12 anni schiavo - Mediateca Toscana

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12 anni schiavo - Mediateca Toscana
RASSEGNA STAMPA CINEMATOGRAFICA
12 ANNI SCHIAVO
Editore S.A.S. Via Goisis, 96/b - 24124 BERGAMO
Tel. 035/320.828 - Fax 035/320.843 - Email: [email protected]
12 YEARS A SLAVE
1
Regia: Steve McQueen
Interpreti: Chiwetel Ejiofor (Solomon Northup), Michael Fassbender (Edwin Epps), Benedict Cumberbatch (William Ford), Paul Dano (Tibeats),
Garret Dillahunt (Armsby), Paul Giamatti (Freeman), Scoot McNairy (Brown), Lupita Nyong'o (Patsey), Adepero Oduye (Eliza), Sarah Paulson
(Sig.ra Epps)
Genere: Drammatico - Origine: Stati Uniti d'America - Anno: 2013 - Soggetto: tratto dall'autobiografia 'Twelve years a slave. Narrative of Solomon Northup, a citizen of New-York kidnapped in Washington city in 1841, and rescued in 1853, from a cotton plantation near the Red River in
Louisiana' di Solomon Northup - Sceneggiatura: John Ridley - Fotografia: Sean Bobbitt - Musica: Hans Zimmer - Montaggio: Joe Walker Durata: 133' - Produzione: Brad Pitt, Dede Gardner, Jeremy Kleiner, Bill Pohlad, Steve McQueen, Arnon Milchan, Anthony Katagas per River
Road Entertainment, Plan B Entertainment, New Regency Pictures, in associazione con Film4 - Distribuzione: BIM (2014)
I lungometraggi di Steve McQueen sono costruiti sempre giocando molto sulla fissità dello sguardo e l'enumerazione
(la ripetizione) degli oggetti e delle situazioni. E anche questo "12 anni
schiavo" non sembra modificare in maniera rilevante il personale approccio
espositivo dell'artista-regista se non
fosse per il tema, quello della schiavitù
che aggiunge al film un nuovo - e più
invadente - livello di lettura, storicopolitico.
All'origine del film c'è il resoconto autobiografico di Solomon Northup
(adesso tradotto in italiano da Newton
Compton), un nero nato libero nel nord
dello stato di New York che manteneva
la sua famiglia suonando il violino fino
a quando venne ingannato da due finti
impresari che lo ubriacarono e lo vendettero come schiavo a un mercante
senza scrupoli: per dodici anni, dal
1841 al 1853, vivrà in catene in Louisiana (il XIII emendamento verrà fatto
approvare da LincoIn solo nel 1865,
dopo quattro anni di guerra crudelissima) fino a quando vedrà riconosciuta la
sua vera identità e il suo diritto alla libertà. Riassumendo brevissimamente i
dati reali della sua storia non voglio
certo negare allo spettatore un qualche
tipo di sorpresa: fin dal titolo, è lo stesso McQueen che sottolinea come l'odissea di Solomon (Chiwetel Ejiofor) abbia un inizio e una fine, perché in fondo
non è lo sviluppo romanzesco (anche se
reale) delle sue disavventure che interessa al regista ma piuttosto l'illustrazione, la messa in mostra della condizione di schiavo.
McQueen non vuole raccontare ma far
vedere ed è per questo che il film ingarbuglia le coordinate temporali, evita
di approfondire alcuni momenti 'decisivi' della sua vita e preferisce puntare
tutto sulla forza delle immagini: macchina fissa, oggetti e situazioni molto
ben inquadrate (come appunto si addice
a un artista abituato al fare i conti con
le 'cornici' delle sue opere), riprese a
volte sull'asse frontale a volte perpendicolari ma dall'alto, spesso di una durata
più lunga di quella strettamente necessaria a capire che cosa sta succedendo.
