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FRANCESCO PASANISI
I BOGLINS
PARTE PRIMA
LA CREMA VERDASTRA
1
Erano le dieci del mattino alla CasalCementi di Tor Casale e i lavoratori stavano
facendo il proprio dovere intossicati dai fumi. I tubi degli impianti erano roventi e
fumanti con dentro chissà quale sostanza cancerogena.
“Perché non ho fatto il barbiere?”si disse Guglielmo Samperi mentre stringeva
qualche dado ad un macchinario. Guglielmo guardava il tragico destino a cui stava
andando incontro il pianeta Terra: vedeva un enorme vascone pieno di composti
altamente tossici che ribollivano mentre un mestolo meccanico in ottone li
mescolava, vedeva i suoi colleghi che si tenevano stretti al muso un’esile mascherina
in plastica biodegradabile e vedeva anche il loro capo che si stava precipitando fuori
dal suo ufficio per urlare agli operai di non “battere la fiacca”.
Maledetto bastardo. Sempre là a gridarci in faccia come un pastore fa con le sue
pecore. Ma non durerà per molto perché anche le pecore diventano lupi. Pensò
Samperi.
“CHE CAZZO FAI SAMPERI,SOGNI? LAVORA!”
Disse poi il capo agitando le braccia e battendo i piedi sulla balaustra d’acciaio
producendo un rumore acuto e assordante. Guglielmo immaginò il suo capo che
cadeva dalla balaustra dentro il vascone di schifezze sottostante e che si corrodeva
mostrando i muscoli e le bianche ossa da dove colavano pelle e muscoli liquefatti.
Basta fantasie- pensò Guglielmo –finiamo di rinforzare sto merda di tubo sennò la
tredicesima la vedo col cavolo.
Dopo questo pensiero continuò ad aggiustare il tubo.
Dopo due ore suonò l’assordante sirena che indicava l’ora della mensa; tutti gli operai
si recarono in una stanza piastrellata di azzurro che emanava un forte tanfo di sbobba.
La sala mensa si riempì tutta e la cuoca era pronta dietro al bancone del self-service
armata di mestolo.
“SALVE! Sono le dodici e dieci del pomeriggio in questo sei maggio. Fa un caldo
bestiale,ci sono almeno quaranta gradi fuori e vi invitiamo a vestirvi più o meno
succinti. Ed ora Insane Clown Posse con BoogieWoogieWooo”.
L’autoradio di Gianna Massari suonava e parlava ininterrottamente dalle 2 del
mattino, vale a dire dall’ora in cui lei si era messa in macchina.
Gianna stava girando tutta Tor Casale dall’alba in lungo e in largo dopo aver scoperto
che era cornuta come un alce sormontato da una composizione di ramoscelli. Mentre
trasmettevano la canzone dell’M.c. clown non molto sano di mente ma bravo, Gianna
ricordò cosa era successo la notte prima.
Ore 02.00
Quel giovedì notte era particolarmente stellato e col fatto dell’ora legale la gente era
ancora nei bar e nei pub. Una sfilza di macchine tappava via Cavour dove c’era il pub
più rinomato della cittadina pugliese, le insegne di questo rendevano quella piccola
via tutta fucsia.
IVANHOE MUSIC DISCO PUB si proiettava su una finestra che stava di fronte.
Una vecchia canzone dei Led Zeppelin suonava dal Juke box vicino alla porta
d’ingresso dell’ IVANHOE e Gianna intanto parcheggiava là vicino per entrare. Lei
quella notte era tutta tirata; aveva la minigonna nera, collant neri, stivali neri e sopra
aveva un top nero, corto e attillatissimo. Stava andando nel pub a trovare Andrea
Russo, il suo ragazzo da 5 anni, che quella notte soltanto l’avrebbe vista dato che lui
aveva lavorato tutto il giorno ad una casa in costruzione. Era un manovale.
Gianna entrò nel locale, i fumi di sigarette e piastre le inondavano le narici; c’era
molto brusio confuso con il Juke Box e la televisione, e le cameriere, stressatissime,
scappavano da un tavolo all’altro servendo panini, gelati, stuzzichini e bevande.
La ragazza di Russo si sedette ad un tavolo e diede un’occhiata al menù. Poco dopo
chiamò la cameriera e si fece portare una pinta di birra e un panino al crudo alla
piastra. Mentre addentava il panino con molta attenzione a non sbavarsi il rossetto, le
squillò il cellulare. “Pronto?”rispose.
“Ehi Gianna, sono io, Andrea”
“Sei un po’ in ritardo cavaliere”disse lei.
“Senti –le rispose- mi sa che dovremmo rimandare”
“Perché?”chiese Gianna.
“Perché io e i ragazzi stanotte dobbiamo prendere del materiale edile che, arrivando
dalla Spagna, sbarcherà in porto fra mezz’ora. Mi spiace, un bacio”….CLICK!
Gianna chiuse il cellulare e uscì dal locale. Puzzava di scusa, e della peggior specie
per giunta. Una volta fuori, salì in macchina per tornare a casa. Mentre girava il
vicolo del pub, vide in una casa abbandonata due corpi nudi che annaspavano e si
baciavano appassionatamente. Si avvicinò di più con lo sguardo alla finestra dove li
aveva visti e li riconobbe. Lei era nuda, bionda e perennemente con gli occhi chiusi e
la bocca semi aperta mentre le veniva un orgasmo. Lui, anch’esso nudo e nella
medesima espressione, stava sulla donna e aveva l’aspetto di….No! Non poteva
essere! Era Andrea! Gianna diede un pugno potente alla finestra che si ruppe
conficcandole pezzi di vetro nel dorso della mano. Mentre si asciugava i vari rivoli di
sangue che fuoriuscivano dalla mano, la ragazza tradita entrò in macchina e,
incazzata nera, iniziò il suo giro senza meta.
