Comunicare il rischio – aspetti problematici in

Transcript

Comunicare il rischio – aspetti problematici in
Ottobre 2003
ISSN 1722-0831
Dicembre 2003 • Vol.4 - fasc.2
Flash dalla letteratura internazionale
Vaccinazione per epatite B e celiachia
Am J Gastroenterol 2003 Oct; 98 (10): 2289-92
Hepatitis B vaccine nonresponse and celiac disease
Noh KW, Poland GA, Murray JA
Esiste una predisposizione genetica alla non risposta al vaccino per l’epatite B, così come esiste una stretta associazione tra un particolare genotipo
HLA (HLA - DQ2) e la malattia celiaca. E’ stato ipotizzato che lo stesso genotipo HLA sia coinvolto nella non risposta al vaccino per l’epatite B. Lo studio ha valutato le schede di vaccinazione per epatite B, i test sierologici di
valutazione degli anticorpi anti Ag di superficie dell’epatite B (antiHBS) ed il
genotipo HLA dei pazienti celiaci identificati come non responders alla vaccinazione. I 23 soggetti con diagnosi di celiachia reclutati hanno tutti ricevuto la serie completa della vaccinazione per l’epatite B.Tra tutti è stato possibile verificare la risposta al vaccino di 19. Dei 19 (tutti soggetti omozigoti o
eterozigoti per DQ2), 13 non hanno sviluppato immunità a lungo termine (titolo anticorpale negativo).Poiché entrambe sono mediate geneticamente è
stato ipotizzato che la malattia celiaca possa influenzare la non risposta alla vaccinazione per l’epatite B. I pazienti celiaci potrebbero avere una risposta immune ridotta, ma il meccanismo patogenetico è ancora sconosciuto.
“Prevenendo”
Trimestrale di Medicina Preventiva
redatto a cura del
Dipartimento di Prevenzione ASL RmB
Viale Battista Bardanzellu, 8 00155 Roma
tel. 0641434906
fax 0641434957
e-mail: [email protected]
In questo
numero:
Proprietà
Negoziazione e appropriatezza scientifica
Azienda Unità Sanitaria Locale Roma B
Direttore responsabile
Fabrizio Ciaralli
Comunicare il rischio – aspetti
problematici in medicina
di famiglia
Guido Giustetto
Medico di Famiglia – ASL108 - Pino Torinese
• Comunicare il rischio –
aspetti problematici
in medicina di famiglia
Redazione
Rivista disponibile presso le seguenti biblioteche di Roma:Biblioteca della
Facoltà di Medicina e Chirurgia A.Gemelli-Biblioteca Medica Statale Biblioteca dell’Università Campus Biomedico.
Maria Giuseppina Bosco,
Matteo Ciavarella, Gaetano Di Pasquale,
Angela Marchetti, Pierangela Napoli,
Sergio Rovetta, Pietro Russo,
Barbara Troiani, Massimo Valenti,
Obesità negli adulti
Ann Intern Med 2003; 139: 930-932
Screening for obesity in Adults: Recommendations and Rationale
U.S. Preventive Services Task Force
L’articolo riassume le raccomandazioni dell’ U.S. Preventive Services Task
Force sullo screening per l’obesità negli adulti, disponibili integralmente sul
sito Web USPSTF (www.preventiveservices.gov) e sul sito Web National
Guideline Clearinghouse (www.guideline.gov).Per promuovere in modo efficace la perdita di peso negli adulti obesi, si raccomanda un’attività di counselling intensivo e interventi conmportamentali. Il counselling di moderata intensità (insieme ad interventi comportamentali) non è raccomandato
(assenza di evidenze sufficienti) per gli adulti obesi. Non c’è evidenza sufficiente per raccomandare o non raccomandare l’uso del counselling di ogni
intensità ed interventi comportamentali per promuovere la perdita di peso
sostenuta negli adulti i sovrappeso. Gli interventi più efficaci, per aiutare i
pazienti ad acquisire corrette abitudini alimentari e divenire fisicamente attivi, combinano educazione nutrizionale, dieta, counselling con strategie
comportamentali. Il calcolo del Body Mass Index [BMI = Kg/(h in metri)2] è
valido ed attendibile per identificare gli adulti ad elevato rischio di mortalità
e morbosità dovuti a sovrappeso ed obesità.
Rivista disponibile presso le seguenti biblioteche di Roma:Biblioteca della
Facoltà di Medicina e Chirurgia A.Gemelli-Biblioteca dell’ISS-Biblioteca del
Ministero della Salute-Biblioteca dell’Area Bio-Medica “Paolo Fasella” dell’Università degli Studi Tor Vergata-Biblioteca dell’Istituto di III Clinica Medica
della facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi La Sapienza.
Romano Zilli
Hanno collaborato a questo numero
20
Recensioni a cura di Luca Fersini, Valentina Rebella
Scuola di Specializzazione in Igiene e Medicina
Preventiva
Università Tor Vergata - Roma
• Medicina di famiglia,
disease management
e approccio per processi
(I PARTE)
Valter Accomasso, Giuseppe Cito,
Marinella D’Innocenzo, Luca Fersini,
Elisabetta Franco, Guido Giustetto,
Adele Magliano, Paolo Marini,
Elisabetta Pandolfi, Giuseppe Pingitore,
Valentina Rebella, Salvatore Tripodi
• Infestazioni da insetti
in ambienti confinati.
Una problematica
sanitaria emergente
• Nuovi modelli
organizzativi per
l’assistenza infermieristica
in italia: il modello
dell’ambulatorio
infermieristico territoriale
della asl roma B
• Screening per la sifilide in
gravidanza
Anno II numero 4
Autorizzazione Tribunale di Roma
del 20/12/2001 n.573
chiuso in redazione il 30/12/03
Il catalogo Italiano dei Periodici, tramite il quale è
possibile conoscere in quali biblioteche sono presenti i periodici, è reperibile all’indirizzo internet:
http://acnp.cib.unibo.it/cgi-ser/start/it/cnr/fp.html
• Mucca pazza
o uomo pazzo?
stampato in proprio
• Allergia alimentare
in pediatria: la prevenzione
dietetica
• Vaccinazione per epatite B
e celiachia
CHE COS’È IL RISCHIO
IN MEDICINA ?
La possibilità più o meno prevedibile di
subire un evento negativo per la salute.
Uno o più fattori (ipercolesterolemia,
ipertensione arteriosa, fumo di sigaretta,
sedentarietà, alimentazione eccessiva…ricovero in ospedale) detti, appunto,
di rischio possono aumentare la probabilità per il gruppo di persone nelle quali sono presenti di ammalarsi di una o più malattie o di subire eventi avversi.
La probabilità è un valore teorico, statistico ed è sempre calcolata e riferita alla popolazione;per esempio un individuo di 52
anni che appartenga ad una popolazione
di maschi, fumatori di 11-20 sigarette,
diabetici, con Pressione Arteriosa sistolica di 134 mmHg, con colesterolo totale di
240 mg/dl ha un rischio assoluto di andare incontro ad un primo evento cardiovascolare maggiore del 20-40 % nei successivi 10 anni.
Questo calcolo è basato sull’osservazione nel tempo di molti individui, dei quali si
classificano e registrano alcune caratteristiche (sesso, abitudine al fumo, presenza di diabete e di ipercolesterolemia,
valori di Pressione Arteriosa, per esempio) per vedere chi di loro avrà un infarto,
un ictus, l’angina, ecc.; tali eventi sono
poi correlati alle caratteristiche studiate e
a ciascuna di queste viene attribuito un
peso correlato alla sua forza nel “determinare” l’evento.
È evidente come tale calcolo nulla dica
sullo specifico destino di un singolo paziente che per infinite altre caratteristiche
(razza, familiarità, lavoro, status socia-
le…) non indagate, può discostarsi anche molto dalla popolazione statistica a
cui dovrebbe corrispondere.
Il guaio è che al paziente interessa conoscere (e discutere) proprio questa sua
probabilità di avere qualche malattia, prima di decidere se darsi da fare per modificare le sue normali abitudini di vita, nelle quali può non essere previsto di mangiare cibi poco grassi e almeno 5 porzioni al giorno tra frutta e verdura, di salare di
meno, di passeggiare 40 minuti a passo
svelto almeno 4 volte la settimana, di non
fumare, o addirittura di assumere regolarmente qualche pillola.
Dunque la comunicazione e l’informazione sul rischio al singolo paziente presentano proprio questa differenza di modello
di conoscenza, come prima difficoltà.
Ad essa si aggiungono altri fattori che
possono condizionare la qualità della comunicazione e sono legati al suo oggetto,
al contesto in cui essa avviene, ai valori
inerenti le abitudini di vita e alle convinzioni a proposito degli interventi di prevenzione della coppia medico-paziente e
infine allo stile comunicativo del medico.
OGGETTO
Di quale rischio vogliamo parlare ?
Rischio operatorio
“Dottore, cosa vuol dire per me che l’intervento che devo eseguire ha un rischio
del 2 per 1000 di avere delle complicazioni ? Non sarò mica io uno di quei due ?
Come faccio a saperlo ?”
Rischio di effetti collaterali
“Mi sono letto il bugiardino del nuovo far-
1
Ottobre 2003
maco che mi ha prescritto. Guardi, io ho
tanta fiducia in Lei, dottore, però ho capito che può farmi venire un’emorragia
mortale. A questo punto non l’ho mica
preso: tanto vale rischiare che mi venga
una trombosi, se davvero mi deve venire,
piuttosto che mettermi nei guai con le
mie mani, assumendo questa medicina”
Rischio di ammalarsi per
la presenza di un fattore di rischio
“Mi spiega perché mio fratello che ha il
colesterolo alto come me prende la medicina senza pagarla (lui paga solo il ticket) e io me la devo pagare tutta ? Va bene che lui è più vecchio di me e ha avuto
un infarto, e ha più rischi di peggiorare,
ma non servirebbe per la prevenzione
questa medicina ?”
(Donna giovane senza altri fattori di rischio. Non rientra nella prescrizione di
statine a carico SSN secondo nota CUF)
CONTESTO
È il medico che propone o è il paziente
che richiede ?
Medicina di iniziativa
“Signor Rossi, Le telefono per ricordarLe
di venire in studio a controllare la pressione, mi sembra che sia da un anno che
non ci vediamo, e avevamo lasciato in
sospeso di decidere se cominciare a
prendere una pastiglia, …sa, non vorrei
che rischiasse….”
Un medico molto convinto prende l’iniziativa ed esplica una forte pressione.
Medicina di opportunità
“Sai Viviana, non tutto il male viene per
nuocere, visto che sei passata da me per
la distorsione del ginocchio, ne approfitto
per prescriverti un pap test. Non te lo
avevo ancora proposto, ma è un controllo che alla tua età conviene fare con regolarità per evitare il tumore del collo dell’utero…. (Segue spiegazione)”.
Iniziativa del medico, partendo da una richiesta (d’altro tipo) della paziente.
Medicina d’attesa-consultazione
Paziente, di fronte al medico, porgendogli un referto di analisi:
“Dottore, ho visto che il mio colesterolo è
un po’alto. Alla mia età sono a rischio per
l’infarto ?”
Questa è la condizione ottimale in cui
può svilupparsi un dialogo soddisfacente sul rischio, perché è il paziente che
2
prende l’iniziativa e quindi non ci sono
dubbi che sia interessato ad affrontare il
problema.
I VALORI DEL MEDICO
E DEL PAZIENTE – LA PROPENSIONE
ALLA PREVENZIONE
I valori e le convinzioni personali
Il medico può essere più o meno convinto del valore della prevenzione e di conseguenza della necessità di valutare insieme con il paziente i suoi fattori di rischio.
Inoltre ciascun medico ha dei suoi propri
valori su ciò che è bene fare o non fare
spesso strettamente correlati alle proprie abitudini e non a evidenze scientifiche. Per esempio è stato documentato
che i medici fumatori sono meno propensi a consigliare ai propri pazienti di smettere di fumare.
Questo è assolutamente normale ma
non dovrebbe capitare che vengano propagandate delle convinzioni del tutto
personali (specie salutiste o legate a particolari idee del tipo “mangiare la carne fa
male”) come se fossero dei messaggi di
provato valore scientifico (valore assunto proprio dal fatto che lo dice il dottore).
Della stessa pasta, anche se apparentemente meno strutturati e più alla buona
sono quei colleghi che hanno l’idea di diffondere il proprio buon senso (“Ma cosa
vuole che sia tutta questa moda sui fattori di rischio. Faccia come me: prenda un
po’ di tutto senza eccedere…in medio
stat virtus !” E finita lì.
Prevenire è sempre meglio che curare
Un secondo aspetto che anche nella valutazione e comunicazione del rischio va
senz’altro evitato è l’assioma che la Riduzione dei rischi è comunque il Bene
con il suo corollario secondo il quale
“Prevenire è sempre meglio che curare”.
Sappiamo con certezza che questo è
sbagliato, in quanto sono poche le condizioni che possono realisticamente giovarsi di un intervento di prevenzione efficace e che al contempo non sia portatore di un numero eccessivo di falsi positivi,
di carichi di ansie e di interventi inutili.
Quello che serve invece, caso mai, è essere tempestivi quando un paziente ci
presenta una sua infermità.
Il corrispettivo sul versante dei pazienti
è la pretesa di essere informati su tutto
nell’illusione (o nel delirio) di abolire
qualsiasi rischio e di avere così l’immunità dal male.
Un possibile accordo
Forse il punto centrale (quasi un principio) intorno al quale dovrebbero ruotare
le ragioni del medico e del paziente è essere davvero convinti che la salute è solo
uno degli elementi che contribuiscono alla qualità della vita e che va rispettato il
peso che ciascuno attribuisce a ciascun
elemento e alle relazioni complesse che
tra questi nel corso del tempo si sono
create.
Pertanto ogni modifica dei comportamenti va negoziata, prima ancora che tra
medico (esperto –almeno si spera- di patologie) e paziente (esperto della sua vita), all’interno del paziente stesso negli
equilibri fino a lì sedimentatisi e che hanno portato a quella percezione di qualità
della vita.
E allora per proporre un intervento al paziente, deve esserci per lui un vantaggio
chiaro.
Poiché è il medico che si fa garante di
questa certezza, egli deve essere sicuro
che le informazioni che passa al paziente siano non solo veritiere, ma anche
pertinenti, cioè che siano tratte da studi i
cui risultati siano trasferibili dalla popolazione nella quale si sono ottenuti a
quella a cui appartiene il paziente (le
due popolazioni hanno le stesse caratteristiche per sesso, razza, cultura,
età…?).
