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RAFFAELLO SANZIO
Raffaello Sanzio nasce ad Urbino nel 1483 e riceve la prima educazione artistica nella bottega del
padre, Giovanni Santi, pittore attivo presso la corte ducale dei Montefeltro.
Alla fine del 1504, a 21 anni, Raffaello si reca a Firenze, inserendosi in un ambiente vivo e
stimolante. Qui sono attivi artisti del calibro di Leonardo e Michelangelo da cui assimila le
principali peculiarità stilistiche. Nascono quindi opere come “La Madonna del cardellino” e la
“Pala Baglioni” armonioso equilibrio tra la concretezza dell’immagine e la perfezione formale.
Alla fine del 1508, Raffaello giunge a Roma dove Papa Giulio II gli commissiona gli affreschi delle
stanze vaticane. Il ciclo è caratterizzato da una progressione di scene armonicamente inserite in
maestose scenografie a episodi più concitati, animati da suggestivi giochi luminosi.
Intanto, tra i numerosi committenti privati, il banchiere senese Agostino Chigi gli affida la
decorazione di alcuni ambienti della sua villa suburbana, la Farnesina.
Con la salita al soglio pontificio di Leone X, nel 1513, Raffaello, poco più che trentenne diventa
l’indiscusso protagonista della scena artistica romana e, dopo la morte di Bramante, assume la
direzione della fabbrica di San Pietro.
La coeva attività pittorica registra ancora una sequenza di capolavori, dai penetranti ritratti alle
pale sacre fino alla tormentata “Trasfigurazione”.
Dopo una breve malattia, Raffaello muore a Roma nel 1520, all’età di 37 anni.
L’artista, osannato dal mondo intero, ha incarnato l’ideale supremo di serenità e di bellezza
rinascimentali.
AUTORITRATTO GIOVANILE
Quando Raffaello dipinse questo autoritratto aveva circa 22 anni e si era trasferito da poco a
Firenze dove era giunto con l’esplicito desiderio di venire ad imparare un nuovo stile, una nuova
maniera pittorica.
Questo autoritratto è una presentazione che l’artista offre di se stesso come tutti gli autoritratti
dei grandi pittori.
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La formazione di Raffaello, come abbiamo detto, è umbra ed il padre Giovanni Santi, suo primo
maestro, fu un pittore di corte, lavorò ad Urbino per i Montefeltro ed ebbe anche la particolarità,
quasi unica nel ‘400, di essere anche scrittore e regista di rappresentazioni sceniche.
La formazione di Raffaello continuò nella bottega paterna anche dopo la morte del padre e questo
autoritratto ce lo presenta ancora legato allo stile dei suoi anni di formazione.
Un autoritratto famoso perché coincide perfettamente con il ritratto letterario che Giorgio Vasari
diede nella “Vita di Raffaello” pubblicata a metà ‘500 e cioè di un artista gentile, aggraziato,
affabile, socievole, una sorta di incarnazione perfetta dell’artista dai modi umani e cortesi.
Esattamente il contrario di Michelangelo, l’artista burbero, malinconico, selvatico, intrattabile con
il quale Raffaello avrà dei rapporti molto intensi e anche, ad un certo punto, conflittuali.
Questa immagine di Raffaello è proprio quella che verrà consegnata poi ai posteri, una sorta di
artista pittore eternamente giovane. In effetti morirà giovane a 37 anni, nel 1520, e quindi questo
autoritratto giovanile per certi versi incarna una delle immagini più fortunate dell’artista.
Non è un caso, come vedremo, che qualche anno più tardi, sentirà il bisogno di autoritrarsi nella
famosissima “Scuola di Atene” riproducendo questo suo volto in quello straordinario gruppo di
intellettuali e di pensatori classici.
LO SPOSALIZIO DELLA VERGINE
Nel 1504 Raffaello dipinse “Lo sposalizio della Vergine” questa grande pala d’altare in origine per
una chiesa di Città di Castello e oggi conservata alla Pinacoteca di Brera a Milano.
Capolavoro della sua fase giovanile quando divenne fondamentale per lui il confronto con il
Perugino, artista umbro che negli anni precedenti aveva dominato la scena in Italia lavorando in
molti centri della penisola e che era stato una sorta di maestro ideale dell’artista.
Questo dipinto rappresenta un tema che Perugino stava dipingendo proprio in quegli anni e quindi
il confronto diventa immediato.
In questo caso, Raffaello si ispira non solo a questa pala, dello stesso tema del Perugino ma ad un
altro affresco che il Perugino aveva dipinto nella Cappella Sistina a Roma “La consegna della
chiavi”.