La tradita tornò al presente e non smise però di continuare il suo viaggio
contemplando in lacrime la foto di Andrea e lei abbracciati che aveva sul cruscotto.
Ora gli do una lezione di classe. Vado alla CasalCementi, mi rubo un sacco di
cemento e lo spargo sul suo giardino. Poi ci scrivo “ecco il materiale spagnolo,
stronzo”. Pensò.
L’idea di Gianna era una bambinata, anzi, una gran stronzata, ma l’affronto che le
aveva fatto Andrea le fece dimenticare di essere cresciuta per queste stronzate.
Oggi stranamente la sbobba era saporita e Guglielmo si chiese ancora una volta che
cosa cazzo ci facesse lui in una fabbrica di cemento di merda.
“ORA AL LAVORO!” strepitò il capo sgranocchiando una fumante, rosolata e
croccante coscia di pollo che gli avrebbe sicuramente provocato la morte per l’alto
tasso di lardo che già lui aveva in corpo.
Tutti gli operai si alzarono e continuarono il loro lavoro.
Quelle maledette viti allentate su cui Guglielmo doveva lavorare erano quasi finite;
ne mancavano due. Era lì per stringere l’ultima, quando sentì un urlo. Era un urlo di
donna e proveniva da fuori.
Guglielmo uscì di corsa dal suo reparto e si trovò direttamente sullo spiazzo fuori
della fabbrica dove si effettuavano i rifornimenti di materiale e si confezionavano i
prodotti già lavorati.
“Chi c’è?” chiese lui.
“Venga signore!Subito!” rispose la voce di donna. Guglielmo si precipitò verso la
voce e vide che ,effettivamente, c’era una donna.
Questa era Gianna Massari e aveva faticosamente fra le mani un pesante sacco di
cemento. Non era quello che la spinse a gridare C’era dell’altro.
Guglielmo la fissava in tutta la sua bellezza trascurata e le chiese: “Ha qualche
problema? Che faceva col cemento?”
“Ma no –rispose Gianna- non è per questo che ho urlato ma è per quella cosa là”.
Gianna indicò una cremina verde pisello con alcune venature violacee che usciva da
un pertugio all’angolo dell’edificio.
“Sarebbe quella schifezza il motivo dell’urlo? - chiese Guglielmo spavaldo - è solo –
continuò- la sbobba che ci propinano alla mensa. Qualcuno l’avrà buttata via”.
“Ma la fissi bene –ribatté lei- ribolle e fuma ed è passato, credo, non poco tempo
dalla vostra mensa”.
La cosa ribolliva sotto i loro occhi e sembrava anche, forse per il riflesso del sole,
come se si illuminasse.
“Oh Cristo santo –esclamò Guglielmo- lei come si chiama?”
“Gianna “
“Bene, ora ascoltami Gianna, questa roba qualunque cazzo di cosa sia deve rimanere
fra te e me. Non azzardarti a spargere la voce sennò la polizia, carabinieri e giornalisti
assalterebbero questa fabbrica e la farebbero chiudere per i controlli ed io e gli altri
ragazzi staremo per parecchio tempo senza lavoro. Chiaro?”
“S-sì va bene” rispose Gianna.
“In cambio, però -continuò- mi devi far portare via questo sacco di cemento. Io non
parlo del liquame e tu non parli del sacco fregato. Ok?”
“Ok -rispose lui-ti aiuto a metterlo in macchina”.
Entrambi andarono alla macchina di Gianna, Guglielmo caricò nel portabagagli il
sacco di cemento e mentre lei metteva in moto,lui tornò dentro a finire il lavoro.
Compromessi reciproci per infantilismo e contro il precariato, solo a Tor Casale,
ragazzi.
2
Era beata a correre sulla sua bicicletta; Morena Carrisi, 8 anni, abitava nei pressi
della CasalCementi e continuava a correre nel suo ampio cortile su uno sfondo
costituito da un cielo pieno di nubi verdi bluastre causate dalla fabbrica.
Ad un certo punto una strana luce verde illuminò il roseo visino dagli occhi turchesi
di Morena. La bambina,credendo nella sua mente infantile e fantasiosa che i suoi
genitori le avessero comprato un giochino fosforescente, lasciò la bicicletta e corse
verso la luce. Più si avvicinava e più il bagliore verde aumentava fino a farle chiudere
gli occhi in una buffa smorfia.
“Che cos’è?” si domandò la bimba. In quel momento era sola là fuori di fronte a
qualcosa di spaventoso ed affascinante al tempo stesso. Il vento ululava come un
uomo che piangeva dopo la morte del suo unico figlio, il cielo si annuvolò e Morena
osservò e sentì tutto ciò in silenzio. Poi la terra si aprì e ne uscì uno scheletro verde
fluorescente ricoperto da un liquame dello stesso colore che gocciolava.
La bambina guardava fissa negli occhi azzurro vivo della creatura;la creatura aprì la
bocca mostrando una dentatura gialla e appuntita e la bambina indietreggiò in preda
al panico. La creatura s’infilò una mano nello stomaco,uscì una massa gelatinosa di
organi verdi fluorescente con venature color lilla e la lanciò in piena faccia alla
bambina.