STILE COMUNICATIVO DEL MEDICO
E CARATTERISTICHE DELLA
RELAZIONE CON IL PAZIENTE
Lo stile comunicativo del medico discende in gran parte dalle sue convinzioni, sia
rispetto all’oggetto, sia rispetto al (livello
del) diritto all’autodeterminazione riconosciuto al paziente.
Si può assumere un taglio informativo
distaccato e notarile (“Io l’ho informata,
questi sono i dati, ora tocca a Lei decidere”), oppure uno più partecipe.
Se si è molto convinti dell’importanza di
modificare un comportamento ritenuto a
rischio, si può assumere uno stile di propaganda, come quando si vuole far conoscere e apprezzare un prodotto o addirittura promozionale (diffonderne l’uso
e il bisogno): “Tutti i pazienti a cui ho prescritto questo farmaco hanno avuto dei
risultati sorprendenti:in poche settimane
Ottobre 2003
dermatite atopica e sensibilizzazioni,
sono identici nei due gruppi, a prescindere dal fatto che le madri avessero o
meno evitato i cibi allergizzanti durante
l’allattamento (16). Uno studio di metaanalisi ha preso in esame i lavori sull’argomento ed ha concluso che, sebbene
sia documentata una sostanziale riduzione dello sviluppo di eczema nella prima infanzia, alcuni limiti metodologici
sono presenti negli studi valutati e, pertanto, i risultati vanno interpretati con
una certa cautela (17), prima di instaurare nella donna che allatta diete prive di
importanti nutrienti.
L’Associazione dei pediatri americani
consiglia di eliminare dalla dieta della
nutrice solo arachidi e noci, allergia in
aumento e per la quale ci sono dati più
certi (18) e di considerare caso per caso,
in base al rischio, l’eliminazione di latte,
uovo e pesce integrando l’eventuale dieta con l’aggiunta di calcio e vitamine. In
Europa, al contrario, non viene consigliata né l’adozione di diete da parte della madre che allatta né la supplementazione calcio-vitaminica.
5. Che tipo di latte bisogna usare quale sostituto del latte vaccino?
Sulla base delle indicazioni provenienti
da alcuni studi (19), in passato sono state largamente utilizzate, per la prevenzione dell’allergia al latte vaccino, le formule a base di soia. Attualmente, poiché
la soia stessa può essere causa di sensibilizzazione in bambini ad alto rischio,
l’uso di tali formule nei primissimi mesi di
vita è sconsigliato per la prevenzione
dei disordini allergici; oggi si preferisce
ricorrere, in sostituzione del latte vaccino, alle formule basate sugli idrolisati
del latte vaccino (20), sia al nido nei giorni precedenti l’inizio della lattazione (21)
sia nei casi di agalattia o ipogalattia
(22).
Esistono due tipi di idrolisati, ottenuti dalle proteine del latte vaccino mediante
una combinazione di idrolisi e ultrafiltrazione, quelli a idrolisi parziale (pHF, partially hydrolyzed formula) e quelli a idrolisi spinta o estensiva (eHF, extensively
hydrolyzed formula): la differenza è nella
percentuale di frazioni proteiche (peptici) che dovrebbero essere, per la maggior parte, di peso molecolare <1500
kDa (kilo Dalton) (4). Gli idrolisati si possono ottenere a partire dalla caseina oppure dalle sieroproteine del latte, cioè _lattoalbumina e _-lattoglobulina.
Un idrolisato parziale contiene quasi il
20% in peptidi di alto peso molecolare e
induce reazione allergica in circa il 50%
dei bambini allergici al latte (23): deve,
pertanto, essere evitato nel trattamento
dei bambini allergici al latte. Tuttavia, in
vari studi è stato dimostrato il vantaggio
derivante dal suo uso nella prevenzione
dell’allergia alimentare in bambini a rischio, in confronto al latte vaccino (22,
24, 25). Risultati analoghi provengono
da uno studio di meta-analisi (26).
L’effetto preventivo delle formule a idrolisi
estensiva è risultato superiore di quello
delle formule parzialmente idrolisate
(27), tuttavia il loro uso può venire limitato dal costo più elevato e dalla minore palatabilità. L’AAP raccomanda l’uso di formule ipoallergeniche eHF o almeno pHF,
sia per la supplementazione che per l’alimentazione sostitutiva del lattante ad alto rischio; le società europee consigliano
genericamente di ricorrere a “formule a
confermata ridotta allergenicità”. Entrambe concordano nell’evitare l’uso di
latti di soia per la prevenzione primaria.
Non ci sono dati pubblicati sull’efficacia
delle formule basate su miscele di amino-acidi per la prevenzione dell’allergia
alimentare nei soggetti ad alto rischio.
6. A quale età si deve iniziare lo svezzamento?
L’introduzione precoce di cibi solidi sembra aumentare il rischio di malattia atopica, soprattutto di eczema, nei bambini fino a dieci anni d’età (28-30), soprattutto
nei bambini con familiarità allergica. Pertanto le società pediatriche raccomandano di iniziare lo svezzamento non prima dei 5 mesi (europei) o dei 6 mesi
(americani); l’AAP, inoltre, specifica i
tempi di inserimento nella dieta dei soggetti a rischio atopico degli alimenti maggiormente allergizzanti: latte vaccino a
12 mesi; uovo a 24 mesi; arachidi, noci e
pesce a 3 anni.
7. La microflora intestinale ha un ruolo
nell’allergia alimentare?
Esistono dati epidemiologici a favore
dell’ipotesi che la presenza nelle feci di
alcuni microrganismi (virus dell’epatite
A, toxoplasma gondii, helicobacter pilorii) sia inversamente correlata ai livelli di
IgE e alla comparsa della sensibilizzazione allergica (31, 32). Sembrerebbe, in
altre parole, che la stimolazione microbica dell’epitelio intestinale eserciti un’azione protettiva contro le malattie allergi-
che, probabilmente per inibizione delle
citochine rilasciate durante la risposta
Th2-mediata dell’ospite contro le infezioni (33). Sulla base di tali evidenze alcuni ricercatori sostengono che la pressione antigenica continuamente esercitata dalla colonizzazione batterica del
tratto gastrointestinale possa prevenire
o, comunque, essere coinvolta nello sviluppo delle malattie allergiche.
Queste premesse hanno aperto la strada a tutta una serie di studi clinici tesi a
valutare il presunto effetto protettivo, e
dunque preventivo, degli enterobatteri
sullo sviluppo dell’allergia.In particolare,
un trial randomizzato e controllato svoltosi in Finlandia (34) ha evidenziato che
la somministrazione del Lactobacillus
GG alla madre per 2 settimane prima del
parto e poi al bambino per i primi 6 mesi,
avrebbe indotto una riduzione dell’incidenza della dermatite atopica. Il trattamento non ha modificato, tuttavia, né i livelli di IgE totali e di quelle specifiche per
gli alimenti, né gli altri indici immunologici. Uno studio di conferma ha avuto analoghi risultati ma nessun effetto sull’allergia al latte vaccino (35). C’è da segnalare che questi lavori provengono da un
unico gruppo e sono gravati da alcuni importanti bias metodologici (36). Rimane
il dubbio, infine, sul fatto che la flora batterica dei bambini di altre nazionalità sia
uguale a quella dei bambini finlandesi e
quindi ugualmente modificabile dall’uso
dei probiotici.
A questo proposito dati importanti sicuramente deriveranno da un progetto di ricerca in corso (2000-2004), finanziato
dalla Comunità Europea e denominato
“Allergyflora”, che coinvolge la Svezia
(Goteborg e Lund), l’Inghilterra (Londra)
e l’Italia, proprio con l’Ospedale “Sandro
Pertini”.
In ognuno di questi 3 centri sono stati arruolati 100 neonati di cui è stato seguito
lo sviluppo della flora intestinale con
campioni prelevati a 3 giorni, 1-2-4-8 settimane, 6 e 12 mesi di vita. Lo sviluppo di
tale flora, con una particolare attenzione
anche al turnover dei vari ceppi, verrà
messa in correlazione da una parte con
lo sviluppo di patologie allergiche, asma,
rinite, dermatite atopica e allergia alimentare, e dall’altra con il livello di IgE totali e specifiche.
(la bibliografia completa può essere richiesta alla
redazione- e-mail:[email protected])
19
Ottobre 2003
Allergia alimentare in pediatria:
la prevenzione dietetica
Giuseppe Pingitore, Salvatore Tripodi*
U.O. Pediatria, Ospedale “G.B.Grassi” - *U.O. Allergologia Pediatrica, Ospedale “S. Pertini”
L
e manifestazioni dell’allergia
alimentare interessano oggi
dal 4 al 6% della popolazione
pediatrica, avendo registrato
un aumento negli ultimi 10 anni (1). Gli alimenti maggiormente coinvolti sono il latte vaccino, l’uovo di gallina, il
grano, il pesce, la soia, le noci e, in aumento negli ultimi anni, le arachidi. Una
volta avvenuta la sensibilizzazione, l’unico trattamento in grado di controllare i
disturbi dovuti all’allergia, è quello di evitare di assumere l’alimento incriminato:
ci sono dimostrazioni che tale strategia
affretti l’acquisizione della tolleranza (2).
L’elevata prevalenza della patologia giustifica l’adozione di strategie preventive
nella popolazione a rischio di sensibilizzazione. La prevenzione può essere attuata a 3 livelli:
• una prevenzione primaria, per evitare
la comparsa delle sensibilizzazioni;
• una prevenzione secondaria, nei soggetti già sensibilizzati, al fine di evitare la comparsa della malattia;
• una prevenzione terziaria, nei soggetti che hanno sviluppato già i sintomi dell’allergia alimentare, al fine di
evitarne il peggioramento clinico (trattamento).
In questa trattazione ci occuperemo soltanto della prevenzione primaria, cercando di dare una risposta ad alcune importanti questioni.
1. Qual è la “popolazione a rischio” di
sensibilizzazione?
Vari tentativi sono stati fatti per individuare sicuri marcatori genetici e/o immunologici associati a sviluppo di allergie (livelli di IgE nel sangue del cordone, IgE
specifice per l’uovo, basso rapporto _-interferone/interleuchina 4, eosinofili nel
sangue o nei secreti, ecc) (3). Nessun
test, tuttavia, ha dimostrato di avere una
sufficiente sensibilità e un potere predittivo tale da essere usato per lo screening
della popolazione e, attualmente, l’indi-
18
cazione più affidabile del rischio proviene dall’anamnesi familiare: la presenza
di atopia in uno o entrambi i genitori oppure in uno o più fratelli è considerato il
fattore di rischio più importante.
Le associazioni mediche pediatriche
americane (AAP) (4) e quelle europee
(ESPACI e ESPGHAN) (5) suggeriscono
di limitare la prevenzione a tali categorie
di bambini.
2. La madre di un bambino a rischio
deve stare a dieta durante la gravidanza?
E stata dimostrata nel feto la possibilità
di una risposta immunologia IgE verso
proteine di origine alimentare (latte e uovo) e allergeni respiratori (6). Tali risposte, tuttavia, possono essere normali fenomeni immunologici non correlati allo
sviluppo di patologie allergiche. Inoltre, il
tentativo di prevenire l’allergia al latte e
all’uovo mediante l’eliminazione di tali
alimenti dalla dieta della gestante per
tutto il terzo trimestre di gravidanza, non
è stato accompagnato né da riduzione
della sensibilizzazione né da riduzione
dei sintomi di allergia, nel periodo dalla
nascita fino a 5 anni di vita (7). Tali dati
sono stati confermati da una metanalisi
(8). Sulla base di tali evidenze sia l’AAP
che l’ESPGHAN sconsigliano di instaurare, durante la gravidanza, diete prive di
alimenti importanti quali latte e uovo. L’unica eccezione riguarda le arachidi (9),
un alimento certamente non essenziale.
3. L’allattamento al seno previene lo
sviluppo dell’allergia?
Il latte materno è l’alimento ideale dal
punto di vista nutrizionale, immunologico e psicologico, esalta le difese naturali
e promuove l’immunoregolazione: tali
motivazioni, da sole, sono sufficienti a
consigliare un allattamento al seno materno prolungato ed esclusivo (10). Una
meta-analisi ha esaminato 18 studi prospettici che confrontavano il latte materno con formule a base di latte vaccino ri-
guardo allo sviluppo di dermatite atopica
nel lattante: l’effetto protettivo del latte
materno è risultato chiaramente evidente, soprattutto nei bambini con una familiarità atopica (11). Anche l’asma sembra trarre beneficio dal latte materno: i
bambini che assumono latte materno
esclusivo per almeno 3 mesi dopo la nascita sviluppano meno sintomi asmatici
nell’età compresa fra 2 e 5 anni (12).
Pertanto, a livello internazionale, viene
fortemente raccomandato l’allattamento
al seno esclusivo quale cardine della
prevenzione, con l’unica differenza che
l’AAP consiglia di prolungarlo per almeno 6 mesi e, possibilmente, fino a 12 mesi, anche se non esclusivamente, mentre per la commissione europea sono
sufficienti 4-6 mesi. La durata ottimale
dell’allattamento al seno esclusivo per 6
mesi è stata confermata da una metaanalisi (13).
4. La nutrice deve eliminare gli alimenti allergizzanti?
Nel latte materno sono presenti allergeni
alimentari ed è documentata la possibilità di una sensibilizzazione all’uovo e al
latte vaccino da parte del lattante alimentato unicamente al seno materno
(14); inoltre, la concentrazione di tali allergeni alimentari nel latte materno appare sufficiente a scatenare una reazione allergica, come dimostrato dalla positività del test di provocazione attraverso
il latte materno effettuato su alcuni lattanti con documentata allergia al latte
vaccino (15). Sono stati condotti vari studi tesi a valutare l’effetto preventivo della
dieta materna, priva di alimenti potenzialmente allergizzanti, durante l’allattamento: i risultati non sono conclusivi in
quanto il significativo beneficio, in termini di riduzione dell’eczema, evidenziato
nel gruppo di lattanti le cui madri erano
tenute a dieta priva di latte, uovo e pesce
per i primi 3 mesi, si attenua col tempo fino a sparire all’età di 10 anni, quando i
tassi di allergia alimentare, rinite, asma,
Ottobre 2003
gli esami a posto, nessun effetto collaterale e se anche qualche volta si dimenticano della dieta…”
Non manca lo stile da crociata (“Ormai lo
sappiamo tutti che la sigaretta è un rischio enorme per la salute… e con questa tosse…solo un pazzo può continuare
a fumare come Lei. Cosa vuole, che fra
un anno ci troviamo davanti a un bel tumore del polmone ? Bel regalo ai suoi figli…”)
Alcuni di questi stili si accoppiano preferibilmente con una modalità relazionale
medico-paziente caratteristica. Per
esempio:
- Paternalistica
“So io (medico) che cosa devi fare (paziente) per il tuo bene”.