In questo caso è evidentissimo come Raffaello decida di confrontarsi con un grande maestro, di
assimilarne i segreti, come farà poi con Leonardo, con Michelangelo e con altri grandi pittori con
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cui incrocerà il suo percorso, ma al tempo stesso è evidente il desiderio di superare il maestro e di
rendere più moderna l’interpretazione.
E’ evidente soprattutto nella costruzione spaziale così raffinata del dipinto con questo bellissimo
edificio, il tempio di Salomone, a 16 lati che domina la scena incastrandosi perfettamente nella
cornice, un’architettura di tale raffinatezza prospettica che fa quasi presagire i futuri interessi di
Raffaello nel campo dell’architettura.
Anche nel gruppo in primo piano dove si può vedere lo scambio degli anelli tra Giuseppe e Maria,
è evidente come le tipologie dei volti richiamino ancora al Perugino ma l’organizzazione dello
spazio e soprattutto il desiderio di creare un gruppo che anziché lineare si flette in una sorta di
arco in primo piano, disponendo le figure tridimensionalmente, e poi legando questi gruppi in
primo piano con lo sfondo attraverso questo lastricato prospettico, evidenzia il desiderio di
rendere più moderna l’interpretazione spaziale.
Tutto questo è dichiarato con una sorta di orgoglio da parte del pittore che firma e data l’opera.
Firma e data che sono poste addirittura al centro del dipinto sopra l’arco d’ingresso del tempio
dove è impossibile non leggere la firma dell’artista RAPHAEL URBINAS a caratteri capitali in grande
evidenza e la data 1504.
RITRATTI DI AGNOLO DONI E MADDALENA STROZZI
Nell’autunno del 1504 Raffaello decise di trasferirsi a Firenze. Lo attirava in questa città il
desiderio di poter entrare in contatto direttamente con alcune grandi novità che stavano
affermandosi in quella città.
In quel momento Firenze era sicuramente il centro propulsivo più vitale ed innovativo dell’arte
italiana. Raffaello era già un artista affermato ma ugualmente decise di trasferirsi per andare ad
imparare questo nuovo stile, quello che verrà poi chiamato “la maniera moderna”, quella che si
incarnava nei nomi di Leonardo e Michelangelo.
Nel 1505 c.ca dipinse questi famosissimi ritratti che rappresentano Agnolo Doni, ricco mercante di
stoffe fiorentino e grande collezionista e amante dell’arte (aveva da pochissimo commissionato a
Michelangelo il “Tondo Doni” che farà una grande impressione al giovane Raffaello) e la sua
giovane moglie Maddalena Strozzi che aveva sposato nel gennaio del 1504.
Quindi un doppio ritratto matrimoniale dove i due sposi giovani, ricchi, eleganti si presentano di
fronte alla città di Firenze.
E’ evidente che Raffaello, in questa coppia di ritratti, ha voluto rappresentare due diverse
tipologie, da un lato appunto il mercante vestito in modo abbastanza severo con uno sguardo
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molto franco e diretto verso l’osservatore e dall’altro la sua sposa con abiti sfarzosi, con ricchi
gioielli. Soprattutto si può notare il pendente montato con un “liocorno” d’oro che vuole
sicuramente rappresentare un dono di nozze e verosimilmente un’allusione alla castità e alla
purezza della giovane sposa.
Soprattutto nel ritratto di Maddalena Strozzi diventa evidente la capacità di Raffaello di guardare a
quella rivoluzione nel campo del ritratto che in quegli anni, a Firenze, stava portando Leonardo. E’
certa la conoscenza da parte di Raffaello della “Gioconda” di Leonardo. L’artista doveva aver
avuto l’occasione di frequentare Leonardo, di vederne non solo i dipinti nello studio ma forse
anche i disegni e in questo caso è davvero sorprendente la capacità di confrontarsi in un ritratto
che probabilmente non ha le sottigliezze psicologiche di quello leonardesco ma che mette in
evidenza l’affabilità e l’umanità di questa ricca donna fiorentina.
Questo dittico ha una particolarità, quello di essere dipinto anche sul retro, infatti, girando i dipinti
si possono trovare due scene monocrome, non eseguite da Raffaello, ma da un anonimo pittore
fiorentino di quegli anni, dedicate ad un mito classico, un mito raccontato da Ovidio nel 1° libro
delle “Metamorfosi”, dove Ovidio racconta del Diluvio universale e di due coniugi salvati dagli dei
grazie alle loro virtù e che ebbero poi il compito di rifondare il genere umano.