Morena cadde per terra strillando, mentre cercava di togliersi quella cosa schifosa
dalla faccia che le stava corrodendo tutto mostrando gli zigomi scheletrici, le orbite e
la mascella contornate dai muscoli facciali erosi e sanguinanti da dove pendevano
brandelli di pelle ormai corrosa. La creatura avanzò verso Morena e la fissò in modo
freddo mentre lei era a piangere guardando l’essere con i due occhietti che ormai non
avevano più le palpebre e non smettevano di emettere lacrime miste a sangue. La
creatura afferrò il braccino della bambina e con un rapido movimento del suo verde
polso e le spezzò l’osso facendo sentire uno schiocco che rimbombò nelle orecchie di
Morena. L’essere verde torse la carne intorno all’arto spezzato formando una treccia
fatta di pelle; poi strinse ancora di più fino a che non si staccò totalmente facendo
spruzzare ovunque sangue misto a frammenti di osso e muscoli, nervi e tendini
sfilacciati. La creatura lacerò con la sua dentatura gialla e affilata il braccino della
bambina spolpandolo sino all’osso. Mise le due verdi e luminose mani intorno al
cranio e con una lieve pressione lo spaccò facendo schizzare a destra e a manca
pezzettoni di cervello e cranio; dopo prese questi pezzettoni e li mangiò senza
scomporsi.
Poco dopo al posto della bambina giaceva in terra solo uno scheletrino spolpato privo
di braccio e con il cranio sfondato e con indosso uno scamiciatino rosa. Accanto a
questo c’erano delle impronte verdi fosforescente.
Stava friggendo un paio di cotolette di pollo in un tegame, la cucina elettrica di quella
casa era impregnata di odore di olio fritto. Roberta Antoni, sposata Carrisi, era del
tutto ignara di aver perso la sua ultima figlia nata. Gli altri due erano già
all’università di Bologna da due anni e Roberta colmava la nostalgia di loro due con
l’ultima cuccioletta della famiglia: Morena.
Roberta vide che i nuvoloni viola grigiastri iniziavano a mandare giù una pioggia fitta
e gelata e, ovviamente, iniziò a preoccuparsi per la sua adorata figlioletta.
“Morena vieni dentro che piove” disse sulla soglia di casa.
Silenzio.
“Dai Morena, sennò ti raffreddi”. Un tuono, poi un lampo illuminò e spaventò la
donna sull’uscio della sua casa.
Roberta vide la bicicletta di Morena abbandonata e completamente bagnata; la donna
allarmata seguì le orme di terra che Morena lasciò per raggiungere quella sorta di
zombi luminoso.
“Morena dove sei? Non mi piacciono questi scherzi” disse Roberta. Mentre
camminava si stava avvicinando sempre più alla fossa da dove uscì quella creatura.
Fece qualche passo in avanti e udì sotto i piedi come se avesse pestato un osso
fracassandolo. La donna si voltò e vide lo scheletro spolpato di sua figlia con ancora
quel grazioso vestitino indosso e si terrorizzò ancora di più quando scoprì che quella
cosa che aveva fracassato con il piede sinistro era l’avambraccio di Morena.
Mentre Roberta urlava si vide passare davanti una serie di fotogrammi di sua figlia
minore: quando allattava mostrando alla madre i suoi occhietti piccoli, azzurri e
tondi, quando sorridente correva dal papà durante i suoi primi passi; quando piangeva
a dirotto appena il suo fratellone le toglieva e poi ridava il suo sonaglio.
Roberta stette tutta la notte in ginocchio a piangere abbracciando lo scheletro di sua
figlia e maledicendo il figlio di puttana che le aveva fatto questo.
Distinta vita.
Da tempo ero tentata ad abbandonare te ed il tuo mondo ma l’affetto di
mia figlia Morena mi faceva abbandonare questi tetri pensieri. Come
posso dimenticarmi la sua tenerezza pari a quella di un gattino che poggia
la sua zampina sulla gamba del padrone invitandolo a giocare? Come posso
io passare sopra al fatto che una creatura così dolce,piccola e tenera
possa essere stata sbranata da chissà quale belva?
Ho sopportato il fatto che mio marito sia andato a vivere per sempre con
un’altra,ho accettato di privarmi della presenza dei miei figli più grandi
dato che hanno scelto due facoltà con l’obbligo di frequenza. Ho
accettato molte cose. Troppe cose.
Se questa sei tu, vita, allora ben venga il mietitore con il manto porpora e
la falce e mi cancelli da questo mondo di merda.
Quindi ho deciso di dare le dimissioni.
Con tutto l’odio possibile.
Roberta Antoni.
Roberta scrisse la mattina dopo alle 5 questa lettera, prese quattro pezzi di nastro
adesivo e la attaccò all’interno della porta d’ingresso. Si recò in bagno,smontò alcuni
rasoi di suo marito Paolo che si era scordato a casa.
“Aspettami Morena sto arrivando” singhiozzò lacrimando. Si rimboccò le maniche
sporche di fango della notte prima.
“Mamma….è qui con te adesso” disse ancora piangendo a dirotto. Roberta si passò la
lametta su un polso procurando solo un graffietto. Poi passò e ripassò la lama su quel
graffietto fino a raggiungere le vene più importanti. Due tre fiotti di sangue
schizzarono dal polso ferito. La donna, ancora solo ferita, riempì il bidèt di acqua
bollente e, piangendo, immerse il polso ancora più lacerato che aveva formato sulla
mano un guanto di sangue doppio e colante. L’acqua bollente aprirà di più il taglio.