- Coscientemente asimmetrica.
“Sappiamo di non essere uguali, e neanche sullo stesso piano, ciascuno è esperto di cose diverse e di volta in volta uno di
noi ne sa di più dell’altro. Se proviamo a
confrontarci, cerchiamo di trovare una
mediazione accettabile”.
- Di dipendenza
“Dottore, tutte queste informazioni finiscono per confondermi. Lei che cosa ne
pensa ? al mio posto cosa farebbe?”
- Di obbedienza
“Dottore, decida Lei.”
SUGGERIMENTI
Non è possibile indicare una modalità
comunicativa che vada bene sempre
quando si vuole trattare con un paziente
il concetto di rischio.
Tenendo conto delle innumerevoli variabili e sfumature che entrano in gioco di
volta in volta e delle esemplificazioni sopra riportate, i suggerimenti che seguono si possono intendere come una
check-list da spuntare mentalmente per
evitare almeno gli errori più grossolani.
• Informare nel modo più completo il paziente, tenendo conto del suo livello
culturale e del contesto in cui si è determinata la comunicazione, nonché
del momento attraversato dal paziente ottenere un eventuale consenso
basato su di un’informazione capita.
• Rendersi conto che quello che per il
medico è un fattore di rischio ben definito, isolabile, rimovibile, per il paziente è un modo di essere consolidato,
incastrato nel resto delle sue abitudini
quotidiane, correlato a piaceri e motivazioni perlopiù non coscienti e contaminato dall’ambiente sociale.
Orientamento al paziente comprendere il suo punto di vista.
• Giungere ad una leale e dichiarata
mediazione tra le diverse esigenze
che emergono: le certezze (o le incertezze) del medico su quella che è considerata una buona pratica clinica, le
convinzioni, anche culturali del paziente, la percezione delle sue possibilità di cambiamento,
non rinunciando all’appropriatezza
scientifica
• Fare incontrare i modelli di interpretazione della realtà. Il paziente con la
sua soggettività è il massimo esperto
della sua infermità/problema. L’oggettività della probabilità statistica non
può prescindere da essa cercare di
fare decidere al paziente quale peso
ha per lui, nell’insieme della sua vita,
quel determinato rischio.
• È nel diritto di ciascuno di disporre
della propria salute e integrità personale. Questo non significa rinunciare
a spiegare al paziente i possibili vantaggi derivanti da un comportamento
(modifica del suo stile di vita, assunzione di un farmaco) che riduca il rischio di eventi avversi, ma ricordarsi
che ciascun cittadino ha la libertà di
determinare il proprio futuro.
(la bibliografia completa può essere richiesta alla
redazione- e-mail:[email protected])
Mucca pazza o uomo pazzo?
Giuseppe Cito, Paolo Marini - Servizio Veterinario ASL RmB
a vicenda legata alla “mucca
pazza”, o meglio Encefalopatia
Spongiforme Bovina (BSE), è
l’esempio di come una gestione
mediatica non sempre corretta
possa generare allarmismi e ingiustificate paure. Si è trattato solo di una bolla di
sapone, o di psicosi collettiva? In definitiva la patologia ha prodotto meno di cento
morti, in tutta Europa.
La spiegazione scientifica, che gode oggi
di maggior credito, dell’andamento epidemico, e quindi dell’ampia diffusione della
malattia nel bovino, ipotizza che l’infettività risiedesse nelle carcasse bovine riciclate per ottenere farine di carne ed ossa
a loro volta destinate all’alimentazione del
L
bestiame. Il riciclo delle carcasse infette,
nonché le modifiche tecnologiche apportate a partire dal 1981-82 (abbassamento
delle temperature ed abbandono del solvente per l’estrazione dei grassi), avrebbero consentito il riciclaggio e l’amplificazione di una malattia bovina rara e non
ancora identificata. Una seconda ipotesi,
attualmente ritenuta meno probabile, sarebbe il riciclaggio, con le stesse modalità, dell’agente infettante della cosiddetta
Scrapie ovicaprina con passaggio ai bovini e, successivamente, la propagazione
attraverso il riciclo di carcasse sia bovine
sia ovine.
In ogni caso la responsabilità delle farine
di carne ed ossa contaminate è oggi am-
messa dalla quasi totalità del mondo
scientifico, pertanto sono stati presi provvedimenti legislativi per quel che riguarda
l’alimentazione dei ruminanti sia a livello
di singoli Stati membri, a partire dal Regno Unito (divieto di utilizzo delle farine di
carne ed ossa di ruminanti per l’alimentazione dei ruminanti, 1988), sia a livello
Comunitario (1994). Per quel che riguarda l’Italia, il primo provvedimento ufficiale
risale al 15/11/1989 e vieta l’importazione
di farine di carne di ruminanti (bovini, ovini, caprini ecc.) dalla Gran Bretagna.Successivamente, sempre in Italia, a seguito
anche delle Decisioni comunitarie, è stata
vietata la somministrazione di farine di
carne di mammifero ai ruminanti (O.M.
3
Ottobre 2003
Ottobre 2003
TRATTAMENTI INEFFICACI PER INATTIVARE PROCEDURE IN GRADO DI INATTIVARE GLI AGENTI INFETTIVI
GLI AGENTI INFETTANTI DELLE EST
DELLE EST
AGENTI FISICI
AGENTI CHIMICI
Procedura ad alta efficienza
Temperatura
o concentrazione
Tempo
Calore umido
(100°C per 1 ora)
Etanolo
NaOCl (ipoclorito di Sodio)
2% di Cloro attivo
1 ora
Congelamento
Formaldeide
Autoclave in NaOH (idrossido
di Sodio) 2 M
121 °C
30 minuti
Radiazioni
ultraviolette
Acqua ossigenata
Acido formico (tessuto cerebrale
98%
fissato in formalina)
Radiazioni ionizzanti
Iodofori
pH 2,1 - 10,5
Permanganato
1 ora
Disinfettanti fenolici
28/7/94).La decisione di escludere le farine di tutti i mammiferi dall’alimentazione
dei ruminanti è attualmente in vigore ed è
giustificata dalla difficoltà di differenziare
la specie di origine durante l’analisi delle
farine stesse.
LE ENCEFALOPATIE SPONGIFORMI
TRASMISSIBILI (EST)
Le Encefalopatie Spongiformi Trasmissibili (EST) o TSE (Transmissible Spongiform Encephalopathies) o malattie da
prioni rappresentano un gruppo di malattie degenerative che colpiscono il Sistema Nervoso Centrale dell’uomo e degli
animali.
Nell’uomo sono state descritte finora
le seguenti forme:
• Malattia di Creutzfeldt-Jakob (MCJ) o
CJD (Creutzfeldt-Jakob Disease)
• Malattia di Gerstmann-StrausslerScheinker (GSS)
• Kuru
• Insonnia Familiare Fatale (IFF)
• Nuova variante della Malattia di
Creutzfeldt-Jacob (nvMCJ) o nvCJD
Negli animali sono rappresentate da:
• Scrapie della pecora, della capra e del
muflone
• Encefalopatia spongiforme bovina
(ESB) o BSE (Bovine Spongiform Encephalopathy)
• Encefalopatia trasmissibile del visone
(TME o Transmissible mink encephalopathy)
• Malattia del dimagrimento cronico del
cervo (CWD o Chronic wasting disease)
• Encefalopatia spongiforme dei bovidi
selvatici
• Encefalopatia spongiforme del gatto e
dei felidi (FSE o Feline Spongiform Encephalopathy)
L’Encefalopatia spongiforme bovina
(BSE) è al momento la più tristemente fa-
4
mosa tra tutte le encefalopatie, sia per la
devastante epidemia scatenatasi nel Regno Unito (più di 175.000 casi tra il 1985
ed il 1.10.1999 con quasi 35.000 allevamenti colpiti), sia per la recente dimostrazione di un legame tra la BSE e la nuova
variante della MCJ (nvMCJ). Pur presentando caratteristiche biologiche di base
simili, le EST sono un gruppo di malattie
eterogeneo e non tutte le conoscenze relative ad una forma sono applicabili alle
altre. La malattia di Creutzfeldt-Jakob, ad
esempio, è diffusa in tutto il mondo con
un’incidenza di circa un caso per milione
di persone per anno. La Scrapie della pecora invece colpisce solo alcune greggi
che presentano però un’alta percentuale
di animali ammalati. Anche la trasmissione varia da una forma all’altra: le EST
umane non si trasmettono per via verticale (da madre a figlio); mentre questa via è
ritenuta molto probabile per la Scrapie.Alcune EST riconoscono, inoltre, un meccanismo di trasmissione di tipo ereditario
(la GSS e circa il 10-15% dei casi di MCJ)
con modalità di trasmissione di tipo autosomico dominante.
Ancora, il patrimonio genetico è importante nella suscettibilità alla malattia nella
pecora e nel topo, ma non sembra influenzarla nel bovino, visone e criceto.
Comunque, al momento attuale non esistono test diagnostici per identificare i
soggetti infetti da EST prima della comparsa dei sintomi clinici.
Per quanto concerne le principali caratteristiche biologiche, le EST sono caratterizzate da un lungo periodo di incubazione, sintomatologia di tipo neurologico, decorso clinico progressivo e costantemente fatale, lesioni di tipo prettamente degenerativo a livello del sistema nervoso centrale (SNC).Non si rilevano lesioni infiammatorie o risposte immunitarie da parte
dell’organismo, mentre è costantemente
presente una proteina specifica (prione)
denominata PrPres o PrPsc (res=resistente alle proteasi;sc=scrapie) la quale svolge un ruolo cruciale nella patogenesi della malattia ed è responsabile dello sviluppo delle lesioni degenerative.
La PrP è una proteina normalmente presente nei neuroni, nella glia del SNC, in
parecchi tessuti periferici, nei leucociti e
nelle cellule spermatiche dell'organismo.
Costituita da 250 aminoacidi, probabilmente svolge un ruolo nell’adesione e nel
riconoscimento cellulare, nei recettori di
membrana e nella chimica dei neurotrasmettitori. È rapidamente prodotta e metabolizzata all'interno dei lisosomi (emivita di circa 6 ore): questa forma viene denominata PrPsen o PrPc (sen=sensibile alle proteasi; c=cellulare).
La PrPsc è invece resistente alla degradazione da parte degli enzimi lisosomiali
e si accumula all'interno della cellula fino
a provocarne la morte. In seguito alla lisi
della cellula la PrPres si deposita nello
spazio intercellulare dando luogo, in alcuni casi, alla formazione di vere e proprie
"placche amiloidee". Vari studi e ricerche
propongono un modello di propagazione
dei prioni che comprende un’interazione
diretta proteina-proteina tra la PrPc dell’ospite e la PrPsc inoculata (p.es. proveniente dall’alimentazione); la PrPsc agisce in modo tale da promuovere un’ulteriore conversione della PrPc in PrPsc tramite un processo autocatalitico che procede a cascata in modo più efficiente
quando le proteine interagenti presentano la stessa struttura primaria.
La comprensione del ruolo fisiologico della PrPc potrebbe essere importante per
capire la patogenesi della malattia, poichè la proteina può cessare di svolgere la
propria funzione quando si converte nell’isomero PrPsc. La conversione della
proteina è essenzialmente di tipo conformazionale, avendo le due isoforme la
stessa sequenza aminoacidica.
La periodicità ottimale per l’esecuzione
del test non è stata determinata ed è lasciata alla discrezione del medico. L’American College of Obstetricians and
Gynecologists e l’American Academy of
Pediatrics raccomandano l’esecuzione
dello screening prenatale di routine in
tutte le donne in gravidanza durante la
prima visita. Per le gestanti ad alto rischio si raccomanda la ripetizione del
test durante il terzo trimestre e al momento del parto; è importante utilizzare
sempre lo stesso tipo di test per poter
confrontare i risultati .
A livello economico lo screening prenatale per la sifilide è vantaggioso anche
quando la prevalenza della malattia tra
le donne in gravidanza è solo dello
0,005%. I costi sono modesti e il vantaggio economico di un programma di prevenzione include anche i risparmi conseguenti all’assenza delle complicanze
che si presenterebbero nei neonati affetti (ad es. chirurgia cardiaca valvolare,
complicazioni neurologiche ecc.). Diverse analisi, che hanno comparato i costi e i benefici nel periodo 1970 - 1990
nel Regno Unito, Norvegia e Tailandia,
Nome del test
hanno confermato che lo screening è
economicamente conveniente a meno
che non ci si trovi in un’area con una prevalenza di sifilide estremamente bassa.
Gli interventi di prevenzione devono comunque tenere conto dell’epidemiologia locale, della prevalenza della sifilide
tra le gravide, del funzionamento del Sistema Sanitario nei diversi Paesi e delle
risorse disponibili.
(la bibliografia completa può essere richiesta alla
redazione- e-mail:[email protected])
Tipologia dei test e modalità d’esecuzione
Tests non specifici
V.D.R.L (Venereal Disease Reference Laboratory)
R.P.R. (Rapid Plasma Reagine)
Sono reazioni di flocculazione in cui le particelle rimangono disperse se
vengono in contatto con sieri non contenenti anticorpi antisifilitici; in presenza di anticorpi antisifilitici (reagine) si combinano con essi. In queste
reazioni il siero da analizzare è diluito in un adsorbente contenente un
estratto di treponema di ceppo Reiter che si lega con anticorpi gruppo – specifici presenti nel siero, al fine di neutralizzarli. In questo modo si evidenziano gli anticorpi tipo – specifici.
Tests specifici
T.P.H.A
(Treponema Pallidum Haemo-agglutination Assay)
Il T.P.H.A. è un test di emoagglutinazione passiva, caratterizzato da un’elevata specificità; sono rari i falsi positivi e il test si positivizza circa 12 giorni
dopo la comparsa del sifiloma.