LA MADONNA DEL CARDELLINO
Nelle varie Madonne eseguite da Raffaello si rimane immediatamente colpiti dalla dolcezza
emanata dagli amorevoli gesti di Maria. Inoltre, la delicatezza dei corpi, l’eleganza dei panneggi e
dei movimenti, il gentile volto della Vergine, sono uniti da una struttura compositiva che rende
tutto semplice ed estremamente naturale.
Nella sua breve vita Raffaello ha raggiunto un equilibrio sottile tra perfezione e bellezza tale da
rendere le novità stilistiche della sua arte un modello per intere generazioni di artisti.
La “Madonna del cardellino”, conservata alla Galleria degli Uffizi a Firenze, è un dipinto che ha
una storia incredibile.
Fu commissionato da un amico di Raffaello di Firenze, Lorenzo Nasi, in occasione del suo
matrimonio probabilmente nel 1505. Rimase nella casa dei Nasi per una quarantina d’anni e il 12
novembre 1547 venne fortemente danneggiato perché la casa crollò e il dipinto fu trovato sotto le
macerie. Il figlio del committente decise di far recuperare i frammenti, di farli ricomporre e di far
realizzare un restauro per l’epoca sicuramente all’avanguardia. Infatti si diede il compito ad un
pittore fiorentino non solo di ricomporre i frammenti ma di integrare anche le parti mancanti,
come farebbe oggi un restauratore contemporaneo.
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Anche in questo caso come nel ritratto di Maddalena Strozzi è evidente il desiderio di Raffaello di
riflettere sulle composizioni leonardesche. In particolare c’era un opera di Leonardo che aveva
fatto scalpore a Firenze, era il cartone preparatorio con la Madonna, il Bambino, Sant’Anna e San
Giovannino, un cartone che oggi non esiste più ma ce lo possiamo immaginare guardando quello
famoso della National Gallery di Londra, che era risultato talmente nuovo, talmente innovativo da
folgorare Raffaello e spingerlo in una serie di Madonne col Bambino e San Giovannino fiorentine.
Perché si chiama “Madonna del cardellino”? Perché il dipinto ruota intorno a questo momento in
cui la Vergine accoglie il piccolo Battista il quale sta portando, quasi presentando, a Gesù
Bambino un cardellino. Il cardellino è un simbolo che molti artisti prima di Raffaello avevano
utilizzato per alludere alla passione e alla resurrezione del Cristo. Perché il cardellino, si
raccontava secondo una leggenda popolare nel Medioevo, era solito nutrirsi dei semi dei cardi, da
cui il nome cardellino, e quindi non temeva le spine e proprio per questo si sarebbe posato sul
capo di Cristo in croce e avrebbe pietosamente estratto una ad una le spine dalla corona. Il
cardellino divenne quindi il simbolo della passione di Cristo e della sua resurrezione.
Quello che stupisce in queste composizioni fiorentine è proprio la capacità di meditare su
Leonardo, su Michelangelo, ma al tempo stesso di non tradire se stesso. Raffaello crea nelle scene
queste bellissime strutture geometriche: il Bambino, S. Giovannino e la Vergine si strutturano
secondo una specie di forma piramidale ma, al tempo stesso, la scena ha questa leggibilità per cui
le sue Madonne sono le Madonne per eccellenza e in questo caso è questa giovane fanciulla che si
è seduta su un masso in un prato, in un paesaggio dove tutti gli elementi della natura creano
questo senso di perfetta armonia.
LE MADONNE DI RAFFAELLO
Tra il 1504 e il 1508 Raffaello è a Firenze ed in soli 4 anni diventa protagonista dello stile
rinascimentale moderno. Il tema della Madonna con Bambino è molto apprezzato dall’alta
borghesia e diventa, a seguito delle numerose commissioni, il principale soggetto su cui il giovane
pittore si cimenta con crescente successo.
Nascono capolavori come “La Madonna del cardellino” e “La Bella giardiniera”. In essi la figura
della Vergine che si rivolge affettuosamente ai bambini emerge con grazia ed eleganza davanti ad
un paesaggio di matrice leonardesca.
Ricordiamo anche “La Madonna d’Orleans” in cui la Vergine sembra solleticare il piede al
Bambino.
Le Madonne di Raffaello sono una preziosa testimonianza di come l’artista abbia saputo rinnovare
convenzioni, gesti ed atteggiamenti in combinazioni sempre più articolate.
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Nella “Sacra famiglia Canigiani” per esempio, le espressioni e gli sguardi si intrecciano con una
tale varietà da rendere poetici persino i momenti tratti dalla vita quotidiana.
