Prima parte Prologo L`ispettore François Blanchard

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Prima parte Prologo L`ispettore François Blanchard
Prima parte
Prologo
L’ispettore François Blanchard era nato in un periodo di grandi speranze. Il padre Antoine, appena tornato dalla guerra, aveva impegnato in un sesto, difficile parto la trentenne moglie Caroline. Era quindi nato
il primo maschio dopo cinque femmine, evento la cui
eccezionalità fu subito attribuita all’aver dovuto mangiare per tre anni nient’altro che patate nel campo di
prigionia. Antoine, partito per il fronte robusto e prepotente, si era lasciato alle spalle una donna ancor giovane ma assolutamente debilitata dalla sua arrogante
gestione patriarcale. La Natura ovviamente compensa
e avrebbero continuato a procreare femmine se Hitler
non avesse invaso la Polonia. Il suo desiderio, finalmente soddisfatto, di avere un maschio aveva fatto
esplodere in lui un ambizioso programma per il futuro
del piccolo e, non avendo potuto rendersi conto del
carattere mite che suo figlio già dimostrava all’interno
della culla, lo aveva destinato, con l’orgoglio di padre,
a una carriera in cui violenza, aggressione e rispetto della Legge sono alla base di ogni azione. Questa
idea era stata sicuramente un prodotto delle umiliazioni subite in prigionia, al cui ricordo si deve anche la
decisione di trovare un lavoro in un paese tranquillo
dove il rispetto della Legge e delle Autorità fossero il
vero scopo di ogni cittadino. La Francia non era più
uno di quei paesi e aveva scelto la Svizzera. Grazie
poi alle sue precedenti esperienze in campo bancario
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era arrivato a dirigere l’agenzia del Credit Suisse a
Losanna. Raggiunto l’obbiettivo, anche il figlio, divenuto poliziotto, avrebbe avuto un grande potere in un
paese dove il denaro e la polizia sono molto rispettati.
E così avvenne grazie al dispotismo del padre e all’indole gentile e rispettosa del bambino. Il bambino che
ha contribuito alla creazione del nostro personaggio.
Attentatore gentiluomo
François Blanchard, ritto in mezzo alla folla che
si accalca dietro alle transenne, superando di buoni
venti centimetri le teste intorno, gira uno sguardo
attento sulle facciate dei palazzi che circondano la
piazza principale della città. Ogni tanto alza gli occhi verso i tetti e le terrazze per controllare i suoi
uomini appostati dietro le carabine di precisione
con l’occhio appoggiato all’oculare del cannocchiale. È un mese che lavora giorno e notte per la
sicurezza dovuta al presidente degli Stati Uniti, finalmente in visita a un paese tutore dei patrimoni
accumulati da diversi cittadini americani per tempi
peggiori. Nessuno lo sa, nessuno lo dice ma, forse,
anche il presidente ha messo qualcosa da parte e
François, informato dai Servizi Segreti, ha dovuto
nascondere la sua meraviglia: ci credeva proprio in
un Fisco efficiente anche in quel paese.
Da ogni finestra vede cittadini affacciati, hanno
dalla mattina presto fatto scivolare sul davanzale le
bandiere a stelle e strisce che ora vibrano al leggero
vento primaverile. Eppure da una di queste aperture, nonostante la bandiera, nessuno si affaccia.
Ma la memoria formidabile di Blanchard fornisce
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immediatamente l’immagine della anziana signora apparsagli dietro la porta, una settimana prima,
quando aveva visitato tutti gli appartamenti del
palazzo antistante la tribuna sulla quale, tra pochi
minuti il sindaco, alla presenza del presidente della
Confederazione Elvetica, offrirà al presidente dello
Stato amico le Chiavi della Città. Forse la signora è
malata, pensa François, ma dalle imposte socchiuse
appare un piccolo lampo. Blanchard lo stesso lampo
lo sta osservando da mezzora nei punti dove sono
appostati i suoi uomini. È un lampo non imitabile,
è il riflesso che un raggio di sole produce sull’ottica
posta sopra la canna di una carabina di precisione.
