si io sono colpevole di Albert Huliselan Canepa

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si io sono colpevole di Albert Huliselan Canepa
si io sono colpevole di Albert Huliselan Canepa
«Vostro Onore,» esclamò il maggiordomo, durante le fasi finali del processo. «lasci che le esponga
la mia versione dei fatti».
Il giudice lo guardò e scosse lievemente la testa.
«Su di lei gravano cinque accuse d’omicidio. Ciononostante, durante l’intero processo, lei è rimasto
nel più totale silenzio. Ormai le sue parole non potranno cambiare le sorti del verdetto: la giuria si è
già riunita per deliberare».
«Ma io mi appello alla bontà della corte».
«Con tutte quelle prove a suo carico lei si appella alla stupidità della corte» replicò il giudice.
«Tuttavia, se proprio le sta a cuore fare questo intervento, lo faccia.»
«La ringrazio!» esclamò l’imputato «Le dimostrerò, Vostro Onore, che il colpevole non è sempre il
maggiordomo! Come saprà, ero al servizio della villa della Marchesa Emile Slatopack da una
decina d’anni. Mi occupavo di tutto: cucinavo, tenevo in ordine la casa, curavo il giardino, pulivo i
mobili, ripulivo i cassetti, ascoltavo educatamente i discorsi da dietro la porta. In sostanza, svolgevo
i lavori tipici di un qualsiasi domestico in procinto di essere denunciato. Avevo un solo giorno
libero: il primo mercoledì del mese. Di marzo. Di un anno bisestile. Non era tanto, ma non mi
lamentavo. Nella villa, oltre al sottoscritto, vivevano quattro persone: la vecchia marchesa
Slatopack; la figlia, la contessa Praga-Brno; suo marito Alvin Mozart, che, come potrà facilmente
intuire, era un lontano parente del grande compositore Beethoven; e il loro figlio, il giovane conte
Monfield. Ogni tanto faceva visita alla villa, Sybil Vane, la bella fidanzata del giovane conte.
L’armonia regnava incontrastata in quella casa, fino a quando non morirono tutti. Ciò, presumo,
tolse un po’ di armonia all’atmosfera della casa. Tutto ebbe inizio col primo omicidio. O col terzo,
ora non ricordo. Erano le nove del mattino e stavo portando la colazione alla contessa al primo
piano. La contessa Praga- Brno, la figlia della marchesa, era la classica donna di mezza età, onesta,
con un viso naturale e semplice, tutto acqua, sapone, eye-liner, fard, mascara, fondotinta, matita
contorno occhi, matita contorno labbra, cipria, ombretto, glitter, correttore e rossetto. La contessa
mangiava sempre a nove, che fosse sveglia o meno. E quando entrai nella stanza per portarle latte
caldo e biscotti, ebbi un terribile presentimento. Presentimento che venne purtroppo confermato.
Infatti, avvicinandomi al letto, non solo potei constatare con orrore che la contessa si era già
abbondantemente truccata ma che, per giunta, era morta. Strangolata. Guardai l’orologio sul
comodino: erano le nove esatte. Santi Numi! E solo cinque minuti prima la contessa mi aveva
chiamato per portarle la colazione!» Il maggiordomo si dette una manata sulla gamba. «Capisce,
Vostro Onore? »
«Cosa c’è da capire?» domandò il giudice, perplesso.
«Questo dimostra che non posso esser stato io a ucciderla!»
«E per quale motivo?»
«Perché a quell’ora, io ero nel bagno del pianterreno impegnato ad uccidere il conte!»
«Come?!»
«Volevo dire: ero nel bagno del pianterreno intento a scoprire il cadavere del conte… Pover’uomo
miliardario. Lo trovai disteso sul pavimento del bagno, supino, con la testa che guardava il soffitto.
Una posizione assai sconsigliata da qualsiasi ortopedico. Intuii subito che non stava dormendo».
«Che ore erano, quando ha “diciamo” scoperto il cadavere?»
«Erano le nove meno cinque secondo l’orologio d’oro che gli stavo sfilando dal polso».
«Le nove meno cinque…» ripeté il giudice. «Il medico legale ha stabilito intorno a quell’ora il
momento del decesso».