LA PALA BAGLIONI
Nel 1507 Raffaello è sempre a Firenze ma dipinge un’opera per una chiesa di Perugia, S. Francesco
al Prato. E’ un grande polittico di cui la “Pala Baglioni” rappresenta la parte centrale, conservata
oggi a Roma alla Galleria Borghese.
Il dipinto è emblematico del periodo fiorentino di Raffaello perché rivela il confronto con
Michelangelo e con l’antichità classica.
Michelangelo aveva realizzato a Firenze, qualche anno prima, un grande cartone preparatorio per
un affresco che avrebbe dovuto essere realizzato nella sala dei 500 a Palazzo Vecchio. Questo
cartone, raffigurante la battaglia di Càscina aveva colpito enormemente i pittori presenti a Firenze
che lo avevano copiato infinite volte.
Nel momento in cui Raffaello riceve da una nobildonna di Perugia, Atalanta Baglioni, la
commissione di realizzare questo dipinto coglie, appunto l’occasione di confrontarsi con questo
grande capolavoro michelangiolesco.
Questo dipinto che rappresenta il trasporto di Cristo morto al sepolcro è una scena tutta intessuta
di citazioni michelangiolesche. La più evidente è sicuramente la pia donna inginocchiata a terra
che si gira con una torsione nello spazio per sostenere il corpo svenuto di Maria, una figura ripresa
dal “Tondo Doni” di Michelangelo, ma anche il Cristo con il braccio abbandonato, sostenuto con
fatica dalle figure che lo stanno trasportando, è certamente una riflessione su un capolavoro
giovanile di Michelangelo come la famosissima “Pietà” del Vaticano.
Anche l’atletica figura di Nicodemo, che con fare energico sostiene il telo su cui è appoggiato il
corpo di Cristo rivela, nel volto soprattutto quell’energia che Raffaello doveva aver ammirato nel
“David” michelangiolesco.
Al tempo stesso, però, in questo dipinto Raffaello comincia a riflettere su un altro dei modelli di
paragone che lo interessano tanto e cioè il confronto con l’arte classica, l’arte antica.
Raffaello era già andato a Roma e studiando le sculture classiche cerca di riprodurre con
naturalezza il problema del movimento, del dramma in atto. Questo dipinto così drammatico e
così complesso ci mostra un Raffaello pronto per un altro grande mutamento della sua vita, quello
che lo porterà definitivamente a Roma a confrontarsi direttamente con il mondo antico e con le
nuove commissioni che i Papi gli presenteranno.
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Nell’autunno del 1508 Raffaello si trasferisce a Roma.
Papa Giulio II lo vuole nella sua corte pur avendo già tra i suoi maggiori artisti Bramante che
aveva conosciuto Raffaello ad Urbino.
RITRATTO DI GIULIO II
Questo ritratto di Giulio II per molto tempo è stato considerato una copia ma, nel 1970, il restauro
ha permesso di essere certi che in realtà è l’originale dipinto da Raffaello.
Giulio II è un committente di notevole intuito ed aveva chiamato a Roma per dipingere le stanze
dove voleva abitare nel palazzo Vaticano, una vasta equipe di artisti scegliendo i pittori più famosi,
tra cui Michelangelo e Bramante, ma fu anche in grado, dimostrando capacità di giudizio
sorprendente, di riconoscere in Raffaello quel genio che forse ancora nessuno aveva riconosciuto.
Questo ritratto, realizzato nel 1511, ci mostra un Giulio II inaspettato, non il Pontefice guerriero
ma questo è un ritratto spirituale ed etico del Papa che si presenta con lo sguardo abbassato e
riflessivo, il viso abbastanza invecchiato, questa lunga barba che Giulio II si fece crescere come una
sorta di voto per ingraziarsi il fato e promettendo di non tagliarsela fino a che i Francesi, suoi
grandi nemici, non fossero stati cacciati dall’Italia.
Un elemento interessante in questo dipinto è che nel trono troviamo la forma delle ghiande
dorate che erano i simboli araldici dei “della Rovere” ma al tempo stesso utilizza la superfice
convessa per creare dei fantastici effetti di riflesso . Ingrandendo i dettagli si possono vedere
riflesse le finestre della stanza e persino il rosso della veste del Pontefice.
LA SCUOLA DI ATENE
Quando Raffaello arrivò a Roma, fu messo a lavorare da Papa Giulio II e da Bramante nella stanza
detta della “segnatura”, in questa stanza stava già lavorando un altro pittore di Vercelli, il
Sodoma, che aveva dipinto parte della volta della sala.
