“Il romanzo di Moscardino” di Enrico Pea, ristampato dall`editore

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“Il romanzo di Moscardino” di Enrico Pea, ristampato dall`editore
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Enrico Pea
“IL ROMANZO DI MOSCARDINO” PER RISCOPRIRE UN AUTORE DI RAZZA
Le edizioni Elliot hanno meritoriamente riproposto la quaterna narrativa che
costituisce il capolavoro dello scrittore e drammaturgo di Serravezza. “Moscardino”,
“Il volto santo”, “Magoometto” e “Il servitore del Diavolo”, usciti tra il 1922 e il
1942, sviluppano in forma ora realistica, ora mitopoietica, ora fantastica una
tumultuosa e sofferta vicenda autobiografica che ha come sfondo la nativa campagna
toscana. Un’opera di accanita e complessa costruzione linguistica, e al cui interno si
irradiano tante ‘storie nella storia’, con un piglio romanzesco che fa pensare a
Dostoevskij e Victor Hugo.
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di Ilenia Appicciafuoco
Il romanzo di Moscardino di Enrico Pea (Elliot, Roma 2008, pp. 437, € 19,50), è un’opera la cui
prima uscita per Garzanti editore, risale al 1944. Ristampato alla fine degli anni Settanta per volere
di Italo Calvino, oggi, a sessantaquattro anni dalla morte del suo autore, ci colpisce ancora per la
particolarità dello stile, la forza espressiva della scrittura, la resa dei personaggi e la trama
avvincente, unita alla capacità di Pea di fare in modo che le piccole avventure e le vicende della vita
di un uomo e di un bambino restino avvolte da un’aura fantastica, purificatrice e santa, carnale e
demoniaca allo stesso tempo.
Se volessimo provare a descrivere e mostrare tutte le storie che si snodano all’interno del romanzo
con altrettanti colori, questi sarebbero il bianco delle lenzuola distese ad asciugare, delle vesti delle
monache, unito al rosso vermiglio del sangue delle bestie macellate e dei capelli tinti d’hennè delle
ricche donne egiziane, il verde della campagna e l’azzurro del mare, il giallo del sole e delle balle di
fieno dei terreni brulli e inospitali, il nero del legno e della pelle degli schiavi, della notte, delle
tonache dei preti, dei piedi dei bambini di una volta, vestiti di stracci e d’innocenza del coraggio,
che sfidavano scalzi la strada e le malattie mortali, il grigio dei sassi, dei ciottoli, delle pietre1, dei
corridoi degli ospedali e dei sanatori, il marrone dello sterco che però è concime e vita…
L’opera, salutata come il capolavoro dello scrittore e drammatugo toscano, è divisa in quattro
romanzi brevi: “Moscardino” del 1922, “Il volto santo” del 1924, “Magoometto” del 1942 e “Il
servitore del Diavolo” del 1931, anche se, nella cronologia della storia appare dopo “Magoometto”
e chiude la struttura del libro.
La vicenda trae spunto dalla biografia dell’autore allevato dal nonno, uno dei personaggi centrali
della vicenda avente come sfondo la campagna toscana, descritta da Enrico Pea con un linguaggio
che non trascura i dettagli e fa di tutte le cose su cui si posa lo sguardo, materia circonfusa di una
forza e di una magia che, ora, nel nostro mondo sembrano irrimediabilmente perdute.
Pensando agli scenari e alle storie de Il romanzo di Moscardino, a quel mondo, a quelle credenze
antiche unite allo spirito pratico, la passionalità, la carnalità, la violenza e perfino ai tratti somatici
dei personaggi, si ha l’impressione che, unitamente alle parole di Pea, risuonino con una forza mai
vista gli epiteti che Pier Paolo Pasolini nella poesia dedicata alla bellezza di Marilyn Monroe,
paragonata alla sensualità sublime e al tempo stesso innocente del mondo antico, in La rabbia
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“sassi tondi, e a piastrelle smussate, come quelli che si trovano negli scassi dei terreni vergini e che i contadini
chiamano le ossa dei campi.” (opera citata, in “Moscardino” pag 58)
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utilizza per descrivere proprio quei tempi ora svaniti… e quel pauroso mondo antico portatore e
conservatore di una bellezza crudele e santa, di avventura e vita, privazioni, stenti e morte è il vero
protagonista di questa storia immortale, narrata da un autore ingiustamente ed impietosamente
dimenticato.