Non soffrirò molto. Pensò.
Roberta mentre stava per svenire rivide una sbiadita immagine di sua figlia Morena
sorridente. L’acqua del bidèt da trasparente diventò rossa iniziando prima con una
nuvola doppia di sangue sprigionata dal polso e poi altro sangue che rese l’acqua tutta
rossa. Sembrava un tuffo da seicento metri di un maxy assorbente.
Gli occhi di Roberta ruotarono lentamente e le pupille sparirono verso l’alto; la pelle
assunse un colorito cadaverico.
Il corpo ormai senza vita della donna cadde dalla posizione inginocchiata vicino al
bidet. Il rubinetto rimase aperto e quindi l’acqua rossa traboccò dal sanitario e dilagò
sino all’uscio della porta d’ingresso.
3
Euro News: “Tor Casale,tranquilla cittadina del sud della Puglia,è divenuta teatro di
un orrendo omicidio e un suicidio. Morena Carrisi, 7 anni, è stata letteralmente
sbranata a morsi da un misterioso animale e la polizia ha trovato nell’abitazione della
bambina il corpo di sua madre toltasi la vita tagliandosi le vene dei polsi.
Cannibalismo e suicidio è una delle ipotesi, ma si sta ragionando sulla possibilità che
sia stato un animale carnivoro a sbranare la bimba e la madre si sia uccisa per il
dolore. La seconda supposizione è stata comunque ritenuta più valida della prima in
quanto è stata trovata una lettera affissa alla porta d’ingresso della casa delle due
persone scomparse. Ancora rimangono incertezze su alcune macchie verdi vicino al
corpicino della bimba…”.
Antonio Rocca spense il televisore e scaldò un po’ di latte su un fornello della sua
cucina elettrica. Antonio era biondo, sulla trentina d‘anni, alto, robusto e vegetariano.
La sua ragazza stava ancora dormendo e lui si fece la doccia ed uscì.
Aprì il garage, salì nella sua Skoda a fare un giro. Arrivò vicino al fruttivendolo e
comprò un chilo d’ortaggi che comprendeva mais, carote ed altro. Poco dopo passò al
bar della piazzetta e fece nuovamente colazione con un caffè macchiato e schiumoso
ed un cornetto alla Nutella.
“Ci vorrà molto che Elena si svegli –disse fra se e se- mi faccio un giro fuori città e
poi vado al lavoro”. Antonio accese la radio e con le note di una canzone dei
Creedence Clearweather Revival si mise in marcia. La Skoda passò il cartello con su
scritto in rosso
BENVENUTI A TOR CASALE: LA CITTA’ DELLA PACE
ed entrò nella frazione di Tor Casale. Mentre attraversava la campagna, Antonio vide
sul ciglio della strada un cane morto col cranio fracassato. Scese dalla macchina e
piangendo seppellì l’animale. Se fosse un uomo piangerei di meno. Pensò.
Antonio poi risalì sulla Skoda e si avviò al laboratorio scientifico ove lui lavorava
come assistente ad un dottore italo americano chiamato John Honey.
Entrò in laboratorio e sentì puzza di
cane morto
una sostanza chimica a lui nuova.
“Vieni Antonio” gli disse il dottor Honey.
“C’è qualcosa di molto interessante” continuò. Antonio si mise il camice bianco e
fissò l’espressione stupita del dottore che insieme al suo aspetto incartapecorito e
calvo lo faceva sembrare una parodia di uno zombi.
“Cosa c’è dottore?” chiese.
“Siamo riusciti a prelevare un campione di quella porcheria verde trovata davanti allo
scheletro di Morena Carrisi. Forse questa sostanza puzzolente c’entra qualcosa colo
figlio di puttana che l’ ha uccisa”.
“Ha bisogno d’aiuto dottore?”
“Certo figliolo, prendi due vetrini e due mascherine. Quest’affare puzza
terribilmente”. Antonio prese gli arnesi e l’occhio azzurro di Honey si infilò nel
microscopio. Ingrandì l’immagine e vide quello che c’era nella crema verdastra: una
decina di vermi anellidi verdi con gli occhi rossi e delle setole porpora sulle zampe
anteriori e gialle dall’addome in giù.
“OH CRISTO! In un nanolitro di liquame ci sono certe forme di vita! Dai un’occhiata
Antò”
Antonio guardò nel microscopio e disse: “Non penso che sia stata una bestia normale
a sbranare quella bimba”.
4
“L’avvenire sarà buono e prosperoso per tutti –disse il comandante prima di salparecon questa nave arriveremo all’apice della gloria”.
Aprì il cancello del grande transatlantico ed entrarono felici nobili e poveri.
Judith Honey era vestita con un lungo abito bordeaux con un cappello tondo e largo.
La accompagnava sua madre seguita da suo padre.
Stuoli di persone salirono sul transatlantico più grande del mondo e alcuni riuscirono
ad infilarsi senza biglietto. L’interno della nave risplendeva d’oro e cristallo,la
mobilia in mogano ed acciaio era molto raffinata e l’orchestra suonava tutti i brani di
Schubert.
Judith conobbe un sacco di gente importante appena mise piede nel transatlantico, tra
cui un affascinante pittore francese molto affermato.