F.T.A – Abs
(Fluorescent Treponemal Antibody Absorption Test)
L’ FTA-ABS (assorbimento anticorpale treponemico in fluorescenza) è un
test d’immunofluorescenza indiretta: il siero in esame, opportunamente diluito, si mette in contatto con una sospensione di Treponemi patogeni e si
aggiungono globuline marcate con fluoresceina. Gli anticorpi, se presenti,
si fissano alle spirochete che a causa delle antiglobuline fluorescenti divengono visibili quando osservate in campo oscuro con luce ultravioletta,
riunendosi in ammassi e flocculando. Gli anticorpi evidenziati con questo
test compaiono 5-8 giorni dopo il sifiloma.
T. P. I (Treponemal Immobilization Test)
Il T.P.I consiste nel mettere una sospensione di Treponema pallidum appartenente al ceppo di Nicholas, estratto da sifilomi testicolari di coniglio, a
contatto con diluizioni del siero da analizzare in presenza di complemento
di cavia. Le spirochete presenti nella sospensione si immobilizzano in presenza di anticorpi specifici antitreponema, mentre conservano la loro mobilità a contatto con sieri privi di anticorpi antisifilitici.
17
Ottobre 2003
Screening per la sifilide in gravidanza
Elisabetta Franco, Elisabetta Pandolfi
Dipartimento Sanità Pubblica e Scuola di Specializzazione in Igiene e Medicina Preventiva, Università di Roma “Tor Vergata”
L
a sifilide, o lue, è una malattia
infettiva, contagiosa, dovuta
ad un batterio, il Treponema
pallidum, appartenente alla famiglia delle spirochete, batteri
spiraliformi, incurvati a forma elicoidale,
molto mobili e flessibili.
Secondo la tradizione, la sifilide venne
introdotta in Europa dall’America ad
opera dei marinai di Cristoforo Colombo
e poi diffusa in Italia dai soldati dell’armata di Carlo VIII causando un’epidemia che si abbatté su tutta Europa verso
la fine del ‘400.
È una malattia diffusa in tutto il mondo in
forma endemica; interessa soprattutto
giovani tra i 15 e i 30 anni, è più frequente nelle aree urbane e nei maschi, tra le
persone dedite alla prostituzione e i tossicodipendenti. La patologia evolve tipicamente in tre fasi: la fase primaria ha
un periodo di incubazione di 2 - 6 settimane, è caratterizzata dalla comparsa
in sede genitale del “sifiloma”, un nodulo eroso in superficie che si associa generalmente a linfoadenopatia loco-regionale; quando il sifiloma è cicatrizzato
si sviluppa il secondo stadio della malattia con febbre e malessere generale. Segue una fase di latenza clinica che evolve in guarigione spontanea o, in assenza di terapia, in una forma terziaria con
sintomatologia generalizzata.
La trasmissione può avvenire per contatto sessuale (sifilide acquisita) o da
madre infetta al feto (sifilide congenita).
La trasmissione verticale avviene normalmente attraverso la placenta, ma
può verificarsi attraverso il contatto con
lesioni infette durante il passaggio nel
canale del parto, oppure con lesioni del
capezzolo durante l’allattamento.
Nei Paesi industrializzati la sifilide congenita è molto rara (attualmente si riscontra nello 0,05% di tutti i nati vivi), soprattutto grazie all’efficacia dei programmi di prevenzione, mentre in molti
Paesi in via di sviluppo continua ad essere un grave problema di Sanità Pubblica. Secondo una stima dell’OMS circa
270.000 bambini ogni anno nascono
con sifilide congenita, 460.000 gravi-
16
danze finiscono in aborto o morte perinatale e 270.000 bambini circa nascono
prematuri o con basso peso alla nascita.
Tuttavia studi recenti evidenziano un aumento dei casi di sifilide e una riemergenza dei casi di sifilide congenita anche in Europa e in Nord America.
Lo sviluppo placentare permette il passaggio del Treponema pallidum in genere dopo la 16° settimana di gestazione,
per cui un corretto utilizzo dei test sierologici per lo screening prenatale e un appropriato trattamento delle gravide può
prevenire la maggior parte dei casi di sifilide congenita.
I test sierologici consistono nella ricerca
qualitativa e quantitativa nel sangue di
anticorpi non treponemici e treponemici. Le reazioni di agglutinazione con antigene cardiolipinico non specifico
(V.D.R.L e R.P.R) evidenziano anticorpi
antilipidici o reagine e divengono abitualmente positive 1 – 3 settimane dopo
la comparsa del sifiloma, il titolo aumenta durante il periodo secondario e inizia
a decrescere durante la fase di latenza;
la reazione è positiva nel 75% dei casi di
sifilide primaria, nel 100% dei casi di sifilide latente precoce e nel 70% dei casi
di lue tardiva latente. Questi test non sono però specifici delle treponematosi e
false positività si possono verificare in
caso di lupus eritematosus, sclerodermia, mononucleosi infettiva, epatite virale, ecc. In caso di reattività a questi
test è necessaria la conferma con reazioni con antigene treponemico ucciso
(T.P.H.A e F.T.A – Abs), che sono invece
specifiche per la sifilide e presentano
una sensibilità di circa l’80% per la sifilide primaria, 99% per la secondaria,
95% per la sifilide latente e 94% per la sifilide congenita. False reazioni positive
possono verificarsi in presenza di fattore reumatoide. Questi tests non dovrebbero essere utilizzati per lo screening
iniziale essendo più costosi e rimanendo positivi in pazienti già trattati per una
pregressa infezione. Utilizzati in combinazione con i tests non treponemici, tuttavia, hanno un elevato valore predittivo
positivo e una specificità superiore al
99%; i risultati positivi sono perciò fortemente indicativi di un’infezione reale.
Da alcuni anni si utilizzano anche tests
immunoenzimatici (ELISA) che utilizzano antigeni ottenuti con la tecnica del
DNA ricombinante, hanno sensibilità diversa nei vari stadi di malattia e permettono di rilevare anticorpi specifici di tipo
IgM, segno di infezione in fase precoce.
In caso di risultati dubbi o controversi si
utilizza il test di immobilizzazione di Nelson Mayer o T.P.I. (Treponemal Immobilization Test), considerato fino a qualche
anno fa il “Gold standard” (oggi sostituito dalla FTA – Abs), che si basa sulla ricerca di anticorpi immobilizzanti e richiede l’utilizzo di treponemi vivi.
La legislazione italiana in materia di metodologia di screening per la sifilide fa riferimento al D.P.R 2056/62, che stabilisce che la ricerca sistematica dei casi di
sifilide deve essere effettuata tramite
una reazione standard con unico antigene (V.D.R.L), che una conferma con
test treponemico e non treponemico deve essere eseguita limitatamente agli individui per i quali è stata ottenuta una
V.D.R.L reattiva e che in presenza di risultati dubbi si deve ricorrere all’esecuzione del test di Nelson Mayer. A questo
proposito la Circolare Ministeriale n. 114
del 29. 7. 1963 conviene sull’analogia
del test di Nelson Mayer con la reazione
F.T.A. – Abs, giudicandola idonea a risolvere il quesito posto da reazioni false
positive.
Data la bassa incidenza annuale della
sifilide nei Paesi industrializzati lo
screening di popolazione ha scarsi benefici, mentre lo screening di routine è
giustificato nelle donne in gravidanza
anche nelle aree a bassa incidenza a
causa dell’importante morbosità e mortalità neonatali associate alla sifilide
congenita e della loro potenziale prevedibilità. L’indagine sui fattori di rischio
per infezioni a trasmissione sessuale è
spesso poco efficace nelle donne in gravidanza, che potrebbero essere poco
disposte a comunicare comportamenti
a rischio o non essere a conoscenza di
fattori di rischio del proprio partner.
Ottobre 2003
Rimane tuttavia da chiarire se detta proteina rappresenti:
• l’agente responsabile delle EST (teoria prionica)
• il risultato di una trasformazione indotta da un virus (teoria virale)
• oppure un acido nucleico legato ad una
molecola di PrP (teoria del "virino").
Indipendentemente dall'esatta natura
dell'agente eziologico, i fattori patogeneticamente più importanti sono rappresentati dall'elevata resistenza alla degradazione, dalla mancata risposta immunitaria o infiammatoria da parte dell'organismo con assenza di manicotti perivascolari e perineuronali, assenza di pleiocitosi
o di un marcato incremento di proteine nel liquido cerebrospinale
durante il corso della
malattia.
È caratteristica l'estrema resistenza a numerosi agenti fisici o chimici
in grado di inattivare altri
microorganismi. (Tab.1)
CONCLUSIONI
L’attenzione della prevenzione, per la variante della malattia di
Creutzfeld-Jacob (MCJ), equivalente
umano della BSE, si concentra soprattutto sulla modalità che prevede che la
malattia può trasmettersi con il consumo
di carne bovina contaminata. I bovini si
contagiano per via alimentare se nei
mangimi si trovano le farine animali fatte
con le carcasse di ovini malati.
La principale misura di prevenzione in
merito alle misure atte ad evitare un
eventuale contagio all'uomo è stata quella di evitare che tessuti ed organi che
possano contenere l'agente infettante
vengano immessi nella catena alimentare umana.
Tale compito è svolto dai servizi veterinari pubblici che controllano gli animali durante le fasi di allevamento fino alla macellazione, dove diventano alimento
umano, sotto forma di carni.
Poi, controllano che i sottoprodotti eliminati dalle aziende, che producono alimenti di origine animale, siano avviati alla distruzione, secondo modalità di legge
ben precise e sempre più vincolanti per i
produttori (mattatoi, laboratori di sezionamento, macellerie ecc.), per evitare
che vengano riciclati fraudolentemente
per fare mangimi per animali.
Notevole importanza ha il rispetto delle
normative sulla tracciabilità delle carni
che permettono di sapere a quale bovino
appartiene il singolo pezzo di carne che
troviamo al supermercato.
Ormai tutti gli studi sulla trasmissione
delle EST ad altri animali hanno evidenziato la natura infettante del cervello, del
midollo spinale, della retina e dell'intestino di animali malati.
Il latte ed i prodotti del latte derivati da
animali infettati dalla BSE non hanno
rilevato alcuna capacità di trasmettere la malattia.
La Comunità Europea, dal 1988 ad oggi,
ha emanato una serie di norme per tutelare la salute umana ed animale dall'infezione, tra le più importanti ed efficaci ricordiamo quelle che hanno già dato significativi risultati nel prevenire queste
malattie:
1. Distruzione OBBLIGATORIA di tutti
gli animali riscontrati malati;
2. Divieto di utilizzare proteine derivate
da tessuti di ruminanti nell'alimentazione dei ruminanti stessi;
3. Distruzione OBBLIGATORIA di cervello, occhi, colonna vertebrale compresi i gangli spinali, midollo spinale,
tonsille, milza, dei bovini di età superiore a 12 mesi e l’intestino dei bovini
di tutte le età.
4. Distruzione OBBLIGATORIA di midollo spinale, cervello, occhi e tonsille
degli ovini e dei caprini di età superiore a 1 anno; la milza e l’ileo degli ovini
e dei caprini di tutte le età.
Concludendo, tutte le misure che si stanno prendendo, da un punto di vista sanitario, saranno sicuramente adatte per
combattere queste forme morbose, ma è
auspicabile che siano accompagnate da
un nuovo modo di produrre carni senza
esasperare le innovazioni tecnologiche
e nello stesso tempo senza invocare il ritorno ad una zootecnia che utilizza metodi del passato che ormai non fanno parte
del nostro modo di vivere.
(la bibliografia completa può essere richiesta alla
redazione- e-mail:[email protected])
Medicina di famiglia, disease management
e approccio per processi - (I parte)
Valter Accomasso MMG - Milano
rgomento oggi molto dibattuto nei convegni e congressi
dell’area medica è il disease
management (DM), ossia
l’applicazione alla Medicina,
o almeno ad alcuni campi e
patologie, dei principi del management.
Allo stato attuale non disponiamo di una
definizione standard di “disease management”, sicché per alcuni si tratta di un
sistema integrato di interventi disegnati
per ottimizzare i risultati clinici ed economici per pazienti con specifiche malattie
A
croniche per altri più semplicemente di
una modalità di gestione globale della
malattia, dove gli interventi di trattamento, riabilitazione e cura sono integrati fra
loro (a prescindere da valutazioni economiche), per altri ancora un modo per ottimizzare i costi e ridurre le spese (a prescindere dagli aspetti etici, medico-legali e clinici). Concetti in ogni caso fondamentali nel DM sono:
• la qualità
• l’appropriatezza.
Entrambi i concetti vanno riferiti a struttu-
re e attività o prestazioni; queste due ultime dovrebbero a loro volta essere indirizzate da linee guida, articolate in Piani
Diagnostico-Terapeutici (PDT) e gestite
entro logiche di processo.
Si incontrano difficoltà già nel discutere
di linee guida o di Evidence-Based Medicine, benché si tratti di due piccoli tasselli del più ampio ambito dei PDT, a loro volta piccola parte del DM. Ma il DM è solo
un segmento dell’approccio per processi
e che, di conseguenza, risulta difficile intendersi sulle linee guida e su EBM e
5
Ottobre 2003
PDT se non si è in grado di collocare il tutto nella visione per processo. In altri termini, la gestione per processo contiene il
DM, che contiene i PDT, che contengono
le linee guida, l’EBM e altro ancora.
L’attività del MMG è da sempre caratterizzata da una tripartizione tra:
ß l’aspetto tecnico o clinico, che comprende il sapere e il saper fare (ossia, ciò
che si fa sapendolo fare);
• l’aspetto interpersonale o relaziona-
le, ossia il saper essere e il sapersi relazionale;
• l’aspetto gestionale o manageriale,
vale a dire l’utilizzo appropriato delle
risorse disponibili allo scopo di erogare prestazioni di qualità con costi sopportabili da parte del singolo paziente, della comunità, del Sistema Sanitario Nazionale eccetera (ivi compreso il DM).
