Comunicare il rischio – aspetti problematici in
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Comunicare il rischio – aspetti problematici in
Ottobre 2003 ISSN 1722-0831 Dicembre 2003 • Vol.4 - fasc.2 Flash dalla letteratura internazionale Vaccinazione per epatite B e celiachia Am J Gastroenterol 2003 Oct; 98 (10): 2289-92 Hepatitis B vaccine nonresponse and celiac disease Noh KW, Poland GA, Murray JA Esiste una predisposizione genetica alla non risposta al vaccino per l’epatite B, così come esiste una stretta associazione tra un particolare genotipo HLA (HLA - DQ2) e la malattia celiaca. E’ stato ipotizzato che lo stesso genotipo HLA sia coinvolto nella non risposta al vaccino per l’epatite B. Lo studio ha valutato le schede di vaccinazione per epatite B, i test sierologici di valutazione degli anticorpi anti Ag di superficie dell’epatite B (antiHBS) ed il genotipo HLA dei pazienti celiaci identificati come non responders alla vaccinazione. I 23 soggetti con diagnosi di celiachia reclutati hanno tutti ricevuto la serie completa della vaccinazione per l’epatite B.Tra tutti è stato possibile verificare la risposta al vaccino di 19. Dei 19 (tutti soggetti omozigoti o eterozigoti per DQ2), 13 non hanno sviluppato immunità a lungo termine (titolo anticorpale negativo).Poiché entrambe sono mediate geneticamente è stato ipotizzato che la malattia celiaca possa influenzare la non risposta alla vaccinazione per l’epatite B. I pazienti celiaci potrebbero avere una risposta immune ridotta, ma il meccanismo patogenetico è ancora sconosciuto. “Prevenendo” Trimestrale di Medicina Preventiva redatto a cura del Dipartimento di Prevenzione ASL RmB Viale Battista Bardanzellu, 8 00155 Roma tel. 0641434906 fax 0641434957 e-mail: [email protected] In questo numero: Proprietà Negoziazione e appropriatezza scientifica Azienda Unità Sanitaria Locale Roma B Direttore responsabile Fabrizio Ciaralli Comunicare il rischio – aspetti problematici in medicina di famiglia Guido Giustetto Medico di Famiglia – ASL108 - Pino Torinese • Comunicare il rischio – aspetti problematici in medicina di famiglia Redazione Rivista disponibile presso le seguenti biblioteche di Roma:Biblioteca della Facoltà di Medicina e Chirurgia A.Gemelli-Biblioteca Medica Statale Biblioteca dell’Università Campus Biomedico. Maria Giuseppina Bosco, Matteo Ciavarella, Gaetano Di Pasquale, Angela Marchetti, Pierangela Napoli, Sergio Rovetta, Pietro Russo, Barbara Troiani, Massimo Valenti, Obesità negli adulti Ann Intern Med 2003; 139: 930-932 Screening for obesity in Adults: Recommendations and Rationale U.S. Preventive Services Task Force L’articolo riassume le raccomandazioni dell’ U.S. Preventive Services Task Force sullo screening per l’obesità negli adulti, disponibili integralmente sul sito Web USPSTF (www.preventiveservices.gov) e sul sito Web National Guideline Clearinghouse (www.guideline.gov).Per promuovere in modo efficace la perdita di peso negli adulti obesi, si raccomanda un’attività di counselling intensivo e interventi conmportamentali. Il counselling di moderata intensità (insieme ad interventi comportamentali) non è raccomandato (assenza di evidenze sufficienti) per gli adulti obesi. Non c’è evidenza sufficiente per raccomandare o non raccomandare l’uso del counselling di ogni intensità ed interventi comportamentali per promuovere la perdita di peso sostenuta negli adulti i sovrappeso. Gli interventi più efficaci, per aiutare i pazienti ad acquisire corrette abitudini alimentari e divenire fisicamente attivi, combinano educazione nutrizionale, dieta, counselling con strategie comportamentali. Il calcolo del Body Mass Index [BMI = Kg/(h in metri)2] è valido ed attendibile per identificare gli adulti ad elevato rischio di mortalità e morbosità dovuti a sovrappeso ed obesità. Rivista disponibile presso le seguenti biblioteche di Roma:Biblioteca della Facoltà di Medicina e Chirurgia A.Gemelli-Biblioteca dell’ISS-Biblioteca del Ministero della Salute-Biblioteca dell’Area Bio-Medica “Paolo Fasella” dell’Università degli Studi Tor Vergata-Biblioteca dell’Istituto di III Clinica Medica della facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi La Sapienza. Romano Zilli Hanno collaborato a questo numero 20 Recensioni a cura di Luca Fersini, Valentina Rebella Scuola di Specializzazione in Igiene e Medicina Preventiva Università Tor Vergata - Roma • Medicina di famiglia, disease management e approccio per processi (I PARTE) Valter Accomasso, Giuseppe Cito, Marinella D’Innocenzo, Luca Fersini, Elisabetta Franco, Guido Giustetto, Adele Magliano, Paolo Marini, Elisabetta Pandolfi, Giuseppe Pingitore, Valentina Rebella, Salvatore Tripodi • Infestazioni da insetti in ambienti confinati. Una problematica sanitaria emergente • Nuovi modelli organizzativi per l’assistenza infermieristica in italia: il modello dell’ambulatorio infermieristico territoriale della asl roma B • Screening per la sifilide in gravidanza Anno II numero 4 Autorizzazione Tribunale di Roma del 20/12/2001 n.573 chiuso in redazione il 30/12/03 Il catalogo Italiano dei Periodici, tramite il quale è possibile conoscere in quali biblioteche sono presenti i periodici, è reperibile all’indirizzo internet: http://acnp.cib.unibo.it/cgi-ser/start/it/cnr/fp.html • Mucca pazza o uomo pazzo? stampato in proprio • Allergia alimentare in pediatria: la prevenzione dietetica • Vaccinazione per epatite B e celiachia CHE COS’È IL RISCHIO IN MEDICINA ? La possibilità più o meno prevedibile di subire un evento negativo per la salute. Uno o più fattori (ipercolesterolemia, ipertensione arteriosa, fumo di sigaretta, sedentarietà, alimentazione eccessiva…ricovero in ospedale) detti, appunto, di rischio possono aumentare la probabilità per il gruppo di persone nelle quali sono presenti di ammalarsi di una o più malattie o di subire eventi avversi. La probabilità è un valore teorico, statistico ed è sempre calcolata e riferita alla popolazione;per esempio un individuo di 52 anni che appartenga ad una popolazione di maschi, fumatori di 11-20 sigarette, diabetici, con Pressione Arteriosa sistolica di 134 mmHg, con colesterolo totale di 240 mg/dl ha un rischio assoluto di andare incontro ad un primo evento cardiovascolare maggiore del 20-40 % nei successivi 10 anni. Questo calcolo è basato sull’osservazione nel tempo di molti individui, dei quali si classificano e registrano alcune caratteristiche (sesso, abitudine al fumo, presenza di diabete e di ipercolesterolemia, valori di Pressione Arteriosa, per esempio) per vedere chi di loro avrà un infarto, un ictus, l’angina, ecc.; tali eventi sono poi correlati alle caratteristiche studiate e a ciascuna di queste viene attribuito un peso correlato alla sua forza nel “determinare” l’evento. È evidente come tale calcolo nulla dica sullo specifico destino di un singolo paziente che per infinite altre caratteristiche (razza, familiarità, lavoro, status socia- le…) non indagate, può discostarsi anche molto dalla popolazione statistica a cui dovrebbe corrispondere. Il guaio è che al paziente interessa conoscere (e discutere) proprio questa sua probabilità di avere qualche malattia, prima di decidere se darsi da fare per modificare le sue normali abitudini di vita, nelle quali può non essere previsto di mangiare cibi poco grassi e almeno 5 porzioni al giorno tra frutta e verdura, di salare di meno, di passeggiare 40 minuti a passo svelto almeno 4 volte la settimana, di non fumare, o addirittura di assumere regolarmente qualche pillola. Dunque la comunicazione e l’informazione sul rischio al singolo paziente presentano proprio questa differenza di modello di conoscenza, come prima difficoltà. Ad essa si aggiungono altri fattori che possono condizionare la qualità della comunicazione e sono legati al suo oggetto, al contesto in cui essa avviene, ai valori inerenti le abitudini di vita e alle convinzioni a proposito degli interventi di prevenzione della coppia medico-paziente e infine allo stile comunicativo del medico. OGGETTO Di quale rischio vogliamo parlare ? Rischio operatorio “Dottore, cosa vuol dire per me che l’intervento che devo eseguire ha un rischio del 2 per 1000 di avere delle complicazioni ? Non sarò mica io uno di quei due ? Come faccio a saperlo ?” Rischio di effetti collaterali “Mi sono letto il bugiardino del nuovo far- 1 Ottobre 2003 maco che mi ha prescritto. Guardi, io ho tanta fiducia in Lei, dottore, però ho capito che può farmi venire un’emorragia mortale. A questo punto non l’ho mica preso: tanto vale rischiare che mi venga una trombosi, se davvero mi deve venire, piuttosto che mettermi nei guai con le mie mani, assumendo questa medicina” Rischio di ammalarsi per la presenza di un fattore di rischio “Mi spiega perché mio fratello che ha il colesterolo alto come me prende la medicina senza pagarla (lui paga solo il ticket) e io me la devo pagare tutta ? Va bene che lui è più vecchio di me e ha avuto un infarto, e ha più rischi di peggiorare, ma non servirebbe per la prevenzione questa medicina ?” (Donna giovane senza altri fattori di rischio. Non rientra nella prescrizione di statine a carico SSN secondo nota CUF) CONTESTO È il medico che propone o è il paziente che richiede ? Medicina di iniziativa “Signor Rossi, Le telefono per ricordarLe di venire in studio a controllare la pressione, mi sembra che sia da un anno che non ci vediamo, e avevamo lasciato in sospeso di decidere se cominciare a prendere una pastiglia, …sa, non vorrei che rischiasse….” Un medico molto convinto prende l’iniziativa ed esplica una forte pressione. Medicina di opportunità “Sai Viviana, non tutto il male viene per nuocere, visto che sei passata da me per la distorsione del ginocchio, ne approfitto per prescriverti un pap test. Non te lo avevo ancora proposto, ma è un controllo che alla tua età conviene fare con regolarità per evitare il tumore del collo dell’utero…. (Segue spiegazione)”. Iniziativa del medico, partendo da una richiesta (d’altro tipo) della paziente. Medicina d’attesa-consultazione Paziente, di fronte al medico, porgendogli un referto di analisi: “Dottore, ho visto che il mio colesterolo è un po’alto. Alla mia età sono a rischio per l’infarto ?” Questa è la condizione ottimale in cui può svilupparsi un dialogo soddisfacente sul rischio, perché è il paziente che 2 prende l’iniziativa e quindi non ci sono dubbi che sia interessato ad affrontare il problema. I VALORI DEL MEDICO E DEL PAZIENTE – LA PROPENSIONE ALLA PREVENZIONE I valori e le convinzioni personali Il medico può essere più o meno convinto del valore della prevenzione e di conseguenza della necessità di valutare insieme con il paziente i suoi fattori di rischio. Inoltre ciascun medico ha dei suoi propri valori su ciò che è bene fare o non fare spesso strettamente correlati alle proprie abitudini e non a evidenze scientifiche. Per esempio è stato documentato che i medici fumatori sono meno propensi a consigliare ai propri pazienti di smettere di fumare. Questo è assolutamente normale ma non dovrebbe capitare che vengano propagandate delle convinzioni del tutto personali (specie salutiste o legate a particolari idee del tipo “mangiare la carne fa male”) come se fossero dei messaggi di provato valore scientifico (valore assunto proprio dal fatto che lo dice il dottore). Della stessa pasta, anche se apparentemente meno strutturati e più alla buona sono quei colleghi che hanno l’idea di diffondere il proprio buon senso (“Ma cosa vuole che sia tutta questa moda sui fattori di rischio. Faccia come me: prenda un po’ di tutto senza eccedere…in medio stat virtus !” E finita lì. Prevenire è sempre meglio che curare Un secondo aspetto che anche nella valutazione e comunicazione del rischio va senz’altro evitato è l’assioma che la Riduzione dei rischi è comunque il Bene con il suo corollario secondo il quale “Prevenire è sempre meglio che curare”. Sappiamo con certezza che questo è sbagliato, in quanto sono poche le condizioni che possono realisticamente giovarsi di un intervento di prevenzione efficace e che al contempo non sia portatore di un numero eccessivo di falsi positivi, di carichi di ansie e di interventi inutili. Quello che serve invece, caso mai, è essere tempestivi quando un paziente ci presenta una sua infermità. Il corrispettivo sul versante dei pazienti è la pretesa di essere informati su tutto nell’illusione (o nel delirio) di abolire qualsiasi rischio e di avere così l’immunità dal male. Un possibile accordo Forse il punto centrale (quasi un principio) intorno al quale dovrebbero ruotare le ragioni del medico e del paziente è essere davvero convinti che la salute è solo uno degli elementi che contribuiscono alla qualità della vita e che va rispettato il peso che ciascuno attribuisce a ciascun elemento e alle relazioni complesse che tra questi nel corso del tempo si sono create. Pertanto ogni modifica dei comportamenti va negoziata, prima ancora che tra medico (esperto –almeno si spera- di patologie) e paziente (esperto della sua vita), all’interno del paziente stesso negli equilibri fino a lì sedimentatisi e che hanno portato a quella percezione di qualità della vita. E allora per proporre un intervento al paziente, deve esserci per lui un vantaggio chiaro. Poiché è il medico che si fa garante di questa certezza, egli deve essere sicuro che le informazioni che passa al paziente siano non solo veritiere, ma anche pertinenti, cioè che siano tratte da studi i cui risultati siano trasferibili dalla popolazione nella quale si sono ottenuti a quella a cui appartiene il paziente (le due popolazioni hanno le stesse caratteristiche per sesso, razza, cultura, età…?). STILE COMUNICATIVO DEL MEDICO E CARATTERISTICHE DELLA RELAZIONE CON IL PAZIENTE Lo stile comunicativo del medico discende in gran parte dalle sue convinzioni, sia rispetto all’oggetto, sia rispetto al (livello del) diritto all’autodeterminazione riconosciuto al paziente. Si può assumere un taglio informativo distaccato e notarile (“Io l’ho informata, questi sono i dati, ora tocca a Lei decidere”), oppure uno più partecipe. Se si è molto convinti dell’importanza di modificare un comportamento ritenuto a rischio, si può assumere uno stile di propaganda, come quando si vuole far conoscere e apprezzare un prodotto o addirittura promozionale (diffonderne l’uso e il bisogno): “Tutti i pazienti a cui ho prescritto questo farmaco hanno avuto dei risultati sorprendenti:in poche settimane Ottobre 2003 dermatite atopica e sensibilizzazioni, sono identici nei due gruppi, a prescindere dal fatto che le madri avessero o meno evitato i cibi allergizzanti durante l’allattamento (16). Uno studio di metaanalisi ha preso in esame i lavori sull’argomento ed ha concluso che, sebbene sia documentata una sostanziale riduzione dello sviluppo di eczema nella prima infanzia, alcuni limiti metodologici sono presenti negli studi valutati e, pertanto, i risultati vanno interpretati con una certa cautela (17), prima di instaurare nella donna che allatta diete prive di importanti nutrienti. L’Associazione dei pediatri americani consiglia di eliminare dalla dieta della nutrice solo arachidi e noci, allergia in aumento e per la quale ci sono dati più certi (18) e di considerare caso per caso, in base al rischio, l’eliminazione di latte, uovo e pesce integrando l’eventuale dieta con l’aggiunta di calcio e vitamine. In Europa, al contrario, non viene consigliata né l’adozione di diete da parte della madre che allatta né la supplementazione calcio-vitaminica. 