“Propongo un brindisi al formidabile architetto che ha costruito questa grande nave”.
La diciottenne Judith quella sera bevve il suo primo bicchiere di Sherry e le piaceva.
Il capitano si allontanò da quell’ambiente della serie si-mangia-si-beve-allegri-si-sta
ritornò nella sua cabina e la gente era contenta.
14 Aprile 1912. Un iceberg squarciò il transatlantico Titanic spaccandolo in due.
Migliaia di morti fra cui i genitori di Judith e John Honey.
2002
Judith si svegliò di soprassalto da quell’incubo. Aveva sognato la morte dei suoi
genitori. Morirono congelati nell’acqua ghiacciata dell’oceano davanti ai propri figli.
Anche se ora Judith aveva quasi cent’anni, non poteva fare a meno di dimenticare di
aver vissuto quella stupenda esperienza trasformatasi poi in incubo. La vecchia
signora Honey si asciugò le lacrime, si diede un’aggiustatina ai suoi ricci e bianchi
capelli e andò in cucina.
RIING
Suonò il campanello.
Judith lasciò pentole e mestoli per andare ad aprire. Arrivata alla porta, vide chi era
attraverso lo spioncino. Era suo nipote Vittorio.
“Entra” disse miss Honey.
Il nipote entrò, bacinobacino e si sedette sul salotto vittoriano dell’ingresso. Vittorio
sapeva che gli anziani diventavano furiosi, quando vedevano un piercing, ma lui non
si preoccupò del suo che aveva sotto il labbro, perché la sua prozia era di una
mentalità molto aperta.
Judith sbiancò in volto e sembrava un attacco di cacalessi o come diavolo si chiama.
“Che c’è zia?” chiese preoccupato Vittorio.
“Tra poco -rispose lei- verrà dal lavoro mio fratello. Lo zio, se ti vede con quel
piercing è capace di mandarti all’ospedale. È molto intollerante nei confronti dei
giovani. Ha già mandato all’ospedale quattro ragazzi”.
Sclerosi multipla. Meglio assecondarla. Pensò Vittorio.
“Va bene zia. Non voglio rischiare niente” ironizzò Vittorio prendendo il cappotto.
“Bravo. Scappa finché sei in tempo!”. Vittorio se ne andò, ridendo.
Judith non esagerava affatto. Davvero suo fratello aveva mandato all’ospedale due
piercer. E l’aveva a morte pure coi rasta, i punk e i tatuati. Ognuno ha le sue rogne
interiori.
5
Nel 1974 si laureò in lettere antiche e moderne e filosofia con centodieci e lode, nel
1983 prese la prima cattedra al liceo classico “Ovidio” di Tor Casale e due anni dopo
scrisse due trattati di filologia antica vendendo un casino di copie e pubblicando
centinaia di traduzioni. Gianluigi Scamarcio era un vero mostro sacro della cultura
paesana.
Scamarcio aveva 60 anni ed era basso, un po’ gobbo, capelli corti bianchi con una
leggera calvizie sul coccolo e aveva un paio di occhiali bianchi di osso. Stava
andando al liceo per tenere la sua lezione. Salì sulla sua 126 anni Settanta e in due
minuti arrivò all’entrata dello “Ovidio”. Scese dalla macchina, salì le scale di marmo
dell’ingresso ed entrò.
In prima D c’era un putiferio. Ragazzi che si lanciavano borsellini e cartelle, ragazze
che spettegolavano, scritte e disegni osè alla lavagna. Insomma una mezza bolgia, per
i professori ovviamente.
“Buongiorno” disse Scamarcio. Tutti si alzarono in piedi.
La classe disse in coro: “Avete portato i compitiiiii?”.
“Sì, e sono andati molto male”. Estrasse un matassone di ventisette fogli protocollo
piegati in due.
“Qualcuno che li distribuisca?”.
Il ragazzo che li volle distribuire passò fra i banchi a dare i vari compiti. Quando i
fogli erano su ogni banco, tutti videro i vari quattro e cinque propri e dei compagni e
rimasero malissimo.
“Sono profondamente addolorato -disse Scamarcio- si vede che non abbiamo
addestrato per bene questa classe di falliti. Devo senza dubbio ritenermi immacolato
per quanto riguarda il vostro scarso quoziente intellettivo. Il vostro problema è che
non conoscete la verità, il concetto base di tutte le cose del mondo. Socrate per far
conoscere la verità agli stolti si serviva della maieutica, ovvero il partorire la verità.
Ma siccome io non mi erigo a grande filosofo dovete scovarla da soli”
Il tono solenne e al tempo stesso bonario e rassicurante del professore fece
abbandonare agli alunni tutti quei pensieri di odio che avevano avuto nei suoi
confronti dopo la consegna dei compiti. Certo che però un discorso meno ampolloso
sarebbe stato meglio.
Scamarcio iniziò a fare l’appello, arrivato al cognome Fumarola vide che l’alunno
non era al suo posto e disse:”“Fumarola è assente?”.
“No -rispose il suo compagno di banco- è andato in bagno a seconda ora e non è
ancora tornato”.
“Qualcuno lo vada a chiamare!” ammonì Scamarcio in tono agitato ed allarmato. Un
urlo agghiacciante fece fare a tutte le classi dei balzi dalle sedie alti almeno venti
centimetri. Il compagno di banco di Fumarola corse verso la classe in preda a terrore
e tristezza. Arrivato in classe tutti videro che era sporco di sangue sui palmi delle
mani e sulla maglietta bianca. Tutta la classe rimase paralizzata dal terrore.