E, nell’attimo in cui la banda schierata sotto il palco attacca l’inno americano e l’applauso della folla
scroscia, Blanchard scatta attraversando di corsa la
strada tenuta sgombra dai suoi uomini. Si fa largo e
precipita nel portone del palazzo di fronte. Basta un
gesto per fermare uno dei suoi che accenna a seguirlo. Poi corre su per le scale fino al quinto piano. Sul
pianerottolo si arresta per riprendere fiato e, mentre
con la mano destra cerca la pistola che ha dimenticato sul comodino, con l’altra, disperato, si batte
la fronte madida di sudore. La porta di ingresso che
conduce all’appartamento dell’anziana signora è
accostata. François si avvicina lentamente, se vuole fare una sorpresa non deve produrre il minimo
rumore. Si sfila i mocassini nuovi, lentamente apre
la porta e con un tuffo al cuore, scorge la donna immobile, bocconi sul pavimento. La stanza da dove
viene il suono della fanfara è lì subito dopo il corpo.
Lo scavalca, resistendo al forte impulso di soccorrere e si appoggia alla porta dietro cui immagina
stia per partire il colpo di fucile che metterà di nuo11
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vo in crisi la pace d’Europa. Quando l’apre gli appare esattamente quello che aveva immaginato. Un
uomo di taglia media, seduto su una sedia davanti
alla finestra, imbraccia un fucile la cui canna è già
puntata verso il palco. “Polizia! Fermo o sparo!”
Quante volte l’ha detto e perché proprio ora la voce
gli si strozza in gola? Mentre Blanchard avanza,
brandendo il pesante portacenere che ha agguantato sulla mensola dell’ingresso, l’uomo gira di scatto
la testa e, vista nella sua mano l’inadeguata arma,
sfila la canna del fucile dalle ante della finestra e
cerca di puntarla sul poliziotto. Nello stesso istante
il portacenere, lanciato con l’intenzione di colpire
il viso dell’attentatore, frantuma per fortuna il vetro alle sue spalle. Accade quello che nemmeno il
più fantasioso scrittore avrebbe potuto immaginare,
una lunga e appuntita scaglia di vetro va a infilarsi
dritta nell’occhio destro dell’uomo. Un urlo di dolore, un colpo a vuoto del fucile e subito l’attentatore viene immobilizzato dai due agenti che, dopo
aver visto il loro capo correre verso il portone di
fronte, avevano deciso di seguirlo. L’uomo ammanettato sosta un attimo davanti a Blanchard che lo
guarda con severità e gli sussurra “Complimenti”,
quindi viene trascinato via. Il nostro ispettore sorride e commenta “Un vero professionista”, poi, come
fulminato da un pensiero improvviso, si volta e si
china sulla donna. Mentre le scosta il viso, un fiotto
di sangue zampilla dalla gola dell’anziana e gli bagna la mano. Reprime l’impulso di asciugarla subito, fermando l’altra pronta a prendere il fazzoletto e
con questa le accarezza la guancia spostando poi le
dita sulle palpebre per staccare l’innocente da questo mondo di orrori.
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Figli di papà
“Il capo della polizia dottor François Blanchard, armato di un posacenere, salva la vita al
presidente degli Stati Uniti.” Getta il giornale sul
divano e “Il posacenere se lo potevano risparmiare”, esclama François, mentre la giovane compagna
gli porge il barattolo del miele che lui, ogni mattina,
spalma soddisfatto sui biscotti che sua madre continua a mandargli ogni settimana. Sotto lo sguardo
innamorato di lei ne spalma almeno cinque, poi si
volta e continua sorridendo.
“A proposito, siccome sono bravo, mi danno
tutte le rogne. Devo riportare a Tripoli il figlio di
Gheddafi... come si chiama?”
“Hannibal” Lei è sempre bene informata.
“...sì quello che hanno arrestato per minacce e
lesioni a una cameriera...”
“A due domestici.”
“...e sì. Speriamo che intanto gli sia passata la
sbornia... vergogna, un mussulmano che si ubriaca... fosse stato un povero emigrato, ma il figlio
di un capo di Stato sovrano... che tempi! Cara non
sono felice.” Sceglie uno dei biscotti meno scuri e
continua.