5. Che tipo di latte bisogna usare quale sostituto del latte vaccino? Sulla base delle indicazioni provenienti da alcuni studi (19), in passato sono state largamente utilizzate, per la prevenzione dell’allergia al latte vaccino, le formule a base di soia. Attualmente, poiché la soia stessa può essere causa di sensibilizzazione in bambini ad alto rischio, l’uso di tali formule nei primissimi mesi di vita è sconsigliato per la prevenzione dei disordini allergici; oggi si preferisce ricorrere, in sostituzione del latte vaccino, alle formule basate sugli idrolisati del latte vaccino (20), sia al nido nei giorni precedenti l’inizio della lattazione (21) sia nei casi di agalattia o ipogalattia (22). Esistono due tipi di idrolisati, ottenuti dalle proteine del latte vaccino mediante una combinazione di idrolisi e ultrafiltrazione, quelli a idrolisi parziale (pHF, partially hydrolyzed formula) e quelli a idrolisi spinta o estensiva (eHF, extensively hydrolyzed formula): la differenza è nella percentuale di frazioni proteiche (peptici) che dovrebbero essere, per la maggior parte, di peso molecolare <1500 kDa (kilo Dalton) (4). Gli idrolisati si possono ottenere a partire dalla caseina oppure dalle sieroproteine del latte, cioè _lattoalbumina e _-lattoglobulina. Un idrolisato parziale contiene quasi il 20% in peptidi di alto peso molecolare e induce reazione allergica in circa il 50% dei bambini allergici al latte (23): deve, pertanto, essere evitato nel trattamento dei bambini allergici al latte. Tuttavia, in vari studi è stato dimostrato il vantaggio derivante dal suo uso nella prevenzione dell’allergia alimentare in bambini a rischio, in confronto al latte vaccino (22, 24, 25). Risultati analoghi provengono da uno studio di meta-analisi (26). L’effetto preventivo delle formule a idrolisi estensiva è risultato superiore di quello delle formule parzialmente idrolisate (27), tuttavia il loro uso può venire limitato dal costo più elevato e dalla minore palatabilità. L’AAP raccomanda l’uso di formule ipoallergeniche eHF o almeno pHF, sia per la supplementazione che per l’alimentazione sostitutiva del lattante ad alto rischio; le società europee consigliano genericamente di ricorrere a “formule a confermata ridotta allergenicità”. Entrambe concordano nell’evitare l’uso di latti di soia per la prevenzione primaria. Non ci sono dati pubblicati sull’efficacia delle formule basate su miscele di amino-acidi per la prevenzione dell’allergia alimentare nei soggetti ad alto rischio. 6. A quale età si deve iniziare lo svezzamento? L’introduzione precoce di cibi solidi sembra aumentare il rischio di malattia atopica, soprattutto di eczema, nei bambini fino a dieci anni d’età (28-30), soprattutto nei bambini con familiarità allergica. Pertanto le società pediatriche raccomandano di iniziare lo svezzamento non prima dei 5 mesi (europei) o dei 6 mesi (americani); l’AAP, inoltre, specifica i tempi di inserimento nella dieta dei soggetti a rischio atopico degli alimenti maggiormente allergizzanti: latte vaccino a 12 mesi; uovo a 24 mesi; arachidi, noci e pesce a 3 anni. 7. La microflora intestinale ha un ruolo nell’allergia alimentare? Esistono dati epidemiologici a favore dell’ipotesi che la presenza nelle feci di alcuni microrganismi (virus dell’epatite A, toxoplasma gondii, helicobacter pilorii) sia inversamente correlata ai livelli di IgE e alla comparsa della sensibilizzazione allergica (31, 32). Sembrerebbe, in altre parole, che la stimolazione microbica dell’epitelio intestinale eserciti un’azione protettiva contro le malattie allergi- che, probabilmente per inibizione delle citochine rilasciate durante la risposta Th2-mediata dell’ospite contro le infezioni (33). Sulla base di tali evidenze alcuni ricercatori sostengono che la pressione antigenica continuamente esercitata dalla colonizzazione batterica del tratto gastrointestinale possa prevenire o, comunque, essere coinvolta nello sviluppo delle malattie allergiche. Queste premesse hanno aperto la strada a tutta una serie di studi clinici tesi a valutare il presunto effetto protettivo, e dunque preventivo, degli enterobatteri sullo sviluppo dell’allergia.In particolare, un trial randomizzato e controllato svoltosi in Finlandia (34) ha evidenziato che la somministrazione del Lactobacillus GG alla madre per 2 settimane prima del parto e poi al bambino per i primi 6 mesi, avrebbe indotto una riduzione dell’incidenza della dermatite atopica. Il trattamento non ha modificato, tuttavia, né i livelli di IgE totali e di quelle specifiche per gli alimenti, né gli altri indici immunologici. Uno studio di conferma ha avuto analoghi risultati ma nessun effetto sull’allergia al latte vaccino (35). C’è da segnalare che questi lavori provengono da un unico gruppo e sono gravati da alcuni importanti bias metodologici (36). Rimane il dubbio, infine, sul fatto che la flora batterica dei bambini di altre nazionalità sia uguale a quella dei bambini finlandesi e quindi ugualmente modificabile dall’uso dei probiotici. A questo proposito dati importanti sicuramente deriveranno da un progetto di ricerca in corso (2000-2004), finanziato dalla Comunità Europea e denominato “Allergyflora”, che coinvolge la Svezia (Goteborg e Lund), l’Inghilterra (Londra) e l’Italia, proprio con l’Ospedale “Sandro Pertini”. In ognuno di questi 3 centri sono stati arruolati 100 neonati di cui è stato seguito lo sviluppo della flora intestinale con campioni prelevati a 3 giorni, 1-2-4-8 settimane, 6 e 12 mesi di vita. Lo sviluppo di tale flora, con una particolare attenzione anche al turnover dei vari ceppi, verrà messa in correlazione da una parte con lo sviluppo di patologie allergiche, asma, rinite, dermatite atopica e allergia alimentare, e dall’altra con il livello di IgE totali e specifiche. (la bibliografia completa può essere richiesta alla redazione- e-mail:[email protected]) 19 Ottobre 2003 Allergia alimentare in pediatria: la prevenzione dietetica Giuseppe Pingitore, Salvatore Tripodi* U.O. Pediatria, Ospedale “G.B.Grassi” - *U.O. Allergologia Pediatrica, Ospedale “S. Pertini” L e manifestazioni dell’allergia alimentare interessano oggi dal 4 al 6% della popolazione pediatrica, avendo registrato un aumento negli ultimi 10 anni (1). Gli alimenti maggiormente coinvolti sono il latte vaccino, l’uovo di gallina, il grano, il pesce, la soia, le noci e, in aumento negli ultimi anni, le arachidi. Una volta avvenuta la sensibilizzazione, l’unico trattamento in grado di controllare i disturbi dovuti all’allergia, è quello di evitare di assumere l’alimento incriminato: ci sono dimostrazioni che tale strategia affretti l’acquisizione della tolleranza (2). L’elevata prevalenza della patologia giustifica l’adozione di strategie preventive nella popolazione a rischio di sensibilizzazione. La prevenzione può essere attuata a 3 livelli: • una prevenzione primaria, per evitare la comparsa delle sensibilizzazioni; • una prevenzione secondaria, nei soggetti già sensibilizzati, al fine di evitare la comparsa della malattia; • una prevenzione terziaria, nei soggetti che hanno sviluppato già i sintomi dell’allergia alimentare, al fine di evitarne il peggioramento clinico (trattamento). In questa trattazione ci occuperemo soltanto della prevenzione primaria, cercando di dare una risposta ad alcune importanti questioni. 1. Qual è la “popolazione a rischio” di sensibilizzazione? Vari tentativi sono stati fatti per individuare sicuri marcatori genetici e/o immunologici associati a sviluppo di allergie (livelli di IgE nel sangue del cordone, IgE specifice per l’uovo, basso rapporto _-interferone/interleuchina 4, eosinofili nel sangue o nei secreti, ecc) (3). Nessun test, tuttavia, ha dimostrato di avere una sufficiente sensibilità e un potere predittivo tale da essere usato per lo screening della popolazione e, attualmente, l’indi- 18 cazione più affidabile del rischio proviene dall’anamnesi familiare: la presenza di atopia in uno o entrambi i genitori oppure in uno o più fratelli è considerato il fattore di rischio più importante. Le associazioni mediche pediatriche americane (AAP) (4) e quelle europee (ESPACI e ESPGHAN) (5) suggeriscono di limitare la prevenzione a tali categorie di bambini. 2. La madre di un bambino a rischio deve stare a dieta durante la gravidanza? E stata dimostrata nel feto la possibilità di una risposta immunologia IgE verso proteine di origine alimentare (latte e uovo) e allergeni respiratori (6). Tali risposte, tuttavia, possono essere normali fenomeni immunologici non correlati allo sviluppo di patologie allergiche. Inoltre, il tentativo di prevenire l’allergia al latte e all’uovo mediante l’eliminazione di tali alimenti dalla dieta della gestante per tutto il terzo trimestre di gravidanza, non è stato accompagnato né da riduzione della sensibilizzazione né da riduzione dei sintomi di allergia, nel periodo dalla nascita fino a 5 anni di vita (7). Tali dati sono stati confermati da una metanalisi (8). Sulla base di tali evidenze sia l’AAP che l’ESPGHAN sconsigliano di instaurare, durante la gravidanza, diete prive di alimenti importanti quali latte e uovo. L’unica eccezione riguarda le arachidi (9), un alimento certamente non essenziale. 3. L’allattamento al seno previene lo sviluppo dell’allergia? Il latte materno è l’alimento ideale dal punto di vista nutrizionale, immunologico e psicologico, esalta le difese naturali e promuove l’immunoregolazione: tali motivazioni, da sole, sono sufficienti a consigliare un allattamento al seno materno prolungato ed esclusivo (10). Una meta-analisi ha esaminato 18 studi prospettici che confrontavano il latte materno con formule a base di latte vaccino ri- guardo allo sviluppo di dermatite atopica nel lattante: l’effetto protettivo del latte materno è risultato chiaramente evidente, soprattutto nei bambini con una familiarità atopica (11). Anche l’asma sembra trarre beneficio dal latte materno: i bambini che assumono latte materno esclusivo per almeno 3 mesi dopo la nascita sviluppano meno sintomi asmatici nell’età compresa fra 2 e 5 anni (12). Pertanto, a livello internazionale, viene fortemente raccomandato l’allattamento al seno esclusivo quale cardine della prevenzione, con l’unica differenza che l’AAP consiglia di prolungarlo per almeno 6 mesi e, possibilmente, fino a 12 mesi, anche se non esclusivamente, mentre per la commissione europea sono sufficienti 4-6 mesi. La durata ottimale dell’allattamento al seno esclusivo per 6 mesi è stata confermata da una metaanalisi (13). 