Raffaello cominciò a lavorare sulle pareti e, una volta realizzato questo affresco “La scuola di
Atene”, il Pontefice rimase talmente colpito dalla qualità dell’opera e dalla diversità rispetto allo
stile degli altri artisti (Sodoma, Perugino, Lotto, Peruzzi, Bramantino, etc.) che decise di licenziare
in tronco tutti questi artisti e di affidare la giovane Raffaello il compito di decorare non solo
l’intera stanza della Segnatura ma tutte le stanze dell’appartamento privato del Papa.
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La “Scuola di Atene” è, all’interno della stanza della Segnatura, che si chiama così perché in essa
aveva sede la biblioteca privata e lo studio del Papa dove firmava i documenti (in latino signàre),
sicuramente l’affresco più celebre.
Rappresenta la sintesi del pensiero filosofico classico: all’interno di una grande aula coperta da
una stupenda volta a botte cassettonata e da una grande cupola centrale che ricorda le terme
romane e probabilmente il progetto bramantesco per la nuova Basilica di San Pietro, Raffaello ha
ambientato una specie di summa dell’intera storia filosofica greca e latina, collocando al centro in
questa composizione così equilibrata e simmetrica, i due principali filosofi del mondo classico:
Platone e Aristotele.
Platone che con il dito indica il cielo ricordando che secondo le proprie concezioni il mondo non è
che una brutta copia di una realtà ideale e superiore e Aristotele che invece con la mano indica la
terra, cioè l’unica realtà possibile e concreta in cui viviamo, quella percepibile dai nostri sensi.
Attorno a questi due sommi pensatori si distinguono i ritratti di tutta una serie di filosofi antichi
che sono riconoscibili sulla base dei loro gesti e degli oggetti che tengono fra le mani: Socrate è
riconoscibile perché sta dialogando, Diogene perché è vestito quasi come un mendicante seduto
sulla scalinata.
Ad alcuni filosofi, Raffaello ha dato le fattezze di artisti suoi contemporanei: Bramante è ritratto in
Euclide chinato a tracciare disegno geometrici con le seste (il compasso), Platone ha il volto di
Leonardo. Sicuramente Michelangelo è raffigurato in Eraclito il filosofo pensoso che annota
qualcosa su un foglio mentre, seduto, si appoggia ad un blocco marmoreo. Eraclito non era stato
previsto nel progetto originario, infatti manca nel cartone preparatorio, ma la sua inclusione è un
omaggio a Michelangelo, l’autore della decorazione della volta della Cappella Sistina, di cui una
porzione era stata scoperta da poco per volere di Giulio II.
Raffaello ha quindi dato ad alcuni personaggi le fattezze di artisti suoi contemporanei e fra questi
ha posto anche se stesso: è il giovane con il berretto scuro che guarda all’esterno della
composizione.
Nella parete di fronte Raffaello ha dipinto la “Disputa del Sacramento” dove aveva voluto
riassumere l’intera scuola del pensiero cristiano. Quindi pensiero cristiano e pensiero pagano che
si confrontano, si compenetrano e si completano al tempo stesso.
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LA LIBERAZIONE DI SAN PIETRO
La seconda stanza vaticana, la Stanza di Eliodoro dal nome di un altro affresco presente in
quest’ambiente, è una stanza dipinta da Raffaello sempre per volontà di Papa Giulio II e che, in
origine, aveva la funzione di stanza delle udienze, cioè dove il Pontefice riceveva gli ambasciatori e
gli ospiti illustri e quindi un ambiente più pubblico dove anche le scene affrescate acquistano un
significato anche politico ed ideologico più chiaro e marcato.
Tra gli affreschi, tutti di Raffaello, quello più sorprendente è la “Liberazione di San Pietro”.
Un dipinto che racconta un episodio degli “Atti degli Apostoli” è cioè il momento in cui S. Pietro è
in carcere a Roma e viene liberato miracolosamente dall’apparizione di un angelo che scioglie le
catene che lo tenevano legato, liberandolo.
Una scena che doveva avere, per Giulio II, una forte attualità anche politica perché aveva ottenuto
la liberazione dell’Italia dai Francesi proprio nel 1512, quando fu dipinto questo affresco.
Il dipinto ha degli elementi che lo rendono assolutamente memorabile. Il primo motivo d’interesse
è l’originalissima scelta narrativa che doveva essere rappresentata su una parete che è interrotta
al centro da una grande finestra. La scena nasce e si sviluppa a partire dal centro, dove, dietro una
bellissima inferriata si vede il momento in cui S. Pietro è seduto per terra, ci sono due guardie in
armatura è c’è l’angelo che appare in un bagliore improvviso, in una luce divina e che evidenzia
quasi l’esplodere del miracolo davanti ai nostri occhi.
