16 anni Il cielo stellato sopra di me e la legge morale… mah, quella
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16 anni Il cielo stellato sopra di me e la legge morale… mah, quella
16 anni Il cielo stellato sopra di me e la legge morale… mah, quella era nascosta, in stato confusionale, perché sotto il maestoso cielo d’India anche la legge morale diventa incerta… Il cielo… Strano il cielo in India, ancor più strano in Bengala. A Kolkata quasi non riuscivo a vederlo, troppo impegnata a guardare in basso, le strade, i marciapiedi brulicanti umanità. E poi gli odori, i fumi densi che rendevano scuri anche i meravigliosi sari colorati, quei fumi che mi impedivano di alzare lo sguardo al cielo stellato sopra di me, quell’umanità sofferente, distesa per strada su letti di fortuna, che rendeva risibile la legge morale dentro di me… Poi, lontano dalla grande città, dove gli opposti convivono in un equilibrio fragile… nei villaggi, mi accoglie un altro cielo. Ampio, sconfinato, punteggiato da infinite luci, cielo che abbraccia una terra verde, liquida e fiorita, cielo che diventa improvvisamente scuro, regalando un’anticipazione di paradiso. Sotto questo cielo, dopo aver percorso le strade vorticose di Kolkata, le strade dove la vita e la morte si toccano e tu pensi che sia giunta la tua ora… sotto questo cielo, percorrendo queste strade, respirando la vita di villaggi tribali, fermi a epoche sconosciute, la strada divenne progressivamente più libera, fino ad essere quasi deserta. Solitaria da fare paura. Eravamo pochi, un manipolo di occidentali sperduti, arrivati alla lontana India ognuno con il proprio perché. E fu così che, sotto la volta luminosa del cielo indiano, circondati da niente di umano, avvolti dalla potenza arcana della natura vuota, giungemmo a “Chetana Community Care Centre”, meglio noto come CCCC, autentica cattedrale nel deserto. Una costruzione imponente, curata, un solido portone sovrastato dal fiocco rosso con cui sapevamo di doverci incontrare… fiocco rosso che delimita i confini più di qualsiasi recinzione. Muro invisibile che definisce il limite, evocando fantasmi e paure sepolte dentro ognuno di noi. Dobbiamo entrare. È proprio lì che vogliamo andare. Ognuno fa i conti con la propria legge morale, messa a dura prova dal tempo trascorso in India. Ci prepariamo a varcare la soglia di quello che immaginiamo essere un luogo di dolore, di solitudine e pianto, cerchiamo la forza nascosta, fughiamo la paura, ci prepariamo ma non c’è tempo… la porta si apre. Un mondo si apre. Venti bambini, venti sorrisi, venti visi radiosi, mani che porgono mazzi di fiori, quei fiori così belli in India… Ci accoglie il colore. Ci accoglie il calore. I bambini cantano per noi, ci regalano fiori e sorrisi. Hanno preparato il cerimoniale di benvenuto, sono composti, educati. Ma dura poco… Le file si scompongono. I bambini svelano la loro età, la loro energia e vitalità. Vivacità e allegria sono incontenibili. Siamo confusi, meravigliati. Sono confusa. Questa immagine non era prevista. Pensavo di piangere e invece mi fanno ridere. Bambini! Bambini di varie età, piccolissimi che non stanno in piedi, ragazzi alla soglia dell’adolescenza. Belli, puliti, luminosi, capelli neri e splendenti, con quegli occhi di luce con cui solo gli indiani ti sanno guardare. No, non ero preparata! Scherzi, urla, eccitazione, festa, gioia di vivere. Una gioia travolgente e contagiosa. I bambini ci accompagnano a visitare il loro mondo, la bella struttura che li accoglie. Sono orfani, sono sieropositivi, sono bambini. Quattro sorelle si uniscono a noi, presenza discreta, laterale. Ci guidano. “Non ha la madre.” Ci dice la suora, riferendosi alla bambina che le tiene la mano, con la spontaneità indiana che tanto urta la nostra delicata ipocrisia. “Ho quattro madri.” Risponde la bambina sorridente, abbracciando suor Grace. Mi sembra di vivere in un mondo a parte. La vecchia morale non mi