Divina Commedia. Purgatorio

Transcript

Divina Commedia. Purgatorio
LECTURA DANTIS
dedicata a Mons. Giovanni Mesini
“il prete di Dante”
Divina Commedia. Purgatorio
letto e commentato da
Padre ALBERTO CASALBONI
dei Frati Minori Cappuccini di Ravenna
Canto XXIX
Paradiso terrestre, lungo le rive del Letè. Sosta. La mirabile processione. Il carro. Il tuono. Il
corteo si ferma: un mondo di simboli.
Dante si rigira a riguardare la “bella donna, che a’ raggi d’amore” si scalda e risale lentamente il fiume
“cantando come donna innamorata” il salmo “Beati quorum tecta sunt peccata”; da questa parte Dante
la segue. Percorsi tra sì e no un centinaio di passi, il fiume svolta, sì che entrambi guardano verso
levante, “quando la donna tutta a me si torse” per invitarlo a prestare attenzione, “frate mio, guarda e
ascolta”: all’orizzonte “ecco un lustro sùbito trascorse”, un fascio di luce che investe tutta l’ampia
foresta; a Dante pare il fenomeno tutto terrestre del balenar; ma subito si ricrede perché lo sfavillio, il
lustro, è continuo, “e quel, durando, più e più splendeva”. Gli sorge spontanea lo domanda “che cosa è
questa?”, tanto più che intanto “una melodia dolce correva/ per l’aere luminoso”. Fra tutta questa
beatitudine ormai perduta, il pensiero di Dante va ad Eva, “onde buon zelo/ mi fé riprender l’ardimento
d’Eva”, e si chiede come sia stato possibile che, in questo universo di gioia e di pace, “là dove ubidia la
terra e ‘l cielo,/ femmina, sola e pur testè formata,/ non sofferse di star sotto alcun velo”; mentre cielo e
terra obbedivano a Dio, lei appena plasmata, no: “se divota fosse stata,/ avrei quelle ineffabili delizie/
sentite prima e più lunga fïata”, ragiona tra sé e sé Dante; quell’armonia del mondo e dei sensi sarebbe
stata da sempre gratuito patrimonio. Intanto procedono, la donna davanti e lui a seguirla, “tra tante
primizie/ de l’etterno piacer”, quasi anticipo di un’eternità che, solo a pensarla, lo rende “disïoso ancora
di più letizie”.
In questo primo paradiso sempre immagini di donna, Lia, Rachele, la bella donna, e ora Eva.
Intanto, “dinanzi a noi, tal quale un foco acceso,/ ci si fé l’aere sotto i verdi rami;/ e ‘l dolce suon per
canti era già inteso”: la melodia dolce e lontana si precisa poi in canto e di una tal dolcezza, un “dolce
suon”, da far presagire indicibile meraviglia; e allora come esprimerla senza il soccorso delle ispiratrici
dell’alta poesia? “O sacrosante Vergini, se fami,/ freddi o vigilie mai per voi soffersi,/ cagion mi sprona
ch’io mercé vi chiami”; e dunque Dante legittima la richiesta di aiuto alle Muse non già gratuito, ma
sulla base di uno studio oltremodo serio, tra fame, freddo e diuturne veglie, “or convien che Elicona per
me versi,/ e Uranìe m’aiuti col suo coro/ forti cose a pensar mettere in versi”: laddove il senso di
“convien” è quello di necessario, doveroso: dalle due fonti, Aganippe e Ippocrene del monte Elicona,
sgorghi l’ispirazione “forti cose a pensar”, indi a “mettere in versi”: l’invocazione a Urania, la musa che
presiede alla scienza delle cose celesti, è preludio a qualcosa di straordinario: l’invocazione rimanda al
primo canto, là il ricorso era a Calliope/epica.
“Poco più oltre, sette alberi d’oro/ falsava nel parere il lungo tratto/ del mezzo ch’era ancor tra noi e
loro”; poco più avanti, a causa del lungo tratto di aria che si interponeva fra noi e loro, si vedeva
qualcosa che erroneamente si poteva scambiare per sette alberi. Detto di un certo contrasto fra “poco più
oltre” e “il lungo tratto/ del mezzo”, va precisato che Dante sta affrontando il tema tutto filosofico se il
senso, nella sua percezione, possa sbagliare; non è problema da poco, poiché, secondo la scolastica,
l’intelletto per cogliere il vero deve passare attraverso il senso, primo passo del processo cognitivo: se i
sensi percepiscono in maniera inadeguata il loro oggetto, sfuma per l’intelletto ogni possibilità di
cogliere il vero. Quelli che di lontano apparivano sette alberi, giunti più vicino, “la virtù ch’a ragion
discorso ammanna”, la facoltà percettiva dei sensi, che offre la materia adatta all’intelletto a conoscere
l’essenza delle cose, indi ad elaborare i concetti, “sì com’elli eran candelabri apprese”, li precisò e li
percepì come candelabri, come di fatto erano. Ossia, quando un senso, in questo caso la vista, non trova
ostacoli fra sé e il suo oggetto, allora non può ammannire nozioni errate al senso comune; laddove per
senso comune si intende la percezione degli oggetti con più sensi insieme, vista-udito-tatto in uno.