In un’indagine condotta negli USA da
LE LINEE GUIDA
Per quanto i termini “linee guida”,“raccomandazioni”,“protocolli” e “standard”
siano utilizzati come sinonimi o quanto meno in modo intercambiabile,esiste un
precisa differenza e distinzione tra ognuno di essi. Le linee guida sono raccomandazioni di comportamento clinico, prodotte attraverso un processo sistematico, allo scopo di assistere medici e pazienti nel decidere quali siano le modalità assistenziali più appropriate in specifiche circostanze cliniche.Sotto la denominazione comune di “appropriatezza”ritroviamo già qui i concetti di processo sistematico di produzione delle linee guida, di modalità assistenziali (strutture, processi, risultati) e di specifiche circostanze cliniche (effectiveness). Essendo per alcuni versi simili alle procedure, le linee guida diventano, nella gestione
per processi, un insieme di indicatori (di struttura, di processo, di outcome) riferiti a problemi clinici specifici, elaborati da un gruppo di pari dopo attenta revisione della letteratura esistente, allo scopo di aiutare la decisione medica e di ridurre l’alta variabilità dei comportamenti. Requisiti fondamentali per le linee guida sono la validazione scientifica e la condivisione da parte di tutti i soggetti coinvolti nell’applicazione: medici di famiglia, specialisti, paramedici, personale
assistenziale, organizzazioni, malati, familiari, volontari, altri caregiver ecc.
PERCORSI DIAGNOSTICO-TERAPEUTICI (PDT) E PERCORSO DEL PAZIENTE
I PDT consistono nella “traduzione delle linee guida nel rispetto delle caratteristiche organizzative e della disponibilità di risorse (professionali e tecnologiche)
a disposizione dell’azienda sanitaria”. Il PDT deve essere distinto dal “percorso
del paziente”, che è l’oggetto di un particolare “metodo di lavoro caratterizzato
da un approccio globale che abbraccia tutti gli aspetti legati alle modalità di gestione di un problema di salute”. In altri termini, se le linee guida analizzano gli
aspetti clinici di un problema di salute e i PDT gli aspetti gestionali e organizzativi, nell’elaborazione del percorso del paziente, sia di riferimento sia effettivo, tutti questi aspetti vengono considerati nelle loro modalità di impiego hic et nunc,
ossia nelle organizzazioni sanitarie e nelle specifiche realtà locali (strutture,personale, risorse finanziarie). Nella gestione per processi, il percorso del paziente
è assimilabile a un processo con un determinato punto di partenza (input) e uno
di arrivo (output), che utilizza strutture per ottenere i risultati desiderati (outcome) in termini di miglioramento della salute, perseguendo l’appropriatezza e applicando i metodi di verifica (VRQ) e/o miglioramento della qualità (MCQ); il tutto
entro i limiti del bilancio, ossia delle risorse finanziarie disponibili.
Sanazaro e Williamson nel lontano 1965
e pubblicata nel ’68 queste tre aree della
medicina occupavano rispettivamente il
70, il 20 e il 10% per un gruppo di medici
internisti impegnati a tempo pieno nell’esercizio della professione privata. Nonostante le evidenti differenze di tempi,
luoghi e ruoli, la situazione attuale dei
MMG italiani ed europei non sembra
molto differente, salvo una verosimile
modesta contrazione dell’area tecnica a
favore delle altre due.
La questione è allora il controllo sugli
utenti, non in senso di governo autoritario o paternalistico, bensì come aspetto
relazionale.
PUNTI CHIAVE.
• Allo stato attuale delle cose, il Medico
di Famiglia non può esimersi dall’acquisire competenze di Disease Management.
• Linee guida e Percorsi DiagnosticoTerapeutici sono utili strumenti per il
Disease Management e per la gestione per processi.
• Un processo è una serie di eventi, attività, meccanismi o prassi destinati
ad ottenere un esito o anche una sequenza di attività collegate l’una all’altra da una o più transizioni, rappresentabile sotto forma di flusso
input/output.
Il concetto di qualità chiama in causa le
strutture, i processi e gli esiti (outcome), i
tre assi ove si misura appunto la qualità
in termini rispettivamente di:
1. caratteristiche o proprietà fisiche ed
organizzative del sistema, ossia del
contesto ambientale in cui vengono
effettuate le prestazioni;
2. serie di eventi, attività, meccanismi o
prassi destinati ad ottenere un esito;
3. modificazioni misurabili indotte da un
processo.
Gli strumenti che consentono di misurare la qualità sono gli indicatori, che pertanto si distinguono in indicatori di struttura, di processo e di esito (tabella 1).
Tabella 1. Classificazione degli indicatori di qualità (da Donabedian, citato in Ancona e Duccoli, modif.).
INDICATORI
OBIETTIVI
MISURE
risorsa/struttura
dove?
caratteristiche dell’ambiente: natura, tipo e organizzazione
del servizio
attività/processo
cosa?
cosa viene fatto
esito/outcome
quali vantaggi?
cosa si è realizzato per il cliente
6
Ottobre 2003
ruolo nell’assistenza diretta.
• P C N (Standing Commitee of Nurses) dell’Unione Europea, fondato
nel 1971 e che rappresenta più di
760.000 Infermieri europei, partendo
dal principio che è la formazione a
fornire le basi per il futuro sviluppo
della promozione della salute e per
fornire assistenza, raccomanda all’Unione Europea “di preparare le infermiere per l’aumentato livello di responsabilità che porti il loro ruolo di
professionisti autonomi a lavorare
maggiormente nella comunità“.
Dall’analisi comparativa di alcuni significativi sistemi sanitari (USA, Australia,
Regno Unito) nel mondo, si evince che
l’ambulatory care nursing (l’assistenza
infermieristica ambulatoriale) si è ampiamente sviluppata in quei paesi in cui
gli elevati costi dell’assistenza ospedaliera, la limitatezza delle risorse e l’aumento crescente della domanda sanitaria, hanno spinto i governi all’adozione
di programmi sanitari specifici (come il
Medicare e il Medicaid negli USA e in
Australia) e, all’interno di questi, favorito
la valorizzazione di tutte le competenze
professionali al fine di garantire un’assistenza efficace (clinical effectiveness)
per il paziente. Nell’ambito di questo
processo di sviluppo dell’assistenza sanitaria di base, l’infermiere ha maturato
nuove esperienze e con esse ha acquisito una maggiore consapevolezza del
proprio ruolo caratterizzato da una più
ampia autonomia decisionale ed operativa per gli aspetti riguardanti l’assistenza generale infermieristica alla persona.
Basti pensare al nurse practitioner americano, l’infermiere di comunità, che ha
la responsabilità diretta dell’assistenza
infermieristica erogata alla popolazione/utente presa in carico e della valutazione del suo stato di salute; o alla district-nurse del Servizio Sanitario inglese; o ancora alla rural-nurse australiana: quest’ultima si occupa regolarmente
della popolazione aborigena che vive
nell’entroterra desolato del continente,
svolgendo in questo modo un importante ruolo di intermediazione culturale e di
collegamento tra i servizi sanitari e questi gruppi etnici superstiti.
In questa logica, è possibile immaginare
gli sviluppi che in Italia l’assistenza sanitaria primaria e la professione infermieristica seguiranno attraverso la diffusione degli ambulatori infermieristici. L’am-
bulatorio infermieristico, infatti, costituisce:
• un ambito nel quale potrà crescere e
svilupparsi la figura dell’“infermiere
di comunità” e/o dell’”infermiere di famiglia” con lo scopo di contribuire a
realizzare quello stato di benessere
della comunità (welfare community)
che passa necessariamente attraverso un sistema di assistenza sanitaria integrato e a misura di “cittadino”
• un recettore specifico quindi, inserito
quasi a cavallo tra i livelli assistenziali definiti nel vigente PSN dell’assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e di lavoro e dell’assistenza
sanitaria distrettuale
• un nodo strategico per l’assistenza
sanitaria di base capace di mettere
in rete efficacemente i servizi sanitari e assicurare la continuità assistenziale.
In Italia, la legge 42/99, in linea con la
nuova riforma sanitaria, ha dato una
grossa opportunità alla professione infermieristica di uscire fuori dalla struttura ospedaliera, potendo esprimere nell’assistenza sanitaria di base la propria
professionalità e competenza attraverso il rapporto diretto con la cittadinanza
e le sue esigenze di salute.
L’assistenza infermieristica in ambulatorio si configura, infatti, in modo diverso
rispetto a quella ospedaliera. Quest’ultima di tipo intensivo, costituisce soltanto
un momento del processo assistenziale
in quanto ha inizio con il ricovero e si
esaurisce con la dimissione del paziente. Il rapporto assistenziale infermieristico in ambulatorio pur essendo di tipo
episodico, si protrae indefinitamente nel
tempo, consentendo all’infermiere di osservare e valutare lo stato di salute della
persona per periodi lunghi e quindi di
averne una conoscenza complessiva
tale da rendere più efficace qualsiasi intervento di tipo terapeutico, informativo
e/o educativo, nonché di orientamento
all’uso dei servizi sanitari pubblici. Nell’assistenza infermieristica ambulatoriale la persona sperimenta inoltre la
possibilità, attraverso l’aiuto e il sostegno dell’infermiere, di farsi carico dei
propri problemi di salute e di imparare a
gestirli in maniera appropriata. Questo
tipo di rapporto assistenziale basato
sulla reale conoscenza dei problemi del
singolo cittadino, in paesi avanzati come
gli Stati Uniti e nel Regno Unito, ha favorito l’acquisizione e lo sviluppo di ulteriori competenze da parte dell’infermiere,
nonché ha indotto ad una revisione sostanziale della regolamentazione professionale infermieristica a favore dell’ampliamento degli ambiti di attività/responsabilità relativamente alla facoltà di
prescrizione e alla gestione di medicazioni, di alcuni farmaci ed esami diagnostici e di laboratorio, alla diagnosi e al
trattamento di malattie comuni o traumi
minori.
Non è un caso che il DMS 739/94, tra le
cinque aree di formazione specialistica
per l’infermiere, preveda anche la Sanità Pubblica. La FNCIPASVI, in linea con
la Raccomandazione del consiglio
d’Europa sulla Formazione Complementare (n.83-5) e tenuto conto del Curriculum Formativo proposto dall’OMS
su “l’Infermiere di Famiglia” (Dichiarazione di Monaco, 2000), ha elaborato
nel 2001, nell’ambito della collana “Le linee guida per il Master di primo livello”,
il percorso formativo post-base per l’infermiere di sanità pubblica al fine di favorire l’acquisizione di competenze professionali specifiche orientate ai problemi prioritari di salute della popolazione e
dei servizi afferenti all’Area della Sanità
Pubblica.
Nell’ottica di un sistema di primary care
fondato sull’assistenza sanitaria integrata, è infatti, necessario che l’infermiere sia in grado di gestire (pianificare,
realizzare, monitorare e valutare) strategie assistenziali globali, continue,
tempestive e di elevata qualità:
• in riposta ai bisogni di salute e ai problemi fisici, psicosociali complessi,
reali o potenziali, che possono manifestarsi nelle persone dalla nascita
alla fine della vita;
• riferite a particolari condizioni di elevata dipendenza o vulnerabilità della
persona assistita, della sua famiglia
o di una comunità.
(la bibliografia completa può essere richiesta alla
redazione- e-mail:[email protected])
15
Ottobre 2003
Tabella 1 - ambulatori infermieristici in Italia
Regione
Località & anno
Prestazioni infermieristiche
Marche
ASL 11 - Fermo
Terapia iniettiva, fleboclisi, cateterismo Solo diritti sanitari NO
vescicale, lavaggi vescicali, rilievo
per alcune prestaz.:
pressione arteriosa
ad es. £3.000terapia
endovenosa
Tutti giorni
Liguria
ASL 5 – Spezzino
(La Spezia)
Terapia iniettiva, medicazioni,
SI
elettrocardiogramma, consegna referti
ematochimici, rilievo pressione
arteriosa, prelievo della glicemia
NO
1 giorno la settimana
per fascia oraria
-
-
Tutti giorni
Terapia iniettiva, medicazioni, rilievo pressione arteriosa
-
Tutti giorni anche il
pomeriggio
Emilia-Romagna Arcispedale S.M. Nuova – Non specificato
R. Emilia
Piemonte
Lazio
ASL 2 Torino
(5 amb. Inf.)
Ticket
Pren. Orario
Opera sociale Avventista - Torino
-
NO
1 giorno la settimana
per fascia oraria
Roma - Azienda osp.ra
Stomaterapia
“S.Camillo -Forlanini”- 1999
SI
SI
Tutti giorni per fascia
oraria settimanale
Roma – Azienda Usl Rm/B Sono state attivate 7 strutture
SI, sono state tariffa- NO
dal 1999
ambulatoriali distrettuali che erogano te alcune prestazioprestazioni tecnico-professionali
ni infermieristiche
ed hanno funzioni educative,
di orientamento della domanda,
di facilitazione dell'accesso
alle prestazioni/strutture,
di accompagnamento
alla consapevolezza ed all'autogestione
Tutti giorni per fascia
oraria settimanale
AO S. Carlo Borromeo, Mi- Anamnesi infermieristica, rilievo
SI
lano, Pol.Via inganni
parametri vitali, terapia iniettiva e topica,
medicazioni e sorveglianza ferite
chirurgiche, stomie e ulcere cutanee,
rimozione punti di sutura, bendaggi
semirigidi e molli, prelievo capillare
e venoso per glicemia e colesterolemia
NO
Tutti giorni
ASL n° 13 – Novara
dal 1995
Cura delle lesioni cutanee
SI
-
-
Milano – dal 1988
Cura dello scompenso
SI
-
Tutti giorni per fascia
oraria settimanale
Milano - Istituto europeo
di oncologia - 1999
Processo di pre-ricovero delle pazienti in lista d’attesa di intervento chirurgico
senologico
-
-
Comune di Brescia
2 amb. Inf per Circ. ne
(18 ambul. Inf. in totale)
-
-
NO
Tutti giorni
Comune di Latrina
e Posticino
Prelievi ematici, medicazioni,
vaccinazioni
SI
NO
2-3 giorni la settimana
per fasce orarie
Friuli-VG
Comune di Mortegliano
UDINE
Prelievi ematici, medicazioni
SI
NO
2-3 giorni la settimana
per fasce orarie
Toscana
Arezzo – Asl n° 8 – dal 1998 Infermiere di comunità: eroga le
prestazioni maggiormente richieste dagli
utenti, gestisce un punto distaccato
del C.U.P. della ASL, gestisce un punto
di informazione per l’accesso e l’utilizzo
dei Servizi sanitari; integra risorse
sociali, sanitarie e risorse della persona
e della famiglia verso l’autocura.
-
Tutti i giorni
per fascia oraria
Distretto sanitario del
comune di Breganze - VI
NO
Lombardia
Veneto
14
Medicazioni, fleboclisi, prelievi ematici
SI
Tutti i giorni
Ottobre 2003
È indicatore di struttura la disponibilità di
una segreteria telefonica nello studio o di
un computer o di un glicometro eccetera.