“C-che cosa è successo?” chiese il professore.
“Oronzo…Fumarola…è…è MORTO!” rispose il compagno di banco piangendo e
asciugandosi il sangue che aveva alle mani sui pantaloni.
“Dov’è lui?” chiesero gli altri.
“Sta…stava vicino al bagno” rispose l’amico.
“Andiamo”
Tutti e ventisette, col professore Scamarcio, uscirono dalla classe letteralmente cagati
addosso e si diressero verso i bagni dall’altra parte dell’edificio dove il defunto era
solito fermarsi a incannizzarsi.
Erano arrivati all’angolo adiacente alla porta del bagno maschile e si sporsero
vedendo prima una parte di mano, poi tutto il braccio e infine il corpo di Oronzo
Fumarola. L’occhio destro era privo di pupilla, il sinistro era spappolato e da questo
uscì una mosca verde, la pelle era azzurro grigiastra, il labbro superiore ritirato sui
denti, la lingua gonfia ed il ventre privo di organi interni e da cui si poteva vedere la
colonna vertebrale. Così orrendo era Oronzo Fumarola che tutti si scostarono da là.
“Guardate là” disse spaventata una ragazza bionda e attraente che era la fidanzatina in
classe del defunto, indicando una chiazza verde pisello che partiva da dentro uno
scarico aperto dei pisciatoi sino ad arrivare al braccio del cadavere.
“Chiamate il dottor Honey, ecco il numero del laboratorio scientifico” disse il
professor Scamarcio dando alla ex fidanzatina di Fumarola un foglietto giallo con un
numero di cellulare.
Poco Dopo.
“La belva col moccio al naso ha colpito ancora” disse Honey prelevando un
campione della crema verdastra.
“Un po’ di rispetto dottore, è morta una persona qua” dissero alcuni.
“Nessuno ha visto Fumarola sostare qui?”
“No –rispose il prof. Scamarcio- lui veniva qui proprio perché è una zona trascurata
della scuola, è la parte vecchia dove hanno murato le vecchie classi degli anni venti”.
“Porterò questo secondo campione al laboratorio e lo esaminerò, magari cerco di
trarne qualcosa in più” disse il dottor John Honey. Tutti parteciparono alla messa
funebre di Oronzo Fumarola.
6
La povera Sally era ridotta ad una maschera di sangue, le ferite e le escoriazioni le
pulsavano dentro torturandola di dolore, un gigante pazzo che indossava una
maschera fatta di pelle umana la inseguì brandendo una rombante motosega Mc
Cullogh. Facciadicuoio, il nome del mostro, aveva già ucciso Franklin, il suo fratello
disabile, ed ora toccava a lei. La possente creatura continuava ad inseguirla.
Fortunatamente Sally vide un pick-up e riuscì a salvarsi lasciando il mostro a danzare
con la sua motosega in mano. Nero. Titoli di coda con in sottofondo un brano
composto da rumori minimali.
Omar Natale schiacciò stop/eject col telecomando del suo videoregistratore. Stava
guardando il film “Non Aprite Quella Porta”, film girato nel 1974 in sole due
settimane da un regista texano allora esordiente: Tobe Hooper (Tobias
all’anagrafe).Omar era un ragazzo di ventidue anni alto, castano, muscoloso, occhi
castani e studiava a Bari in una piccola accademia cinematografica. La visione di
quel film era un “compito a casa”; doveva scrivere la sua analisi personale dell’opera.
Conservò la videocassetta e accese il suo Mac. Aprì un file di testo e iniziò a scrivere:
“Il film che state per vedere è il resoconto della
tragedia avvenuta a cinque giovani…”. Questo è l’inizio
scritto e narrato del film “Non aprite quella Porta”
(1974) (in originale “The Texas Chainsaw Massacre””)
opera prima del regista texano Tobe Hooper, famoso per
film di culto come “Poltergeist” (1981) ma anche di
brutture inguardabili come “Le Notti Di Salem” (1979).
“Non Aprite quella Porta” ha questo angosciante incipit
per un preciso motivo: ingigantire l’aspetto angosciante
di un film che di suo lo è già. Gli abilissimi “omini del
marketing” fecero, in prevendita, passare la trama del
film come tratta da un fatto di cronaca nera realmente
accaduto, in cui cinque ragazzi in gita a Newton
incappano in una famiglia di serial killer dediti a
strani
rituali
feticisti
con
ossa
umane
e
al
cannibalismo. E’ in sostanza ciò che accade nel 1980 con
“Cannibal Holocaust” (ma con una messinscena migliore)
fino alla “perfezione” del marketing datata 2000, ossia
“The Blair Witch project” di Myrich e Sanchez. “Non
aprite quella Porta”, in realtà, di angosciante e
splatter ha ben poco e ciò è dovuto all’estrema povertà
di mezzi e ad alcune trovate isteriche attoriali che
creano delle sequenze di pura comicità, una sorta di
Looney Tunes dell’orrore in carne ed ossa. Gli unici
momenti in cui si trema un poco sono quelli dedicati al
notiziario che fa da sottofondo ad un cadavere putrefatto
legato ad un piccolo obelisco cimiteriale e agli ultimi
25 minuti in cui Sally (Marylin Burns) è ogni secondo
sempre più vicina alla morte, prima per mano di
Facciadicuoio (un gigante forzuto e ritardato che,
indossando una maschera di pelle umana, uccide le proprie
vittime con martelli e motoseghe, interpretato da Gunnar
Hansen) che strazia davanti a lei a colpi di motosega il
fratello invalido Franklin (Paul A. Partain) che si era
diretto nei boschi con la sorella in cerca degli altri
tre loro amici, già periti in casa del “gigante”; poi
incontra un altro membro della famiglia che la picchia
con una scopa, la sequestra e la porta nella loro casa
per torturarla con l’aiuto di Granpa (John Dugan) mezzo
bicentenario, mezzo zombi che, dopo essersi rianimato
succhiando del sangue da un taglio su un dito di Sally,
verrà aiutato dai nipoti a spaccarle il cranio con uno
“sledge-hammer”, uno di quei martelli che usano gli
uccieri nei mattatoi. La ragazza si salverà e fuggirà
impazzita.
