Le ciambelle di Paolo Uccello

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Le ciambelle di Paolo Uccello
Angela Fiegna1
Paolo Uccello, Studio di prospettiva del mazzocchio
Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts Graphiques
Le ciambelle di Paolo Uccello
[…] Alcuni anni dopo si trovò Paolo Uccello
morto di esaurimento sul suo misero letto. Il suo volto
raggiava di rughe. Gli occhi erano fissi sul mistero rivelato. Teneva stretto nel pugno un pezzettino rotondo di
pergamena, coperto di linee intrecciate che andavano dal
centro alla circonferenza e dalla circonferenza al centro.
[Marcel Schwob]2
Paulo Uccello pittor fiorentino
“Rare volte nasce uno ingegno bello che nelle invenzioni delle opere sue stranamente
non sia bizzarro e capriccioso, e molto di rado fa la natura persona alcuna affaticante l’anima con lo intelletto, che ella per contrappeso non vi accompagni la ritrosia”.3
1
Ex docente di Filosofia e Storia presso il Liceo Scientifico “G. Ferraris” di Varese. Collabora con l’Universauser con
conferenze sui rapporti tra arte e filosofia.
2
SCHWOB, Marcel, Paolo Uccello pittore, in Vite immaginarie, Edizioni Stampa Alternativa Nuovi Equilibri 1995, p.64.
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Così Giorgio Vasari esordisce nel presentare “Paulo Uccello pittor fiorentino”4 nelle sue
Vite. La presentazione non è particolarmente lusinghiera.
La bravura dell’artista, pur innegabile, appare allo storico dell’arte male orientata, guastata da uno spirito “bizzarro e capriccioso”, dirottata verso inutili rivoli secondari, sprecata
insomma. Si chiede più avanti Vasari come mai un pittore straordinariamente dotato, anziché applicarsi a quelle rappresentazioni canoniche cui tutti i pittori dovrebbero a suo parere
applicarsi, anziché privilegiare le figure del mondo vivo e concreto, si inaridisca nella puntigliosa smania di generare “sterilissime e secche cose”5. Non è il solo a pensarla in questo
modo, stando almeno a quanto egli stesso riferisce. Lo stesso Donato, detto Donatello, più
di una volta redarguisce l’amico suo invitandolo a mutare orientamento.
Ma che cosa dunque rende Paolo Uccello così diverso dai suoi contemporanei e allo stesso tempo così esplicitamente riconosciuto come grande? In che cosa consiste la sua eterodossia che lo porta ad essere ammirato e allo stesso tempo tenuto a distanza?
Che cosa, soprattutto, lo tormenta come una specie di malattia e lo conduce, in maniera
quasi compulsiva, a “lasciare il certo per l’incerto”?6
A detta di Vasari – e per suo tramite di Donatello - questa malattia si chiama prospettiva,
che cattura e imprigiona l’″eccellente pittor fiorentino″ nella produzione di “ghiribizzi” a
suo parere senza senso e senza costrutto.
Ma forse non basta questo a rendere ragione dell’originalità di Paolo Uccello, così difficile da classificare nella grande famiglia dei pittori quattrocenteschi. La sua arte è partecipe
di istanze a prima vista inconciliabili, incline a nostalgie tardo-gotiche e allo stesso tempo
sperimentale, intellettualistica e ingenua, scientifica e fantastica. Difficile da capire, soprattutto da parte di colui grazie al quale siamo in possesso delle pur scarne notizie sulla sua
vita. L’originalità dell’artista ombroso e ritroso è lontanissima, non solo cronologicamente,
dall’orizzonte artistico di Vasari che la descrive. Il quale Vasari resta alla superficie e ci restituisce l’immagine di un pittore sì eccellente, dal “sofistico ingegno” però, che si butta via
per correre dietro a inutili esercizi di stile. L’intera presentazione che ne fa si gioca su questi
due poli, la bravura e l’inefficienza, insomma Paolo gli appare come un genio sprecato, che
usa malamente e capricciosamente le qualità di cui madre natura l’ha dotato. E in sovrappiù
senza soddisfazione ma in miseria e solitudine.
Vasari, artista anche lui (ma a quale abissale distanza da Paolo!), opera in pieno manierismo e quindi in un momento in cui l’arte ha del tutto superato le tensioni e l’entusiasmo della scoperte quattrocentesche e si ripiega sull’elaborazione a volte geniale a volte sterile e
stucchevole della grandezza che l’ha preceduta; non più ricerca del bello ideale, essa “di3
VASARI, Giorgio, Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue, insino a’ tempi nostri,
Torino, Einaudi, 1986, p. 236.
4
Paolo di Dono, meglio noto come Paolo Uccello, nasce nel 1397 a Firenze. È citato tra i garzoni di bottega di Lorenzo
Ghiberti nella realizzazione della prima porta del Battistero di Firenze, per il resto la sua formazione rimane oscura. Lavora nel 1425 in S. Marco a Venezia ma le opere di questo periodo sono andate perdute. Tornato a Firenze nel 1430 dà
l’avvio alle sue opere più famose: le Storie della creazione nel Chiostro Verde di S. Maria Novella, il Monumento equestre di Giovanni Acuto, S. Giorgio e il drago. Lavora nel 1445 a Padova ma sono andate perdute anche le opere di questo soggiorno. Di nuovo a Firenze, dipinge le Storie del Diluvio e di Noè, la Natività, i tre pannelli celebranti la Battaglia di S. Romano. Sempre più isolato rispetto ai suoi contemporanei, dipinge negli anni ’60 la Storia della profanazione dell’ostia consacrata e la Caccia. Muore a Firenze nel 1475.
5
Cfr. VASARI, Giorgio, op. cit., p. 236.
6
Ivi, p. 237. Il rimprovero gli è rivolto dall’amico Donatello che, stando alle parole di Vasari, così lo apostrofa: “Eh,
Paulo, cotesta tua prospettiva ti fa lasciare il certo per l’incerto.”
