavorare insieme
per rispondere a tutti questi quesiti. Come ci insegna quotidianamente il
nostro lavoro i tempi di crisi sono anche i tempi più fecondi per realizzare
trasformazioni significative. Nel mio lavoro come direttore di una Scuola
di specializzazione e come fondatore di un Centro di clinica psicoanalitica
non faccio altro. Ho in mente il futuro della psicoanalisi e quello dei nostri
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giovani che credono al soggetto dell’inconscio e che ad esso dedicano la
loro vita.
Ad un suo ipotetico allievo quali suggerimenti darebbe?
Segui il tuo desiderio, impara dai tuoi maestri, ma soggettiva sempre
ciò che hai imparato; meglio un tuo pensiero incerto che il ricorso passivo ad altri pensieri, lavora insieme ad altri tuoi colleghi, non trascurare
l’importanza delle istituzioni, non installarti mai nella posizione autosufficiente dell’analista chiuso nella sua stanza d’analisi, non restare solo
perché il nostro lavoro esige uno spazio in comune, la costruzione di una
comunità, la formazione interminabile… e poi… corri piano!
Che cosa pensa della nostra convinzione che per superare la crisi attuale il
pensiero psicoanalitico deve uscire dalla “Stanza” e guardarsi attorno, per inglobare nella sua indagine anche gli aspetti metafisici della persona (tanto per non
far nomi, la libertà e la responsabilità di sé del soggetto)?
Penso che ci troviamo sullo stesso piano di intenti. Penso che il mito
della stanza dell’analisi sia un mito pericoloso. Aveva ragione Adorno a
ricordare che uno dei rischi della psicoanalisi è quello di privatizzare la
dimensione sociale del conflitto. Non dobbiamo far addormentare i nostri pazienti sul nostro divano. Anche Basaglia aveva avuto giustamente
questo sospetto su un certo uso della psicoanalisi. Ecco perché ho sempre
amato il lavoro in istituzione e non ho mai deciso di lavorare solamente
nella mia stanza d’analisi. Un mio collega parigino diceva sempre che
sotto il divano dell’analista scorre una strada e la strada si trova in un
quartiere e che il quartiere è sempre incluso in una città… Non ho mai
amato gli studi ovattati, insonorizzati, privi di quel brusio di sottofondo,
anche sonoro, che caratterizza la nostra vita sociale… Una volta un paziente stizzito mi rimproverò di aver risposto al telefono nel corso di una
seduta. “Non ha rispetto per me”, mi disse. Risposi che ci sono chiamate
alle quali non posso sottrarmi. È la vita che lo esige, gli dissi.
Riassunto. In questa sezione viene intervistato un terapeuta esterno al gruppo de Il Ruolo Terapeutico. Una griglia di domande che rimane costante ogni volta tende a far emergere,
dell’intervistato, le tappe della sua formazione, le sue le�ure, i suoi maestri, la sua filosofia
del mestiere, la sua concezione esistenziale. [PAROLE CHIAVE: Funzione terapeutica, responsabilità etica, differenza tra psicoanalisi e psicoterapia, futuro della psicoanalisi]
Abstract. [AN INTERVIEW] In this section a therapist from outside the Ruolo Terapeutico group is interviewed. The same question format is presented each time and is designed
to bring out the persons’ stages of training, their reading, their teachers and mentors, their
personal philosophy about their work and their existential beliefs. [KEY WORDS: therapeutic function, ethical responsibility, difference between psychoanalysis and psychotherapy,
future of psychoanalysis]
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