4. La nutrice deve eliminare gli alimenti allergizzanti? Nel latte materno sono presenti allergeni alimentari ed è documentata la possibilità di una sensibilizzazione all’uovo e al latte vaccino da parte del lattante alimentato unicamente al seno materno (14); inoltre, la concentrazione di tali allergeni alimentari nel latte materno appare sufficiente a scatenare una reazione allergica, come dimostrato dalla positività del test di provocazione attraverso il latte materno effettuato su alcuni lattanti con documentata allergia al latte vaccino (15). Sono stati condotti vari studi tesi a valutare l’effetto preventivo della dieta materna, priva di alimenti potenzialmente allergizzanti, durante l’allattamento: i risultati non sono conclusivi in quanto il significativo beneficio, in termini di riduzione dell’eczema, evidenziato nel gruppo di lattanti le cui madri erano tenute a dieta priva di latte, uovo e pesce per i primi 3 mesi, si attenua col tempo fino a sparire all’età di 10 anni, quando i tassi di allergia alimentare, rinite, asma, Ottobre 2003 gli esami a posto, nessun effetto collaterale e se anche qualche volta si dimenticano della dieta…” Non manca lo stile da crociata (“Ormai lo sappiamo tutti che la sigaretta è un rischio enorme per la salute… e con questa tosse…solo un pazzo può continuare a fumare come Lei. Cosa vuole, che fra un anno ci troviamo davanti a un bel tumore del polmone ? Bel regalo ai suoi figli…”) Alcuni di questi stili si accoppiano preferibilmente con una modalità relazionale medico-paziente caratteristica. Per esempio: - Paternalistica “So io (medico) che cosa devi fare (paziente) per il tuo bene”. - Coscientemente asimmetrica. “Sappiamo di non essere uguali, e neanche sullo stesso piano, ciascuno è esperto di cose diverse e di volta in volta uno di noi ne sa di più dell’altro. Se proviamo a confrontarci, cerchiamo di trovare una mediazione accettabile”. - Di dipendenza “Dottore, tutte queste informazioni finiscono per confondermi. Lei che cosa ne pensa ? al mio posto cosa farebbe?” - Di obbedienza “Dottore, decida Lei.” SUGGERIMENTI Non è possibile indicare una modalità comunicativa che vada bene sempre quando si vuole trattare con un paziente il concetto di rischio. Tenendo conto delle innumerevoli variabili e sfumature che entrano in gioco di volta in volta e delle esemplificazioni sopra riportate, i suggerimenti che seguono si possono intendere come una check-list da spuntare mentalmente per evitare almeno gli errori più grossolani. • Informare nel modo più completo il paziente, tenendo conto del suo livello culturale e del contesto in cui si è determinata la comunicazione, nonché del momento attraversato dal paziente ottenere un eventuale consenso basato su di un’informazione capita. • Rendersi conto che quello che per il medico è un fattore di rischio ben definito, isolabile, rimovibile, per il paziente è un modo di essere consolidato, incastrato nel resto delle sue abitudini quotidiane, correlato a piaceri e motivazioni perlopiù non coscienti e contaminato dall’ambiente sociale. Orientamento al paziente comprendere il suo punto di vista. • Giungere ad una leale e dichiarata mediazione tra le diverse esigenze che emergono: le certezze (o le incertezze) del medico su quella che è considerata una buona pratica clinica, le convinzioni, anche culturali del paziente, la percezione delle sue possibilità di cambiamento, non rinunciando all’appropriatezza scientifica • Fare incontrare i modelli di interpretazione della realtà. Il paziente con la sua soggettività è il massimo esperto della sua infermità/problema. L’oggettività della probabilità statistica non può prescindere da essa cercare di fare decidere al paziente quale peso ha per lui, nell’insieme della sua vita, quel determinato rischio. • È nel diritto di ciascuno di disporre della propria salute e integrità personale. Questo non significa rinunciare a spiegare al paziente i possibili vantaggi derivanti da un comportamento (modifica del suo stile di vita, assunzione di un farmaco) che riduca il rischio di eventi avversi, ma ricordarsi che ciascun cittadino ha la libertà di determinare il proprio futuro. (la bibliografia completa può essere richiesta alla redazione- e-mail:[email protected]) Mucca pazza o uomo pazzo? Giuseppe Cito, Paolo Marini - Servizio Veterinario ASL RmB a vicenda legata alla “mucca pazza”, o meglio Encefalopatia Spongiforme Bovina (BSE), è l’esempio di come una gestione mediatica non sempre corretta possa generare allarmismi e ingiustificate paure. Si è trattato solo di una bolla di sapone, o di psicosi collettiva? In definitiva la patologia ha prodotto meno di cento morti, in tutta Europa. La spiegazione scientifica, che gode oggi di maggior credito, dell’andamento epidemico, e quindi dell’ampia diffusione della malattia nel bovino, ipotizza che l’infettività risiedesse nelle carcasse bovine riciclate per ottenere farine di carne ed ossa a loro volta destinate all’alimentazione del L bestiame. Il riciclo delle carcasse infette, nonché le modifiche tecnologiche apportate a partire dal 1981-82 (abbassamento delle temperature ed abbandono del solvente per l’estrazione dei grassi), avrebbero consentito il riciclaggio e l’amplificazione di una malattia bovina rara e non ancora identificata. Una seconda ipotesi, attualmente ritenuta meno probabile, sarebbe il riciclaggio, con le stesse modalità, dell’agente infettante della cosiddetta Scrapie ovicaprina con passaggio ai bovini e, successivamente, la propagazione attraverso il riciclo di carcasse sia bovine sia ovine. In ogni caso la responsabilità delle farine di carne ed ossa contaminate è oggi am- messa dalla quasi totalità del mondo scientifico, pertanto sono stati presi provvedimenti legislativi per quel che riguarda l’alimentazione dei ruminanti sia a livello di singoli Stati membri, a partire dal Regno Unito (divieto di utilizzo delle farine di carne ed ossa di ruminanti per l’alimentazione dei ruminanti, 1988), sia a livello Comunitario (1994). Per quel che riguarda l’Italia, il primo provvedimento ufficiale risale al 15/11/1989 e vieta l’importazione di farine di carne di ruminanti (bovini, ovini, caprini ecc.) dalla Gran Bretagna.Successivamente, sempre in Italia, a seguito anche delle Decisioni comunitarie, è stata vietata la somministrazione di farine di carne di mammifero ai ruminanti (O.M. 3 Ottobre 2003 Ottobre 2003 TRATTAMENTI INEFFICACI PER INATTIVARE PROCEDURE IN GRADO DI INATTIVARE GLI AGENTI INFETTIVI GLI AGENTI INFETTANTI DELLE EST DELLE EST AGENTI FISICI AGENTI CHIMICI Procedura ad alta efficienza Temperatura o concentrazione Tempo Calore umido (100°C per 1 ora) Etanolo NaOCl (ipoclorito di Sodio) 2% di Cloro attivo 1 ora Congelamento Formaldeide Autoclave in NaOH (idrossido di Sodio) 2 M 121 °C 30 minuti Radiazioni ultraviolette Acqua ossigenata Acido formico (tessuto cerebrale 98% fissato in formalina) Radiazioni ionizzanti Iodofori pH 2,1 - 10,5 Permanganato 1 ora Disinfettanti fenolici 28/7/94).La decisione di escludere le farine di tutti i mammiferi dall’alimentazione dei ruminanti è attualmente in vigore ed è giustificata dalla difficoltà di differenziare la specie di origine durante l’analisi delle farine stesse. LE ENCEFALOPATIE SPONGIFORMI TRASMISSIBILI (EST) Le Encefalopatie Spongiformi Trasmissibili (EST) o TSE (Transmissible Spongiform Encephalopathies) o malattie da prioni rappresentano un gruppo di malattie degenerative che colpiscono il Sistema Nervoso Centrale dell’uomo e degli animali. Nell’uomo sono state descritte finora le seguenti forme: • Malattia di Creutzfeldt-Jakob (MCJ) o CJD (Creutzfeldt-Jakob Disease) • Malattia di Gerstmann-StrausslerScheinker (GSS) • Kuru • Insonnia Familiare Fatale (IFF) • Nuova variante della Malattia di Creutzfeldt-Jacob (nvMCJ) o nvCJD Negli animali sono rappresentate da: • Scrapie della pecora, della capra e del muflone • Encefalopatia spongiforme bovina (ESB) o BSE (Bovine Spongiform Encephalopathy) • Encefalopatia trasmissibile del visone (TME o Transmissible mink encephalopathy) • Malattia del dimagrimento cronico del cervo (CWD o Chronic wasting disease) • Encefalopatia spongiforme dei bovidi selvatici • Encefalopatia spongiforme del gatto e dei felidi (FSE o Feline Spongiform Encephalopathy) L’Encefalopatia spongiforme bovina (BSE) è al momento la più tristemente fa- 4 mosa tra tutte le encefalopatie, sia per la devastante epidemia scatenatasi nel Regno Unito (più di 175.000 casi tra il 1985 ed il 1.10.1999 con quasi 35.000 allevamenti colpiti), sia per la recente dimostrazione di un legame tra la BSE e la nuova variante della MCJ (nvMCJ). Pur presentando caratteristiche biologiche di base simili, le EST sono un gruppo di malattie eterogeneo e non tutte le conoscenze relative ad una forma sono applicabili alle altre. La malattia di Creutzfeldt-Jakob, ad esempio, è diffusa in tutto il mondo con un’incidenza di circa un caso per milione di persone per anno. La Scrapie della pecora invece colpisce solo alcune greggi che presentano però un’alta percentuale di animali ammalati. Anche la trasmissione varia da una forma all’altra: le EST umane non si trasmettono per via verticale (da madre a figlio); mentre questa via è ritenuta molto probabile per la Scrapie.Alcune EST riconoscono, inoltre, un meccanismo di trasmissione di tipo ereditario (la GSS e circa il 10-15% dei casi di MCJ) con modalità di trasmissione di tipo autosomico dominante. Ancora, il patrimonio genetico è importante nella suscettibilità alla malattia nella pecora e nel topo, ma non sembra influenzarla nel bovino, visone e criceto. Comunque, al momento attuale non esistono test diagnostici per identificare i soggetti infetti da EST prima della comparsa dei sintomi clinici. Per quanto concerne le principali caratteristiche biologiche, le EST sono caratterizzate da un lungo periodo di incubazione, sintomatologia di tipo neurologico, decorso clinico progressivo e costantemente fatale, lesioni di tipo prettamente degenerativo a livello del sistema nervoso centrale (SNC).Non si rilevano lesioni infiammatorie o risposte immunitarie da parte dell’organismo, mentre è costantemente presente una proteina specifica (prione) denominata PrPres o PrPsc (res=resistente alle proteasi;sc=scrapie) la quale svolge un ruolo cruciale nella patogenesi della malattia ed è responsabile dello sviluppo delle lesioni degenerative. La PrP è una proteina normalmente presente nei neuroni, nella glia del SNC, in parecchi tessuti periferici, nei leucociti e nelle cellule spermatiche dell'organismo. Costituita da 250 aminoacidi, probabilmente svolge un ruolo nell’adesione e nel riconoscimento cellulare, nei recettori di membrana e nella chimica dei neurotrasmettitori. È rapidamente prodotta e metabolizzata all'interno dei lisosomi (emivita di circa 6 ore): questa forma viene denominata PrPsen o PrPc (sen=sensibile alle proteasi; c=cellulare). La PrPsc è invece resistente alla degradazione da parte degli enzimi lisosomiali e si accumula all'interno della cellula fino a provocarne la morte. In seguito alla lisi della cellula la PrPres si deposita nello spazio intercellulare dando luogo, in alcuni casi, alla formazione di vere e proprie "placche amiloidee". Vari studi e ricerche propongono un modello di propagazione dei prioni che comprende un’interazione diretta proteina-proteina tra la PrPc dell’ospite e la PrPsc inoculata (p.es. proveniente dall’alimentazione); la PrPsc agisce in modo tale da promuovere un’ulteriore conversione della PrPc in PrPsc tramite un processo autocatalitico che procede a cascata in modo più efficiente quando le proteine interagenti presentano la stessa struttura primaria. La comprensione del ruolo fisiologico della PrPc potrebbe essere importante per capire la patogenesi della malattia, poichè la proteina può cessare di svolgere la propria funzione quando si converte nell’isomero PrPsc. La conversione della proteina è essenzialmente di tipo conformazionale, avendo le due isoforme la stessa sequenza aminoacidica. La periodicità ottimale per l’esecuzione del test non è stata determinata ed è lasciata alla discrezione del medico. L’American College of Obstetricians and Gynecologists e l’American Academy of Pediatrics raccomandano l’esecuzione dello screening prenatale di routine in tutte le donne in gravidanza durante la prima visita. Per le gestanti ad alto rischio si raccomanda la ripetizione del test durante il terzo trimestre e al momento del parto; è importante utilizzare sempre lo stesso tipo di test per poter confrontare i risultati . A livello economico lo screening prenatale per la sifilide è vantaggioso anche quando la prevalenza della malattia tra le donne in gravidanza è solo dello 0,005%. I costi sono modesti e il vantaggio economico di un programma di prevenzione include anche i risparmi conseguenti all’assenza delle complicanze che si presenterebbero nei neonati affetti (ad es. chirurgia cardiaca valvolare, complicazioni neurologiche ecc.). Diverse analisi, che hanno comparato i costi e i benefici nel periodo 1970 - 1990 nel Regno Unito, Norvegia e Tailandia, Nome del test hanno confermato che lo screening è economicamente conveniente a meno che non ci si trovi in un’area con una prevalenza di sifilide estremamente bassa. Gli interventi di prevenzione devono comunque tenere conto dell’epidemiologia locale, della prevalenza della sifilide tra le gravide, del funzionamento del Sistema Sanitario nei diversi Paesi e delle risorse disponibili. (la bibliografia completa può essere richiesta alla redazione- e-mail:[email protected]) Tipologia dei test e modalità d’esecuzione Tests non specifici V.D.R.L (Venereal Disease Reference Laboratory) R.P.R. (Rapid Plasma Reagine) Sono reazioni di flocculazione in cui le particelle rimangono disperse se vengono in contatto con sieri non contenenti anticorpi antisifilitici; in presenza di anticorpi antisifilitici (reagine) si combinano con essi. In queste reazioni il siero da analizzare è diluito in un adsorbente contenente un estratto di treponema di ceppo Reiter che si lega con anticorpi gruppo – specifici presenti nel siero, al fine di neutralizzarli. In questo modo si evidenziano gli anticorpi tipo – specifici. Tests specifici T.P.H.A (Treponema Pallidum Haemo-agglutination Assay) Il T.P.H.A. è un test di emoagglutinazione passiva, caratterizzato da un’elevata specificità; sono rari i falsi positivi e il test si positivizza circa 12 giorni dopo la comparsa del sifiloma. F.T.A – Abs (Fluorescent Treponemal Antibody Absorption Test) L’ FTA-ABS (assorbimento anticorpale treponemico in fluorescenza) è un test d’immunofluorescenza indiretta: il siero in esame, opportunamente diluito, si mette in contatto con una sospensione di Treponemi patogeni e si aggiungono globuline marcate con fluoresceina. Gli anticorpi, se presenti, si fissano alle spirochete che a causa delle antiglobuline fluorescenti divengono visibili quando osservate in campo oscuro con luce ultravioletta, riunendosi in ammassi e flocculando. Gli anticorpi evidenziati con questo test compaiono 5-8 giorni dopo il sifiloma. T. P. I (Treponemal Immobilization Test) Il T.P.I consiste nel mettere una sospensione di Treponema pallidum appartenente al ceppo di Nicholas, estratto da sifilomi testicolari di coniglio, a contatto con diluizioni del siero da analizzare in presenza di complemento di cavia. Le spirochete presenti nella sospensione si immobilizzano in presenza di anticorpi specifici antitreponema, mentre conservano la loro mobilità a contatto con sieri privi di anticorpi antisifilitici. 