“Non Aprite Quella Porta” è una macabra opera d’arte per
lo più incompresa da alcuni salotti importanti della
cinematografia mondiale. In onor del vero, la pellicola
di Hooper ha delle sciccherie che farebbero impazzire
qualsiasi semiologo del cinema. Si tratta di alcune
trovate dislocate in ogni aspetto (tecnico, la storia, i
dialoghi) che non vanno sottovalutate. La povertà di
mezzi e i tempi brevissimi con cui Hooper ha dovuto fare
i
conti
sono
stati
per
la
verità
dei
preziosi
collaboratori
per
dare
un
taglio
“visivo”
quasi
documentaristico: la fotografia con molta grana e a volte
addirittura assente, la musica talmente minimale che
sembra scomparire nelle sequenze, le scene di estrema
violenza messe quasi fuoricampo che danno quasi l’idea di
un cineamatore “imboscato” che sta filmando un crimine
per non prlare della macchina da presa che riprende in un
montaggio imperfetto e disturbante inquadrature alternate
degli occhi lacrimosi e terrorizzati di Sally e i suoi
torturatori che se la ridono. Questi gli aspetti tecnici,
la trama è tutt’altro che un semplice “slasher movie”
(questo
film,
comunque,
è
precursore
di
questo
sottogenere che prevede la conta dei morti a causa di uno
o più killer); “Non Aprite Quella Porta” è una metaforacritica sull’intolleranza e la grettezza dei costumi
sudisti, texani, per la precisione. In quello Stato si
formarono le prime bande del Ku Klux Klan, c’era la
schiavitù dei neri e ancora in questi ultimi 30-40, ci
spiega il film, persiste un clima d’intolleranza e
ultraconservatorismo. Gli omicidi iniziano proprio quando
Kirk (William Vail), uno dei ragazzi, entra nella casa
degli assassini, come voler esasperare il concetto molto
enfatizzato che hanno gli stati del sud verso la
proprietà privata.
I cinque ragazzi, non è palese ma comprensibile per
alcuni aspetti, sono degli Hyppies, tendenza che nei
primi anni Settanta era disprezzata ed allontanata come
fosse un virus, specie in territori così “rurali”,
conservatori e, come i personaggi di Verga, attaccati
alla “roba”. Altro aspetto socio-politico di “Non Aprite
quella Porta”: la famiglia di macellai killer texani
-tramite uno “spiegone” da parte di Hitchicker (Edwin
Neal), fratello di Leatherface- ha perso il lavoro nel
mattatoio a causa dei metodi moderni, più sbrigativi e
meno dispendiosi; a causa di un fucile ad aria compressa
che uccide all’istante il bestiame, gli uccisori sono
stati
licenziati
e
probabilmente
la
famiglia
di
Leatherface è impazzita a causa della disoccupazione. Non
è solo questo, “Non aprite Quella Porta” è anche un film
che vuole riassumere il malessere statunitense del postvietnam: la brutalità della famosa “sporca guerra”,
ragazzi arruolati che tornavano a casa solo dopo morti,
la ferita nell’orgglio USA di aver perso contro Ho Chi
Mihn sono presenti, metaforicamente, in questo piccolo
capolavoro.
Del film esiste un seguito, nettamente inferiore al
prototipo ma più divertente e tecnicamente migliore (es.
gli effetti speciali sono di Tom Savini). Il sequel fu
girato nel 1986 e grazie a questa pellicola noi
ricorderemo uno psicotico Dennis Hopper che duella a
colpi di motosega (a tipo scherma) contro Leatherface.
Stampò il file e diede inizio alla sua ossessiva e quotidiana cura del corpo. Omar era
il tipo d’uomo che faceva tre docce al giorno, esercizio fisico, frequentava centri per
abbronzarsi in quelle bare con le lampade U.V.A., spendeva molti soldi in maschere
di bellezza e per la sua igiene comprava soltanto prodotti che favorivano l’idratazione
della pelle e la dilatazione dei pori.
Infatti proprio dopo aver battuto al computer quella recensione prese le chiavi della
sua Ignis e si recò alle terme.
“These boots are made for walking” suonava nella Ignis di Omar mentre questi si
stava spalmando la faccia di eucaliptolo. Dal parabrezza si iniziava ad intravedere la
struttura grecizzante delle terme. Omar si avvicinò di fronte all’edificio dove
sull’entrata c’era un cartello:
TERME MORPHEUS
DAI MAESTRI DI BELLEZZA GRECI,CATARSI FISICA E SPIRITUALE.
Entrò. La porta scorrevole si aprì e già dall’ingresso si sentiva un forte odore di cloro
e faceva molto caldo. Omar si tolse il maglione.