Fu grazie all’insistenza di Giacomo Puccini e in forza delle numerose lettere da lui inviate ai
responsabili della casa editrice Treves di Milano, che la prima reale edizione di “Moscardino” (il
primo dei tre mini-romanzi) fu edita nel 1922 e la pubblicazione dell’opera integrale avvenne
esattamente ventidue anni dopo anche per le numerose riserve di alcuni intellettuali su alcune parti
del romanzo, non ultima quella di Giuseppe de Robertis che, pur avendo apprezzato molto “Il
servitore del diavolo”, castigò duramente “Magoometto”, dichiarando che “… la mano di
Moscardino sa ciò che la penna di Pea non sa, a volte; quella ebbe, ed ha, la sua magia, questa,
spesso, è solo ubbidiente a trascrivere, con un resticciolo di fantasia abitudinaria”.
Queste considerazioni, fin troppo dure anche secondo il parere di molti critici dell’epoca, farebbero
meravigliare ancor più quelli di oggi, abituati ad avere a che fare con tanta spazzatura spacciata per
letteratura. E non ci si può oggi non chiedere: come può Enrico Pea, nato a Seravezza, in provincia
di Lucca nel 1881, elogiato da Italo Svevo e da Giacomo Puccini e poi, ancora, da Ezra Pound, Italo
Calvino e Giuseppe Ungaretti, come può questo autore così speciale che nella vita fu bambino
vagabondo e semi analfabeta fino ai quindici anni, aspirante frate, a sedici anni mozzo su una nave
mercantile, servitore in Egitto, commerciante di marmo, meccanico, ferroviere, importatore di vini,
fondatore di un circolo di anarchici e infine drammaturgo, essere stato trascurato per tutto questo
tempo?
Ne Il romanzo di Moscardino Enrico Pea descrive proprio l’impossibilità dell’uomo di essere uno,
di ricoprire un solo ruolo nel corso dell’esistenza, l’incapacità dell’essere umano di essere o buono
o cattivo, o santo o peccatore, demone o angelo, persona o bestia:
Mio nonno parlava stasera con tanta passione come se tutto fosse imminente.
Quando si fermava ed invocava il Santo, pareva il diavolo pentito: con quei capegli argentei
scarruffati da un’improvvisa follia.
Non distinguevo più il religioso dal bestemmiatore.
Pensavo a quando si era sventrato per amore.
Aspettavo la fine di una tragedia. (op. cit., ne “Il Volto Santo” pag 89)
Enrico Pea parla con chiarezza e dovizia di particolari della condizione del reale (di un passato che
fu reale per molti), così come di quella del sogno e dell’allucinazione, la febbre delle passioni, il
gelo della solitudine, della fame e del freddo. Per “condizione del reale”, riguardo alla forma e ai
contenuti del romanzo, non si intende, in questa sede, definire Pea uno scrittore “realista” nel senso
“verghiano” del termine: al contrario, ne Il romanzo di Moscardino non di rado si avverte uno
slittamento dall’esterno, dal mondo circostante, all’interno dell’animo umano, e questo slittamento
viene realizzato da Pea in soluzione di continuità fra un polo e l’altro. Si ha l’impressione che il
libro si faccia da sé, che cambi umore, espressione, immagine e che, anzi, ogni immagine presentata
sia lo spunto per una nuova riflessione, un altro volo. Il libro di Pea, allora, utilizzando un esempio
banale, ma forse efficace, fa pensare a un bambino concentrato nello studio e nei compiti a casa, che
ad un tratto si distrae, guarda fuori dalla finestra e inizia a fantasticare:
E si vedeva il pastore camminare sul ciglio della strada, con l’ombrello giallo a tracolla e il paiolo
di rame.
Beato te, pastore, che conosci la Maremma e gli Appennini, e due sole stagioni ti fanno tramutare
di casa (…)
Tu sai che vi sono le streghe in agguato alle fonti e ai fiumi, e in quell’ora non abbeveri la
mandria.(…)
Come è possibile poi ingannarsi e impazzire?(…)
Tu sei forte. Ma non è violenza la tua. (…)
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E, se ridi, la tua bocca si infiora di rosso.(…)
E non hai capogiri, non sonni agitati. Non voglie pazze, tu che non hai pazze fantasie nel cervello.
Il cielo è il cielo, per te che non pesi le nuvole.
Non sai cosa voglia dire tenere spalancati gli occhi:
avere le palpebre tezze come come scaglie di pietra:
preparare i piani d’un delitto, per tutta la notte in compagnia dei linchetti malefici. (op. cit., in “Il
Volto Santo”, pag 97).