17 Ottobre 2003 Screening per la sifilide in gravidanza Elisabetta Franco, Elisabetta Pandolfi Dipartimento Sanità Pubblica e Scuola di Specializzazione in Igiene e Medicina Preventiva, Università di Roma “Tor Vergata” L a sifilide, o lue, è una malattia infettiva, contagiosa, dovuta ad un batterio, il Treponema pallidum, appartenente alla famiglia delle spirochete, batteri spiraliformi, incurvati a forma elicoidale, molto mobili e flessibili. Secondo la tradizione, la sifilide venne introdotta in Europa dall’America ad opera dei marinai di Cristoforo Colombo e poi diffusa in Italia dai soldati dell’armata di Carlo VIII causando un’epidemia che si abbatté su tutta Europa verso la fine del ‘400. È una malattia diffusa in tutto il mondo in forma endemica; interessa soprattutto giovani tra i 15 e i 30 anni, è più frequente nelle aree urbane e nei maschi, tra le persone dedite alla prostituzione e i tossicodipendenti. La patologia evolve tipicamente in tre fasi: la fase primaria ha un periodo di incubazione di 2 - 6 settimane, è caratterizzata dalla comparsa in sede genitale del “sifiloma”, un nodulo eroso in superficie che si associa generalmente a linfoadenopatia loco-regionale; quando il sifiloma è cicatrizzato si sviluppa il secondo stadio della malattia con febbre e malessere generale. Segue una fase di latenza clinica che evolve in guarigione spontanea o, in assenza di terapia, in una forma terziaria con sintomatologia generalizzata. La trasmissione può avvenire per contatto sessuale (sifilide acquisita) o da madre infetta al feto (sifilide congenita). La trasmissione verticale avviene normalmente attraverso la placenta, ma può verificarsi attraverso il contatto con lesioni infette durante il passaggio nel canale del parto, oppure con lesioni del capezzolo durante l’allattamento. Nei Paesi industrializzati la sifilide congenita è molto rara (attualmente si riscontra nello 0,05% di tutti i nati vivi), soprattutto grazie all’efficacia dei programmi di prevenzione, mentre in molti Paesi in via di sviluppo continua ad essere un grave problema di Sanità Pubblica. Secondo una stima dell’OMS circa 270.000 bambini ogni anno nascono con sifilide congenita, 460.000 gravi- 16 danze finiscono in aborto o morte perinatale e 270.000 bambini circa nascono prematuri o con basso peso alla nascita. Tuttavia studi recenti evidenziano un aumento dei casi di sifilide e una riemergenza dei casi di sifilide congenita anche in Europa e in Nord America. Lo sviluppo placentare permette il passaggio del Treponema pallidum in genere dopo la 16° settimana di gestazione, per cui un corretto utilizzo dei test sierologici per lo screening prenatale e un appropriato trattamento delle gravide può prevenire la maggior parte dei casi di sifilide congenita. I test sierologici consistono nella ricerca qualitativa e quantitativa nel sangue di anticorpi non treponemici e treponemici. Le reazioni di agglutinazione con antigene cardiolipinico non specifico (V.D.R.L e R.P.R) evidenziano anticorpi antilipidici o reagine e divengono abitualmente positive 1 – 3 settimane dopo la comparsa del sifiloma, il titolo aumenta durante il periodo secondario e inizia a decrescere durante la fase di latenza; la reazione è positiva nel 75% dei casi di sifilide primaria, nel 100% dei casi di sifilide latente precoce e nel 70% dei casi di lue tardiva latente. Questi test non sono però specifici delle treponematosi e false positività si possono verificare in caso di lupus eritematosus, sclerodermia, mononucleosi infettiva, epatite virale, ecc. In caso di reattività a questi test è necessaria la conferma con reazioni con antigene treponemico ucciso (T.P.H.A e F.T.A – Abs), che sono invece specifiche per la sifilide e presentano una sensibilità di circa l’80% per la sifilide primaria, 99% per la secondaria, 95% per la sifilide latente e 94% per la sifilide congenita. False reazioni positive possono verificarsi in presenza di fattore reumatoide. Questi tests non dovrebbero essere utilizzati per lo screening iniziale essendo più costosi e rimanendo positivi in pazienti già trattati per una pregressa infezione. Utilizzati in combinazione con i tests non treponemici, tuttavia, hanno un elevato valore predittivo positivo e una specificità superiore al 99%; i risultati positivi sono perciò fortemente indicativi di un’infezione reale. Da alcuni anni si utilizzano anche tests immunoenzimatici (ELISA) che utilizzano antigeni ottenuti con la tecnica del DNA ricombinante, hanno sensibilità diversa nei vari stadi di malattia e permettono di rilevare anticorpi specifici di tipo IgM, segno di infezione in fase precoce. In caso di risultati dubbi o controversi si utilizza il test di immobilizzazione di Nelson Mayer o T.P.I. (Treponemal Immobilization Test), considerato fino a qualche anno fa il “Gold standard” (oggi sostituito dalla FTA – Abs), che si basa sulla ricerca di anticorpi immobilizzanti e richiede l’utilizzo di treponemi vivi. La legislazione italiana in materia di metodologia di screening per la sifilide fa riferimento al D.P.R 2056/62, che stabilisce che la ricerca sistematica dei casi di sifilide deve essere effettuata tramite una reazione standard con unico antigene (V.D.R.L), che una conferma con test treponemico e non treponemico deve essere eseguita limitatamente agli individui per i quali è stata ottenuta una V.D.R.L reattiva e che in presenza di risultati dubbi si deve ricorrere all’esecuzione del test di Nelson Mayer. A questo proposito la Circolare Ministeriale n. 114 del 29. 7. 1963 conviene sull’analogia del test di Nelson Mayer con la reazione F.T.A. – Abs, giudicandola idonea a risolvere il quesito posto da reazioni false positive. Data la bassa incidenza annuale della sifilide nei Paesi industrializzati lo screening di popolazione ha scarsi benefici, mentre lo screening di routine è giustificato nelle donne in gravidanza anche nelle aree a bassa incidenza a causa dell’importante morbosità e mortalità neonatali associate alla sifilide congenita e della loro potenziale prevedibilità. L’indagine sui fattori di rischio per infezioni a trasmissione sessuale è spesso poco efficace nelle donne in gravidanza, che potrebbero essere poco disposte a comunicare comportamenti a rischio o non essere a conoscenza di fattori di rischio del proprio partner. Ottobre 2003 Rimane tuttavia da chiarire se detta proteina rappresenti: • l’agente responsabile delle EST (teoria prionica) • il risultato di una trasformazione indotta da un virus (teoria virale) • oppure un acido nucleico legato ad una molecola di PrP (teoria del "virino"). Indipendentemente dall'esatta natura dell'agente eziologico, i fattori patogeneticamente più importanti sono rappresentati dall'elevata resistenza alla degradazione, dalla mancata risposta immunitaria o infiammatoria da parte dell'organismo con assenza di manicotti perivascolari e perineuronali, assenza di pleiocitosi o di un marcato incremento di proteine nel liquido cerebrospinale durante il corso della malattia. È caratteristica l'estrema resistenza a numerosi agenti fisici o chimici in grado di inattivare altri microorganismi. (Tab.1) CONCLUSIONI L’attenzione della prevenzione, per la variante della malattia di Creutzfeld-Jacob (MCJ), equivalente umano della BSE, si concentra soprattutto sulla modalità che prevede che la malattia può trasmettersi con il consumo di carne bovina contaminata. I bovini si contagiano per via alimentare se nei mangimi si trovano le farine animali fatte con le carcasse di ovini malati. La principale misura di prevenzione in merito alle misure atte ad evitare un eventuale contagio all'uomo è stata quella di evitare che tessuti ed organi che possano contenere l'agente infettante vengano immessi nella catena alimentare umana. Tale compito è svolto dai servizi veterinari pubblici che controllano gli animali durante le fasi di allevamento fino alla macellazione, dove diventano alimento umano, sotto forma di carni. Poi, controllano che i sottoprodotti eliminati dalle aziende, che producono alimenti di origine animale, siano avviati alla distruzione, secondo modalità di legge ben precise e sempre più vincolanti per i produttori (mattatoi, laboratori di sezionamento, macellerie ecc.), per evitare che vengano riciclati fraudolentemente per fare mangimi per animali. Notevole importanza ha il rispetto delle normative sulla tracciabilità delle carni che permettono di sapere a quale bovino appartiene il singolo pezzo di carne che troviamo al supermercato. Ormai tutti gli studi sulla trasmissione delle EST ad altri animali hanno evidenziato la natura infettante del cervello, del midollo spinale, della retina e dell'intestino di animali malati. Il latte ed i prodotti del latte derivati da animali infettati dalla BSE non hanno rilevato alcuna capacità di trasmettere la malattia. La Comunità Europea, dal 1988 ad oggi, ha emanato una serie di norme per tutelare la salute umana ed animale dall'infezione, tra le più importanti ed efficaci ricordiamo quelle che hanno già dato significativi risultati nel prevenire queste malattie: 1. Distruzione OBBLIGATORIA di tutti gli animali riscontrati malati; 2. Divieto di utilizzare proteine derivate da tessuti di ruminanti nell'alimentazione dei ruminanti stessi; 3. Distruzione OBBLIGATORIA di cervello, occhi, colonna vertebrale compresi i gangli spinali, midollo spinale, tonsille, milza, dei bovini di età superiore a 12 mesi e l’intestino dei bovini di tutte le età. 4. Distruzione OBBLIGATORIA di midollo spinale, cervello, occhi e tonsille degli ovini e dei caprini di età superiore a 1 anno; la milza e l’ileo degli ovini e dei caprini di tutte le età. Concludendo, tutte le misure che si stanno prendendo, da un punto di vista sanitario, saranno sicuramente adatte per combattere queste forme morbose, ma è auspicabile che siano accompagnate da un nuovo modo di produrre carni senza esasperare le innovazioni tecnologiche e nello stesso tempo senza invocare il ritorno ad una zootecnia che utilizza metodi del passato che ormai non fanno parte del nostro modo di vivere. (la bibliografia completa può essere richiesta alla redazione- e-mail:[email protected]) Medicina di famiglia, disease management e approccio per processi - (I parte) Valter Accomasso MMG - Milano rgomento oggi molto dibattuto nei convegni e congressi dell’area medica è il disease management (DM), ossia l’applicazione alla Medicina, o almeno ad alcuni campi e patologie, dei principi del management. Allo stato attuale non disponiamo di una definizione standard di “disease management”, sicché per alcuni si tratta di un sistema integrato di interventi disegnati per ottimizzare i risultati clinici ed economici per pazienti con specifiche malattie A croniche per altri più semplicemente di una modalità di gestione globale della malattia, dove gli interventi di trattamento, riabilitazione e cura sono integrati fra loro (a prescindere da valutazioni economiche), per altri ancora un modo per ottimizzare i costi e ridurre le spese (a prescindere dagli aspetti etici, medico-legali e clinici). Concetti in ogni caso fondamentali nel DM sono: • la qualità • l’appropriatezza. Entrambi i concetti vanno riferiti a struttu- re e attività o prestazioni; queste due ultime dovrebbero a loro volta essere indirizzate da linee guida, articolate in Piani Diagnostico-Terapeutici (PDT) e gestite entro logiche di processo. Si incontrano difficoltà già nel discutere di linee guida o di Evidence-Based Medicine, benché si tratti di due piccoli tasselli del più ampio ambito dei PDT, a loro volta piccola parte del DM. Ma il DM è solo un segmento dell’approccio per processi e che, di conseguenza, risulta difficile intendersi sulle linee guida e su EBM e 5 Ottobre 2003 PDT se non si è in grado di collocare il tutto nella visione per processo. In altri termini, la gestione per processo contiene il DM, che contiene i PDT, che contengono le linee guida, l’EBM e altro ancora. L’attività del MMG è da sempre caratterizzata da una tripartizione tra: ß l’aspetto tecnico o clinico, che comprende il sapere e il saper fare (ossia, ciò che si fa sapendolo fare); • l’aspetto interpersonale o relaziona- le, ossia il saper essere e il sapersi relazionale; • l’aspetto gestionale o manageriale, vale a dire l’utilizzo appropriato delle risorse disponibili allo scopo di erogare prestazioni di qualità con costi sopportabili da parte del singolo paziente, della comunità, del Sistema Sanitario Nazionale eccetera (ivi compreso il DM). In un’indagine condotta negli USA da LE LINEE GUIDA Per quanto i termini “linee guida”,“raccomandazioni”,“protocolli” e “standard” siano utilizzati come sinonimi o quanto meno in modo intercambiabile,esiste un precisa differenza e distinzione tra ognuno di essi. Le linee guida sono raccomandazioni di comportamento clinico, prodotte attraverso un processo sistematico, allo scopo di assistere medici e pazienti nel decidere quali siano le modalità assistenziali più appropriate in specifiche circostanze cliniche.Sotto la denominazione comune di “appropriatezza”ritroviamo già qui i concetti di processo sistematico di produzione delle linee guida, di modalità assistenziali (strutture, processi, risultati) e di specifiche circostanze cliniche (effectiveness). Essendo per alcuni versi simili alle procedure, le linee guida diventano, nella gestione per processi, un insieme di indicatori (di struttura, di processo, di outcome) riferiti a problemi clinici specifici, elaborati da un gruppo di pari dopo attenta revisione