Non solo dunque, ormai vicini, vede apparire sette candelabri, e non alberi, ma ode anche distintamente
il canto Osanna. “Di sopra fiammeggiava il bello arnese/ più chiaro assai che luna per sereno”, un
fulgore così splendente sopra i candelabri che Dante si volge verso Virgilio “d’ammirazion pieno”,
sguardo pieno di stupore condiviso, “mi rispuose/ con vista carca di stupor non meno”. Dante ancora
non sa che Virgilio è sul punto lasciarlo: lo ricorderà sempre con lo stupore dipinto negli occhi,
purtroppo anch’egli a ricordo di un mondo perduto. Torna poi al procedere lento di quelle “alte cose”,
lento più assai dell’incedere di “novelle spose”. La donna lo esorta con decisione a guardare oltre, a “ciò
che vien di retro a lor”; vede infatti persone “vestite di bianco;/ e tal candor di qua già mai non fuci”,
seguono i candelabri come guida. Dante ha alla sua sinistra il fiume che, come specchio, riflette quello
splendore che pare fuoco acceso. Procedendo in senso contrario arriva ad incrociare quelle persone di là
del fiume: e qui “per veder meglio ai passi diedi sosta”, ma candelabri e persone avanzano “lasciando
dietro a sé l’aere dipinto” di sette ampie strisce, “di sette liste, tutte in quei colori/ onde fa l’arco il Sole
e Delia il cinto”, i colori dell’arcobaleno e dell’alone lunare; strisce che sembrano stendardi, ostendali,
che si proiettano in lontananza fino a perdersi alla vista di Dante; fra il primo e il settimo la distanza è di
non meno di dieci passi. Sono “ventiquattro seniori, a due a due,/ coronati di fiordaliso”, e cantano
“Benedicta tue/ ne le figlie d’Adamo, e benedette/ sieno in etterno le bellezze tue!”. A seguirli, come le
costellazioni in cielo si succedono l’una all’altra, ecco “quattro animali, coronati ciascun di verde
fronda”, il colore della speranza, e “ognuno era pennuto di sei ali; le penne piene d’occhi”, così
numerosi da ricordargli gli occhi del mitico Argo, il custode della ninfa Io dall’invaghito Giove: proprio
come li presenta il profeta Ezechiele, in forma di quattro figure, dall’aspetto di uomo, di leone, di toro e
di aquila; ma, dice ancora, “salvo ch’a le penne/ Giovanni è meco e da lui si diparte”, sei ali, e non
quattro “penne”, secondo l’Apocalisse. Dietro ai quattro animali “un carro, in su due rote, trïunfale,/
ch’al collo d’un grifon tirato venne”; le ali del grifone aggiogato al carro passano in mezzo alla lista
centrale, sicché tre rimanevano da una parte e tre dall’altra, ma così alte “che non eran viste”. Simbolici
sono anche i colori delle membra del Grifone, “le membra d’oro avea quant’era uccello,/ e bianche
l’altre, di vermiglio miste”. Il carro poi è così maestoso che, al confronto, quelli che servirono a
celebrare i più grandi trionfi dei duci romani furono una pallida immagine, e ricorda quello di Scipione
l’Africano che trionfò su Annibale, e quello di Augusto a celebrare il trionfo su Antonio e Cleopatra; per
averne un’idea, potremmo pensare a “quel del Sol”, quello guidato dallo sventato Fetonte, incenerito poi
da Giove per impedire che, pericolosamente vicino alla terra, la bruciasse. Indi “tre donne in giro da la
destra rota/ venian danzando”, ciascuna rivestita di colori diversi: l’una di un tal rosso che appena si
sarebbe distinta dentro il fuoco dal fuoco stesso; l’altra di verde smeraldo; e “la terza parea neve testé
mossa”: a guidare la danza si alternavano la bianca e la rossa. Alla sinistra del carro “quattro facean
festa,/ in porpore vestite”; a guidare la danza delle quattro virtù cardinali era la prudenza, quella
“ch’avea tre occhi in testa”. Dietro al carro “vidi due vecchi in abito dispari,/ ma pari in atto e onesto e
sodo”, insomma vestiti diversamente, ma dal comportamento identico per dignità e posatezza: l’uno
sembrava della scuola di Ippocrate, colui che nacque a sollievo delle creature più care alla madre natura,
il medico degli uomini; l’altro invece “con una spada lucida e aguta, tal che di qua dal rio mi fé paura”,
l’uno a sanare l’altro a colpire, di segno opposto. “Poi vidi quattro in umile paruta”, quattro personaggi
in abito dimesso; e, a chiudere la processione, li seguiva “un vecchio solo”, che, pur dormendo,
mostrava faccia arguta; a riepilogare: i due, i quattro e l’uno, cioè i sette che seguono il carro, erano
tutti vestiti di bianco, come i ventiquattro e i quattro che lo precedevano, ma non avevano il capo
incoronato né di fiordaliso, come i primi, né di verde fronda come i quattro, bensì “di rose e d’altri fiori
vermigli”, e su tutti ardeva una fiamma “di sopra da’ cigli”. Giunto il carro all’altezza di Dante, “un
tuon s’udì”, forte, e ogni moto intorno subito si ferma.
La simbologia: il carro è la Chiesa, il grifone che lo tira é Cristo; i sette stendardi che precedono sono i
sette doni dello Spirito Santo; i ventiquattro Signori sono i libri dell’Antico testamento; i quattro in
forma di animali sono i Vangeli; le donne che danzano a destra del carro sono le tre virtù teologali; a
sinistra le quattro virtù cardinali; i due vecchi che seguono il carro sono l’autore degli Atti, S. Luca,
l’altro è S. Paolo; gli altri quattro sono gli autori delle Lettere; il Vecchio dormiente è S. Giovanni, qui
come autore dell’Apocalisse: insomma tutto l’armamentario dell’economia della salvezza, dal primo al
secondo Testamento. I tre colori a rappresentare Fede, Speranza e Carità.