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venta la guida del gusto sociale”7. Non
può quindi Vasari, pittore diligente e
abile ma niente di più, capire la ricerca
disperata di modelli ideali, il mondo
rarefatto delle forme perfette. La tensione che porta Paolo a una sfida continua con se stesso e lo trasporta
nell’iperuranio della pura astrazione, è
molto distante dall’ambito di pensiero
di un artista dell’effimero8 qual è stato
il suo biografo. Non per nulla l’opera
più famosa di Giorgio Vasari non ha a
che fare con la produzione artistica ma
è un minuzioso lavoro di storiografia
artistica, quelle preziosissime Vite senza le quali tanto meno sapremmo del
mondo della cultura tra il 1200 e il
1500. Eppure di Paolo Uccello, pur
senza comprenderlo, riconosce il gePaolo Uccello, Sfera a settantadue facce e punte
nio, quel genio che “ogni giorno moParigi, Museo del Louvre, Département des Arts Graphiques
strava a Donato mazzocchi a facce tirati in prospettiva, e di quegli a punte di diamanti con somma diligenza e bizzarre vedute per
essi. Conduceva bruccioli9 in su i bastoni, che scortassero, perché si vedessi il di drento e ‘l
di fuori e le grossezze di quelli, e palle a settantadue facce molto difficili.”10
Un’opera tutta di bontà e d’eccellenza
Queste forme astratte, che noi troviamo magnifiche e che Vasari disprezzava come “ghiribizzi”, sembrano essere la gioia suprema del pittore. In esse si immerge con una tensione
verso la perfezione che lo consuma e lo soddisfa allo stesso tempo, non chiede loro altro che
di essere se stesse. Solo secondariamente esse possono diventare oggetti di uso comune e di
pratica utilità. Prima viene la forma e poi la sua funzione d’uso, non il contrario.
Paolo procede dall’astratto al concreto, ed è forse anche questo a dare alla sua opera quel
che di straniante, come se i suoi oggetti facessero fatica a staccarsi dal mondo ideale cui appartengono per concedersi alle cose della terra.
7
ARGAN,
Carlo Giulio, Storia dell’arte italiana, vol. III, Firenze, Sansoni Editore, 1976, p. 232.
Giorgio Vasari si occupò attivamente di spettacolo. A soli 19 anni partecipò alla decorazione di un arco trionfale in occasione dell’incoronazione di Carlo V a Bologna. Si occupò di scenografia in varie occasioni a Firenze e Venezia. Nel
1565 fu il regista di una serie di eventi spettacolari in occasione dei festeggiamenti per il matrimonio di Francesco I de’
Medici e Giovanna d’Austria. Riprendendo l’esperienza veneziana, suggestioni vitruviane e scenografie prospettiche
oramai mature, realizzò un grande allestimento a palazzo Vecchio che diventò il prototipo di teatro da sala.
9
Trucioli. Un lungo truciolo forma una spirale che, vista di scorcio, ben si presta alle complesse scomposizioni prospettiche ricercate dall’artista.
10
Cfr. VASARI, Giorgio, op. cit., p. 237.
8
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Ed ecco il Diluvio11, “opera tutta di bontà e d’eccellenza”.12
Paolo Uccello, Storie di Noè: Diluvio e recessione delle acque
Chiesa di S. Maria Novella - Firenze
La rappresentazione, giocata sui toni innaturali del rosso e del verde, percorsa da prospettive spericolate, evoca situazioni drammatiche – il cavaliere che sta affondando col suo
cavallo, il naufrago che si aggrappa disperatamente all’arca, il ragazzo che sputa acqua…che nulla però trasmettono di drammatico. Ha un bel dire Vasari, quando parla dell’affresco,
che “[…] con tanta fatica e con tant’arte e diligenza lavorò i morti, la tempesta, il furore de’
venti, i lampi delle saette, il troncar de gli alberi e la paura de gli uomini. […] una morta che
il corbo le cava gli occhi, et un putto annegato […] et la somma paura del morire[…].” 13 In
realtà quello che preme al pittore e che emerge dalla sua pittura è soprattutto la tecnica magistrale. “[…] Diminuì ancora le figure per via di linee in prospettiva, e fece mazzocchi et
altre cose in tale opra certo bellissime”.14 In nome dell’amata prospettiva non si preoccupa
di sdoppiare l’arca, di cui rappresenta le due pareti esterne ai lati dell’affresco, in una visione spaziale originalissima e destabilizzante.
E ancora, a proposito della sottostante Inebriazione di
Mosè, non può fare a meno Vasari di sottolineare che “quivi
fece egli in prospettiva una botte che gira per ogni lato, cosa
tenuta molto bella […]15
I personaggi sono congelati in una fissità che ne fa elementi funzionali a una precisa distribuzione e riempimento degli
spazi più che alla resa di una situazione reale.
Ben lo esprime Argan quando scrive che:
“[…] Paolo non esita a sacrificare la verosimiglianza del racconto
alla coerenza della struttura prospettica. […] Il rigore di Paolo è
simile a quello dei Cubisti […], con le loro immagini tanto più vere
quanto meno verosimili. Paolo costruisce lo spazio secondo la pro-
Particolare dal Diluvio
11
Le Storie di Noè sono due affreschi di Paolo Uccello realizzati attorno al 1447-48 nel Chiostro Verde di S. Maria Novella a Firenze. Sono a monocromo o “verdeterra” e sono composti da due episodi sovrapposti: il Diluvio e recessione
delle acque nella lunetta e il Sacrificio ed ebbrezza di Noè nel riquadro sottostante.
12
VASARI, Giorgio, op. cit., p. 239.
13
Ivi.
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Ivi.
15
Ivi.
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spettiva, il fatto storico secondo la struttura dello spazio: se
l’immagine risulta innaturale e inverosimile, tanto peggio per la
natura e per la storia”.16
In questo contesto straniato, in cui il dramma viene sublimato
in astrazione, anche la tanto amata figura del mazzocchio diventa puro elemento figurativo, esercizio di stile, tant’è che la
sua funzione può essere indifferentemente quella del copricapo o quella della ciambella salvagente.
Particolare dal Diluvio
Perché tanto amore per questo complesso solido geometrico?
Forse proprio perché complesso.
Mazzocchi d’autore
Ma cos’è esattamente il mazzocchio?
Il termine17 deriva dal nome di un copricapo molto in voga nel Quattrocento, consistente in un anello poco più grande della
circonferenza della testa, imbottito e rivestito di tessuto, cui si poteva appoggiare
una sciarpa variamente drappeggiata.
Innumerevoli sono gli esempi che
l’arte del tempo ci restituisce. Tra i più famosi il mazzocchio indossato da uno dei
misteriosi personaggi in primo piano della
Flagellazione di Piero della Francesca,
probabilmente il cardinale Giovanni Bessarione.