della letteratura esistente, allo scopo di aiutare la decisione medica e di ridurre l’alta variabilità dei comportamenti. Requisiti fondamentali per le linee guida sono la validazione scientifica e la condivisione da parte di tutti i soggetti coinvolti nell’applicazione: medici di famiglia, specialisti, paramedici, personale assistenziale, organizzazioni, malati, familiari, volontari, altri caregiver ecc. PERCORSI DIAGNOSTICO-TERAPEUTICI (PDT) E PERCORSO DEL PAZIENTE I PDT consistono nella “traduzione delle linee guida nel rispetto delle caratteristiche organizzative e della disponibilità di risorse (professionali e tecnologiche) a disposizione dell’azienda sanitaria”. Il PDT deve essere distinto dal “percorso del paziente”, che è l’oggetto di un particolare “metodo di lavoro caratterizzato da un approccio globale che abbraccia tutti gli aspetti legati alle modalità di gestione di un problema di salute”. In altri termini, se le linee guida analizzano gli aspetti clinici di un problema di salute e i PDT gli aspetti gestionali e organizzativi, nell’elaborazione del percorso del paziente, sia di riferimento sia effettivo, tutti questi aspetti vengono considerati nelle loro modalità di impiego hic et nunc, ossia nelle organizzazioni sanitarie e nelle specifiche realtà locali (strutture,personale, risorse finanziarie). Nella gestione per processi, il percorso del paziente è assimilabile a un processo con un determinato punto di partenza (input) e uno di arrivo (output), che utilizza strutture per ottenere i risultati desiderati (outcome) in termini di miglioramento della salute, perseguendo l’appropriatezza e applicando i metodi di verifica (VRQ) e/o miglioramento della qualità (MCQ); il tutto entro i limiti del bilancio, ossia delle risorse finanziarie disponibili. Sanazaro e Williamson nel lontano 1965 e pubblicata nel ’68 queste tre aree della medicina occupavano rispettivamente il 70, il 20 e il 10% per un gruppo di medici internisti impegnati a tempo pieno nell’esercizio della professione privata. Nonostante le evidenti differenze di tempi, luoghi e ruoli, la situazione attuale dei MMG italiani ed europei non sembra molto differente, salvo una verosimile modesta contrazione dell’area tecnica a favore delle altre due. La questione è allora il controllo sugli utenti, non in senso di governo autoritario o paternalistico, bensì come aspetto relazionale. PUNTI CHIAVE. • Allo stato attuale delle cose, il Medico di Famiglia non può esimersi dall’acquisire competenze di Disease Management. • Linee guida e Percorsi DiagnosticoTerapeutici sono utili strumenti per il Disease Management e per la gestione per processi. • Un processo è una serie di eventi, attività, meccanismi o prassi destinati ad ottenere un esito o anche una sequenza di attività collegate l’una all’altra da una o più transizioni, rappresentabile sotto forma di flusso input/output. Il concetto di qualità chiama in causa le strutture, i processi e gli esiti (outcome), i tre assi ove si misura appunto la qualità in termini rispettivamente di: 1. caratteristiche o proprietà fisiche ed organizzative del sistema, ossia del contesto ambientale in cui vengono effettuate le prestazioni; 2. serie di eventi, attività, meccanismi o prassi destinati ad ottenere un esito; 3. modificazioni misurabili indotte da un processo. Gli strumenti che consentono di misurare la qualità sono gli indicatori, che pertanto si distinguono in indicatori di struttura, di processo e di esito (tabella 1). Tabella 1. Classificazione degli indicatori di qualità (da Donabedian, citato in Ancona e Duccoli, modif.). INDICATORI OBIETTIVI MISURE risorsa/struttura dove? caratteristiche dell’ambiente: natura, tipo e organizzazione del servizio attività/processo cosa? cosa viene fatto esito/outcome quali vantaggi? cosa si è realizzato per il cliente 6 Ottobre 2003 ruolo nell’assistenza diretta. • P C N (Standing Commitee of Nurses) dell’Unione Europea, fondato nel 1971 e che rappresenta più di 760.000 Infermieri europei, partendo dal principio che è la formazione a fornire le basi per il futuro sviluppo della promozione della salute e per fornire assistenza, raccomanda all’Unione Europea “di preparare le infermiere per l’aumentato livello di responsabilità che porti il loro ruolo di professionisti autonomi a lavorare maggiormente nella comunità“. Dall’analisi comparativa di alcuni significativi sistemi sanitari (USA, Australia, Regno Unito) nel mondo, si evince che l’ambulatory care nursing (l’assistenza infermieristica ambulatoriale) si è ampiamente sviluppata in quei paesi in cui gli elevati costi dell’assistenza ospedaliera, la limitatezza delle risorse e l’aumento crescente della domanda sanitaria, hanno spinto i governi all’adozione di programmi sanitari specifici (come il Medicare e il Medicaid negli USA e in Australia) e, all’interno di questi, favorito la valorizzazione di tutte le competenze professionali al fine di garantire un’assistenza efficace (clinical effectiveness) per il paziente. Nell’ambito di questo processo di sviluppo dell’assistenza sanitaria di base, l’infermiere ha maturato nuove esperienze e con esse ha acquisito una maggiore consapevolezza del proprio ruolo caratterizzato da una più ampia autonomia decisionale ed operativa per gli aspetti riguardanti l’assistenza generale infermieristica alla persona. Basti pensare al nurse practitioner americano, l’infermiere di comunità, che ha la responsabilità diretta dell’assistenza infermieristica erogata alla popolazione/utente presa in carico e della valutazione del suo stato di salute; o alla district-nurse del Servizio Sanitario inglese; o ancora alla rural-nurse australiana: quest’ultima si occupa regolarmente della popolazione aborigena che vive nell’entroterra desolato del continente, svolgendo in questo modo un importante ruolo di intermediazione culturale e di collegamento tra i servizi sanitari e questi gruppi etnici superstiti. In questa logica, è possibile immaginare gli sviluppi che in Italia l’assistenza sanitaria primaria e la professione infermieristica seguiranno attraverso la diffusione degli ambulatori infermieristici. L’am- bulatorio infermieristico, infatti, costituisce: • un ambito nel quale potrà crescere e svilupparsi la figura dell’“infermiere di comunità” e/o dell’”infermiere di famiglia” con lo scopo di contribuire a realizzare quello stato di benessere della comunità (welfare community) che passa necessariamente attraverso un sistema di assistenza sanitaria integrato e a misura di “cittadino” • un recettore specifico quindi, inserito quasi a cavallo tra i livelli assistenziali definiti nel vigente PSN dell’assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e di lavoro e dell’assistenza sanitaria distrettuale • un nodo strategico per l’assistenza sanitaria di base capace di mettere in rete efficacemente i servizi sanitari e assicurare la continuità assistenziale. In Italia, la legge 42/99, in linea con la nuova riforma sanitaria, ha dato una grossa opportunità alla professione infermieristica di uscire fuori dalla struttura ospedaliera, potendo esprimere nell’assistenza sanitaria di base la propria professionalità e competenza attraverso il rapporto diretto con la cittadinanza e le sue esigenze di salute. L’assistenza infermieristica in ambulatorio si configura, infatti, in modo diverso rispetto a quella ospedaliera. Quest’ultima di tipo intensivo, costituisce soltanto un momento del processo assistenziale in quanto ha inizio con il ricovero e si esaurisce con la dimissione del paziente. Il rapporto assistenziale infermieristico in ambulatorio pur essendo di tipo episodico, si protrae indefinitamente nel tempo, consentendo all’infermiere di osservare e valutare lo stato di salute della persona per periodi lunghi e quindi di averne una conoscenza complessiva tale da rendere più efficace qualsiasi intervento di tipo terapeutico, informativo e/o educativo, nonché di orientamento all’uso dei servizi sanitari pubblici. Nell’assistenza infermieristica ambulatoriale la persona sperimenta inoltre la possibilità, attraverso l’aiuto e il sostegno dell’infermiere, di farsi carico dei propri problemi di salute e di imparare a gestirli in maniera appropriata. Questo tipo di rapporto assistenziale basato sulla reale conoscenza dei problemi del singolo cittadino, in paesi avanzati come gli Stati Uniti e nel Regno Unito, ha favorito l’acquisizione e lo sviluppo di ulteriori competenze da parte dell’infermiere, nonché ha indotto ad una revisione sostanziale della regolamentazione professionale infermieristica a favore dell’ampliamento degli ambiti di attività/responsabilità relativamente alla facoltà di prescrizione e alla gestione di medicazioni, di alcuni farmaci ed esami diagnostici e di laboratorio, alla diagnosi e al trattamento di malattie comuni o traumi minori. Non è un caso che il DMS 739/94, tra le cinque aree di formazione specialistica per l’infermiere, preveda anche la Sanità Pubblica. La FNCIPASVI, in linea con la Raccomandazione del consiglio d’Europa sulla Formazione Complementare (n.83-5) e tenuto conto del Curriculum Formativo proposto dall’OMS su “l’Infermiere di Famiglia” (Dichiarazione di Monaco, 2000), ha elaborato nel 2001, nell’ambito della collana “Le linee guida per il Master di primo livello”, il percorso formativo post-base per l’infermiere di sanità pubblica al fine di favorire l’acquisizione di competenze professionali specifiche orientate ai problemi prioritari di salute della popolazione e dei servizi afferenti all’Area della Sanità Pubblica. Nell’ottica di un sistema di primary care fondato sull’assistenza sanitaria integrata, è infatti, necessario che l’infermiere sia in grado di gestire (pianificare, realizzare, monitorare e valutare) strategie assistenziali globali, continue, tempestive e di elevata qualità: • in riposta ai bisogni di salute e ai problemi fisici, psicosociali complessi, reali o potenziali, che possono manifestarsi nelle persone dalla nascita alla fine della vita; • riferite a particolari condizioni di elevata dipendenza o vulnerabilità della persona assistita, della sua famiglia o di una comunità. (la bibliografia completa può essere richiesta alla redazione- e-mail:[email protected]) 15 Ottobre 2003 Tabella 1 - ambulatori infermieristici in Italia Regione Località & anno Prestazioni infermieristiche Marche ASL 11 - Fermo Terapia iniettiva, fleboclisi, cateterismo Solo diritti sanitari NO vescicale, lavaggi vescicali, rilievo per alcune prestaz.: pressione arteriosa ad es. £3.000terapia endovenosa Tutti giorni Liguria ASL 5 – Spezzino (La Spezia) Terapia iniettiva, medicazioni, SI elettrocardiogramma, consegna referti ematochimici, rilievo pressione arteriosa, prelievo della glicemia NO 1 giorno la settimana per fascia oraria - - Tutti giorni Terapia iniettiva, medicazioni, rilievo pressione arteriosa - Tutti giorni anche il pomeriggio Emilia-Romagna Arcispedale S.M. Nuova – Non specificato R. Emilia Piemonte Lazio ASL 2 Torino (5 amb. Inf.) Ticket Pren. Orario Opera sociale Avventista - Torino - NO 1 giorno la settimana per fascia oraria Roma - Azienda osp.ra Stomaterapia “S.Camillo -Forlanini”- 1999 SI SI Tutti giorni per fascia oraria settimanale Roma – Azienda Usl Rm/B Sono state attivate 7 strutture SI, sono state tariffa- NO dal 1999 ambulatoriali distrettuali che erogano te alcune prestazioprestazioni tecnico-professionali ni infermieristiche ed hanno funzioni educative, di orientamento della domanda, di facilitazione dell'accesso alle prestazioni/strutture, di accompagnamento alla consapevolezza ed all'autogestione Tutti giorni per fascia oraria settimanale AO S. Carlo Borromeo, Mi- Anamnesi infermieristica, rilievo SI lano, Pol.Via inganni parametri vitali, terapia iniettiva e topica, medicazioni e sorveglianza ferite chirurgiche, stomie e ulcere cutanee, rimozione punti di sutura, bendaggi semirigidi e molli, prelievo capillare e venoso per glicemia e colesterolemia NO Tutti giorni ASL n° 13 – Novara dal 1995 Cura delle lesioni cutanee SI - - Milano – dal 1988 Cura dello scompenso SI - Tutti giorni per fascia oraria settimanale Milano - Istituto europeo di oncologia - 1999 Processo di pre-ricovero delle pazienti in lista d’attesa di intervento chirurgico senologico - - Comune di Brescia 2 amb. Inf per Circ. ne (18 ambul. Inf. in totale) - - NO Tutti giorni Comune di Latrina e Posticino Prelievi ematici, medicazioni, vaccinazioni SI NO 2-3 giorni la settimana per fasce orarie Friuli-VG Comune di Mortegliano UDINE Prelievi ematici, medicazioni SI NO 2-3 giorni la settimana per fasce orarie Toscana Arezzo – Asl n° 8 – dal 1998 Infermiere di comunità: eroga le prestazioni maggiormente richieste dagli utenti, gestisce un punto distaccato del C.U.P. della ASL, gestisce un punto di informazione per l’accesso e l’utilizzo dei Servizi sanitari; integra risorse sociali, sanitarie e risorse della persona e della famiglia verso l’autocura. - Tutti i giorni per fascia oraria Distretto sanitario del comune di Breganze - VI NO Lombardia Veneto 14 Medicazioni, fleboclisi, prelievi ematici SI Tutti i giorni Ottobre 2003 È indicatore di struttura la disponibilità di una segreteria telefonica nello studio o di un computer o di un glicometro eccetera. Indicatore di processo è, sempre a titolo di esempio, l’adozione di linee guida validate e condivise, l’effettuazione di spirometrie per la diagnosi di BPCO, la frequente determinazione dell’emoglobinemia glicata e della microalbuminuria nella gestione dell’assistito diabetico. Infine sono indicatori di esito il numero di assistiti che sviluppano insufficienza renale terminale o di quelli con un buon controllo dei valori della pressione arteriosa e così via. Eccellenza e accreditamento vanno considerati e verificati