Come nella scena già celeberrima in cui
Solomon sfugge alla vendetta mortale
di un sorvegliante (Paul Dano) che ha
umiliato intellettualmente anche se il
suo 'salvatore' (che l'ha fatto solo per
paura della reazione del padrone) lo lascia semi-impiccato per tutta la giornata, con il collo nel cappio in instabile
equilibrio sulla punta dei piedi, mentre
sullo sfondo gli altri schiavi dimostrano
indifferenza alla sua situazione. Come
in questa scena, tutto il film viene costruito in funzione delle sue ambizioni
'illustrative'. I padroni di Solomon mostrano ognuno un tratto specifico dello
schiavista - l'indifferenza morale per il
venditore interpretato da Paul Giamatti,
il paternalismo per il possidente terriero
Benedict Cumberbatch, il sadismo per
il coltivatore di cotone Michael Fassbender - mentre vengono lasciati nel
vago molti altri elementi che potrebbero aiutare a definire il personaggio, dai
rapporti familiari alle relazioni con le
schiave (dati per scontati ma che pure
sono all'origine di una serie di problemi
non indifferenti, come dimostrano le ire
della moglie di Fassbender per il fascino della bella Lupita Nyong'o), dal ruolo della religione (speranza o condanna?) a quello dei processi di produzione
e di accumulazione nel Sud. Di contro,
vengono mostrate situazioni finora mai
viste al cinema, come la vita quotidiana
degli schiavi (fino ai momenti in cui si
lavano insieme) o le situazioni di privilegio che alcune schiave riuscivano a
ottenere dai loro padroni. Senza dimenticare la crudeltà delle punizioni corporali, a cominciare dalle frustrate che
piagano la carne delle schiene.
Tutto questo, da una parte sottolinea
l'originalità dell'approccio di McQueen
(che ha conquistato ben 9 nomination
all'Oscar) ma dall'altra non mi pare
sappia dare una vera anima al film, che
resta distante come a volte sono le opere di certi artisti: magari intellettualmente provocatrici ma povere di autentica emozione. Il film sceglie di raccontare tutto dalla parte del protagonista,
per inseguire una descrizione della
schiavitù come angoscia e paura, come
buio e smarrimento (sono molte le scene dove l'ombra sembra impadronirsi
dello schermo) ma rischia di non andare
molto oltre. Il sangue e la carne piagata
che occupano lo schermo possono alimentare lo sdegno e la rabbia (come era
già successo a Kechiche con il suo
"Venere nera") ma non aiutano molto il
cinema. E il rischio già presente in
"Shame" (il suo film precedente) qui
ritorna con più invadenza: un film che
scivola verso il sociologismo, verso il
dimostrativo, magari anche 'bello' e 'vero' ma senza un'autentica vita, capace di
vivere oltre quello che si vede sullo
schermo.
Il Corriere della Sera - 17/02/14
Paolo Mereghetti
Il protagonista del primo film storicamente accurate sullo schiavismo negli
Stati Uniti non è uno schiavo qualun-
que. Solomon Northup infatti è nato
libero. Fa il violinista a Saratoga, Stato
di New York. Ha 33 anni, una casa, una
famiglia. E guadagna bene se in una
scena lo vediamo acquistare una lussuosa borsa da viaggio alla moglie.
Quando un altro nero, uno schiavo, in
compagnia del suo padrone, entra stupefatto per guardare da vicino quel 'fratello' così tranquillo e sicuro di sé...
Scena premonitoria, oltre che folgorante: poco tempo dopo infatti, ingannato
da due finti impresari, l'ignaro violinista viene ubriacato e si risveglia in catene. Inizia l'incubo, che durerà 12 anni.
Per 12 anni Salomon passa di mano in
mano, senza poter comunicare con nessuno e tantomeno provare la sua identità. Come tutti i suoi compagni di sventura, anche se sa leggere e scrivere (ma
guai a farsi scoprire), viene venduto,
battuto, frustato fino all'abominio, seviziato e umiliato in ogni possibile modo.
Senza mai perdere la sua doppia prospettiva di vittima e testimone. Testimone di quegli orrori che racconterà in
un libro di grande risonanza destinato a
uscire nel 1853, un anno dopo 'La capanna dello zio Tom', e ora riscoperto
grazie al film (in Italia lo pubblica
Newton Compton).
Benché ridotto in condizioni bestiali,
Solomon infatti non si limita a patire
ma sa, capisce, elabora, riflette. Insomma è il ponte ideale fra quella massa bruta e oggi quasi inconoscibile di
atrocità e violenza che fu lo schiavismo, e noi, con la nostra sensibilità
moderna.