Piero della Francesca, Flagellazione
Urbino, Galleria delle Marche
16
Cfr. ARGAN, G. C., op. cit., vol. II, pp. 185-6.
Il mazzocchio è un copricapo composto da un anello poco più grande della circonferenza della testa. Il cerchio, formato di borra e rivestimento di panno, nasce come uno degli elementi che compongono il cappuccio medioevale. Il termine potrebbe derivare dal latino maxuca e dal suo diminutivo maxuculus, ossia "una quantità di cose strette insieme a
un mazzo". Esso viene realizzato in molteplici varianti, tanto che non risulta risalire a un unico modello originale. Il
Quattrocento è la grande epoca del mazzocchio; se ne diffonde l'uso in tutta l'Europa, ma la storia del costume lega questo accessorio all'alta borghesia rinascimentale fiorentina. È' molto presente nella tradizione pittorica e Paolo Uccello lo
dipinge frequentemente indosso ai suoi personaggi, poiché la sua superficie geometrica sfaccettata risulta di difficile
raffigurazione prospettica ed è quindi sinonimo di grande padronanza dell'uso della prospettiva. A questo proposito Piero della Francesca spiega le regole della sua rappresentazione nel trattato De Prospectiva Pingendi. Una forma archetipo come questa è un simbolo di essenzialità e complessità insieme, una forma senza tempo che nasconde altri significati. Infatti, "aggiustare il mazzocchio a qualcuno" vuol dire "fargli passare i capricci". (definizione tratta dal catalogo della mostra Quali cose siamo, Milano, Biennale, 2010).
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Analogo è il copricapo dei due personaggi che, nella Guarigione dello storpio di Masolino da Panicale e di Masaccio passeggiano e conversano al centro della scena, indifferenti ai
due miracoli che si svolgono alle estremità della tela.
Masolino da Panicale e Masaccio, Guarigione dello storpio
e resurrezione di Tabita, Firenze, Cappella Brancacci
Un mazzocchio più elaborato è anche il copricapo del
giovane ritratto da Botticelli.
Ma questo copricapo non interessa certo i pittori per
un futile legame con la moda del tempo, o per lo
meno non Paolo Uccello. È la sua forma che affascina, quella di un toro sfaccettato la cui resa prospettica
può mettere a dura prova gli ingegni pittorici più addestrati e temerari.
in
Sandro Botticelli, Ritratto di giovane con
mazzocchio
Napoli, Museo civico “G. Filangeri”
Non solo Paolo Uccello è avvinto da questa forma.
Gli farà buona compagnia Piero della Francesca, che
nel suo De prospectiva pingendi lo descrive, lo studia
prospettiva e insegna come lo si debba costruire.
Paolo Uccello, Studio di prospettiva di un mazzocchio, Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi
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Piero della Francesca, Mazzocchio
De prospectiva pingendi, l.I XXVII
E poi Leonardo, che sul mazzocchio imbastisce una raffinata lezione di geometria. La
cura del dettaglio è meticolosissima, del solido sono mostrati i minimi dettagli, anche quelli
che dovrebbero apparire nascosti alla vista. L’immagine è riprodotta in perfetta simmetria
grazie all’uso del “ribaltamento” di una metà del disegno sull’altra metà del foglio, tramite
l’uso di forellini. Tanta minuzia era dovuta probabilmente all’intenzione dell’artista di realizzare un vero solido, in cera o in piombo.
Leonardo da Vinci, Mazzocchio, Milano, Biblioteca Ambrosiana, Codice Atlantico
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Le cose di Euclide
Tutti e tre questi artisti, Paolo, Piero e Leonardo, sono menti matematiche. Teorici in prima persona, intrattengono altresì legami stretti con scienziati coevi. Paolo Uccello inserisce
Antonio Manetti tra i grandi del suo tempo “col quale conferiva assai e ragionava delle cose
di Euclide”.18
Paolo Uccello, Cinque busti maschili, Parigi, Museo del Louvre
Piero della Francesca conosce certamente e forse è anche plagiato dal conterraneo Luca
Pacioli. Il quale, nel suo celebre De divina proportione, avrà il magnifico regalo delle illustrazioni leonardesche, commoventi riproduzioni di solidi, in cui geometria e poesia, rigore
e leggerezza si coniugano mirabilmente.
Questi sanno, ancor prima di Galileo, che la
natura è scritta nel linguaggio delle figure
geometriche. Nella ricerca appassionata
dell’essenza delle cose essi rendono il loro
omaggio a Platone che per primo lo aveva
affermato.
Leonardo da Vinci, Illustrazioni per il De divina proportione di Luca Pacioli, Milano, Biblioteca Ambrosiana
Per Platone il cosmo, il mondo sottratto al
caos, si regge sull’ordine e la simmetria. I
quattro elementi che costituiscono la realtà
sono altrettanti solidi regolari e il più complesso, non ascrivibile alla realtà terrena, il
dodecaedro, diventa la cifra dell’universo
intero.19
18
Giorgio Vasari attribuisce questa tavola a Masaccio nella prima edizione delle Vite, successivamente la descrive come
opera di Paolo Uccello. “Amò Paulo, sebbene era persona stratta, la virtù degli artefici suoi; e perché ne rimanesse ai
posteri memoria, ritrasse di sua mano, in una tavola lunga, cinque uomini segnalati, e la teneva in casa per memoria
loro; l’uno era Giotto pittore, per il lume e il principio dell’arte; Filippo di ser Brunelleschi il secondo per l’architetura;
Donatello per la scultura; e se stesso per la prospettiva et animali; e per la matematica Giovanni Manetti, suo amico, col
quale conferiva assai e ragionava delle cose di Euclide”. L’attribuzione di quest’opera è ancora dubbia, non è escluso
che si tratti di un rifacimento successivo.
19
Nelle opere platoniche della vecchiaia la matematica assume un’importanza fondamentale. In particolare nel Timeo il
filosofo afferma che la realtà naturale è composta da quattro elementi i quali a loro volta sono riferibili ad altrettanti poliedri regolari, che verranno poi detti solidi platonici. La terra corrisponderebbe al cubo, l’acqua all’icosaedro, il fuoco
al tetraedro, l’aria all’ottaedro. Del quinto poliedro regolare, il dodecaedro, non viene specificata la funzione. Successivamente sarà identificato con l’aristotelico etere o quintessenza. L’ultimo libro degli Elementi di Euclide è dedicato ai
cinque solidi platonici, ad alcune loro proprietà e relazioni e alla dimostrazione del fatto che non ne esistono altri.