La seconda scena si svolge sulla destra. L’angelo ha preso per mano S. Pietro e lo sta portando
fuori dalla prigione, ci sono due guardie addormentate sugli scalini.
La conclusione della storia si vede dalla parte opposta, a sinistra, dove si vedono le guardie con le
fiaccole in pugno che stanno svegliando i loro compagni addormentati sulle scale e stanno
indicando la prigione che dobbiamo immaginare, a questo punto, vuota.
Straordinario è l’uso delle luci, Raffaello prende spunto da modelli nordici fiamminghi e tedeschi
perché gli autori del nord Europa spesso si divertivano ad inserire luci artificiali all’interno dei loro
dipinti.
In questo dipinto ci sono almeno 4 fonti di luce diverse: la luce misteriosa dell’angelo in centro e a
destra, la luce argentea della luna, la luce rossastra dell’alba all’orizzonte e poi la luce artificiale
delle fiaccole. Queste luci si moltiplicano quasi all’infinito nei riflessi sulle corazze dei saldati.
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L’INCENDIO DI BORGO
Nel 1514 il nuovo Papa, Leone X figlio di Lorenzo de Medici, decide di avviare la decorazione della
terza stanza dell’appartamento privato in Vaticano, un ambiente che, a quanto sembra, aveva la
funzione di sala da pranzo ufficiale del Pontefice, quindi un luogo dove poter ricevere, anche in
questo caso, ambasciatori e ospiti illustri in visita in Vaticano.
In questa stanza, l’unico affresco dipinto integralmente da Raffaello è la scena dell’”Incendio di
Borgo”, gli altri affreschi vedono invece la presenza sempre più intensa di quei garzoni della
bottega raffaellesca che erano appunto dei giovani artisti che Raffaello aveva scelto perché lo
aiutassero e lo affiancassero nelle commissioni sempre più numerose e sempre più importanti che
gli venivano assegnate in quel momento.
Ovviamente la scena di un Papa che spegne le fiamme e che riporta la tranquillità nella sua città
doveva alludere a questa missione nuova che il Papa si era posto.
Questo spiega anche la presenza a prima vista sorprendente di alcuni gruppi di persone, ad
esempio, in primo piano a sinistra si vede un gruppo di fuggiaschi che si allontanano dall’incendio
che ancora divampa sullo sfondo. Si riconosce un famosissimo episodio classico e cioè la fuga di
Enea con il vecchio padre Anchise sulle spalle e con Ascanio, il figlioletto, e la moglie Creusa che si
allontanano dall’incendio di Troia. Perché questa allusione ad Enea e Virgilio? Perché era un
riferimento implicito al tema della fondazione di Roma: Enea era colui che fuggendo da Troia
aveva poi permesso al sangue troiano di radicarsi nel Lazio e quindi aveva poi prodotto la
fondazione di Roma. Leone X si vuole porre come una sorta di rifondatore di Roma, un nuovo
Enea.
L’affresco, di grandi dimensioni (circa 7 metri di base), è anche rappresentativo di una svolta nello
stile tardi di Raffaello, è il primo esempio dello “stile tragico” che caratterizza gli ultimi anni della
vita dell’artista, cioè uno stile sempre più enfatico, sempre più drammatico, sempre più grandioso,
uno stile in cui diventa sempre più presente il bisogno di confrontarsi con Michelangelo e
soprattutto con le figure che Michelangelo aveva dipinto sulla volta della Cappella Sistina. Le
stanze vaticane di Raffaello e la Cappella Sistina sono separate da poche decine di metri, si trovano
nello stesso complesso dei palazzi vaticani.
Alcune figure, come quella del giovane che sta calandosi dalle mura di una casa in fiamme, è una
sorta di omaggio esplicito di Raffaello a Michelangelo e al tempo stesso, è una dimostrazione che
perfino l’ideale eroico e anatomico delle figure michelangiolesche, poteva essere assimilato ed
inserito a far parte di questo stile universale di cui Raffaello si voleva fare portatore.
Al tempo stesso, questa scena, è resa ancora più drammatica da queste figure femminili che
stanno portando dell’acqua i cui panneggi sono scossi dal vento creato dal calore dell’incendio, poi
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un altro elemento importante, è la sempre maggiore competenza di Raffaello come archeologo. A
noi può sembrare strano parlare di un grande pittore del passato come di un grande archeologo
ma in realtà, all’epoca, le due cose non erano sentite così distanti, anzi Raffaello era apprezzato
particolarmente dagli umanisti contemporanei per la sua capacità, senza pari, di conoscere,
studiare ed impadronirsi delle forme architettoniche e scultoree del mondo classico-romano.