Il primo dei quattro romanzi, dal titolo “Moscardino”, ripercorre la storia delle origini della famiglia
materna del protagonista, che è poi l’autore stesso: descrive i tre fratelli, il Taciturno, l’Abate e il
nonno di Moscardino, la madre, rimasta in silenzo per tutto il resto della vita, dopo la morte del
marito, l’amore del nonno per la serva Cleofe e la gelosia bestiale e logorante che lo avrebbe
condotto a squarciarsi il ventre con un coltello, prima di venire salvato e rinchiuso in ospedale
psichiatrico per ventiquattro anni. Inoltre si comincia a delineare la storia della convivenza fra il
bambino e il nonno e affiorano i ricordi di quest’ultimo e le splendide pagine riguardanti
l’esperienza in manicomio.
Ne “Il Volto Santo” compare appunto la figura di questa statua dall’ossatura di legno e la faccia di
stucco, e i baffi e la barba di pannocchie fulve di granturco primaticcio (op. cit., in “Il Volto Santo”
pag 83), una via di mezzo fra un santo, un’immagine sacra, legata alla tradizione cristiana, e uno
spirito giustiziere protagonista dei racconti popolari, delle fole. In questo capitolo è la voce del
nonno a dominare sulle altre: è lui che parla del Volto Santo, di Sant’Ilarione e delle due Lucche,
del colera che martoriava quelli che rimanevano e della peste che si portava dietro chi tornava,
arricchito, dalle Americhe. È sempre lui a ricordare la primavera in cui, quasi a malincuore,
abbandonò l’ospedale psichiatrico, in preda ad un amore impossibile, nel ricordo di Cleofe.
In “Il Volto Santo”, inoltre, si narrano anche i primi vagabondaggi del nonno, spirito ormai privo di
patria e libero da costrizioni e da legami e fiero della sua condizione e affiora, per poche pagine, la
figura del padre di Moscardino (e qui è la voce del bambino-autore a parlare), originario della
Corsica, morto in una terribile alluvione. Il romanzo si chiude proprio con i sogni di avventura del
piccolo che immagina, un giorno, di poter raggiungere quella terra di cui si sente figlio per metà,
piccola come un bruscolo tra i colori di un tramonto eccezionale (…) Laggiù in mezzo al mare,
occultata dalle nuvole (op. cit., in “Il Volto Santo” pp 165).
“Magoometto” è il romanzo più lungo e racconta soprattutto le tappe della vita di Moscardino prima
di raggiungere l’Egitto, luogo che farà da sfondo a “Il servitore del Diavolo”. Vediamo un bambino
alle prese con la fame, gli stenti, le privazioni e le vessazioni dei parenti a cui, di volta in volta,
viene affidato (ributtante, la figura del “Prete”) anche a causa dell’assenza della madre che viene
citata solo raramente e, sembra, quasi malvolentieri dall’autore. È qui che scopriamo come
Moscardino si sia rifugiato dal nonno, dopo aver subito ogni sorta di castighi dal Prete, suo zio, le
avventure e le disavventure, gli insegnamenti, la smania di avventura, i primi turbamenti, il lungo
soggiorno in ospedale, la volontà di diventare frate e l’impossibilità di riuscirvi per via di un difetto
all’occhio, i numerosi mestieri intrapresi e la fuga finale, la conquista del mare sul “Ciucciariello”,
la nave mercantile su cui lavorerà come mozzo.
Infine, “Il servitore del Diavolo” narra le vicende di Moscardino in Egitto, servitore di una ricca
famiglia e frequentatore della “Baracca Rossa”, un circolo di anarchici, fondato da Giuda, il braccio
destro del Diavolo, padrone di Moscardino, che però non vediamo mai comparire. Per la “Baracca
Rossa” in cui non sono ammessi né dei né padroni, Moscardino, all’inizio proverà
contemporaneamente attrazione e repulsione, poiché ancora contadino nell’anima e profondamente
legato alla sua terra e a Dio, per poi diventare, infine, uno dei più assidui frequentatori del luogo.
Già in “Moscardino” il carattere e la personalità del nonno vengono delineate nella descrizione
dell’avvento della passione nei confronti di Cleofe, la serva-angelo venuta da Terrinca, ed in seguito
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nel gesto fatale che compirà quando, invece di uccidere lei per placare la sua gelosia, squarcerà il
proprio ventre. La voce del vecchio, saggio e violento, giusto ed impietoso, virile e casto al tempo
stesso, si fonde molte volte con quella dell’autore dando l’impressione che lo scrittore si serva di
questa carismatica figura per dar voce ad idee proprie. L’operazione è comune a molti scrittori, ma
in questo caso le arringhe del nonno, che immaginiamo magro, forte, con la barba ispida e incolta e
gli occhi fiammeggianti, appaiono come altrettanti mini-saggi e ricordano quasi le lettere dei latini, i
consigli sul viaggio di Seneca o quelli sul piacere di Epicuro
Certo, l’istinto dell’uomo è per la libertà, diceva mio nonno.