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Platone e, due millenni dopo, artisti come Paolo Uccello e
Piero della Francesca, ci dicono che la realtà, per salvarsi dal
caos, deve essere imprigionata nella forma. Che poi questa
forma sia nella mente del sommo fattore, che risieda in un
mondo iperuranio o che sia l’uomo stesso a imprimerla alle
cose, è un dilemma sottinteso a ciascuna prova d’artista e al
quale ciascuno dà la sua risposta.
Allora lo studio della forma diventa spasmodico, si studiano i poliedri regolari, le loro relazioni, le loro complicate elaborazioni, i solidi archimedei, e naturalmente la loro collocazione nello spazio con tutte le implicazioni prospettiche che
ciò comporta. E la realtà si adegua a queste forme.
Tarsie prospettiche
Verona, Chiesa S. Maria in Organo
Il tracciato dell’ovale, nella sua magnifica essenzialità, diventa di volta in volta uovo, viso della vergine, volta della
cappella in Piero.20 Il mazzocchio può essere collare o copricapo in Paolo. Quanto più la forma è complessa da rappresentare, tanto più la sfida è stimolante.
Proprio nel Quattrocento nasce la professione dei “maestri
di prospettiva”, cioè quegli abilissimi artigiani che trasferivano in tarsie di legno, con la tecnica del mosaico, ciò che gli artisti avevano preparato per loro su carta. Non è escluso che i
magnifici disegni di Paolo, Piero, Leonardo stesso servissero da modello a questi maestri, di
cui possiamo ammirare prove eccelse nello studiolo del duca di Montefeltro a Urbino o in
tante chiese italiane.
Già negli esordi veneziani, quando probabilmente su spinta del
maestro Ghiberti fa le sue prime prove di prestigio, Paolo si cimenta
con la tecnica del mosaico e anche in questa manifesta la sua prodigiosa capacità di riprodurre, su un piano, la profondità dei corpi solidi più complessi. Non soltanto l’amata forma a ciambella contorna
una delle sue produzioni più significative; al centro di essa spicca
un’altra forma stupefacente, un dodecaedro stellato, quella stessa figura che quasi due secoli dopo Keplero presenterà nel suo Harmonices Mundi e la cui scoperta gli viene erroneamente attribuita.
L’aveva già scoperta Paolo Uccello.
Tarsie prospettiche
Urbino, palazzo Ducale,
Studiolo di Federico da
Montefeltro
20
Si veda la magnifica “presenza della forma ovale nella Sacra conversazione di Piero della Francesca, Milano, Accademia di Brera.
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La forma geometrica e la sua resa prospettica sono l’istanza primaria, secondaria è la
realtà di quanto raffigurato. È forse questo il motivo per cui dalle opere di Paolo, anche
quelle che rappresentano eventi drammatici o cruenti, è totalmente assente il senso della tragedia. Esiste solo lo spazio, non il tempo. Le azioni non si svolgono, si congelano, imprigionate come sono nei loro gioielli geometrici. E alcune forme più di altre si prestano a questo
scopo, a “investigare faticose e strane opere nell’arte della prospettiva”.21
Quale figura meglio del toro sfaccettato – il nostro mazzocchio – si presta a mettere a
fuoco tutte le opportunità di questa passione e ossessione?
Paolo Uccello, Dodecaedro stellato, mosaico, S. Marco, Venezia
21
Cfr. VASARI, G., op. cit. p. 252
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Una battaglia da favola
L’opera nella quale esso ricorre maggiormente è di sicuro, oltre al Diluvio, il trittico della Battaglia di S. Romano22, in particolare la seconda tavola.
Paolo Uccello, Battaglia di S. Romano: Niccolò da Tolentino alla testa dell’esercito fiorentino
Londra, National Gallery
Paolo Uccello, Battaglia di S. Romano: le milizie fiorentine sbaragliano le truppe senesi
Firenze, Galleria degli Uffizi
22
La battaglia si è svolta nel 1432 e si inscrive nel quadro dei conflitti tra Firenze e Siena, quest’ultima alleata dei Visconti. I fiorentini, in netta minoranza rispetto ai senesi, erano guidati da Niccolò da Tolentino che, nonostante l’inferiorità numerica, decise nel corso di una ricognizione di attaccare gli avversari. Quando l’esercito stava per essere sopraffatto, intervenne in soccorso una truppa guidata da Micheletto da Cotignola che accerchiò e costrinse alla fuga i senesi.
In realtà l’esito della battaglia non spostò gli equilibri e si risolse in un sostanziale nulla di fatto ma venne utilizzato dai
Medici per esaltare il proprio prestigio. Commissionata da Lionardo Bartolini Salimbeni, l’opera venne acquistata successivamente da Lorenzo il Magnifico e rimase nel palazzo che fu venduto nel 1659 ai Riccardi. Alla fine del 1700 le
tavole giunsero agli Uffizi dove si decise di tenere quella meglio conservata mentre le altre due, ritenute inutili doppioni, furono acquistate nella seconda metà dell’Ottocento dalla National Gallery di Londra e dal Louvre di Parigi. Le tavole vanno lette secondo questa sequenza cronologica:
Tavola 1 (National Gallery): Niccolò da Tolentino attacca l’esercito senese.
Tavola 2 (Uffizi): Bernardino della Ciarda, alla testa delle truppe senesi, viene disarcionato.
Tavola 3 (Louvre): Micheletto da Cotignola giunge dalla parte opposta e mette in fuga i senesi.
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Paolo Uccello, Battaglia di S. Romano:
intervento nella battaglia di Micheletto da Cotignola, Parigi, Louvre
Una battaglia che ha ben poco di drammatico quella che ci rappresenta questo grande
poeta malato di prospettiva. La grandezza dell’opera non sta certo nella resa naturalistica e
meno che mai nell’intento celebrativo di un evento assai poco celebre, effetti che certamente
Paolo non ha mai ricercato.
Su un meraviglioso sfondo di campagna coltivata guerrieri esili come giunchi, colorati
come fioriture primaverili, si affrontano con la stessa leggerezza con cui, sullo stesso scenario, levrieri e lepri giocano a rincorrersi, in un affronto che assolutamente nulla ha di tragico.