“Sì, il figlio... pensa quel mascalzone ha picchiato proprio la cameriera dell’albergo in cui era
ospite.”
“Che scellerato! Ma per quale ragione?” A lei
del figlio di Gheddafi non importa nulla, ma vuole dargli soddisfazione e continua a guardare il suo
eroe con occhi colmi di passione.
“Amore mio non esistono al mondo ragioni per
compiere un gesto simile. E se poi sei figlio di un
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capo, di un dittatore, prepotente, arrogante, incolto, che fa arrestare per vendetta un onesto cittadino
svizzero e dopo soli quattro mesi non solo ti liberano ma ti mettono a disposizione un aereo e il capo
della polizia per portarti al tuo paese e io, non dovrei
dire questo, l’avrei lasciato in galera almeno per tutti
i sedici mesi che gli hanno dato durante il processo.”
“E perché non l’hanno fatto? Mi sembra che gli
avessero anche ridotto la pena a quattro mesi dopo
le proteste del padre.” Interviene lei sempre più innamorata.
“Tesoro, stava per scoppiare una guerra. Quelli hanno il petrolio, hanno i soldi, buona parte di
quelli sono nelle nostre banche e poi sono complessati... tutti quelli che professano una religione
diversa da quella degli altri, sono complessati. Hanno il complesso di persecuzione. E siamo nel terzo
millennio.” François si alza e dopo un bacio con
lo schiocco sulla fronte dell’amata si avvia verso il
suo esecrato compito.
Fermo davanti allo sportello del Falcon con i
motori accesi, sta aspettando l’auto nera del carcere e una lepre attraversa la pista. Qualche giorno
prima una di quelle aveva compiuto un gesto intollerabile, aveva mandato in avaria il carrello di
un Cessna in decollo, con conseguente distruzione
dell’aereo. Mentre la segue con l’indice puntato, fa
scattare il pollice ed è sicuro che l’avrebbe colpita
se avesse avuto un fucile. Si tocca la tasca posteriore per controllare se la pistola c’è ancora. Sì è
lì e non è quella pesante di ordinanza ma una PPK
alleggerita, proprio quella di James Bond, e se non
la tocca ogni tanto ha la sgradevole impressione di
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averla persa. Arriva l’auto nera del carcere seguita
dall’auto di servizio del sottosegretario alla Sicurezza. Dalla prima scendono due agenti di custodia
e subito dopo un giovane abbronzato. Ha la barba
lunga, una camicia bianca aperta sul petto villoso
e l’aspetto di un giovane già vecchio. I radi capelli
corti e crespi, superstiti di una progredita calvizie,
rivelano l’origine nordafricana. Si avvicina dondolando a Blanchard.
“Sei tu quello che mi deve portare a Tripoli?”
“Sono il capo della polizia, mi dia del lei e si
accomodi sull’aereo.”
“Prima toglimi queste.” Parla un inglese sgraziato e il tono arrogante mentre mette sotto il naso di
François i polsi avvinti da un paio di manette nuove
di zecca.
“Ecco la chiave!” esclama uno dei custodi. Blanchard la prende con il pollice e l’indice e la infila
quasi nel naso del prigioniero. “Eccola la chiave, la
useremo quando saremo giunti nel suo paese.”
“Protesto! Non potete tenermi così anche in aereo. Vigliacchi, mio padre ve la farà pagare.” Una
leggera spinta e l’agitato comincia a salire verso il
portello del Falcon, mentre Blanchard firma una serie di documenti. Poi si gira verso l’auto ministeriale e saluta il sottosegretario alla Sicurezza che dal
finestrino gli fa una serie di gesti che vogliono dire:
mi raccomando, mi dispiace, buona fortuna.
L’interno dell’aereo è molto confortevole e c’è
anche una giovane assistente che porta subito bevande e caffè, evitando con uno scarto le mani giunte del prigioniero dirette al di lei sedere. François,
disgustato, prende posto tre sedili dietro di lui e non
risponde più alle provocazioni.
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