In apertura lo vediamo tentare disperatamente di scrivere usando succo di
mora come inchiostro. In un altro grande momento, una delle sue lettere brucia a lungo, dolorosamente, con lentezza quasi ipnotica. Metafora naturale
quanto potente di tutto ciò che
McQueen si affanna a descrivere e raccontare. Riuscendoci davvero, però, solo quando si affida fino in fondo alle
immagini. Mentre convince assai meno,
paradossalmente, quando articola le
esperienze di Solomon all'interno di un
racconto più classico e convenzionale.
Non a caso la critica Usa, esaltando "12
anni schiavo" (9 nominations all'Oscar),
ha sottolineato il salto di questo cinea-
sta nato artista, che qui passa dai film
'da festival' come "Hunger" e "Shame",
al racconto epico. Eppure McQueen,
inarrivabile narratore del corpo (del
martirio), risulta molto meno incisivo
quando deve orchestrare un racconto
più ampio e ricco di ambienti, personaggi, psicologie. Si capisce che l'America, così vergognosamente in ritardo
sul tema, anche al cinema, si inginocchi
davanti a un film comunque nobile e
destinato a fare data. Ma non è questa
la voce più vera dello Steve McQueen
inglese. Speriamo che lavorando in
America non la perda.
Il Messaggero - 20/02/14
Fabio Ferzetti
È una scena resa interminabile dal silenzio che amplifica il terrore dell'uomo, mani e piedi legati, appeso a un
albero con una robusta corda al collo e
le punte dei piedi che sfiorano il terreno
fangoso, unico scivoloso appiglio per
non finire impiccato; c'è il sole implacabile della Louisiana, e sullo sfondo si
muovono, indifferenti, i suoi compagni
di schiavitù, che a quel tipo di scena
sono abituati, e nessuna pietà può spingerli a rischiare a loro volta quell'orribile sofferenza. Però quell'uomo che sta
lottando in disperata solitudine per non
morire, non è uno schiavo come gli altri, non condivide la loro rassegnazione,
la loro certezza che quella vita di frustate e disprezzo e fatica che non li fa
uomini ma bestie, sia da generazioni il
loro immutabile destino. Solomon Northup è un uomo di colore nato libero,
che vive come i bianchi, se non per
l'impossibilità di votare, ed è una persona rispettata, con una moglie, due figli e una casa a Saratoga Springs nello
stato di New York, la passione per il
violino. Ma siamo nel 1841, l'importazione di schiavi dall'Africa è ormai
proibita e giù al Sud hanno sempre più
bisogno di mano d'opera per gli immensi campi di cotone e di canna da
zucchero. Due energumeni gli promettono un lavoro come musicista, lo fanno ubriacare e il mattino dopo Northup
è diventato Platt, uno schiavo incatenato, imbarcato con altri disperati per
New Orleans dove sarà messo in vendita.
Ci voleva un inglese, un artista visuale
di colore, un regista capace di raccontare crudamente il corpo come sacrificio
politico ("Hunger") e come disperazione erotica ("Shame"), per affrontare la
pagina più vergognosa della storia americana, i secoli della schiavitù che cancellarono i corpi e il cuore degli afroamericani: che Hollywood ha raramente
raccontato, e sempre con reticenza e
ipocrisia, dal romantico "Via col vento"
di Fleming al beffardo "Django Unchained" di Tarantino. Steve McQueen
si è ispirato a una delle rare testimonianze d'epoca da parte dei neri, le
memorie che Solomon Northup scrisse
dopo essere tornato libero, con il titolo
'12 anni schiavo' (edito adesso in Italia
da Newton Compton). Fu pubblicato
nel 1853, un anno dopo 'La capanna
dello zio Tom 'di Harriet Beecher
Stowe e otto anni prima dell'inizio della
sanguinosa guerra di Secessione, che
con la vittoria degli abolizionisti del
Nord, nel 1865, avrebbe reso illegale la
schiavitù. Il film è spietato, ha scene di
violenza fisica e psicologica quasi insopportabili, ma mai quanto fu nella
realtà: la sapienza del regista è quella di
darci un'opera di fattura classica come i
filmoni del passato, per attanagliarci
alla sorte di Solomon: che non vuole
solo sopravvivere come i suoi compagni.
La Repubblica - 15/02/14
Natalia Aspesi