In primo piano si svolge – anzi no, lo “svolgersi” non è di questa storia – la battaglia, relegata in una dimensione atemporale. Lo scontro diventa gesto congelato, le terribili lance –
che tanto hanno suggerito ad artisti venuti molto tempo dopo23 – sono un magnifico fondale
che stabilisce equilibri di linee e superfici. Le armature metalliche non fanno paura a nessuno, il materiale di cui sono fatte, insieme a quello delle borchie lucenti, assorbe e riflette i
colori inusitati con cui l’evento viene rappresentato, soprattutto quel rosso di cui solo Paolo
è capace.24 Un rosso che non è quello del sangue, come uno scontro armato potrebbe far
supporre, ma è quello delle bardature dei cavalli, delle lance, delle calze bicolori dei guerrieri in lontananza, dei pennacchi, degli stendardi, di quell’atmosfera crepuscolare che avvolge
soprattutto la seconda scena, prima che la notte scenda sull’ultima rappresentazione e la battaglia si concluda con l’intervento salvifico di Micheletto da Cotignola.
È proprio nella seconda tavola, quella degli Uffizi, che ricorre con maggiore frequenza il
mazzocchio, privato della sua funzione pratica – quale guerriero mai si sognerebbe di andare in battaglia con un copricapo così ingombrante e scarsamente protettivo? – e ridotto a
puro elemento decorativo, tanto più che viene rappresentato non come morbida ciambella di
panno ma come rigido toro geometrico sfaccettato, quel poliedro che tanto ha coinvolto
l’artista nei suoi disegni di prospettiva.
23
È noto che il grande regista russo Sergej Michajlovič Ėjzenštejn si è ispirato alla battaglia di Paolo Uccello nella sceneggiatura della famosa battaglia sul lago ghiacciato nel film Aleksandr Nevskij. Analoga ispirazione ha tratto il giapponese Akira Kurosawa per alcune scene di La fine degli Ichimonji.
24
Mettendo a frutto l’esperienza maturata nella bottega di Lorenzo Ghiberti, Paolo utilizzò lamine di metallo prezioso,
in particolare oro e argento, per ricoprire le corazze, velate successivamente con una resina organica, il “sangue di drago” di cui è ignota la ricetta. Successivi restauri sostituirono l’argento con lo stagno, che non ha lo stesso potere riflettente e che rese inevitabile l’asportazione delle velature, modificando inesorabilmente i rapporti tra i colori. Per saperne
di più cfr. La battaglia di San Romano, Firenze, Giunti, 1998, testo di Diletta Corsini, pp. 22-24.
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Funzione decorativa quindi ma non gratuita. Ogni oggetto occupa uno spazio ben preciso, in mirabile equilibrio col riempimento di altri spazi attraverso altri volumi. Ad esempio,
quei cavalli così lontani da riferimenti naturalistici, con il loro scalciare liberano uno spazio
che alle loro spalle al contrario si addensa nella folla spersonalizzata dei guerrieri armati.
In questo modo la tavola dipinta respira attraverso i pieni e i vuoti, ma anche attraverso
l’intrecciarsi di prospettive diverse, l’accostarsi di colori complementari, in un tessuto armonico che sarebbe riduttivo ricondurre alle suggestioni fiabesche del tardo-gotico ma che ha
tutta la poesia e la leggerezza di un sapiente gioco matematico. Per dirla con Alessandro
Parronchi: “[…] in Giotto l’equivalenza dei pieni e dei vuoti si era affermata eroicamente.
Ma Paolo sembra abbia trovato per renderla certa una legge di proporzione di esattezza matematica.”25
Lo stesso rigore che detta il sapiente alternarsi delle forme, indipendentemente dal loro
aderire alla realtà, detta all’artista l’uso dei colori, in quello che viene definito “il sintetismo
di forma-colore”. 26
Vasari sottolinea criticamente che Paolo “[…] non osservò molta unione di far d’un solo
colore, come si debbono fare le storie, delle quali fece i campi azzurri, le città di color rosso,
e gli edifici mescolò secondo che gli parve […].”27 Quel che gli viene rimproverato, il non
raffigurare le storie come si deve, altro non è che un esercizio esperto di accostamenti complementari, in cui gli azzurri “assurdamente” attribuiti alle bardature o agli stessi cavalli si
accostano ai rossi distribuiti in maniera altrettanto inconsueta. E questo utilizzo eretico del
colore è in sintonia con l’uso altrettanto eretico della prospettiva, così rigoroso da un lato
ma anche così lontano dall’impiego che ne fanno altri grandi a lui vicini, come Donatello o
Piero.
Contrariamente alla rigorosa prospettiva di Piero della Francesca, quella di Paolo Uccello, osserva Argan,…
“[…] rimane una proiezione sul piano: e sul piano si scompongono le figure nell’astratta geometria delle armature, sul piano si scompone il chiaroscuro formando zone giustapposte, sul piano si
risolve il rilievo rappresentato dalle curve perfette dei contorni, sul piano il colore forma come un
intarsio di zone piatte e ritagliate, sul piano la luce si immedesima col colore.”28
La policromia viene studiata con particolare attenzione; lo testimoniano proprio quei
mazzocchi policromi che tanto hanno suggerito, come sfida, anche a scienziati di tempi a
noi vicini.29
Uso astratto quindi, delle forme e dei colori, astratto come quei morti in primo piano, uomini o cavalli, che si dispongono come fantocci insieme ai resti dei loro attributi che si di25
PARRONCHI, Alessandro, Le fonti di Paolo Uccello. I “perspettivi passati”, in “Paragone”, 1957, cit. in L’opera completa di Paolo Uccello, Milano, Rizzoli, 1971, p.14.
26
LONGHI, Roberto, Piero dei Franceschi e lo sviluppo della pittura veneziana, in “L’arte”, 1914, cit. in L’opera completa di Paolo Uccello, Milano, Rizzoli, 1971. L’autore afferma che a Paolo “[…] la prospettiva […] serviva ad intenti
coloristici”, ivi p. 14.
27
Cfr. Vasari, G., op. cit., p. 237.
28
ARGAN, G.C., op. cit. p. 187.
29
Sul toro geometrico, che si potrebbe definire l’archetipo del mazzocchio, non valgono alcuni teoremi della geometria
piana. Ad esempio, non vale il teorema dei quattro colori. Suddivisa in regioni la superficie di un toro, se si vuole evitare che due regioni confinanti abbiano lo stesso colore, di colori ne occorrono almeno sette. Per saperne di più:
http://mathesis.dti.unimi.it/4colori.htm
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sfano – selle fuori posto, lance spezzate, elmi sbalzati lontano – che nulla hanno di naturale.