Indicatore di processo è, sempre a titolo
di esempio, l’adozione di linee guida validate e condivise, l’effettuazione di spirometrie per la diagnosi di BPCO, la frequente determinazione dell’emoglobinemia glicata e della microalbuminuria nella gestione dell’assistito diabetico. Infine
sono indicatori di esito il numero di assistiti che sviluppano insufficienza renale
terminale o di quelli con un buon controllo dei valori della pressione arteriosa e
così via. Eccellenza e accreditamento
vanno considerati e verificati sui tre assi
struttura, processo ed esiti, non solo sulla struttura né solo sugli esiti. Spesso i
funzionari delle ASL assumono come indicatori di processo e/o di esito la spesa
sanitaria pro-capite per MMG o il numero
di prescrizioni, in quanto attinenti alla
spesa e facili da misurare. Si tratta, come
è ovvio, di indicatori grossolani, unanimemente ritenuti inadatti alla valutazione
della qualità dell’assistenza prestata. In
altri termini, è sempre confutabile la pretesa di valutare la qualità dell’assistenza
fornita da un MMG utilizzando esclusivamente indicatori finanziari.
Venendo alle linee guida, esse possono
essere definite come riportato nell’apposito riquadro e si inseriscono pertanto di
diritto nel DM. Considerazioni analoghe
possono essere fatte a proposito dell’Evidence-Based Medicine, importante ma
non unico strumento di validazione di dati in Medicina.
Il concetto di qualità totale è nato e si è
sviluppato in Giappone come Total Quality Management (TQM) e negli Stati Uniti come Quality Assurance (QA).In Italia il
metodo è stato introdotto nel 1984 come
Verifica e Revisione della Qualità (VRQ),
successivamente rimpiazzato dal Miglioramento Continuo della Qualità (MCQ).
Un progetto MCQ si sviluppa attraverso:
• l’identificazione dei possibili problemi;
• la scelta del problema prioritario;
• la definizione dei criteri, degli indicatori e delle soglie di buona qualità;
• la progettazione dello studio;
• l’individuazione delle possibili cause
del problema;
• l’esecuzione e l’analisi dello studio;
• la progettazione degli intervento migliorativi;
• la valutazione dell’impatto a breve termine, a medio e a lungo termine;
• la comunicazione dei risultati.
Figura 1.Ciclo PDCA di Deming
Figura 2. Esempio di ciclo di Deming nel processo di produzione di prestazioni sanitarie di qualità
La logica MCQ adotta principi che per comodità vengono indicati con acronimi,
come FOCUS, RADAR e SMART.
FOCUS si ottiene dalle iniziali delle parole inglesi Find, Organize, Clarify, Understand, Select, ossia trova le risorse, organizza i processi, chiarisci le procedure,
comprendi le criticità e seleziona gli interventi specifici necessari. All’interno di
questa sequenza si applica il ciclo PDCA
di Deming: Plan, Do, Check, Act, vale a
dire: pianifica, metti in atto, verifica, correggi.
Un ciclo di Deming è anche quello che
correla la mission o politica degli enti sanitari pubblici (volte a soddisfare i bisogni
dell’utenza) (PLAN) con l’identificazione
di obiettivi misurabili, la definizione di regole operative e il governo dei processi
generati (DO), con il controllo sistematico dell’applicazione delle regole e dell’efficacia nel perseguimento degli obiettivi
(CHECK) e con le eventuali azioni di miglioramento da introdurre (ACT).
RADAR è la sequenza Risultati, Approccio, Dispiegamento, Accertamento, Revisione. Queste sono le fasi di un tipico
progetto MCQ, attraverso la valutazione
dei risultati raggiunti, la pianificazione di
un approccio volto al raggiungimento dei
risultati attesi, il dispiegamento sistematico e completo dei mezzi a disposizione,
il monitoraggio-verifica-analisi dei risultati ottenuti.
SMART identifica le caratteristiche di un
obiettivo: Specific, Measurable, Agree
upon, Realistic, Time bound, ossia specifico, misurabile, concordato e condiviso,
realistico, pianificato nel tempo.
Il problema sta nella compatibilità o meno
di queste logiche con quelle tipiche del
setting della Medicina di Famiglia. Il nocciolo del problema è la concertazione
delle esigenze etiche e deontologiche
del MMG con quelle manageriali, anche
perché la logica del MMG tende a identificarsi maggiormente con l’acronimo che
segue:
7
Ottobre 2003
KISS:Keep It Simple and Systematic, ossia rendi le cose semplici e sistematiche.
Benché i tempi non consentano di ignorare la questione dell’appropriatezza, è
auspicabile che le seconde concorrano
con le prime nel produrre un’assistenza
di qualità. Le interpretazioni restrittive del
DM, improntate a esigenze “di cassa”,
adottate dell’amministrazione stanno però di fatto generando aree di conflitto nella Medicina di Famiglia.
A complicare la questione va rilevato che
si possono individuare molteplici aspetti
della qualità e si avranno perciò anche
molteplici metodi per misurarla; ciò significa che non è possibile misurare la qualità in senso assoluto, ma soltanto tenere
conto di alcuni indicatori più o meno affidabili. Dunque l’indicatore è come il dito
di Buddha che indica la luna: il dito non è
la luna e si deve guardare alla luna, non al
dito.
Come si è detto, Donabedian applica il
concetto di qualità dell’assistenza sanitaria sia al settore tecnico (clinico; nell’accezione anglosassone di “cure”) sia a
quello interpersonale (relazionale; nell’accezione anglosassone di “care” dell’assistenza e con ciò ricomprende entrambi nel DM.Questo corrisponde a riaffermare da un’altra prospettiva la “centralità” della relazione MMG-assistito e la
necessità di incorporare il DM nel setting
della Medicina di Famiglia.
PUNTI CHIAVE.
• Il concetto di qualità chiama in causa i
seguenti tre assi di valutazione:le strutture, i processi e gli esiti (outcome).
• Eccellenza e accreditamento vanno
considerati e verificati sui tre assi, non
solo sulla struttura né solo sugli esiti.
Spesa sanitaria pro-capite per MMG e
numero delle prescrizioni sono, di per se
stessi, indicatori grossolani, unanimemente ritenuti inadatti alla valutazione
della qualità dell’assistenza prestata.
(la bibliografia completa può essere richiesta alla
redazione- e-mail:[email protected])
Infestazioni da insetti in ambienti confinati.
Una problematica sanitaria emergente
Adele Magliano, - Entomologo, Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Regioni Lazio e Toscana
G
li insetti, appartenenti al
phylum degli artropodi, costituiscono la classe più vasta
dell’intero regno animale, rappresentando circa l’80% di tutte le specie animali presenti sul nostro pianeta. Attualmente se ne conoscono circa
un milione di specie, ma se ne stima l’esistenza di almeno 4-5 milioni; soltanto l’entomofauna italiana ne conta 40.000. Questo numero di specie ineguagliato, le loro
ridotte dimensioni e la loro capacità di
adattamento alle più avverse condizioni di
vita, hanno permesso a questi artropodi di
colonizzare gli ambienti più vari. Gli insetti, nel corso della loro evoluzione, sono divenuti praticamente ubiquitari e da sempre hanno esercitato una notevole influenza sull’uomo, interferendo sulle sue
attività lavorative, produttive e sociali, e
tutti noi siamo esposti ai fastidi da essi provocati. Basti pensare al ruolo imponente
che alcune specie di zanzara del genere
Anopheles hanno avuto nella storia del
nostro Paese: infatti la malaria è stato il
principale problema sanitario fino all’ultimo dopoguerra. Da un punto di vista sanitario gli insetti possono provocare all’uomo e agli animali due tipi di danno: uno diretto, dovuto a punture (es. zanzare, vespe ecc.), presenza molesta (es.mosche)
in special modo nelle aree periurbane o
rurali e attività parassitaria (es. pidocchi,
8
pulci); l’altro indiretto, comprende il trasporto meccanico di agenti patogeni (es.
mosche e blatte che si infettano su materiali biologici, contaminando poi il cibo
umano) e l’azione vettrice, tramite la quale possono trasmettere all’uomo microorganismi patogeni per via linfatica o ematica. Questa nota deriva dall’esperienza
che il Laboratorio di Parassitologia ed Entomologia dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Regioni Lazio e Toscana
(IZSLT), sede di Roma, ha sviluppato nell’ambito di problematiche sanitarie inerenti gli artropodi e più in particolare gli insetti, attraverso l’osservazione diretta di
numerosi casi riportati da privati cittadini o
da Enti sanitari pubblici e privati (ASL;Veterinari libero-professionisti, Medici di Medicina Generale ecc.). Infatti tra le altre attività diagnostiche routinarie che l’Istituto
svolge, vi è anche quella di identificazione
di specie, nonché di informazione riguardo l’eventuale rischio sanitario ad esse legato. L’obbiettivo del presente articolo è di
analizzare il danno diretto di tre gruppi di
insetti, spesso poco conosciuti, che possono dare infestazioni in ambiente domestico e lavorativo, e che, pur non vivendo in
stretto rapporto con l’uomo, possono essere causa accidentale di problemi sanitari. Per alcuni individui costituiscono appena un lieve problema, per altri sono
causa di sintomi importanti, evocando
Ottobre 2003
una risposta immunitaria di ipersensibilità
(fino allo shock anafilattico).
Di seguito si riportano tre schede, che si
propongono di fornire un valido mezzo di
riconoscimento degli artropodi presi in
considerazione, nonché di riportare alcune nozioni fondamentali riguardo il loro
ciclo vitale e i principali sintomi causati
dalle loro punture.
SCLERODERMI:
Scleroderma domesticum (Ord.
Hymenoptera Fam. Bethilidae) (Fig.1)
Alcuni Imenotteri della famiglia Bethilidae possono attaccare accidentalmente
l’uomo pungendo in modo molto doloroso, ma senza conseguenze gravi dal
punto di vista sanitario. In Italia la specie
più comune, anche se poco nota, è S. domesticum.Attivo cacciatore di larve di coleotteri e lepidotteri, è un insetto scuro di
Figura 1 – Scleroderma domesticum: femmina adulta (da Chiappini et al., 2001. Insetti e
restauro. Calderini Editore).
Gran parte dei paesi della Regione Europea, attivamente impegnati a riformare il proprio sistema sanitario, hanno ormai adottato, nell’ottica di un sistema di
assistenza sanitaria integrata, strategie
e programmi nazionali a lungo termine
su obiettivi di salute specifici.
In linea con le affermazioni delle diverse
Conferenze sulla “Promozione della Salute”, le Conferenze Europee sul Nursing che si sono succedute dalla Dichiarazione di Vienna (1988) in poi, hanno
messo in evidenza il ruolo e il contributo
che le professioni infermieristiche possono dare allo sviluppo di politiche pubbliche orientate alla promozione della
salute dei cittadini.
In Italia, il processo di riforma sanitaria,
ad opera del Dlgs 502/92 e del Dlgs
229/99, e la produzione legislativa in
materia socio-sanitaria (L.328/00, Progetto Obiettivo Materno Infantile, Progetto Obiettivo per la Salute Mentale),
hanno segnato in questo senso un passaggio politico-culturale importante affermando la necessità di definire profili
assistenziali integrati che consentano di
assicurare la continuità assistenziale attraverso la presa in carico del paziente
dall’inizio alla fine del processo assistenziale, e al tempo stesso favoriscano
la costruzione delle migliori condizioni
possibili per mantenere e promuovere
la salute della persona.
In quest’ottica lo sviluppo e il potenziamento dei servizi territoriali rappresentano, nel processo di progressiva deospedalizzazione, un punto qualificante
per il SSN Italiano, sul quale le Regioni e
le Aziende Sanitarie insieme anche con
i Comuni, stanno cominciando ad investire risorse, realizzando progetti tesi a
migliorare la qualità delle prestazioni
fornite all’utenza ed a favorire l’integrazione sociosanitaria.
In questo processo di cambiamento dell’organizzazione sanitaria che pone al
centro i bisogni di salute del cittadino,
l’infermiere rappresenta la figura professionale con maggiore esperienza e
competenza per attuare la personalizzazione delle cure, avendo da tempo
elaborato ed utilizzato propri modelli organizzativi ed assistenziali che consentono di valutare, individuare e risolvere i
bisogni di salute della persona.
Non è casuale, come in questi ultimi anni, siano stati attivati presso molte
aziende sanitarie numerosi servizi ambulatoriali organizzati e gestiti autono-
mamente dagli infermieri, avvalorando
ulteriormente il contenuto e l’importanza di un’esperienza così articolata, non
solo per la valorizzazione del ruolo e
della funzione svolta dalla professione
infermieristica nel gestire la salute delle
persone, ma anche per lo sviluppo di un
sistema sanitario nazionale più efficiente, capace di farsi realmente carico dei
problemi della collettività e di dare risposte concrete attraverso il supporto di tutte le competenze professionali che vi
operano.
Il modello dell’Ambulatorio Infermieristico (A.I.), risponde appositamente all’esigenza di:
• sviluppare concretamente l’offerta
dei servizi sanitari territoriali (livello
di primary care)
• assicurare la continuità assistenziale
attraverso la migliore integrazione e
coordinamento dei servizi/ professionisti/ risorse
• diversificare l’assistenza attraverso
la diffusione di strutture innovative, in
grado di mettere in rete i servizi, fornire risposte adeguate ai bisogni di
salute dei cittadini, migliorare la possibilità di accesso dei cittadini ai servizi
È importante evidenziare come l’attività
dell’A.I. non si limiti alle prestazioni
strettamente tecnico-scientifiche o manuali, ma sia proiettato verso gli ambiti
educatico-relazionali, di consulenza, di
informazione e di orientamento all’utilizzo dei servizi sanitari pubblici, di “accompagnamento” all’autogestione della
salute, nei suoi aspetti preventivi e comportamentali.
Si tratta di un aspetto essenziale per lo
sviluppo di una cultura sanitaria fondata
sulla promozione e sul mantenimento
dello stato di salute della popolazione.
Gli esempi offerti dalla realtà italiana
dell’esistenza e della funzione/funzionalità di tali strutture, inserite nella logica della continuità assistenziale, cominciano a non essere più così difficilmente
rintracciabili.