In questo caso da un’immagine di Roma e soprattutto della sua stratificazione stilistica, per cui in
primo piano abbiamo degli edifici classici con colonne scanalate e capitelli compositi e ionici
mentre sullo sfondo si intravede, dietro alla loggia rinascimentale da cui appare il Papa
benedicente, l’aspetto medievale costantiniano della Basilica di San Pietro addirittura con i
mosaici dorati che ne decoravano la facciata. Quasi un omaggio, un ritratto di Roma che la rende
unica al mondo.
IL RAPPORTO CON L’ANTICO
Nel 1515, sotto il pontificato di Leone X, Raffaello riceve l’incarico di tutela e catalogazione del
patrimonio archeologico romano intorno al quale si focalizzano i suoi principali interessi culturali
ed artistici. Nato in un’epoca in cui domina la riscoperta del mondo antico, lo studio degli esempi
classici e la loro rielaborazione in nuove forme di bellezza, rappresentano una parte fondamentale
dell’opera dell’artista urbinate.
Per questo motivo egli appare agli occhi dei contemporanei come la reincarnazione degli antichi
maestri e la personificazione di un’insuperabile perfezione artistica.
Nella sistematica investigazione dell’architettura antica avviata da Raffaello, il rinvenimento di
edifici classici decorati con dipinti e stucchi suggerisce al maestro nuovi motivi ornamentali. Ne è
un esempio la decorazione a “grottesche” ispirata ai modelli delle stanze della “Domus Aurea”
inizialmente scambiate per grotte perché nascoste sotto il livello del suolo dall’azione del tempo.
Così, attraverso una precisa ricognizione archeologica, Raffaello reinventa un nuovo modello
estetico che si sarebbe presto diffuso in tutte le residenze signorili italiane ed europee.
CAPPELLA CHIGI
Costruita su richiesta del potente e ricchissimo banchiere senese Agostino Chigi su probabile
incarico del 1511 , l’edificio è una cappella funeraria. Si trova all’interno della chiesa di Santa
Maria del Popolo a Roma.
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Ha pianta quadrata e si rifà ai progetti del Bramante relativi sia alla nuova Basilica di San Pietro
sia al Tempietto di San Pietro in Montorio.
E’ concepita come un organismo completamente autonomo dalla chiesa quattrocentesca, come
un fastoso mausoleo la cui struttura è determinata da semplici rapporti di tipo geometrico e il
carattere funerario è connotato da forme simboliche: l’arco trionfale, la piramide, la cupola, la
croce.
Tutte le arti, fondendosi tra loro, concorrono alla definizione dell’immagine, come un unico
processo ideativo. Anche le sculture di Giona ed Elia,eseguite da Lorenzetto, sono su disegno di
Raffaello come pure gli elementi pittorici ed i mosaici.
VILLA MADAMA
Per quanto Raffaello fosse divenuto in pochi anni uno degli architetti più richiesti e pagati a Roma,
la maggior parte degli edifici da lui progettati non fu portata a termine o venne modificata e
demolita nel tempo. Tra le opere sopravvissute è l’elegante Villa Medici, ribattezzata poi Villa
Madama.
Commissionata attorno al 1518 dal cardinale Giulio de Medici, futuro Papa Clemente VII, la villa,
che sorge sulle pendici di monte Mario a Roma, non fu mai conclusa, ma restò come esempio di
villa rinascimentale suburbana (nelle immediate vicinanze della città) per gli architetti successivi.
L’edificio era destinato ad accogliere importanti personalità straniere prima del loro ingresso in
città, pertanto doveva ergersi nella sua monumentalità a testimoniare in maniera evidente il fasto
ed il potere della corte papale, coerentemente con il suo ruolo di rappresentanza. Inoltre era una
villa destinata al divertimento colto e raffinato degli uomini della corte papale.
Nelle intenzioni di Raffaello, la villa avrebbe dovuto comprendere ambienti a destinazione e livelli
diversi, seguendo l’andamento del terreno che è in leggera salita, e disporsi attorno a cortili,
giardini e porticati.
Molte furono le opere del passato analizzate e studiate da Raffaello prima di procedere alla
progettazione, una di queste è certamente la celebre Villa Adriana a Tivoli, fastosa dimora
dell’imperatore romano, utilizzata come modello per alcune parti di Villa Madama.
I lavori, purtroppo, si interruppero nel 1534, dopo che la villa era già stata saccheggiata e
parzialmente distrutta a causa di un incendio appiccato nel 1527 durante il sacco di Roma.