In essi non c’è traccia di morte perché non c’è stata traccia di vita, puri automi che forse la
dicono lunga sulla verità della morte e della vita.
La fissità attonita di un evento colto come un fermo-immagine e la visione del mondo incantata o disincantata? – che la sottende è ben colta da Ennio Flaiano nella sua intervista
immaginaria, che così fa parlare in prima persona l’artista, in un italiano ironicamente moderno e infarcito di anglicismi:
“Vista dall’alto, una battaglia può sembrare una festa campestre, vista dal combattente, è soltanto confusione, paura e dolore. La verità è nel mezzo, ogni battaglia è un happening, con la logica ferrea che la fa mostruosa poiché si trasforma, nello stesso attimo in cui si realizza, in un continuo mobile. Restano di una battaglia alcuni flashes, non necessariamente cronologici e prospettivi.
Resta lo stupore dei cavalli bianchi e neri, e anche di quelli rosa e celeste, lo stesso stupore arrogante dei cavalli delle giostre. Resta l’immobilità dei cavalieri, i loro gesti fissati negli attimi che
precedono la morte. […] I cavalli e i cavalieri di San Romano […] sono parati per la festa della
loro tragedia, impassibili. […] La conoscenza della prospettiva mi è servita per dominarla, e rendere assurdi, fuori posto, come in un sogno o in un turbine, i particolari: i mazzocchi, gli abbigliamenti, i piumaggi, i turbanti; ma ogni oggetto ha un suo proprio punto di fuga, il che dà all’insieme
un che di strabico, lo strabismo di Venere, of course, quello che rende impenetrabile il volto della
dea.”30
Paolo Uccello, Battaglia di S. Romano (Uffizi), dettaglio
Paolo Uccello, Battaglia di S. Romano (Uffizi), dettaglio
30
L’opera completa di Paolo Uccello, serie I classici dell’arte n. 46, Rizzoli, Milano, 1971 p. 6.
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Paolo Uccello, Battaglia di S. Romano (Uffizi),
dettaglio
Paolo Uccello, Battaglia di S. Romano (Louvre),
dettaglio
Anche i sontuosi copricapo dei due condottieri, Niccolò da Tolentino e Micheletto da
Cotignola, pur se non proprio mazzocchi, ammiccano certamente alla forma del loro solido
di riferimento, il toro.
Paolo Uccello, Battaglia di S. Romano (National Gallery),
dettaglio
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Paolo Uccello, Battaglia di S. Romano (Louvre,
dettaglio
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Una forma archetipica
Il mazzocchio, forma archetipica senza tempo, continua ad esercitare il suo fascino, sia
tra i teorici sia tra gli artisti, fino ai nostri giorni.
Tra i primi si ricorda G.J.Kern31 che studia e disegna un’ipotesi32 per la sua costruzione e
sostiene la tesi che l’artista, nella realizzazione del Calice, si sia avvalso degli stessi procedimenti richiesti per la costruzione del mazzocchio.
Paolo Uccello, Calice
Firenze, Galleria degli Uffizi
G.J. Kern, Ipotesi per la costruzione del
mazzocchio di Paolo Uccello
Successivamente Alan e Judith Ferr Tormey33, nel sottolineare il rapporto tra artisti come
Paolo Uccello e Piero della Francesca e gli intagliatori “maestri di prospettiva” – di cui esistevano ben 84 botteghe nella Firenze del tempo! – descrivono passo per passo come sia
possibile disegnare in prospettiva un mazzocchio.34
31
Cfr.KERN, G.J., Der mazzocchio Des Paolo Uccello, in Jahrbuch der königlich preussischen Kunstsammlungen, 36,
1915, pp.13-38.
32
Cfr. EMMER, Michele (a cura di), Matematica e cultura 2008, Springer, Milano, 2008, p.116.
33
TORMEY FERR, Alan e Judith, Renaissance Intarsia: the Art of Geometry, in Scientific American, 1982.
34
Per saperne di più cfr. EMMER, Michele (a cura di), op. cit., pp.111-122. E inoltre BELARDI, Paolo, La Scienza del Disegno. Dai poliedri stellati di Paolo Uccello al remote control di Galeazzo Alessi, in L’Accademia riflette sulla sua storia. Perugia e le origini dell’Accademia del Disegno. Secoli XVI e XVII. Atti del convegno (Perugia, Palazzo Graziani,
19 maggio 2011).
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Tra gli artisti contemporanei invece la mente corre immediatamente all’anello di Mimmo
Paladino nell’Ara Pacis a Roma. Così si esprime l’artista nel corso di un’intervista:
“Questo lavoro, il grande cerchio nero, è proprio ispirato al “mazzocco” [sic] di Paolo Uccello: è un elemento di gioco che lui adattava a copricapo delle sue figure, ma è anche un segno guerresco ed un elemento del pensiero. Mi affascina questa capacità di trasformare una figura geometrica, di studio, in un’immagine fiabesca e fantastica, anche se ritengo che alla base di ogni progetto artistico ci sia sempre una riflessione logica, direi razionale. È necessaria un’ancora razionale,
anche se poi viene stravolta dall’intuizione geniale dei diversi artisti.” 35
Mimmo Paladino, Senza titolo, Roma, Ara Pacis
35
PIRANI,
Federica, conversazione con Mimmo Paladino, catalogo della mostra 2008.
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Nel 1994 l’Unione Industriali della città di Prato, in occasione del cinquantesimo anniversario della ricostruzione postbellica, volle acquisire e mettere a disposizione della comunità cittadina una gigantesca installazione che evoca anche nel titolo il solido così amato da
Paolo Uccello. Autori dell’opera sono gli artisti Ben Jakober e Yannick Vu, che hanno riprodotto in grande scala e con materiale industriale, in forma “aerea”, questa figura tridimensionale che i critici hanno definito “allegoria del concetto di esattezza”.
Ben Jacober, Jannick Vu, Mazzocchio, Mura di Porta Frascati, Prato
Non è tutto. Deve essere una forma davvero speciale quella del mazzocchio, anzi del toro
geometrico suo padre, se è capace di irrompere da protagonista anche in altri contesti, così
diversi dal mondo dell’arte.