sui tre assi struttura, processo ed esiti, non solo sulla struttura né solo sugli esiti. Spesso i funzionari delle ASL assumono come indicatori di processo e/o di esito la spesa sanitaria pro-capite per MMG o il numero di prescrizioni, in quanto attinenti alla spesa e facili da misurare. Si tratta, come è ovvio, di indicatori grossolani, unanimemente ritenuti inadatti alla valutazione della qualità dell’assistenza prestata. In altri termini, è sempre confutabile la pretesa di valutare la qualità dell’assistenza fornita da un MMG utilizzando esclusivamente indicatori finanziari. Venendo alle linee guida, esse possono essere definite come riportato nell’apposito riquadro e si inseriscono pertanto di diritto nel DM. Considerazioni analoghe possono essere fatte a proposito dell’Evidence-Based Medicine, importante ma non unico strumento di validazione di dati in Medicina. Il concetto di qualità totale è nato e si è sviluppato in Giappone come Total Quality Management (TQM) e negli Stati Uniti come Quality Assurance (QA).In Italia il metodo è stato introdotto nel 1984 come Verifica e Revisione della Qualità (VRQ), successivamente rimpiazzato dal Miglioramento Continuo della Qualità (MCQ). Un progetto MCQ si sviluppa attraverso: • l’identificazione dei possibili problemi; • la scelta del problema prioritario; • la definizione dei criteri, degli indicatori e delle soglie di buona qualità; • la progettazione dello studio; • l’individuazione delle possibili cause del problema; • l’esecuzione e l’analisi dello studio; • la progettazione degli intervento migliorativi; • la valutazione dell’impatto a breve termine, a medio e a lungo termine; • la comunicazione dei risultati. Figura 1.Ciclo PDCA di Deming Figura 2. Esempio di ciclo di Deming nel processo di produzione di prestazioni sanitarie di qualità La logica MCQ adotta principi che per comodità vengono indicati con acronimi, come FOCUS, RADAR e SMART. FOCUS si ottiene dalle iniziali delle parole inglesi Find, Organize, Clarify, Understand, Select, ossia trova le risorse, organizza i processi, chiarisci le procedure, comprendi le criticità e seleziona gli interventi specifici necessari. All’interno di questa sequenza si applica il ciclo PDCA di Deming: Plan, Do, Check, Act, vale a dire: pianifica, metti in atto, verifica, correggi. Un ciclo di Deming è anche quello che correla la mission o politica degli enti sanitari pubblici (volte a soddisfare i bisogni dell’utenza) (PLAN) con l’identificazione di obiettivi misurabili, la definizione di regole operative e il governo dei processi generati (DO), con il controllo sistematico dell’applicazione delle regole e dell’efficacia nel perseguimento degli obiettivi (CHECK) e con le eventuali azioni di miglioramento da introdurre (ACT). RADAR è la sequenza Risultati, Approccio, Dispiegamento, Accertamento, Revisione. Queste sono le fasi di un tipico progetto MCQ, attraverso la valutazione dei risultati raggiunti, la pianificazione di un approccio volto al raggiungimento dei risultati attesi, il dispiegamento sistematico e completo dei mezzi a disposizione, il monitoraggio-verifica-analisi dei risultati ottenuti. SMART identifica le caratteristiche di un obiettivo: Specific, Measurable, Agree upon, Realistic, Time bound, ossia specifico, misurabile, concordato e condiviso, realistico, pianificato nel tempo. Il problema sta nella compatibilità o meno di queste logiche con quelle tipiche del setting della Medicina di Famiglia. Il nocciolo del problema è la concertazione delle esigenze etiche e deontologiche del MMG con quelle manageriali, anche perché la logica del MMG tende a identificarsi maggiormente con l’acronimo che segue: 7 Ottobre 2003 KISS:Keep It Simple and Systematic, ossia rendi le cose semplici e sistematiche. Benché i tempi non consentano di ignorare la questione dell’appropriatezza, è auspicabile che le seconde concorrano con le prime nel produrre un’assistenza di qualità. Le interpretazioni restrittive del DM, improntate a esigenze “di cassa”, adottate dell’amministrazione stanno però di fatto generando aree di conflitto nella Medicina di Famiglia. A complicare la questione va rilevato che si possono individuare molteplici aspetti della qualità e si avranno perciò anche molteplici metodi per misurarla; ciò significa che non è possibile misurare la qualità in senso assoluto, ma soltanto tenere conto di alcuni indicatori più o meno affidabili. Dunque l’indicatore è come il dito di Buddha che indica la luna: il dito non è la luna e si deve guardare alla luna, non al dito. Come si è detto, Donabedian applica il concetto di qualità dell’assistenza sanitaria sia al settore tecnico (clinico; nell’accezione anglosassone di “cure”) sia a quello interpersonale (relazionale; nell’accezione anglosassone di “care” dell’assistenza e con ciò ricomprende entrambi nel DM.Questo corrisponde a riaffermare da un’altra prospettiva la “centralità” della relazione MMG-assistito e la necessità di incorporare il DM nel setting della Medicina di Famiglia. PUNTI CHIAVE. • Il concetto di qualità chiama in causa i seguenti tre assi di valutazione:le strutture, i processi e gli esiti (outcome). • Eccellenza e accreditamento vanno considerati e verificati sui tre assi, non solo sulla struttura né solo sugli esiti. Spesa sanitaria pro-capite per MMG e numero delle prescrizioni sono, di per se stessi, indicatori grossolani, unanimemente ritenuti inadatti alla valutazione della qualità dell’assistenza prestata. (la bibliografia completa può essere richiesta alla redazione- e-mail:[email protected]) Infestazioni da insetti in ambienti confinati. Una problematica sanitaria emergente Adele Magliano, - Entomologo, Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Regioni Lazio e Toscana G li insetti, appartenenti al phylum degli artropodi, costituiscono la classe più vasta dell’intero regno animale, rappresentando circa l’80% di tutte le specie animali presenti sul nostro pianeta. Attualmente se ne conoscono circa un milione di specie, ma se ne stima l’esistenza di almeno 4-5 milioni; soltanto l’entomofauna italiana ne conta 40.000. Questo numero di specie ineguagliato, le loro ridotte dimensioni e la loro capacità di adattamento alle più avverse condizioni di vita, hanno permesso a questi artropodi di colonizzare gli ambienti più vari. Gli insetti, nel corso della loro evoluzione, sono divenuti praticamente ubiquitari e da sempre hanno esercitato una notevole influenza sull’uomo, interferendo sulle sue attività lavorative, produttive e sociali, e tutti noi siamo esposti ai fastidi da essi provocati. Basti pensare al ruolo imponente che alcune specie di zanzara del genere Anopheles hanno avuto nella storia del nostro Paese: infatti la malaria è stato il principale problema sanitario fino all’ultimo dopoguerra. Da un punto di vista sanitario gli insetti possono provocare all’uomo e agli animali due tipi di danno: uno diretto, dovuto a punture (es. zanzare, vespe ecc.), presenza molesta (es.mosche) in special modo nelle aree periurbane o rurali e attività parassitaria (es. pidocchi, 8 pulci); l’altro indiretto, comprende il trasporto meccanico di agenti patogeni (es. mosche e blatte che si infettano su materiali biologici, contaminando poi il cibo umano) e l’azione vettrice, tramite la quale possono trasmettere all’uomo microorganismi patogeni per via linfatica o ematica. Questa nota deriva dall’esperienza che il Laboratorio di Parassitologia ed Entomologia dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Regioni Lazio e Toscana (IZSLT), sede di Roma, ha sviluppato nell’ambito di problematiche sanitarie inerenti gli artropodi e più in particolare gli insetti, attraverso l’osservazione diretta di numerosi casi riportati da privati cittadini o da Enti sanitari pubblici e privati (ASL;Veterinari libero-professionisti, Medici di Medicina Generale ecc.). Infatti tra le altre attività diagnostiche routinarie che l’Istituto svolge, vi è anche quella di identificazione di specie, nonché di informazione riguardo l’eventuale rischio sanitario ad esse legato. L’obbiettivo del presente articolo è di analizzare il danno diretto di tre gruppi di insetti, spesso poco conosciuti, che possono dare infestazioni in ambiente domestico e lavorativo, e che, pur non vivendo in stretto rapporto con l’uomo, possono essere causa accidentale di problemi sanitari. Per alcuni individui costituiscono appena un lieve problema, per altri sono causa di sintomi importanti, evocando Ottobre 2003 una risposta immunitaria di ipersensibilità (fino allo shock anafilattico). Di seguito si riportano tre schede, che si propongono di fornire un valido mezzo di riconoscimento degli artropodi presi in considerazione, nonché di riportare alcune nozioni fondamentali riguardo il loro ciclo vitale e i principali sintomi causati dalle loro punture. SCLERODERMI: Scleroderma domesticum (Ord. Hymenoptera Fam. Bethilidae) (Fig.1) Alcuni Imenotteri della famiglia Bethilidae possono attaccare accidentalmente l’uomo pungendo in modo molto doloroso, ma senza conseguenze gravi dal punto di vista sanitario. In Italia la specie più comune, anche se poco nota, è S. domesticum.Attivo cacciatore di larve di coleotteri e lepidotteri, è un insetto scuro di Figura 1 – Scleroderma domesticum: femmina adulta (da Chiappini et al., 2001. Insetti e restauro. Calderini Editore). Gran parte dei paesi della Regione Europea, attivamente impegnati a riformare il proprio sistema sanitario, hanno ormai adottato, nell’ottica di un sistema di assistenza sanitaria integrata, strategie e programmi nazionali a lungo termine su obiettivi di salute specifici. In linea con le affermazioni delle diverse Conferenze sulla “Promozione della Salute”, le Conferenze Europee sul Nursing che si sono succedute dalla Dichiarazione di Vienna (1988) in poi, hanno messo in evidenza il ruolo e il contributo che le professioni infermieristiche possono dare allo sviluppo di politiche pubbliche orientate alla promozione della salute dei cittadini. In Italia, il processo di riforma sanitaria, ad opera del Dlgs 502/92 e del Dlgs 229/99, e la produzione legislativa in materia socio-sanitaria (L.328/00, Progetto Obiettivo Materno Infantile, Progetto Obiettivo per la Salute Mentale), hanno segnato in questo senso un passaggio politico-culturale importante affermando la necessità di definire profili assistenziali integrati che consentano di assicurare la continuità assistenziale attraverso la presa in carico del paziente dall’inizio alla fine del processo assistenziale, e al tempo stesso favoriscano la costruzione delle migliori condizioni possibili per mantenere e promuovere la salute della persona. In quest’ottica lo sviluppo e il potenziamento dei servizi territoriali rappresentano, nel processo di progressiva deospedalizzazione, un punto qualificante per il SSN Italiano, sul quale le Regioni e le Aziende Sanitarie insieme anche con i Comuni, stanno cominciando ad investire risorse, realizzando progetti tesi a migliorare la qualità delle prestazioni fornite all’utenza ed a favorire l’integrazione sociosanitaria. In questo processo di cambiamento dell’organizzazione sanitaria che pone al centro i bisogni di salute del cittadino, l’infermiere rappresenta la figura professionale con maggiore esperienza e competenza per attuare la personalizzazione delle cure, avendo da tempo elaborato ed utilizzato propri modelli organizzativi ed assistenziali che consentono di valutare, individuare e risolvere i bisogni di salute della persona. Non è casuale, come in questi ultimi anni, siano stati attivati presso molte aziende sanitarie numerosi servizi ambulatoriali organizzati e gestiti autono- mamente dagli infermieri, avvalorando ulteriormente il contenuto e l’importanza di un’esperienza così articolata, non solo per la valorizzazione del ruolo e della funzione svolta dalla professione infermieristica nel gestire la salute delle persone, ma anche per lo sviluppo di un sistema sanitario nazionale più efficiente, capace di farsi realmente carico dei problemi della collettività e di dare risposte concrete attraverso il supporto di tutte le competenze professionali che vi operano. Il modello dell’Ambulatorio Infermieristico (A.I.), risponde appositamente all’esigenza di: • sviluppare concretamente l’offerta dei servizi sanitari territoriali (livello di primary care) • assicurare la continuità assistenziale attraverso la migliore integrazione e coordinamento dei servizi/ professionisti/ risorse • diversificare l’assistenza attraverso la diffusione di strutture innovative, in grado di mettere in rete i servizi, fornire risposte adeguate ai bisogni di salute dei cittadini, migliorare la possibilità di accesso dei cittadini ai servizi È importante evidenziare come l’attività dell’A.I. non si limiti alle prestazioni strettamente tecnico-scientifiche o manuali, ma sia proiettato verso gli ambiti educatico-relazionali, di consulenza, di informazione e di orientamento all’utilizzo dei servizi sanitari pubblici, di “accompagnamento” all’autogestione della salute, nei suoi aspetti preventivi e comportamentali. Si tratta di un aspetto essenziale per lo sviluppo di una cultura sanitaria fondata sulla promozione e sul mantenimento dello stato di salute della popolazione. Gli esempi offerti dalla realtà italiana dell’esistenza e della funzione/funzionalità di tali strutture, inserite nella logica della continuità assistenziale, cominciano a non essere più così difficilmente rintracciabili. In questi ultimi anni, infatti, sono stati attivati presso molte aziende sanitarie numerosi servizi ambulatoriali interamente organizzati e gestiti autonomamente dagli infermieri. Se si considera che soltanto navigando in internet tra i vari siti web aziendali presenti in rete, sono stati trovati