«Proprio così!» esclamò entusiasta il maggiordomo «E’ morto alle nove! Capisce? Non posso
essere stato io ad ammazzare il conte, perché tra le nove e le nove meno cinque ero al piano di sopra
ad uccidere la contessa. Ehm, volevo dire…»
«Voleva dire che ero al piano di sopra a scoprire il cadavere della contessa».
«Esatto, Vostro Onore. Allora anche lei comincia a credere alla mia versione! La giuria dovrà
tenerne conto.»
«Le ricordo» replicò il giudice «che la giuria si è già riunita per deliberare il verdetto e ce lo
comunicherà quanto prima».
«Vedrà, signor Giudice, che non verrò condannato.» esclamò il maggiordomo sfoderando un
ottimismo tale da necessitare un ricovero coatto.
Dopo alcuni momenti di pausa, l’uomo riprese il racconto. «Erano appena passate le nove e nella
villa c’erano due cadaveri. Ero immerso nel terrore più assoluto. E più il tempo passava, più la mia
ansia cresceva. Cosa dovevo fare? Parlare con le forze dell’ordine, o nascondere i cadaveri? O
nascondermi dalle forze dell’ordine e parlare con i cadaveri? Mentre ero nel corridoio a cercare un
medium sull’elenco telefonico, sentì suonare il campanello. Immagini il mio spavento. Spavento
che si amplificò quando mi ricordai che il maggiordomo ero io e per contratto ero costretto ad
andare ad aprire la porta. Fortunatamente, sulla porta, mi apparve la giovane fidanzata del conte.
Quell’angelo disceso dall’Olimpo greco passando per Salsomaggiore Terme. Con i suoi capelli
biondi come il miele e con quelle labbra, sensuali e carnose, donatele gentilmente da Madre Natura
e dal padre chirurgo plastico.
«Insomma,» intervenne il giudice con un sorriso malizioso. «Ne era infatuato».
«Io? Ma se quasi non mi accorsi della sua presenza. Comunque, dopo averla contemplata con
occhio clinico, la dea ad honorem entrò in casa e, scivolando con inimitabile grazia nel salone, mi
chiese dov’era il giovane conte. Le risposi che era uscito e che sarebbe tornato a pranzo. “Ah,
perfetto.” mi disse. “Lo aspetterò di sopra, in camera sua.” E così dicendo, fece le scale, ed io
l’accompagnai. Appena entrata nella stanza, la fanciulla si sedette sul letto. “Sono proprio felice!”
esclamò, radiosa come l’uranio impoverito. “Devo proporre al mio adorato una vacanza di sei mesi
alle Seychelles. Sarà bellissimo, io e lui, soli, per sei lunghissimi mesi!” A quell’entusiastica
dichiarazione, forse per empatia, non ci vidi più dalla felicità. Ma, appena riacquistai la vista, senza
una opportuna visita oftalmica, ritrovai la fanciulla riversa sul letto, morta. Pugnalata. Santi Numi,
la cosa mi impressionò parecchio. Qualcuno doveva averla uccisa. Percepii una forte tensione
nell’aria, una tensione talmente palpabile che la si poteva tagliare a fette col coltello che avevo fra
le mani. Guardai l’ora: era mezzogiorno e mezzo. E così, preso dal panico, mi involai per il
corridoio, scesi le scale, e mi preparai il pranzo».
«Ma, dico…» intervenne il giudice «Le sembrava il momento di mangiare?»
«Ha ragione, Vostro Onore.» convenne il maggiordomo «Solitamente pranzo alle tre dopo che
hanno mangiato i padroni. Tuttavia, in quel momento mi sembravano tutti lievemente indisposti».
Ci fu un brusio nell’aula. Uno dei giurati tentò disperatamente di soffocare una risata e per poco il
giudice non lo accusò di strangolamento.
«Ad ogni modo,» riprese il maggiordomo «misi la pentola piena d’acqua sul fornello. E, nell’infinita attesa di veder l’acqua bollire, mi piombarono in mente domande colme d’inquietudine a cui
non riuscivo a dare una risposta: l’assassino era ancora in casa? E la vecchia marchesa, stava bene?
Avevo cancellato tutte le prove? Dovevo chiamare le forze dell’ordine? Col sugo o col pesto?