Il torto dell’uomo è di aver fatto le case con le porte, di essersi tagliato le unghie dei piedi e delle
mani.
Dacché gli uomini non salgono più sugli alberi, dacché schiacciano le noci con una macchinetta di
ferro, si sono addomesticati, stanno nelle gabbie e han paura del sole e dell’acqua. Ogni tanto
l’istinto li riassale: ma è fuoco di paglia, ardore di poca durata: per i nati in gabbia le ali sono un
lusso, una vanteria, e null’altro. (op. cit., in “Il Volto Santo” pp 76)
Pur rimanendo sempre concentrato sulle figure dei personaggi principali, quella dell’anziano
violento e saggio, ma soprattutto quella di Moscardino, Enrico Pea non manca di narrare anche le
storie di tutti gli altri attanti. Queste sembrano quasi irradiarsi da un centro nevralgico, che è poi la
vicenda dei protagonisti, ma, allo stesso tempo, non dipendono direttamente da esso, anzi si
posizionano come “storie nella storia”. La struttura del romanzo peano assume l’aspetto di una città
antica che ha il suo cuore nella piazza, dalla quale, poi, come raggi di un sole, si dipanano le altre
vie, alcune grandi e strettamente collegate al centro, altre piccole e di minore importanza, ma
sempre considerate degne di essere mostrate e raccontate.
Il fatto che ogni storia sia profondamente diversa dall’altra e che ogni personaggio “satellite” sia
profondamente distinto dall’altro e con dei tratti caratteriali (e fisici) molto ben delineati, fa di
ognuna di queste figure, ancor più che in altri romanzi, dei simboli di comportamento e di
atteggiamento nei confronti della vita. In questo possiamo anche scorgere un’affinità con il grande
Dostoevskij e forse ancor più con il Victor Hugo dei Miserabili.
Sono frequenti i dialoghi e spesso le storie sono raccontate in prima persona, ma nella maggior
parte dei casi sono le voci dei due personaggi principali (e quindi dell’autore) a narrarle. Solo in
“Moscardino” Pea crea una specie di “angolo riservato” per il desiderio, la vendetta, la lussuria ed il
rancore dei fratelli rimasti dopo l’internamento del nonno, Cleofe gravemente ammalata e gli
“sciacalli”, Don Pietro Galanti, la sua ambigua serva Sabina ed il medico “dal pelo rosso”. Sono
allora i pensieri di ognuno, espressi in prima persona, ad apparire sulla pagina e a creare nel lettore
un effetto di disorientamento, effetto che si ripete quando Pea gioca a “saltare” dalla terza alla
prima persona, dalla voce del nonno a quella del bambino.
Una caratteristica interessantissima da notare nel romanzo è lo speciale “trattamento” che lo
scrittore versigliese riserva alla figura femminile: in Il romanzo di Moscardino le donne sono, al
contrario dei maschi, senza vie di mezzo. Semi-arpie volgari, venali e dissolute o angeli. Le prime
non incutono timore, recano solo fastidio e devono essere al massimo usate e allontanate, le seconde
portano alla venerazione, ad un amore che ricorda quello cantato dagli stilnovisti, infine alla
disperazione per l’impossibilità di rimanere accanto a loro, o alla follia per il timore di perderle…
nel romanzo peano il tema del sesso non è mai direttamente trattato, tuttavia vi sono numerosi
riferimenti alla carnalità, ma velati, raccolti, filtrati dalle immagini e dall’alone onirico che
improvvisamente avvolge le cose, tipico dello stile di Pea:
le donne di Terrinca vanno a letto nude come le ha fatte Iddio. E le finestre alle case del nostro
paese non hanno persiane, e le stanze sono chiare, la notte.
Don Lorenzo la vide nuda, morta sul letto, bianca bianca, con le gambe lunghe. E mio nonno gli
parve un mostro, accoccolato sul ventre di lei, che la guardasse negli occhi.
E stette, finché la morta si fu riavuta.