non pochi riferimenti all’attività sanitaria svolta dagli ambulatori infermieristici (v. Tabella 1), si può ritenere che questi siano presenti sul territorio italiano in numero ampiamente superiore alle previsioni. Ricerche svolte on line e attraverso fonti bibliografiche, hanno messo in evidenza come gli ambulatori infermieristici sorgano soprattutto in piccoli comuni di provincia, abbastanza decentrati dai centri urbani e dalle strutture/servizi sanitari, e come, in ragione di ciò, questi siano considerati dei veri e propri centri di riferimento per la popolazione locale per alcune prestazioni sanitarie (in particolare quelle di natura infermieristica). In alcuni casi, sono l’unico ponte di collegamento con le strutture sanitarie difficilmente raggiungibili soprattutto da utenti disabili e/o con difficoltà a spostarsi (come anziani, donne in gravidanza, ecc.). Rispetto a ciò, può essere interessante per un infermiere immaginare quanto le possibili e diverse attività in un ambulatorio infermieristico possano essere stimolanti per la crescita professionale. Lo stesso PSN 1998-2000 sembra suggerirne alcune: “[…] giova peraltro precisare che interventi di prevenzione primaria e secondaria (quali, ad esempio, educazione sanitaria, counselling, prevenzione individuale e per gruppi a rischio effettuata da medici di medicina generale e da altre professionalità sanitarie) sono svolti anche dai livelli di assistenza distrettuale e ospedaliera (nell’ambito delle risorse da essi attribuite), oltre che da settori non sanitari, in un comune impegno di promozione della salute”. Anche nel caso degli ambulatori infermieristici i riferimenti che arrivano dal contesto sono importanti ed autorevoli. • L’OMS nel 1982 dichiara: “…gli infermieri dovrebbero essere i maggiori fornitori dei servizi di assistenza sanitaria primaria nei Servizi Sanitari”; • Conferenza di Vienna (1988): l’Ufficio Regionale OMS per l’Europa raccomanda l’introduzione dell’”infermiera/e di famiglia”; • l’Ufficio Regionale OMS per l’Europa - Copenaghen 1999 - HEALTH 21 "Salute per tutti nel 21^ secolo": è (re) introdotta la figura dell’"infermiere/a di famiglia", come un professionista chiave nella salute primaria, che può dare un contributo sostanziale nella promozione della salute e nella prevenzione delle malattie, pur ed a maggior ragione svolgendo il suo 13 Luglio 2003 miere (gli ambulatori infermieristici territoriali ne sono un esempio!), mostra come ad una crescita della soddisfazione dei cittadini, si sia unita una straordinaria efficienza nella gestione dell’assistenza. La scommessa futura per la sanità si gioca sulla capacità del sistema di attuare politiche pubbliche per la promozione e il miglioramento della salute della collettività attraverso: a) la creazione di una rete di servizi territoriali (livello di primary care) di orientamento, di filtro e alternativa ai livelli di assistenza secondaria e terziaria, di solito erogate in ambito ospedaliero; b) la ricerca di nuovi modelli organizzativi in grado di assicurare la continuità dell’assistenza attraverso il coordinamento degli interventi e l’integrazione socio-sanitaria. Ancora oggi in molte realtà, le cure sono fornite in modo puntiforme e ripartite fra una pluralità di professionisti invece di essere organizzate all’interno di un’equipe multiprofessionale che fornisce delle cure complete ed integrate orizzontalmente. In queste condizioni non si riesce a ridurre il numero delle ospedalizzazioni inappropriate come invece si potrebbe. In molti Paesi europei, tra cui anche l’Italia, gli ospedali continuano a dominare la sanità e ad assistere i pazienti che potrebbero essere trattati e gestiti addirittura meglio dai servizi territoriali. Secondo l’OMS, la soluzione più ragionevole a questo problema potrebbe essere quella di realizzare un sistema di assistenza sanitaria primaria basato sull’integrazione dei servizi sanitari, sociali e di altri servizi alla persona. Andando in questa direzione numerosi paesi hanno previsto che la prima visita del cittadino presso i servizi sanitari avvenga obbligatoriamente nell’ambito dell’assistenza primaria da parte di professionisti che abbiano la funzione di “gatekeeper”; ciò consente di dare maggiore efficienza al sistema evitando le consultazioni superflue o ad un livello specialistico incongruo. La figura professionale, in tal senso, più competente e adeguatamene formata per farsi carico dei problemi di salute dei cittadini, supportare le famiglie e fornire consigli ed informazioni corrette su aspetti specifici legati agli stili di vita sa- 12 ni e alle modalità di accesso ai servizi sanitari, dovrà essere rappresentata dall’infermiere di famiglia e/o dall’infermiere di comunità. La creazione di una rete di comunicazione e interazione tra i servizi, richiede di impegnarsi sulla continuità assistenziale, sostenendo le sinergie tra risorse e professionalità e promuovendo, quindi, nuove idee di sviluppo dei servizi e non una loro costrizione. Agire nella logica della rete significa, infatti, far sì che la persona sia finalmente e veramente il centro di un sistema che offre la risposta giusta e appropriata in ogni momento, modellando realmente il proprio servizio sulle esigenze del cittadino a cui si rivolge. La continuità assistenziale nasconde una complessità organizzativa ancora oggi non risolta che va oltre le successioni ed anche le separazioni relative alle opzioni di tipo preventivo/diagnostico/terapeutico/ riabilitativo, superando la gerarchia tra le strutture sanitarie, ed operando sullo spostamento di tipo circolare del cittadino attraverso l’intero sistema. Un’organizzazione che sia finalizzata a questo tipo di obiettivo, richiede necessariamente la disponibilità di tutti i professionisti coinvolti (sanitari e non) in grado di guidare ed indirizzare l’utente verso il tipo di servizio di cui effettivamente necessita e di seguirlo attraverso tutto l’iter assistenziale in maniera continuativa. Nella continuità assistenziale non c’è, pertanto, un percorso predefinito che fa riferimento a strutture sanitarie organizzate per livelli (primario, secondario, terziario), ma ad una serie di soluzioni assistenziali (servizi sanitari e/o socio-sanitari) da percorrere in orizzontale e/o in verticale in base alle esigenze di salute del cittadino (rete dei servizi) ed essenzialmente basate sulla massima integrazione professionale, sul migliore coordinamento possibile degli interventi, secondo la logica dell’efficienza, dell’efficacia (outcome) e della qualità delle prestazioni erogate. La politica per la "Salute per Tutti" approvata dai Paesi Membri della Regione Europea denominata Health 21 (Salute 21: Salute per Tutti nel XXI secolo) ha dato enorme rilievo alla necessità di trovare e implementare misure efficaci capaci di sviluppare servizi sanitari di qualità e promuovere la salute, nonché di creare le condizioni favorevoli - WHO, (1998) - per sviluppare un sistema di assistenza sanitaria integrata (obiettivo 15°). La Carta di Ottawa già nel 1986 aveva, in tal senso, “lanciato la sfida a favore di una nuova sanità pubblica”, prospettando la necessità di sviluppare una politica pubblica per la salute. Nonostante siano ormai passati molti anni dalla “Carta di Ottawa”, è ancora opportuno e attuale parlare di “promozione della salute” riferendosi ad essa come una specifica (Ufficio Europeo OMS) strategia di investimento che stia dentro lo sviluppo sociale ed economico di una nazione, regione o area locale. Essa è, infatti, “un processo politico e sociale globale: non solo comprende le azioni dirette a rafforzare le abilità e le capacità degli individui, ma anche le azioni dirette a modificare le condizioni sociali, ambientali ed economiche per alleviare il loro impatto sulla salute dei singoli e della comunità”. L’OMS incoraggia i Paesi Membri a riorientare le proprie politiche verso il paradigma della “promozione della salute”. Ciò è essenziale per implementare politiche per la salute capaci di affrontare le sfide del nuovo millennio. La sfida principale non sarà confinata soltanto al controllo della spesa sanitaria, bensì a sviluppare una strategia intersettoriale in grado di: • produrre salute • produrre ritorni aggiuntivi sociali ed economici • rispondere efficacemente a criteri di equità e sostenibilità economica In questa direzione vanno anche le recenti indicazioni dell’OMS nelle quali si incoraggiano i Paesi Membri dell’UE sull’importanza di creare alleanze (tra professionisti e tra più settori della società: scuola, ospedale, città) e reti (tra settori uguali in località diverse, ad es.: rete delle scuole promotrici di salute, degli ospedali promotori di salute, progetto città sane ecc.) finalizzate ad affrontare gli ostacoli alla promozione della salute. Il programma di "Promozione della Salute ed Investimento" dell'Ufficio Europeo dell'OMS ha attivato a questo scopo una serie di progetti innovativi che mirano a dimostrare sul campo varie possibilità manageriali, finanziarie, di sviluppo organizzativo etc. (WHO, 1994,1995; 1996; 1997; 1998). Luglio 2003 piccole dimensioni (2-4mm), privo di ali (attero), molto simile ad una formica, eccetto per la presenza di un sottile aculeo (di cui sono dotate solo le femmine) all’estremità dell’addome. I maschi sono alati, ma rarissimi: tale rarità si spiega attraverso il fenomeno della partenogenesi, mediante il quale una femmina non fecondata può produrre uova da cui nasceranno soltanto altre femmine. BIOLOGIA ED ECOLOGIA Lo Scleroderma è un parassitoide, cioè porta a morte il suo ospite dopo aver completato il proprio sviluppo (mentre un parassita generalmente non uccide l’ospite). Il ciclo vitale di questo insetto è legato alle larve del comune tarlo del legno presenti nei mobili. Nelle abitazioni si rinvengono più facilmente le femmine, che si introducono nelle gallerie scavate dalle larve di tarlo e, raggiunta la preda, la paralizzano con diverse punture dell’aculeo, iniettando un secreto velenoso molto attivo. Poi si nutrono delle larve ospiti succhiandone l’emolinfa attraverso piccole ferite (inferte con le mandibole), in cui successivamente depongono le uova. Da questo momento le femmine restano a guardia del “nido” finché le uova schiudono e ne escono le larve.Tali insetti sono attivi da primavera ad autunno inoltrato e le femmine adulte passano i mesi più freddi in uno stato di ibernazione, spesso all’interno di vecchi bozzoli tessuti dalle loro prede. In una stagione possono compiere diverse generazioni e moltiplicarsi piuttosto rapidamente se l’ambiente è riscaldato. IMPORTANZA SANITARIA L’importanza sanitaria dello Scleroderma è legata alla reazione alla sua puntura. Nel caso in cui si venga a contatto con le femmine, particolarmente aggressive, si può essere punti come reazione di difesa, sia di giorno che di notte, per lo più nel periodo primaverile-estivo (cioè quando queste sono più attive). Le punture sono spesso multiple e provocano ponfi molto evidenti, ma localizzati, con dolore acuto urente, seguito da una reazione eritemoinfliltrativa locale, che si risolve spontaneamente in circa 10 giorni. Tuttavia in soggetti ipersensibili possono aversi manifestazioni tipo orticaria, ed anche una sintomatologia sistemica con febbre, malessere generale, nausea ed irrequietezza, sintomi che in genere regrediscono in un paio di giorni. Il contatto con l’insetto è più frequente in ambienti dove è presen- te mobilia tarlata e abitata da femmine di Scleroderma, come ad esempio vecchie sedie o poltrone, magari con l’imbottitura di crine, tavoli, armadi, soffitti in legno, ecc. Tra l’estate 2001 e l’estate 2003 presso l’IZSLT sono stati registrati 15 casi di persone che avevano rinvenuto tale insetto nelle loro abitazioni di Roma e dintorni. In tutti i casi ci è stato richiesto di effettuare l’identificazione e di fornire delucidazioni sulle abitudini di quella che era stata erroneamente confusa con un piccolissima formica, e sui rischi sanitari conseguenti alle punture subite. Come prevedibile, tutte le persone interessate possedevano mobilia tarlata in una o più stanze dell’abitazione. Di particolare interesse è stato il caso dei lavoratori di una ASL di Roma, che per mesi hanno subito pesanti disagi legati alla presenza di questo insetto nei locali lavorativi, dove l’intero arredamento era costituito da vecchia mobilia in legno. La frequenza delle punture è aumentata negli ultimi anni, proprio in rapporto alla tendenza crescente ad arredare le abitazioni con mobili d’antiquariato, che spesso possono ospitare larve di tarli. Per cui il controllo di infestazioni da Scleroderma passa attraverso il controllo dei suoi ospiti, i tarli, mediante interventi di restauro e/o disinfestazione con opportuni prodotti chimici. Per esempio sarebbe opportuno effettuare fumigazioni con piretro intorno ai mobili e distribuire piretroidi di sintesi nel locale, così come turare i buchi fatti dai tarli con cera adatta. BIOLOGIA ED ECOLOGIA Diffusi ovunque, frequentano luoghi umidi. Hanno abitudini gregarie formando gruppi spesso numerosi. Possono avere più generazioni/anno a seconda delle condizioni ambientali. La maggior parte delle specie vive all’esterno, sopra o sotto la corteccia degli alberi, sotto pietre, o in vecchi nidi di uccelli, dove si nutrono di piccole alghe, muschi, funghi, oppure di detriti animali e vegetali. Nelle abitazioni questi insetti si possono sviluppare a carico di muffe presenti su carta (come nei vecchi libri -da cui il nome “pidocchi dei libri”-, o sotto la carta da parati nelle case umide), su imbottiture di mobili, su collezioni botaniche e zoologiche. Da recenti studi effettuati su alcuni appartamenti di Madrid si dimostra che la diversità di popolazioni di Psocotteri aumenta con i metri