In questi ultimi anni, infatti, sono stati attivati presso molte aziende sanitarie numerosi servizi ambulatoriali interamente organizzati e gestiti autonomamente
dagli infermieri. Se si considera che soltanto navigando in internet tra i vari siti
web aziendali presenti in rete, sono stati trovati non pochi riferimenti all’attività
sanitaria svolta dagli ambulatori infermieristici (v. Tabella 1), si può ritenere
che questi siano presenti sul territorio
italiano in numero ampiamente superiore alle previsioni. Ricerche svolte on line
e attraverso fonti bibliografiche, hanno
messo in evidenza come gli ambulatori
infermieristici sorgano soprattutto in
piccoli comuni di provincia, abbastanza
decentrati dai centri urbani e dalle strutture/servizi sanitari, e come, in ragione
di ciò, questi siano considerati dei veri e
propri centri di riferimento per la popolazione locale per alcune prestazioni sanitarie (in particolare quelle di natura infermieristica). In alcuni casi, sono l’unico ponte di collegamento con le strutture sanitarie difficilmente raggiungibili
soprattutto da utenti disabili e/o con difficoltà a spostarsi (come anziani, donne
in gravidanza, ecc.).
Rispetto a ciò, può essere interessante
per un infermiere immaginare quanto le
possibili e diverse attività in un ambulatorio infermieristico possano essere stimolanti per la crescita professionale. Lo
stesso PSN 1998-2000 sembra suggerirne alcune:
“[…] giova peraltro precisare che interventi di prevenzione primaria e secondaria (quali, ad esempio, educazione
sanitaria, counselling, prevenzione individuale e per gruppi a rischio effettuata
da medici di medicina generale e da altre professionalità sanitarie) sono svolti
anche dai livelli di assistenza distrettuale e ospedaliera (nell’ambito delle risorse da essi attribuite), oltre che da settori
non sanitari, in un comune impegno di
promozione della salute”.
Anche nel caso degli ambulatori infermieristici i riferimenti che arrivano dal
contesto sono importanti ed autorevoli.
• L’OMS nel 1982 dichiara: “…gli infermieri dovrebbero essere i maggiori
fornitori dei servizi di assistenza sanitaria primaria nei Servizi Sanitari”;
• Conferenza di Vienna (1988): l’Ufficio
Regionale OMS per l’Europa raccomanda l’introduzione dell’”infermiera/e di famiglia”;
• l’Ufficio Regionale OMS per l’Europa
- Copenaghen 1999 - HEALTH 21
"Salute per tutti nel 21^ secolo": è (re)
introdotta la figura dell’"infermiere/a
di famiglia", come un professionista
chiave nella salute primaria, che può
dare un contributo sostanziale nella
promozione della salute e nella prevenzione delle malattie, pur ed a
maggior ragione svolgendo il suo
13
Luglio 2003
miere (gli ambulatori infermieristici territoriali ne sono un esempio!), mostra come ad una crescita della soddisfazione
dei cittadini, si sia unita una straordinaria efficienza nella gestione dell’assistenza.
La scommessa futura per la sanità si
gioca sulla capacità del sistema di attuare politiche pubbliche per la promozione e il miglioramento della salute della collettività attraverso:
a) la creazione di una rete di servizi territoriali (livello di primary care) di
orientamento, di filtro e alternativa ai
livelli di assistenza secondaria e terziaria, di solito erogate in ambito
ospedaliero;
b) la ricerca di nuovi modelli organizzativi in grado di assicurare la continuità dell’assistenza attraverso il coordinamento degli interventi e l’integrazione socio-sanitaria.
Ancora oggi in molte realtà, le cure sono
fornite in modo puntiforme e ripartite fra
una pluralità di professionisti invece di
essere organizzate all’interno di un’equipe multiprofessionale che fornisce
delle cure complete ed integrate orizzontalmente.
In queste condizioni non si riesce a ridurre il numero delle ospedalizzazioni
inappropriate come invece si potrebbe.
In molti Paesi europei, tra cui anche l’Italia, gli ospedali continuano a dominare
la sanità e ad assistere i pazienti che potrebbero essere trattati e gestiti addirittura meglio dai servizi territoriali.
Secondo l’OMS, la soluzione più ragionevole a questo problema potrebbe essere quella di realizzare un sistema di
assistenza sanitaria primaria basato
sull’integrazione dei servizi sanitari, sociali e di altri servizi alla persona.
Andando in questa direzione numerosi
paesi hanno previsto che la prima visita
del cittadino presso i servizi sanitari avvenga obbligatoriamente nell’ambito
dell’assistenza primaria da parte di professionisti che abbiano la funzione di
“gatekeeper”; ciò consente di dare maggiore efficienza al sistema evitando le
consultazioni superflue o ad un livello
specialistico incongruo.
La figura professionale, in tal senso, più
competente e adeguatamene formata
per farsi carico dei problemi di salute dei
cittadini, supportare le famiglie e fornire
consigli ed informazioni corrette su
aspetti specifici legati agli stili di vita sa-
12
ni e alle modalità di accesso ai servizi
sanitari, dovrà essere rappresentata
dall’infermiere di famiglia e/o dall’infermiere di comunità.
La creazione di una rete di comunicazione e interazione tra i servizi, richiede di
impegnarsi sulla continuità assistenziale, sostenendo le sinergie tra risorse e
professionalità e promuovendo, quindi,
nuove idee di sviluppo dei servizi e non
una loro costrizione. Agire nella logica
della rete significa, infatti, far sì che la
persona sia finalmente e veramente il
centro di un sistema che offre la risposta
giusta e appropriata in ogni momento,
modellando realmente il proprio servizio sulle esigenze del cittadino a cui si rivolge.
La continuità assistenziale nasconde
una complessità organizzativa ancora
oggi non risolta che va oltre le successioni ed anche le separazioni relative alle opzioni di tipo preventivo/diagnostico/terapeutico/ riabilitativo, superando
la gerarchia tra le strutture sanitarie, ed
operando sullo spostamento di tipo circolare del cittadino attraverso l’intero sistema.
Un’organizzazione che sia finalizzata a
questo tipo di obiettivo, richiede necessariamente la disponibilità di tutti i professionisti coinvolti (sanitari e non) in
grado di guidare ed indirizzare l’utente
verso il tipo di servizio di cui effettivamente necessita e di seguirlo attraverso
tutto l’iter assistenziale in maniera continuativa. Nella continuità assistenziale
non c’è, pertanto, un percorso predefinito che fa riferimento a strutture sanitarie
organizzate per livelli (primario, secondario, terziario), ma ad una serie di soluzioni assistenziali (servizi sanitari e/o
socio-sanitari) da percorrere in orizzontale e/o in verticale in base alle esigenze
di salute del cittadino (rete dei servizi)
ed essenzialmente basate sulla massima integrazione professionale, sul migliore coordinamento possibile degli interventi, secondo la logica dell’efficienza, dell’efficacia (outcome) e della qualità delle prestazioni erogate.
La politica per la "Salute per Tutti" approvata dai Paesi Membri della Regione
Europea denominata Health 21 (Salute
21: Salute per Tutti nel XXI secolo) ha
dato enorme rilievo alla necessità di trovare e implementare misure efficaci capaci di sviluppare servizi sanitari di qualità e promuovere la salute, nonché di
creare le condizioni favorevoli - WHO,
(1998) - per sviluppare un sistema di assistenza sanitaria integrata (obiettivo
15°).
La Carta di Ottawa già nel 1986 aveva,
in tal senso, “lanciato la sfida a favore di
una nuova sanità pubblica”, prospettando la necessità di sviluppare una politica
pubblica per la salute.
Nonostante siano ormai passati molti
anni dalla “Carta di Ottawa”, è ancora
opportuno e attuale parlare di “promozione della salute” riferendosi ad essa
come una specifica (Ufficio Europeo OMS) strategia di investimento che stia
dentro lo sviluppo sociale ed economico
di una nazione, regione o area locale.
Essa è, infatti, “un processo politico e
sociale globale: non solo comprende le
azioni dirette a rafforzare le abilità e le
capacità degli individui, ma anche le
azioni dirette a modificare le condizioni
sociali, ambientali ed economiche per
alleviare il loro impatto sulla salute dei
singoli e della comunità”.
L’OMS incoraggia i Paesi Membri a riorientare le proprie politiche verso il
paradigma della “promozione della salute”. Ciò è essenziale per implementare politiche per la salute capaci di affrontare le sfide del nuovo millennio. La sfida
principale non sarà confinata soltanto al
controllo della spesa sanitaria, bensì a
sviluppare una strategia intersettoriale
in grado di:
• produrre salute
• produrre ritorni aggiuntivi sociali ed
economici
• rispondere efficacemente a criteri di
equità e sostenibilità economica
In questa direzione vanno anche le recenti indicazioni dell’OMS nelle quali si
incoraggiano i Paesi Membri dell’UE
sull’importanza di creare alleanze (tra
professionisti e tra più settori della società: scuola, ospedale, città) e reti (tra
settori uguali in località diverse, ad es.:
rete delle scuole promotrici di salute,
degli ospedali promotori di salute, progetto città sane ecc.) finalizzate ad affrontare gli ostacoli alla promozione della salute.
Il programma di "Promozione della Salute ed Investimento" dell'Ufficio Europeo dell'OMS ha attivato a questo scopo
una serie di progetti innovativi che mirano a dimostrare sul campo varie possibilità manageriali, finanziarie, di sviluppo
organizzativo etc. (WHO, 1994,1995;
1996; 1997; 1998).
Luglio 2003
piccole dimensioni (2-4mm), privo di ali
(attero), molto simile ad una formica, eccetto per la presenza di un sottile aculeo
(di cui sono dotate solo le femmine) all’estremità dell’addome. I maschi sono alati, ma rarissimi: tale rarità si
spiega attraverso il fenomeno della partenogenesi, mediante il quale una femmina non fecondata può produrre uova da
cui nasceranno soltanto altre femmine.
BIOLOGIA ED ECOLOGIA
Lo Scleroderma è un parassitoide, cioè
porta a morte il suo ospite dopo aver
completato il proprio sviluppo (mentre un
parassita generalmente non uccide l’ospite). Il ciclo vitale di questo insetto è legato alle larve del comune tarlo del legno
presenti nei mobili. Nelle abitazioni si rinvengono più facilmente le femmine, che
si introducono nelle gallerie scavate dalle
larve di tarlo e, raggiunta la preda, la
paralizzano con diverse punture dell’aculeo, iniettando un secreto velenoso
molto attivo. Poi si nutrono delle larve
ospiti succhiandone l’emolinfa attraverso
piccole ferite (inferte con le mandibole),
in cui successivamente depongono le
uova. Da questo momento le femmine restano a guardia del “nido” finché le uova
schiudono e ne escono le larve.Tali insetti sono attivi da primavera ad autunno
inoltrato e le femmine adulte passano i
mesi più freddi in uno stato di ibernazione, spesso all’interno di vecchi bozzoli
tessuti dalle loro prede. In una stagione
possono compiere diverse generazioni e
moltiplicarsi piuttosto rapidamente se
l’ambiente è riscaldato.
IMPORTANZA SANITARIA
L’importanza sanitaria dello Scleroderma è legata alla reazione alla sua puntura. Nel caso in cui si venga a contatto con
le femmine, particolarmente aggressive,
si può essere punti come reazione di difesa, sia di giorno che di notte, per lo più nel
periodo primaverile-estivo (cioè quando
queste sono più attive). Le punture sono
spesso multiple e provocano ponfi molto
evidenti, ma localizzati, con dolore acuto
urente, seguito da una reazione eritemoinfliltrativa locale, che si risolve spontaneamente in circa 10 giorni. Tuttavia in
soggetti ipersensibili possono aversi manifestazioni tipo orticaria, ed anche una
sintomatologia sistemica con febbre, malessere generale, nausea ed irrequietezza, sintomi che in genere regrediscono in
un paio di giorni. Il contatto con l’insetto è
più frequente in ambienti dove è presen-
te mobilia tarlata e abitata da femmine di
Scleroderma, come ad esempio vecchie
sedie o poltrone, magari con l’imbottitura
di crine, tavoli, armadi, soffitti in legno,
ecc. Tra l’estate 2001 e l’estate 2003
presso l’IZSLT sono stati registrati 15 casi di persone che avevano rinvenuto tale
insetto nelle loro abitazioni di Roma e
dintorni. In tutti i casi ci è stato richiesto di
effettuare l’identificazione e di fornire delucidazioni sulle abitudini di quella che
era stata erroneamente confusa con un
piccolissima formica, e sui rischi sanitari
conseguenti alle punture subite. Come
prevedibile, tutte le persone interessate
possedevano mobilia tarlata in una o più
stanze dell’abitazione. Di particolare interesse è stato il caso dei lavoratori di una
ASL di Roma, che per mesi hanno subito
pesanti disagi legati alla presenza di questo insetto nei locali lavorativi, dove l’intero arredamento era costituito da vecchia
mobilia in legno. La frequenza delle punture è aumentata negli ultimi anni, proprio in rapporto alla tendenza crescente
ad arredare le abitazioni con mobili d’antiquariato, che spesso possono ospitare
larve di tarli. Per cui il controllo di infestazioni da Scleroderma passa attraverso il
controllo dei suoi ospiti, i tarli, mediante
interventi di restauro e/o disinfestazione
con opportuni prodotti chimici. Per esempio sarebbe opportuno effettuare fumigazioni con piretro intorno ai mobili e distribuire piretroidi di sintesi nel locale, così
come turare i buchi fatti dai tarli con cera
adatta.
BIOLOGIA ED ECOLOGIA
Diffusi ovunque, frequentano luoghi umidi. Hanno abitudini gregarie formando
gruppi spesso numerosi. Possono avere
più generazioni/anno a seconda delle
condizioni ambientali. La maggior parte
delle specie vive all’esterno, sopra o sotto la corteccia degli alberi, sotto pietre, o
in vecchi nidi di uccelli, dove si nutrono di
piccole alghe, muschi, funghi, oppure di
detriti animali e vegetali.