Guidato da queste domande, decisi di fare una perlustrazione al piano di sopra. Con circospezione
raggiunsi le scale e cominciai a salire, molto lentamente, Per la paura inizia a salire due gradini per
volta per poi farne uno verso il basso. E continuai così: due gradini su e uno verso il basso, due
gradini su e uno verso il basso; poi, avvolto nella confusione più totale, invertii l’ordine e iniziai a
fare un gradino su e due verso il basso, un gradino su e due verso il basso. In meno di due minuti mi
ritrovai al piano terra, giusto in tempo per veder l’acqua bollire e buttare la pasta. Con estremo
coraggio, rimandai la perlustrazione, e mi misi a mangiare. Si fecero le due del pomeriggio e, da
bravo domestico, mi accinsi a pulire posate e pentolame quando, dalla porta, vidi sbucare quel
perfettino del giovane conte. Doveva essere appena rientrato. Il conte Monfield, Vostro Onore, era
il classico figlio separato da genitori viziati. Anche quel giorno indossava la solita giacca color
sabbia finissima che talvolta adoperavo come lettiera per il gatto. Non mi dilungherò nel racconto
per narrarvi il suo decesso. Fu tutto piuttosto veloce. Se non ricordo male, lanciò la giacca sul
tavolo, si lavò le mani nel lavello… e poi è morto».
Il giudice, temendo di perdere la pazienza, decise di intervenire con un tono per metà paterno, per
metà materno e per metà lontano prozio di secondo grado. «Ora, » disse, serio « dimostri un minimo
di onestà: è stato lei ad ammazzarlo».
«Le giuro che non sto mentendo. » si difese il maggiordomo imitando splendidamente il barone di
Münchausen. «Non l’ho ucciso io. Probabilmente, la morte è sopraggiunta in questo modo: il
giovane Monfield era uno di quegli uomini romantici postilluministi che preferirono abbandonare
Voltaire per abbracciare la poesia di Keats e Leopardi, e alla sua amata, ripeteva sempre: “Non
posso vivere senza di te, non posso vivere senza di te”. Quindi, immagino che, quando ha saputo
che la ragazza era morta, in un eccesso di coerenza, si sia suicidato».
«Suicidato!? – ripeté il giudice, incredulo. – Ma se il pugnale era conficcato nella schiena!»
«Ehm, era un eccentrico» replicò il maggiordomo mentre tentava di fare free climbing su uno
specchio. Ma il giudice, lo fissò con severità, come un padre che becca il figlioletto mentre uccide
quattro persone. E alla fine il maggiordomo cedette.
«E va bene, l’ho ucciso io. » ammise di malavoglia «Ma è stato un incidente. Ero in cucina e stavo
finendo di asciugare un coltello per poi infilarlo nel portacoltelli....»
«E poi cosa successe?»
«Beh, di fianco al portacoltelli, c’era il giovane conte. Devo essermi confuso».
Il giudice strabuzzò gli occhi fuori dalle orbite lunari copernicane. «Mi sta dicendo che stava per
riporre la lama nello spazio apposito ma per errore lo ha conficcato nella schiena del ragazzo? »
«Esatto. Può succedere. In cucina le persone tendono ad essere assai distratte. Del resto, la cucina è
anche il luogo dove avvengono più incidenti domestici, lo sapeva? »
Il giudice, per rispetto delle parentele di primo grado altrui, preferì tacere. E così, dopo un minuto di
silenzio che sembrava lungo sessanta secondi, il maggiordomo riprese la narrazione. Ormai, per
completare la storia, mancava solo l’ultimo delitto.
«Erano le cinque del pomeriggio. O le cinque di sera, ora non ricordo, e decisi di andare dalla
vecchia strega della marchesa per portarle tè e biscotti».
Il giudice fissò l’imputato.
«Ammetterà che la Marchesa non le stava proprio simpatica».
«Non solo lo ammetto, vostro Onore. Ma le dico anche che la trovavo insopportabile e fastidiosa
come lo è una zanzara per un insonne che soffre d’anemia. Però,» aggiunse, alzando le mani come
per sollevarsi da ogni accusa «ciò non significa che l’ho ammazzata io! Perché quella donna era
talmente odiosa che, se l’avessi uccisa io, le avrei fatto bere ettolitri di barbiturici con un piccolo
supplemento solido a base di cianuro di potassio».
«Guardi » osservò il giudice «che la marchesa è morta proprio in questa maniera».