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Malaugurato testimone della procreazione di una madre. (op. cit., in “Moscardino” pp.17)
Mentre la Stiampona si allontanava, mio nonno ruggì: “Tutte eguali! Tutte eguali, buscherone
d’inferno! Vedi? Credono subito di aver dei diritti.(…). È vero, Moscardino, che quando io ero
all’ospedale tu una volta l’hai chiamata puttana?”
“Si. È vero”. Aspettavo un’altra burrasca. Invece mio nonno mi guardò. Si rabbonì senza ridere e
disse sottovoce:
“Hai fatto bene”. (op. cit. in “Magoometto” pp 275).
Anche la figura della suora nell’opera riveste un significato particolare: essa è sia una sorta di donna
da idealizzare, forse l’unica che meriti un amore assoluto, proprio perché inaccessibile, e sia il
simbolo delle intenzioni giovanili di Pea-Moscardino, desideroso di intraprendere la carriera
monastica. La dimensione mistica nel romanzo è molto presente, sia per quanto riguarda le
leggende sui santi e le numerosissime figure ecclesiastiche presenti nel racconto, sia perché essa
rappresenta il polo drasticamente opposto a quello dell’altra vocazione di Enrico Pea: quella
anarchica.
Ne “Il Volto Santo”, sicuramente il più particolare, oscuro e ambiguo dei quattro romanzi l’autore
sposta da sé la paternità della “Baracca Rossa”, attribuendola alle figure del Diavolo e di Giuda, che
risultano, a una lettura più attenta, essere la stessa persona. Enrico Pea è, da un lato, Moscardino
approdato dalla lontana Toscana, inesperto, osservatore timido e inizialmente timoroso, incapace di
capire i doppi sensi e ancora profondamente legato alle radici, minacciato dallo sguardo truce del
Barberino e di Giuda, e dall’altro Giuda stesso, cinico, dissacratore, miscredente, contrario alla
legge dei padroni così come a quella di Dio, convinto che “Gli uomini passano. L’idea resta.”
Ma che cosa intende dire Giuda con queste parole? Dunque il sacrificio della vita è senza premio?
E l’idea resta perché sia raccolta da altri e si perpetui: e a fine di che tutto questo? Ma come di
può vivere senza speranza? Senza speranza di nulla?(…) soltanto io, pesce fuor d’acqua, respiravo
male in questa Baracca Rossa, e mi sforzavo all’adattamento. (op. cit. in “Il Volto Santo” pp 372)
La struttura del romanzo è tradizionale ed ogni racconto è composto da paragrafi di media
lunghezza.
Al livello di costruzione della frase, l’autore predilige la paratassi, oppure “spezza” la continuità del
discorso servendosi utilizzando abbondantemente la punteggiatura.
La stessa cura che utilizza per la punteggiatura viene dedicata anche, se non maggiormente, al
linguaggio, all’uso dei termini. Enrico Pea sembra non ripetersi mai due volte. Egli utilizza davvero
la lingua come una riserva naturale infinita da cui attingere in ogni momento: espressioni dialettali
si uniscono a latinismi, citazioni colte (si pensi al nonno che chiama lo stomaco “Il tristo sacco che
merda fa di quel che si trangugia” citando Dante Alighieri), termini storpiati dal volgo ed
espressioni auliche. Grazie alle sue numerisissime esperienze lavorative, Enrico Pea descrive alla
perfezione e con terminologia specifica e di difficile comprensione istantanea, ogni fase della
lavorazione di un materiale, dai cappelli per uomo, al marmo, ma anche il processo della
vendemmia o della semina. Sarebbe andata a genio a Giovanni Pascoli la precisione del versigliese
nel descrivere la natura: ogni pianta, albero, fiore viene chiamato con il proprio nome. La prosa di
Pea, inoltre, è ricca di similitudini, sentenze, proverbi, non mancano le filastrocche e le canzoncine
popolari e, non di rado, essa assume un suono particolare, un ritmo che ricorda molto quello della
metrica in poesia.
Scrisse Giuseppe Ungaretti, di questo narratore toscano così carismatico e particolare in una lettera
del 1916 a Giovanni Papini: “Ha dei momenti che ti sorprendono per densità, proprietà, violenza,
vastità di azzurro, per un’umanità intagliata in una parola tutt’ancora umida di terra, e brillante di
rugiada, come un’erba spuntata a ridere nel sole, una mattina bella: come solamente Giotto e chi sa
chi altro nel mondo hanno saputo fare”.
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E con queste parole si può concludere, pensando allo straordinario senso di pienezza che lasciano
opere del genere, autori come Enrico Pea che, con voce fatta di terra, parlano del cielo.