Ad esempio, la matematica ci racconta le meraviglie di una superficie che si ribella alle
regole del piano euclideo e che, pur nella sua continuità, raccoglie le istanze opposte della
geometria ellittica e di quella iperbolica. E in topologia questa figura assume un’importanza
fondamentale.
Anche la fisica ne decanta le meraviglie e si spinge fino a considerare il toro come la forma perfetta di un sistema capace di auto-organizzarsi, l’universo per esempio. Non è poco.
Ma queste sono altre storie, è bene che altri le raccontino…36
36
Per saperne di più, solo a titolo di esempio e di introduzione, cfr.: LAZZARINI, Paolo, Modelli per la geometria non euclidea, http://users.libero.it/prof.lazzarini/
Per la fisica cfr. il sito La forma dell’universo, http://it.wikipedia.org/wiki/Forma_dell%27universo
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Il destino di un artista “povero et intenebrato”
Paolo Uccello, artista scomodo e geniale, torna a far discutere i critici, oggi come allora.
Se l’interesse continua al di là dei secoli, altrettanto succede per l’ambivalenza dei giudizi
nei suoi confronti.
I contemporanei e coloro che vissero immediatamente dopo di lui spesso ignorarono, a
volte sminuirono esplicitamente l’opera di questo grande che ebbe il demerito di scostarsi
dai canoni della produzione corrente e imprigionò la sua originalità nel chiuso di una ombrosa ritrosia. Conosciamo l’opinione di Vasari, che un secolo dopo lo rimproverava di “investigare faticose e strane opere nell’arte della prospettiva; e dentro tanto tempo vi consumò, che se nelle figure avesse fatto il medesimo, ancora che molto buone le facesse, più raro
e più mirabile sarebbe divenuto.”37
Analogamente Raffaello Borghini, alla fine del Cinquecento, ricalcava il giudizio di Vasari:
“[…] Paolo Uccello, che molto valse nel dipignere gli animali, e specialmente gli uccelli, onde
ne acquistò il cognome d’Uccello, se quel tempo, che egli lungamente pose nel ritrovare le regole
della prospettiva a un punto, nel dar modo del mettere le figure su’ piani, dove posano i piedi e farle di mano in mano scortare e diminuire, acciocché a proposito sfuggissero, l’avesse speso nella
pittura solamente, sarebbe forse salito a maggiore perfezione dell’arte ch’egli non fece.”38
Ad onta della totale assenza di volatili nelle opere che di lui ci sono giunte39, sappiamo
così l’origine di questo soprannome che ci fa sorridere ma di cui l’artista stesso andava piuttosto fiero, tant’è che con esso esplicitamente si firma in alcune delle sue opere più famose.
Due secoli dopo un altro critico severo, Luigi Lanzi, taccia il pittore di mediocrità e di
artificiosità.40
Al contrario altri già ne riconoscevano, pur se non nell’immediato, le notevoli qualità.
Come Filippo Baldinucci che, alla fine del Seicento, gli attribuiva grande perizia pur lasciandolo nell’ombra del maestro Brunelleschi.41 Tuttavia le doti, per quanto eccelse, venivano esaltate sempre nell’ambito delle competenze scientifiche e dell’abilità artigianale: insomma, Paolo non era ancora annoverato a pieno titolo fra gli artisti, quel suo tradire la verosimiglianza continuava a creare imbarazzo tra i critici.
Solo alla fine dell’Ottocento il giudizio del grande critico Giovanni Battista Cavalcaselle
sarà davvero entusiastico e di carattere squisitamente stilistico:
“[…] È tale lo studio posto in ogni particolare, che ci fa credere aver Paolo voluto affrontare in
una sola volta tutte le difficoltà per vincerle, quella compresa della razionale disposizione della
luce e delle ombre e della loro proiezione sui corpi in accordo con la prospettiva lineare. In una
37
VASARI, G.,
38
BORGHINI,
op. cit. p.252.
Raffaello, Il Riposo, cfr. L’opera completa di Paolo Uccello, op. cit., p.11.
39
“[…] il tema vero delle più famose opere di Paolo arrivate fino a noi è l’assenza degli uccelli, un’assenza che pesa
nell’aria, allarmante, minacciosa, ominosa” osserva Italo Calvino, così vicino all’arte e alla poesia di Paolo, in un delizioso ironico scritto. Cfr. CALVINO Italo, Gli uccelli di Paolo Uccello, testo per le incisioni di Dario Serra, Milano 1977.
40
LANZI, Luigi, Storia pittorica dello abate Luigi Lanzi, cfr. L’opera completa di Paolo Uccello, op. cit., p. 11.
41
BALDINUCCI, Filippo, Notizie de’ professori del disegno da Cimabue in qua, cfr. L’opera completa di Paolo Uccello,
p. 11.
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parola, in questa grande e complessa composizione [il Diluvio] è quasi stato condensato ogni progresso fatto fino allora dall’arte fiorentina, superiore in quel tempo a quella di ogni altro paese.”42
Alcuni aneddoti sulla vita di Paolo Uccello, tanto gustosi quanto poco credibili, ci restituiscono l’immagine di un solitario talmente preso dalla sua passione, la prospettiva, da trascurare le grazie e gli inviti della giovane moglie che lo chiamava al talamo coniugale e alla
quale rispondeva dal suo scrittoio: “O che dolce cosa è questa prospettiva!”43
Oppure di un marito crudele, capace addirittura di far morire di inedia la sua sposa senza
accorgersene o, peggio, di cogliere anche su di lei morta solo l’aspetto delle forme, del viso
che si sfalda, della bellezza che svanisce e nulla di più. Così Marcel Schwobb, nella ricostruzione immaginaria della vita di Paolo, ne interpreta la “candida disumanità”44:
“[…] Tacque e si lasciò morire. Uccello rappresentò l' irrigidimento del suo corpo e le piccole
mani giunte, così dimagrite, e la linea dei poveri occhi chiusi. Non seppe che era morta, come non
sapeva che fosse viva. Ma buttò queste nuove forme tra tutte quelle che aveva già radunate.”45
Un altro aneddoto riportato da Vasari lascia filtrare la distanza abissale che separa Paolo
oramai vecchio, totalmente assorbito dalla sua ricerca pittorica, dai suoi colleghi,
quand’anche del calibro di Donatello. Incaricato di dipingere un San Tommaso “che a Cristo cerca la piaga […] quivi ogni suo studio mise in fare opra che per ultima desse fine alla
sua vecchiaia. Et in questo termine usò dire che voleva mostrar allora tutto quello che valeva e sapeva.”46 Quale non fu la sua delusione quando il celebre collega, messo di fronte
all’opera finalmente compiuta e scoperta, dopo essere stata gelosamente nascosta dietro una
“serrata di tavole”, così lo apostrofò: “Eh Paulo, ora che sarebbe tempo di coprire e tu scuopri”.47 Il severo giudizio fu devastante per l’artista. “Allora s’attristò Paulo grandemente, e
sentendosi avere di questa ultima sua fatica molto più biasimo, che e’ non aspettava di averne lode, si rinchiuse in casa, non avendo ardire come avvilito uscire più fuora. Et attese alla
prospettiva, la quale lo tenne povero et intenebrato sino alla morte.”48
L’opera, cui anche altre fonti fanno riferimento49, purtroppo è andata perduta. Chissà a
quale livello di astrazione era approdato Paolo nella sua solitaria ricerca.