Una donna a seno nudo che si era scordata la porta aperta dei bagni femminili si stava
atteggiando a Demi Moore in “Striptease” davanti allo specchio con in sottofondo un
Gangsta rap forse degli Icp ed Omar rimase davanti a quella scena per venti minuti
toccandosi gli attributi con molta discrezione. Tutto ad un tratto quella stupenda
ragazza bruna si girò e disse con voce sensuale: “Ehi tu – si passò una mano nei
capelli e li strinse – vieni qui – gli fece l’occhiolino – voglio scoparti”.
Ma che vuole ‘sta matta che manco mi conosce? Pensò Omar.
“Dài vieni – aprì lentamente la bocca e si passò intorno alle labbra la lingua poi la
chiuse e gli diede un bacio volante – tu mi piaci”.
Omar, che era un arsone di prima categoria dati gli innumerevoli vaffanculo ricevuti
da una certa Michela di cui si era innamorato per cinque anni, si precipitò felice e
super eccitato nel bagno femminile. La ragazza corse verso di lui e lo abbracciò. Si
misero a limonare in modo quasi aberrante. Questo atto durò altri ventisei minuti e
non mancò naturalmente qualche palpatina. La compilation continuava a suonare, ora
in sottofondo c’era “Who’s that girl?” di Eve.
Improvvisamente Omar sentì sulla spalla della bellissima mora arrapata un viscidume
che gli ricoprì la mano e diede un’occhiata allo specchio di fronte a loro. La ragazza
era ricoperta di verde. Omar si liberò dall’abbraccio della donna-mostro e la vide ora
davanti: era diventata una mummia verde e magrissima con i seni flaccidi e scarniti.
La creatura spalancò le sue fauci e si lanciò su Omar azzannandolo alla giugulare. Il
malcapitato indietreggiò coprendosi lo squarcio da dove uscivano numerosi spruzzi di
sangue; tanto era il sangue a terra che Omar ci scivolò sopra e cadde su un lavandino.
Nell’impatto sentì il forte schiocco di un anello della colonna vertebrale che si
spezzarono e cadde per terra, svenuto e col bacino girato di 180 gradi. La creatura si
avvicinò ad Omar privo di sensi, lo spogliò, affondò le mani nell’addome, fece uno
squarcio ed estrasse le interiora per mangiarle.
Ma dove diavolo erano finiti i clienti ed il personale delle terme MORPHEUS?
Semplice, la creatura prima di adescare Omar li aveva fatti tutti fuori senza lasciare
traccia.
Vicino alle terme c’era una grossa voragine piena di crema verdastra.
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Così c’era scritto sul muro davanti al corpo di Omar; e ancora 
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sul vestitino della povera Morena Carrisi; e poi
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vicino alla carcassa di Oronzo Fumarola. Queste scritte erano fatte con il sangue e gli
umori delle vittime ed un agente di polizia portò le copie delle foto di quelle scritte al
professore Scamarcio.
“Simpatico il nostro amico” disse Scamarcio all’agente Mazza.
“Perché?” chiese
“Senti cosa significano in italiano queste frasi: la prima è -L’amore porta la morte-, la
seconda è -La bambina era gustosa-, la terza è -Il giovane era buono, ora non c’è
niente da mangiare-. O è un pazzo che ricalca il mito del dio malefico
Basileuboglinòn o non so cos’è”.
“Basil..che?” chiese stupito l’agente Mazza.
“Basileuboglinòn –rispose il professore- questo nome è composto da due parole:
basileus, che in greco vuol dire “re” e boglinòn, genitivo greco di un pluralia tantum
che però non ha avuto mai traduzioni e allora gli studiosi si sono limitati a tradurlo
“dei Boglins”. I Boglins erano dèi malefici dell’antica Grecia. Secondo il mito,
riportato solo in un testo di cui possiedo una copia, questi esseri erano discendenti dei
giganti e Gea nelle origini riservò loro un destino peggiore di quello dei ciclopi e dei
titani. Ma lascia che ti legga alcune pagine di questo testo”.
Scamarcio prese dalla sua biblioteca un libro grosso ed ingiallito e lo aprì.
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In principio era il caos. Poi Urano si accoppiò con la sorella Gea e da questa
ebbe innumerevoli figli di cui alcuni furono rifiutati dalla madre. Uno di questi
ebbe il destino peggiore di tutti. Basileuboglinon, così si chiamava, fu scagliato
nella galassia destinato ad accoppiarsi da solo avendo esso due sessi. Il mostro
grosso ed informe procreava creature simili a defunti imputriditi con poteri
magici e banchetteranno con gli esseri umani.
TUMP! Scamarcio chiuse il libro e disse: “Per carità non dire questo al commissario.
Non prenderla come ipotesi per trovare il colpevole sennò ti rinchiude in manicomio”
“Non si preoccupi –rispose l’agente Mazza- sarò quanto più concreto possibile. Se
dovesse essere davvero così le faccio sapere ha ha”.
Mazza uscì da casa di Scamarcio e all’improvviso gli arrivarono in faccia tre getti di
crema verdastra e corrosiva. L’agente si buttò a terra mentre la crema liquefaceva
rapidamente il volto e le mani mostrando le bianche ossa ed i muscoli ustionati e
sfrigolanti; tre “Boglins” accerchiarono il malcapitato e lo divorarono lasciando a
terra solamente uno scheletro spolpato e mordicchiato.