Una metà del cortile circolare costituisce oggi parte della facciata mentre gli spazi abitativi hanno il
fulcro nella grande loggia che dà sul giardino all’italiana, progettato come parte integrante della
struttura architettonica.
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La villa si caratterizzava anche per la grande libertà nella concezione dello spazio, tale concezione
riconoscibile ancora oggi nonostante i rimaneggiamenti, deriva proprio dalla profonda conoscenza
che Raffaello possedeva dell’organizzazione interna degli edifici della Roma imperiale.
Decorata a grottesche e a stucchi, la loggia di Villa Madama, nell’equilibrata e rara unità di
architettura, pittura e scultura, è quanto di più prossimo alla spazialità degli antichi edifici romani
si sia mai potuto realizzare.
Mai nessun artista, anche quelli che si erano maggiormente interessati all’architettura romana
come Bramante, aveva compreso così intimamente i principi fondanti delle costruzioni antiche:
solo il grande architetto veneto Andrea Palladio, qualche decennio dopo, saprà andare così a
fondo, diventando in qualche modo l’erede culturale di Raffaello.
TRASFIGURAZIONE
La Trasfigurazione conservata nei Musei Vaticani è una grande pala d’altare di oltre 4 metri
d’altezza, fondamentale perché rappresenta l’ultima opera di Raffaello, una sorta di testamento
spirituale.
Raffaello morì improvvisamente il 6 aprile 1520 mentre quest’opera era quasi completamente
finita, infatti quando il suo corpo fu esposto perché fosse compianto dagli amici, dai committenti e
dagli estimatori, questo dipinto fu messo a capoletto quasi a rappresentare una sorta di lascito alle
generazioni future.
Il dipinto ha una storia interessante e particolare: fu commissionato nel 1516 dal cugino del
Pontefice, il cardinale Giulio de Medici, che fece eseguire una pala d’altare a Raffaello ed una al
suo grande avversario di quel momento e cioè Sebastiano del Piombo (pittore veneto diventato
amico intimo di Michelangelo), pale che dovevano essere collocate nella Basilica di Narbonne in
Francia.
Sebastiano del Piombo aveva preparato un dipinto con la “Resurrezione di Lazzaro” che oggi si
trova a Londra alla National Gallery.
Raffaello fra il 1518 e il 1520 dipinge questa grande e rivoluzionaria pala d’altare. Perché è
rivoluzionaria? Perché è un’opera che affronta il tema della Trasfigurazione di Cristo in un modo
completamente nuovo rispetto al passato. Rappresenta contemporaneamente due episodi che
narrativamente si sono svolti in contemporanea, uno sulla cima del monte Tabor dove avviene il
momento in cui Cristo manifesta la propria natura divina avvolto da un alone di luce e affiancato
da due profeti, Elia e Mosè mentre ai suoi piedi i tre apostoli prediletti Pietro, Giacomo, Giovanni
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stanno testimoniando di questa miracolosa trasformazione, l’altro riguarda ciò che avviene ai piedi
del monte dove gli altri nove apostoli vengono interpellati da un gruppo di umili personaggi i quali
accompagnano un ragazzino, un “ossesso” così viene chiamato nelle fonti, probabilmente un
ammalato di epilessia, che la questo viso stravolto, perchè loro lo curino.
Di lì a poco, Cristo scenderà dal monte Tabor, si prenderà cura di questo bambino e
miracolosamente lo salverà.
Molto probabilmente Raffaello, nella sua opera estrema, è tornato a confrontarsi con un artista
che lo aveva molto suggestionato da giovane, cioè con Leonardo. E’ probabile che Leonardo che
era stato a Roma negli anni precedenti, fra il 1513 e il 1516 ospitato proprio in Vaticano, avesse in
qualche modo influenzato nuovamente Raffaello e lo avesse spinto a mettere a punto questo
sorta di chiaro-scuro così intenso nella parte bassa del dipinto, che Raffaello interpreta in modo
molto plastico.
Questo dipinto è stato definito “pre-barocco” perché anticipa di quasi 100 anni gli sviluppi
dell’arte successiva. Non è un caso che uno dei pittori europei che ha manifestato al meglio la
nascita del Barocco e cioè Rubens, abbia preso spunto da Raffaello ed abbia disegnato e
riproposto proprio la parte alta della Trasfigurazione.
Quindi Raffaello è, come altri geni del passato, un artista che apre tante strade al futuro che sono
state percorse da artisti anche molto distanti nel tempo ma che hanno saputo cogliere le
innovazioni proposte da questo grande artista italiano.
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