L’ambivalenza di giudizio che ha tormentato in vita questo genio anomalo non si è attenuata nel corso degli anni. Numerosi i tentativi di relegarlo a margine, pur nel riconoscimento di una innegabile carica seduttiva.
Anche in tempi relativamente recenti, raggiunto oramai Paolo il suo posto di rilievo nel
mondo dell’arte, non sono mancate stroncature pesanti. Ad esempio, non sembra lo stesso
Bernard Berenson – quello che ha scritto parole meravigliose su Piero della Francesca – colui che così severamente si esprime su di lui:
42
CAVALCASELLE, G.B.,
43
VASARI, G.,
Storia della pittura italiana, 1892, cfr. L’opera completa di Paolo Uccello, op. cit., p. 11.
op. cit. p. 241.
44
L’espressione è di Vittorio Sgarbi. Cfr. Corriere della sera, 14 ottobre 2004.
45
Cfr. SCHWOBB, Marcel, op. cit. p.62.
46
Cfr. VASARI, op. cit. p. 257.
47
Cfr. VASARI, ivi.
48
Cfr. VASARI, ivi.
49
Questo San Tommaso è citato anche nel Libro di Antonio Billi e dall’Anonimo Magliabechiano, due manoscritti cinquecenteschi preziosissimi come fonti di informazione sull’arte italiana.
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“Paolo Uccello ebbe il senso dei valori tattili e gusto del colore; ma non impiegò codesti toni
che a illustrare teoremi scientifici. La sua vera passione era la prospettiva; per lui la pittura non fu
che l’occasione per risolvere problemi di tale scienza ed esibire la sua maestria nel sormontare le
difficoltà. Di conseguenza nelle sue composizioni tracciò quante più linee possibili per avviare
l’occhio nel senso della profondità spaziale. Cavalli riversi, guerrieri morti o morenti, lance rotte,
campi arati ed arche di Noè gli servono con appena un’ombra di dissimulazione per i suoi impianti
di linee matematicamente convergenti. Nel suo zelo egli dimenticò il colore reale – gli piaceva dipingere i cavalli in verde e rosa -, dimenticò l’azione, la composizione e, se occorresse aggiungerlo, dimenticò i significati. Nei suoi quadri di battaglie non è un’azione coerente, di qualsiasi sorta;
ma si ha l’impressione di assistere ad uno schieramento di automi, i cui gesti meccanici a un tratto
son rimasti paralizzati per via di qualche inceppamento dell’ordigno. Nell’affresco del Diluvio talmente era gremito lo spazio con ostentazioni di abilità nella prospettiva e nello scorcio, che in luogo di suggerirci i terrori d’un cataclisma, ottiene, al più, di farci pensare alla gualchiera di un mulino.”50
Roberto Longhi, con un’acredine che lascia senza parole, lo definisce “artigiano concettoso”.51 Ma forse le sue punte acuminate sono rivolte più ai surrealisti – che stanno rivalutando Paolo, siamo nel 1940 – che non all’artista al quale ha dedicato, in altre sedi, ben altre
parole.52
Il passare del tempo continua a rendere giustizia a questo pittore la cui fortuna critica è
oramai indiscussa. Lungo e inevitabilmente incompleto sarebbe l’elenco per additare anche
solo le voci più famose e accreditate.
Le contraddizioni di cui veniva tacciato – uso incongruo e frammentario della prospettiva, uso paradossale del colore – tendono ora ad essere considerate come altrettante geniali
anticipazioni del gusto moderno.
La seduzione di una visione matematica, che in lui certamente è forte, non è più vista
come una deriva in un territorio che all’arte non appartiene. Anche la componente artigianale, che tanto lo fa accostare ai maestri di prospettiva, diventa pregio e non difetto.
Le varie sfaccettature del suo genio si vanno quindi ricomponendo in unità, come quella
magnifica superficie a forma di ciambella tanto da lui amata, e ci restituiscono l’immagine
di chi attraverso l’arte è andato oltre l’arte, in quella regione iperuranica in cui la visione
empirica si trasforma in visione intellettuale. Piace concludere con le parole di Giulio Carlo
Argan quando dice che
“[…] quella di Paolo Uccello è un’ironia quasi socratica, l’ironia del saggio che, avvezzo a contemplare le verità superiori, non può non notare come siano strane e incoerenti le sembianze raccolte dall’esperienza empirica.”53
Dedico questo lavoro agli insegnanti di storia dell’arte,
alla mia in particolare, di tanti anni fa,
che forse non c’è più,
che certamente non leggerà queste righe,
alla quale devo tutto il mio amore per Paolo Uccello.
[A.F.]
50
Cfr. BERENSON, Bernard, I pittori italiani del Rinascimento, Rizzoli, Milano, p.85.
Cfr. LONGHI, Roberto, Fatti di Masolino e di Masaccio, in Critica d’arte, 1940, cfr. L’opera completa di Paolo Uccello, op. cit.,p. 13.
52
In Piero dei Franceschi e lo sviluppo della pittura veneziana, in L’arte, 1914, Roberto Longhi coglie l’eccelsa capacità coloristica di Paolo Uccello e parla per la prima volta di “sintetismo prospettico forma-colore”.
53
Cfr. ARGAN, G.C. in L’opera completa di Paolo Uccello, op. cit., p. 14.
51
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