«Ah, sì? Che macabra coincidenza. Ehm, comunque, dove ero rimasto? Ah sì, preparai l’occorrente
per il tè, feci le scale e bussai. La marchesa era costretta a letto da un paio di mesi. Aveva perso le
pantofole e il medico le aveva sconsigliato fortemente di camminare scalza».
«Lei andò nella sua stanza per portarle tè e biscotti» ripeté il giudice. «Perché non avvertirla di ciò
che era successo in casa sua?»
Alla domanda, il maggiordomo scosse la testa. «Scusi, Vostro Onore, lei riuscirebbe a pasteggiare
dopo che qualcuno le fa un rivelazione del genere? Naturalmente, no. E io ci tenevo tantissimo a
che lei mangiasse e bevesse tutto. Pertanto, dopo aver poggiato il vassoio sul comodino, versai il tè
nella tazzina e la padrona lo bevve tutto in un sorso. Io aspettai cinque minuti e le versai altro tè
nella tazzina. Lei lo bevve tutto in un sorso. E io aspettai altri cinque minuti».
«Cosa aspettava, precisamente?» chiese il giudice.
«Mah, niente in particolare» rispose l’altro, evasivo «Tuttavia, per sicurezza, le feci bere ancora
un’altra tazza di tè ma, subito dopo che la ebbe ingurgitata, notai, con orrore, che era appena morta.
Avvelenata!»
«Ma no?» esclamò il giudice con sarcasmo.
«Ero rimasto solo. Con l’assassino. Pertanto decisi di scappare in un luogo sicuro e protetto che non
contemplasse l’estradizione fra le sue leggi e mi precipitai verso l’uscita. Tutto in quella villa
incominciava a farmi paura: il giardino immenso, le stanze imbevute di silenzio, la cantina, le mura,
l’ enorme Imu da pagare».
Il giudice fece un sorriso ironico. «D’accordo scappare. Ma perché quando alcuni agenti, che si
trovavano fortuitamente lì vicino, l’hanno ritrovata davanti alla villa, lei aveva con sé argenteria,
gioielli, quadri e mobili antichi, tutti appartenenti alla casa? »
«Vostro Onore, ho lavorato presso la villa per dieci anni. Tutti quegli oggetti avevano, per me, un
forte valore affettivo».
Il giudice con una mano si batté la fronte, e con l’altra batté il martelletto sul tavolo. «Bene.
Immagino che con quest’ultimo particolare, la sua fantastica storia sia finita. Molto interessante»
sentenziò mentendo.
Nel mentre, il presidente della giuria, col suo gigantesco doppio mento, si sistemò nervosamente il
doppiopetto. Sapeva che era arrivato il suo momento di gloria.
«Ora » continuò il giudice, voltandosi verso la giuria. è il momento di sentire il verdetto».
In un silenzio impressionante, il presidente della giuria si alzò e si sistemò il doppiopetto
dimenticandosi di averlo già fatto due righe più su, e con voce sicura, pronunciò il verdetto.
«La giuria di questo processo » annunciò «dichiara l’imputato non colpevole per tutti i capi d’accusa a
lui ascritti».
Vi furono attimi in cui, nell’aula, nessuno parlò. Solo il maggiordomo, sorridente, non pareva essere
sorpreso.
«Ma non è possibile » proruppe il giudice, mettendosi le mani fra i capelli della parrucca. «Allora
chi è il colpevole di tutto questo? Chi può aver ucciso quelle persone se non il maggiordomo?»
«Ma, vostro Onore, era piuttosto intuitivo capire che non ero io l’assassino».
«E chi, allora? Chi è stato?»
Il maggiordomo sorrise ancora una volta.
E’ stato lo scrittore, naturalmente».
«Lo scrittore? »domandò il giudice con stupore. E magari dovrei aspettarmi anche una sua
confessione…»
«Ma ha già confessato, vostro Onore. Sin dall’inizio. Certo, lui è l’autore di questo racconto e, con un
colpo di tastiera, potrebbe decidere di farmi condannare. Ma, per mia fortuna, ciò che mi salva, è il
fatto che il racconto non può esser lungo più di tre pagine. Come noterà mancano solo un paio di righe
per giungere alla fine dell’ultimo foglio. e perciò» concluse il maggiordomo, facendo andare a capo la
frase:
«Sono salvo».
Fine