Nelle abitazioni questi insetti si possono
sviluppare a carico di muffe presenti su
carta (come nei vecchi libri -da cui il nome
“pidocchi dei libri”-, o sotto la carta da
parati nelle case umide), su imbottiture di
mobili, su collezioni botaniche e zoologiche. Da recenti studi effettuati su alcuni
appartamenti di Madrid si dimostra che la
diversità di popolazioni di Psocotteri aumenta con i metri quadri, mentre il numero di specie decresce con l’età della costruzione. Gli Psocidi delle abitazioni sono attivi durante tutti i mesi dell’anno, mostrano un picco in luglio-agosto, circa due
mesi prima di quelli non domestici. Poiché tali insetti possono anche provenire
dall’esterno, l’eventuale numero di individui nelle abitazioni dipende dal livello dell’appartamento, dal numero di finestre,
dalla presenza/assenza di alberi nelle vicinanze. I generi più comuni sono Liposcelis (frequente nelle biblioteche), Ectopsocus (diffuso nei giardini alberati e
nelle vicine abitazioni) e Trogium, noto
come “pidocchio dei libri” (frequente nelle abitazioni).
PSOCOTTERI O PSOCIDI
(Ord. Psocoptera) (Fig.2)
Noti volgarmente anche come “pidocchi
del legno e dei libri” sono insetti di piccolissime dimensioni (2-3mm), a corpo
molle, dal colore marroncino chiarissimo
fino a quasi trasparente. Hanno antenne
lunghe e filiformi, occhi composti spesso
grandi e sporgenti ai lati del capo. Esistono specie alate ed attere. Come gli sclerodermi, non si tratta di parassiti.
IMPORTANZA SANITARIA
Da un punto di vista clinico sono causa di
eruzioni cutanee eritemato-ponfoidi o
papulo-eritematose, accompagnate da
intenso prurito. Secondo alcuni le manifestazioni cutanee sopra descritte sono
dovute al morso di tali insetti, secondo altri la possibile causa della reazione è il loro schiacciamento accidentale sulla pelle. In un recente studio, mediante tecniche cliniche ed immunologiche, si è valutata, con l’uso di test allergologici, la sensibilità ad estratti di Psocotteri, su un
campione di 200 pazienti affetti da allergie nasobronchiali. Nel 20% della popolazione allergica studiata si è riscontrata
una forte reazione allergica cutanea mediata da IgE. In seguito al ripetuto contatto, alcuni individui possono sviluppare
una sensibilizzazione. È il caso dei due
eventi che si sono verificati a Roma rispettivamente nella tarda primavera
2001 in una fabbrica per imballaggi, e
Figura 2 - Esemplare adulto dell’ordine Psocoptera (da Chiappini et al., 2001. Insetti e restauro. Calderini Editore)
9
Luglio 2003
nell’estate 2002 nel magazzino dell’IZSLT.In entrambi i casi il personale, che
spesso maneggiava scatoloni, presentava le tipiche eruzioni cutanee, soprattutto
su mani e braccia, punti dove il contatto
con l’insetto era più frequente. Il controllo
di questi piccoli insetti nelle abitazioni si
basa essenzialmente sul mantenere
l’ambiente secco e pulito, per sfavorire
l’insorgere di muffe, usando eventualmente semplici repellenti quali la naftalina. Misura generale può essere anche
evitare accumulo e stoccaggio di materiale cartaceo per lungo tempo.
CIMICI DEI LETTI:
Cimex lectularius (Ord. Hemiptera
Fam. Cimicidae) (Fig.3 e 4)
Al contrario degli altri due gruppi di insetti descritti, le cimici dei letti sono veri
parassiti dell’uomo, più precisamente ectoparassiti temporanei ematofagi. Probabilmente l’uomo è venuto in contatto con
questi parassiti in tempi remoti della sua
evoluzione, attraverso i pipistrelli con cui
condivideva le caverne. Gli adulti hanno
dimensioni 4-6mm, corpo lucido, piatto
ed ovale a digiuno, di colore marrone scuro; dopo il pasto di sangue il corpo diviene
gonfio e la colorazione passa a un bruno
rossiccio. Hanno ali rudimentali o ridotte
(microtteri). L’apparato boccale è costituito da un rostro ripiegato ventralmente a riposo e disteso anteriormente al momento
della puntura. Gli stadi immaturi (ninfe)
Figura 3 – Cimex lectularius
Figura 4 – Cimex lectularius durante il pasto
di sangue
10
sono molto simili (anche per le abitudini)
all’adulto, ma di minori dimensioni e di colore giallo paglierino; un’ora dopo essere
emerse dall’uovo diventano più scure. La
famiglia a cui appartengono le cimici dei
letti (Cimicidae) è cosmopolita. Delle specie che vivono in stretto contatto con l’uomo, solamente due lo attaccano con regolarità: C. lectularius, distribuita nelle regioni temperate e subtropicali, la più comune alle nostre latitudini, è parassita anche di pipistrelli, polli ed altri animali domestici; C. hemipterus è una specie
esclusivamente tropicale, parassita di uomo, polli, e raramente di pipistrelli. Le cimici dei letti non sono vettori accertati di
nessuna malattia e non vanno confuse
con altri Emitteri, appartenenti ai Reduvidi, presenti esclusivamente nelle aree sudamericane dove possono trasmettere il
Typanosoma cruzi, agente eziologico del
morbo di Chagas.
BIOLOGIA
Questi insetti si nutrono di notte, raggiungendo un picco di attività prima dell’alba;
di giorno si nascondono in luoghi dove
possono restare a contatto con una superficie ruvida e al riparo dalla luce come
materassi, cuscini, lenzuola, intelaiature
dei letti, o nelle crepe dei muri, dietro i
mobili, sotto carta da parati, ecc. Le cimici restano confinate nelle camere da letto, o in zone dove si dorme: infatti il loro
potere di dispersione nell’ambiente è
piuttosto limitato ed è legato ad eventi accidentali, attraverso lo spostamento di
materassi, valige, scatoloni, mucchi di
abiti ecc. Si nutrono pungendo l’ospite
con i due piccoli stiletti cavi derivati dalle
mascelle: uno inietta saliva, l’altro è usato per succhiare il sangue. Dopo il pasto
di sangue, che dura circa 5-10 minuti, tornano ai loro nascondigli. Localizzano l’ospite probabilmente dall’emanazione di
anidride carbonica e di calore. Anche i
maschi, a differenza di altri insetti ematofagi ad esempio le zanzare, si nutrono di
sangue. Le cimici hanno generalmente la
tendenza a defecare durante o subito dopo il pasto di sangue. La durata del ciclo
vitale è legata alla temperatura ambientale e al numero di pasti di sangue effettuati: 5-8 settimane in condizioni favorevoli. Dopo ogni pasto le femmine depongono circa 600 uova, a lungo resistenti
nell’ambiente esterno. La ninfa consuma
un pasto di sangue per ognuna delle 5
mute; in condizioni ottimali impiega circa
un mese per divenire adulto. Come molti
organismi ematofagi possono sopravvi-
vere a periodi di digiuno anche lunghi, rimanendo in uno stato di quiescenza in
qualunque stadio si trovino. La temperatura più bassa a cui le cimici svolgono le
funzioni vitali è di circa 13°C, al di sotto
della quale lo sviluppo rallenta proporzionalmente al diminuire della temperatura
stessa. Esse si sviluppano invece assai
rapidamente quando la temperatura aumenta, per cui le infestazioni massive sono riscontrabili nelle aree più calde.I climi
temperati, di regola, non favoriscono lo
sviluppo di grandi popolazioni per la gran
parte dell’anno, a meno che non si tratti di
ambienti fortemente riscaldati.
IMPORTANZA SANITARIA
Le punture, indolori, provocano edema
ed eritema locale pruriginoso, dovuti in
buona parte a fenomeni allergici conseguenti all’inoculazione di un agente anticoagulante (inibitore della conversione
del fattore X al fattore Xa) contenuto nella saliva dell’insetto; in alcuni soggetti
l’infiammazione locale è notevole, in altri
praticamente assente; in rari casi possono manifestarsi anche malessere generale e tachicardia. Le lesioni da puntura
in genere sono raggruppate in un area limitata, perché l’insetto completa il suo
pasto di sangue a più riprese. Le zone
del corpo più comunemente interessate
sono quelle scoperte come braccia,
spalle e collo. Poiché in genere la puntura avviene attraverso biancheria, federe,
lenzuola ecc., è raro che l’individuo attaccato risulti contaminato dalle feci dell’insetto, ed è pertanto scarsa la probabilità di trasmissione di eventuali agenti infettivi che l’insetto può albergare (Spirochete, Pasteurelle, ed anche il Tyipanosoma cruzi). L’acquisizione del contagio
con virus dell’ epatite è teoricamente
possibile schiacciando l’insetto, o tramite il rigurgito di saliva durante il pasto.
Inoltre gli attacchi notturni delle cimici
possono debilitare l’uomo per il disturbo
causato al sonno, mentre pesanti infestazioni possono causare disturbi al sistema nervoso e alla digestione in soggetti ipersensibili. Una casa con una
massiva infestazione di cimici si riconosce dal suo caratteristico odore, causato
da una secrezione ghiandolare, che gli
adulti emettono se disturbati. I maggiori
componenti della secrezione sono due
aldeidi, che funzionano come ferormoni
d’allarme, causando la dispersione o
l’aggregazione di tali insetti. Anche la tipiche macchioline causate dalle feci che
questi parassiti disseminano su lenzuola
Luglio 2003
durante il pasto di sangue, coperte, pavimenti e muri, sono indicatori di infestazione. Oggigiorno le cimici sono divenute
più frequenti a causa dell’intensificarsi
degli scambi internazionali e della maggior frequenza dei viaggi intercontinentali, con conseguente trasporto passivo
tramite merci e bagagli. Presso il nostro
Istituto abbiamo potuto di recente accertarne la presenza in due hotel, uno di Roma (2001), l’altro di Parigi (2002), attraverso esemplari (1 per luogo) di tali insetti consegnati da privati cittadini, che avevano soggiornato in queste strutture alberghiere e si erano accorti di strane
macchioline di sangue sulle lenzuola. Altri casi che abbiamo seguito riguardavano abitazioni private di Roma (settembre
2003), Firenze (dicembre 2002) ed Anagni (dicembre 2002). È interessante notare che questi artropodi non sono necessariamente legati a scarse condizioni
igienico-sanitarie, come dimostrato dai
casi venuti alla nostra attenzione. L’infestazione si può confermare con l’utilizzo
di spray al piretro, che essendo irritante
per le cimici le costringe ad uscire dai loro nascondigli. Il controllo si attua con la
sostituzione del materasso e il lavaggio di
lenzuola e cuscini; per maggiore sicurezza si può usare un insetticida spray ad
uso domestico (contenente carbammati,
esteri fosforici, o piretroidi) per il trattamento delle intelaiature del letto, delle reti, lungo il perimetro delle porte, dei battiscopa e delle finestre o in ogni altro possibile nascondiglio.
In conclusione, si vuole ricordare che
un’accurata raccolta dei dati anamnestici (esposizione all’insetto), la descrizione morfologica e la conoscenza della biologia di tali insetti, unitamente all’aspetto clinico delle lesioni,
sono dati indispensabili per una corretta diagnosi di questo tipo di patologie. Anche per quanto riguarda le problematiche legate alle infestazioni in
abitazioni o in ambienti peridomestici,è necessario arrivare ad una corretta identificazione delle specie. Infatti
solo tramite la conoscenza dei cicli vitali degli artropodi implicati e della loro importanza sanitaria, è possibile
attuare, qualora necessario, un controllo integrato, con la rimozione delle
cause di infestazione e l’uso mirato di
insetticidi, salvaguardando così l’ambiente dalla tossicità a essi legata.
(la bibliografia completa può essere richiesta alla
redazione- e-mail:[email protected])
Nuovi modelli organizzativi per l’assistenza
infermieristica in italia: il modello dell’ambulatorio
infermieristico territoriale della asl roma B - (I parte)
Marinella D’Innocenzo
Direttore UOC Servizio Assistenza Infermieristica - Azienda USL Roma B
I
cambiamenti del sistema sociale,
politico, economico, culturale
hanno, progressivamente nell'arco di dieci lunghi e difficili anni
(dal 1992 ad oggi), contribuito a
modificare l'assetto del SSN attraverso
l'introduzione di nuovi modelli di organizzazione dei servizi sanitari e di gestione delle risorse con l'obiettivo di assicurare una maggiore appropriatezza,
accessibilità, competenza e qualità nell'offerta e nella produzione delle prestazioni ai cittadini.
All'interno di questo ampio processo di
riorganizzazione del SSN, caratterizzato ormai (con l'avvio del processo federalista) dall'insieme delle funzioni e dei
servizi dei diversi sistemi sanitari regionali, gli infermieri rappresentano la figura professionale ed umana in grado di
dare la spinta necessaria per superare
le disfunzioni, le disuguaglianze e le arretratezze ancora presenti in larga parte
del territorio nazionale (con il rischio
reale che possano addirittura accentuarsi!) e contribuire allo sviluppo di un
sistema sanitario basato sulla solidarietà e sull’uguaglianza dei diritti per i cittadini, indipendentemente dal reddito e
dalla residenza. L’infermiere, quale responsabile dell’assistenza generale infermieristica, può infatti, contribuire
“…ad orientare le politiche e lo sviluppo
del sistema sanitario al fine di garantire
il rispetto dei diritti degli assistiti, l’equo
utilizzo delle risorse ed ovviamente la
valorizzazione del proprio ruolo professionale…” (Codice Deontologico dell’Infermiere, 1999).
Oggi, si è di fronte a nuove ed importanti sfide per la sanità del nostro Paese:
• il federalismo e la razionalizzazione
del SSN,
• il miglioramento della qualità dei servizi,
• l’invecchiamento della popolazione,
• e malattie cronico-degenerative,
• lo sviluppo dell’assistenza territoriale.
Tra queste il processo federalista è sicuramente quello che richiederà maggiore
impegno da parte di tutti i livelli istituzionali e dei diversi professionisti impegnati nell’assicurare risposte ai problemi di
salute della popolazione. Gli infermieri
rappresentano una risorsa consistente
(ben oltre 320.000!) della Sanità ed hanno pertanto, soprattutto a fronte dei
cambiamenti che stanno interessando il
nostro Paese e il SSN (Federalismo,
L.E.A.), una grossa responsabilità nella
tutela e nello sviluppo del sistema. Occorre, in quest’ottica, creare e sviluppare una rete di alleanze che diventi polo di
riferimento stabile per coloro che credono nella necessità di mantenere e potenziare un sistema di welfare sanitario
moderno, efficiente, equo e solidale.
L’esperienza di alcune aziende sanitarie, dove sonno stati sperimentati ed
adottati nuovi modelli di organizzazione
e gestione dell’assistenza, affidandoli
alla responsabilità primaria dell’infer-
11