quadri, mentre il numero di specie decresce con l’età della costruzione. Gli Psocidi delle abitazioni sono attivi durante tutti i mesi dell’anno, mostrano un picco in luglio-agosto, circa due mesi prima di quelli non domestici. Poiché tali insetti possono anche provenire dall’esterno, l’eventuale numero di individui nelle abitazioni dipende dal livello dell’appartamento, dal numero di finestre, dalla presenza/assenza di alberi nelle vicinanze. I generi più comuni sono Liposcelis (frequente nelle biblioteche), Ectopsocus (diffuso nei giardini alberati e nelle vicine abitazioni) e Trogium, noto come “pidocchio dei libri” (frequente nelle abitazioni). PSOCOTTERI O PSOCIDI (Ord. Psocoptera) (Fig.2) Noti volgarmente anche come “pidocchi del legno e dei libri” sono insetti di piccolissime dimensioni (2-3mm), a corpo molle, dal colore marroncino chiarissimo fino a quasi trasparente. Hanno antenne lunghe e filiformi, occhi composti spesso grandi e sporgenti ai lati del capo. Esistono specie alate ed attere. Come gli sclerodermi, non si tratta di parassiti. IMPORTANZA SANITARIA Da un punto di vista clinico sono causa di eruzioni cutanee eritemato-ponfoidi o papulo-eritematose, accompagnate da intenso prurito. Secondo alcuni le manifestazioni cutanee sopra descritte sono dovute al morso di tali insetti, secondo altri la possibile causa della reazione è il loro schiacciamento accidentale sulla pelle. In un recente studio, mediante tecniche cliniche ed immunologiche, si è valutata, con l’uso di test allergologici, la sensibilità ad estratti di Psocotteri, su un campione di 200 pazienti affetti da allergie nasobronchiali. Nel 20% della popolazione allergica studiata si è riscontrata una forte reazione allergica cutanea mediata da IgE. In seguito al ripetuto contatto, alcuni individui possono sviluppare una sensibilizzazione. È il caso dei due eventi che si sono verificati a Roma rispettivamente nella tarda primavera 2001 in una fabbrica per imballaggi, e Figura 2 - Esemplare adulto dell’ordine Psocoptera (da Chiappini et al., 2001. Insetti e restauro. Calderini Editore) 9 Luglio 2003 nell’estate 2002 nel magazzino dell’IZSLT.In entrambi i casi il personale, che spesso maneggiava scatoloni, presentava le tipiche eruzioni cutanee, soprattutto su mani e braccia, punti dove il contatto con l’insetto era più frequente. Il controllo di questi piccoli insetti nelle abitazioni si basa essenzialmente sul mantenere l’ambiente secco e pulito, per sfavorire l’insorgere di muffe, usando eventualmente semplici repellenti quali la naftalina. Misura generale può essere anche evitare accumulo e stoccaggio di materiale cartaceo per lungo tempo. CIMICI DEI LETTI: Cimex lectularius (Ord. Hemiptera Fam. Cimicidae) (Fig.3 e 4) Al contrario degli altri due gruppi di insetti descritti, le cimici dei letti sono veri parassiti dell’uomo, più precisamente ectoparassiti temporanei ematofagi. Probabilmente l’uomo è venuto in contatto con questi parassiti in tempi remoti della sua evoluzione, attraverso i pipistrelli con cui condivideva le caverne. Gli adulti hanno dimensioni 4-6mm, corpo lucido, piatto ed ovale a digiuno, di colore marrone scuro; dopo il pasto di sangue il corpo diviene gonfio e la colorazione passa a un bruno rossiccio. Hanno ali rudimentali o ridotte (microtteri). L’apparato boccale è costituito da un rostro ripiegato ventralmente a riposo e disteso anteriormente al momento della puntura. Gli stadi immaturi (ninfe) Figura 3 – Cimex lectularius Figura 4 – Cimex lectularius durante il pasto di sangue 10 sono molto simili (anche per le abitudini) all’adulto, ma di minori dimensioni e di colore giallo paglierino; un’ora dopo essere emerse dall’uovo diventano più scure. La famiglia a cui appartengono le cimici dei letti (Cimicidae) è cosmopolita. Delle specie che vivono in stretto contatto con l’uomo, solamente due lo attaccano con regolarità: C. lectularius, distribuita nelle regioni temperate e subtropicali, la più comune alle nostre latitudini, è parassita anche di pipistrelli, polli ed altri animali domestici; C. hemipterus è una specie esclusivamente tropicale, parassita di uomo, polli, e raramente di pipistrelli. Le cimici dei letti non sono vettori accertati di nessuna malattia e non vanno confuse con altri Emitteri, appartenenti ai Reduvidi, presenti esclusivamente nelle aree sudamericane dove possono trasmettere il Typanosoma cruzi, agente eziologico del morbo di Chagas. BIOLOGIA Questi insetti si nutrono di notte, raggiungendo un picco di attività prima dell’alba; di giorno si nascondono in luoghi dove possono restare a contatto con una superficie ruvida e al riparo dalla luce come materassi, cuscini, lenzuola, intelaiature dei letti, o nelle crepe dei muri, dietro i mobili, sotto carta da parati, ecc. Le cimici restano confinate nelle camere da letto, o in zone dove si dorme: infatti il loro potere di dispersione nell’ambiente è piuttosto limitato ed è legato ad eventi accidentali, attraverso lo spostamento di materassi, valige, scatoloni, mucchi di abiti ecc. Si nutrono pungendo l’ospite con i due piccoli stiletti cavi derivati dalle mascelle: uno inietta saliva, l’altro è usato per succhiare il sangue. Dopo il pasto di sangue, che dura circa 5-10 minuti, tornano ai loro nascondigli. Localizzano l’ospite probabilmente dall’emanazione di anidride carbonica e di calore. Anche i maschi, a differenza di altri insetti ematofagi ad esempio le zanzare, si nutrono di sangue. Le cimici hanno generalmente la tendenza a defecare durante o subito dopo il pasto di sangue. La durata del ciclo vitale è legata alla temperatura ambientale e al numero di pasti di sangue effettuati: 5-8 settimane in condizioni favorevoli. Dopo ogni pasto le femmine depongono circa 600 uova, a lungo resistenti nell’ambiente esterno. La ninfa consuma un pasto di sangue per ognuna delle 5 mute; in condizioni ottimali impiega circa un mese per divenire adulto. Come molti organismi ematofagi possono sopravvi- vere a periodi di digiuno anche lunghi, rimanendo in uno stato di quiescenza in qualunque stadio si trovino. La temperatura più bassa a cui le cimici svolgono le funzioni vitali è di circa 13°C, al di sotto della quale lo sviluppo rallenta proporzionalmente al diminuire della temperatura stessa. Esse si sviluppano invece assai rapidamente quando la temperatura aumenta, per cui le infestazioni massive sono riscontrabili nelle aree più calde.I climi temperati, di regola, non favoriscono lo sviluppo di grandi popolazioni per la gran parte dell’anno, a meno che non si tratti di ambienti fortemente riscaldati. IMPORTANZA SANITARIA Le punture, indolori, provocano edema ed eritema locale pruriginoso, dovuti in buona parte a fenomeni allergici conseguenti all’inoculazione di un agente anticoagulante (inibitore della conversione del fattore X al fattore Xa) contenuto nella saliva dell’insetto; in alcuni soggetti l’infiammazione locale è notevole, in altri praticamente assente; in rari casi possono manifestarsi anche malessere generale e tachicardia. Le lesioni da puntura in genere sono raggruppate in un area limitata, perché l’insetto completa il suo pasto di sangue a più riprese. Le zone del corpo più comunemente interessate sono quelle scoperte come braccia, spalle e collo. Poiché in genere la puntura avviene attraverso biancheria, federe, lenzuola ecc., è raro che l’individuo attaccato risulti contaminato dalle feci dell’insetto, ed è pertanto scarsa la probabilità di trasmissione di eventuali agenti infettivi che l’insetto può albergare (Spirochete, Pasteurelle, ed anche il Tyipanosoma cruzi). L’acquisizione del contagio con virus dell’ epatite è teoricamente possibile schiacciando l’insetto, o tramite il rigurgito di saliva durante il pasto. Inoltre gli attacchi notturni delle cimici possono debilitare l’uomo per il disturbo causato al sonno, mentre pesanti infestazioni possono causare disturbi al sistema nervoso e alla digestione in soggetti ipersensibili. Una casa con una massiva infestazione di cimici si riconosce dal suo caratteristico odore, causato da una secrezione ghiandolare, che gli adulti emettono se disturbati. I maggiori componenti della secrezione sono due aldeidi, che funzionano come ferormoni d’allarme, causando la dispersione o l’aggregazione di tali insetti. Anche la tipiche macchioline causate dalle feci che questi parassiti disseminano su lenzuola Luglio 2003 durante il pasto di sangue, coperte, pavimenti e muri, sono indicatori di infestazione. Oggigiorno le cimici sono divenute più frequenti a causa dell’intensificarsi degli scambi internazionali e della maggior frequenza dei viaggi intercontinentali, con conseguente trasporto passivo tramite merci e bagagli. Presso il nostro Istituto abbiamo potuto di recente accertarne la presenza in due hotel, uno di Roma (2001), l’altro di Parigi (2002), attraverso esemplari (1 per luogo) di tali insetti consegnati da privati cittadini, che avevano soggiornato in queste strutture alberghiere e si erano accorti di strane macchioline di sangue sulle lenzuola. Altri casi che abbiamo seguito riguardavano abitazioni private di Roma (settembre 2003), Firenze (dicembre 2002) ed Anagni (dicembre 2002). È interessante notare che questi artropodi non sono necessariamente legati a scarse condizioni igienico-sanitarie, come dimostrato dai casi venuti alla nostra attenzione. L’infestazione si può confermare con l’utilizzo di spray al piretro, che essendo irritante per le cimici le costringe ad uscire dai loro nascondigli. Il controllo si attua con la sostituzione del materasso e il lavaggio di lenzuola e cuscini; per maggiore sicurezza si può usare un insetticida spray ad uso domestico (contenente carbammati, esteri fosforici, o piretroidi) per il trattamento delle intelaiature del letto, delle reti, lungo il perimetro delle porte, dei battiscopa e delle finestre o in ogni altro possibile nascondiglio. In conclusione, si vuole ricordare che un’accurata raccolta dei dati anamnestici (esposizione all’insetto), la descrizione morfologica e la conoscenza della biologia di tali insetti, unitamente all’aspetto clinico delle lesioni, sono dati indispensabili per una corretta diagnosi di questo tipo di patologie. Anche per quanto riguarda le problematiche legate alle infestazioni in abitazioni o in ambienti peridomestici,è necessario arrivare ad una corretta identificazione delle specie. Infatti solo tramite la conoscenza dei cicli vitali degli artropodi implicati e della loro importanza sanitaria, è possibile attuare, qualora necessario, un controllo integrato, con la rimozione delle cause di infestazione e l’uso mirato di insetticidi, salvaguardando così l’ambiente dalla tossicità a essi legata. (la bibliografia completa può essere richiesta alla redazione- e-mail:[email protected]) Nuovi modelli organizzativi per l’assistenza infermieristica in italia: il modello dell’ambulatorio infermieristico territoriale della asl roma B - (I parte) Marinella D’Innocenzo Direttore UOC Servizio Assistenza Infermieristica - Azienda USL Roma B I cambiamenti del sistema sociale, politico, economico, culturale hanno, progressivamente nell'arco di dieci lunghi e difficili anni (dal 1992 ad oggi), contribuito a modificare l'assetto del SSN attraverso l'introduzione di nuovi modelli di organizzazione dei servizi sanitari e di gestione delle risorse con l'obiettivo di assicurare una maggiore appropriatezza, accessibilità, competenza e qualità nell'offerta e nella produzione delle prestazioni ai cittadini. All'interno di questo ampio processo di riorganizzazione del SSN, caratterizzato ormai (con l'avvio del processo federalista) dall'insieme delle funzioni e dei servizi dei diversi sistemi sanitari regionali, gli infermieri rappresentano la figura professionale ed umana in grado di dare la spinta necessaria per superare le disfunzioni, le disuguaglianze e le arretratezze ancora presenti in larga parte del territorio nazionale (con il rischio reale che possano addirittura accentuarsi!) e contribuire allo sviluppo di un sistema sanitario basato sulla solidarietà e sull’uguaglianza dei diritti per i cittadini, indipendentemente dal reddito e dalla residenza. L’infermiere, quale responsabile dell’assistenza generale infermieristica, può infatti, contribuire “…ad orientare le politiche e lo sviluppo del sistema sanitario al fine di garantire il rispetto dei diritti degli assistiti, l’equo utilizzo delle risorse ed ovviamente la valorizzazione del proprio ruolo professionale…” (Codice Deontologico dell’Infermiere, 1999). Oggi, si è di fronte a nuove ed importanti sfide per la sanità del nostro Paese: • il federalismo e la razionalizzazione del SSN, • il miglioramento della qualità dei servizi, • l’invecchiamento della popolazione, • e malattie cronico-degenerative, • lo sviluppo dell’assistenza territoriale. Tra queste il processo federalista è sicuramente quello che richiederà maggiore impegno da parte di tutti i livelli istituzionali e dei diversi professionisti impegnati nell’assicurare risposte ai problemi di salute della popolazione. Gli infermieri rappresentano una risorsa consistente (ben oltre 320.000!) della Sanità ed hanno pertanto, soprattutto a fronte dei cambiamenti che stanno interessando il nostro Paese e il SSN (Federalismo, L.E.A.), una grossa responsabilità nella tutela e nello sviluppo del sistema. Occorre, in quest’ottica, creare e sviluppare una rete di alleanze che diventi polo di riferimento stabile per coloro che credono nella necessità di mantenere e potenziare un sistema di welfare sanitario moderno, efficiente, equo e solidale. L’esperienza di alcune aziende sanitarie, dove sonno stati sperimentati ed adottati nuovi modelli di organizzazione e gestione dell’assistenza, affidandoli alla responsabilità primaria dell’infer- 11