aiuta. Suona una campana. Annuncia la cena. I bambini ci salutano. Si lavano le mani. Vanno a mangiare, poi a dormire. Una cuoca ha preparato la cena. Devono seguire un regime alimentare corretto, ritmi di vita compatibili con la loro malattia. Anche noi ceniamo. Cibo indiano preparato per noi. Poi il silenzio. In cerchio, decidiamo di parlare. Vogliamo capire, conoscere, portare a casa un ricordo netto, compiuto. Suor Grace comincia a raccontare. La malattia ha portato via quasi tutti i genitori dei bambini che abbiamo incontrato, ne ha lasciati in vita alcuni, ma sono deboli, malati, non possono occuparsi di loro. È terribile, in India, la malattia. Lo stigma uccide. Il marchio ti accompagna e ti allontana dal consesso civile. Non ti vuole il villaggio. Non ti vuole la scuola. Non ti vuole nessuno. “Abbiamo accolto questi bambini, ma ce ne sono altri. Non possiamo occuparci di tutti e piange il cuore. Lo stato passa la cura per l’HIV ma non basta. I bambini si ammalano anche di altro perché le loro difese sono fragili, si feriscono perché giocano e sono bambini, allora dobbiamo portarli in ospedale a nostre spese perché una ferita non è HIV. Poi devono mangiare, dormire, giocare, studiare. Devono fare i bambini. Lavoriamo molto. C’è una cuoca che cucina per tutti noi, poi una ragazza che ci aiuta, è molto giovane ed è già vedova, è malata nel corpo e nella mente, ma lavora con noi, anche i bambini più grandi ci aiutano un po’, come possono.” “Quale sarà il loro futuro?” Domando. E subito mi vergogno della mia domanda. Candidamente, una suora risponde: “Oh, possono sposarsi, se vogliono, per essere più sereni e aiutarsi vicendevolmente, ma non possono avere bambini. Devono usare il condom. Ma solo se diventano adulti… se arrivano all’età adulta. Forse moriranno prima. A 16 anni.” Il gelo ci invade. 16 anni. È questo il pensiero che mi dà la buonanotte nella stanza confortevole e pulita in cui sono alloggiata, nella grande casa chiamata CCCC. Dormo un sonno profondo. La sveglia suona presto. Viviamo la vita dei bambini, i loro orari, le loro abitudini. Hanno preparato uno spettacolo per noi, vogliono esibirsi nel loro splendore, attraverso il linguaggio universale della musica. Danzano, cantano, con i loro abiti lucenti e colorati. Una maestra ha insegnato loro la grazia e la leggiadria, i bambini si muovono leggeri, seguendo sonorità lontane, disegnando figure armoniose, in un crescendo di musica e poesia… Noi spettatori, seduti in una platea improvvisata, ci lasciamo trasportare dalla magia del suono; ognuno segue il proprio groviglio di pensieri. Rapita, catturata dalla spirale magica, contemplo la bellezza e mi stupisco di essere proprio io, proprio lì, davanti a bambini di cui ignoravo l’esistenza, partecipe di un rito antico e sconosciuto. Guardo fuori di me e non ci credo. Guardo dentro di me e un improvviso turbamento mi cattura. Visi, suoni, colori, note leggere, passi leggeri, sorrisi, bellezza, gioia, armonia, poi, improvvisamente, il buio. Tutto si spenge dentro di me. 16 anni. Parole forti e dure. Incidono nell’anima, con una lama d’acciaio, il senso di una devastante sconfitta. Mi gira la testa. Non controllo le emozioni. Provo fatica e dolore. Non trovo il perché. Non voglio mostrare le mie lacrime. Non voglio sciupare la festa, la gioia, la vita che, nonostante tutto, manifesta la propria potenza… Torno in me. Finiscono le danze… applausi, allegria, la stessa colorata e rumorosa allegria che tanto mi aveva stupita all’arrivo. Poi abbracciamo i bambini, parliamo, ci scambiamo parole affettuose, disegni, ricordi. Col cuore che trema, salutiamo quei bambini che vivono come se fossero eterni e penso che forse è proprio così che si deve vivere. La loro vita ha un termine. Ogni vita ha un termine. La mia vita ha un termine. Non conosco l’ora della fine, eppure vivo. Ripartiamo. Guardo ancora il cielo e guardo ancora dentro di me, cercando tracce di legge morale.