Bollettino Filosofico XXVI (2010) 542 L. ŠESTOV, Shakespeare e

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Bollettino Filosofico XXVI (2010) 542 L. ŠESTOV, Shakespeare e
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Bollettino Filosofico XXVI (2010)
L. ŠESTOV, Shakespeare e Turgenev, Bompiani, Milano, 2010, pp. 1008.
Shakespeare e Turgenev raccoglie i primi due lavori di Šestov – invero molto diversi
tra loro –, in cui l’autore è impegnato per la prima e ultima volta su questioni
squisitamente letterarie. In essi non è presente un’esplicita riflessione filosofica,
perciò è compito dell’interprete rilevare quei motivi tipici della filosofia tragica
šestoviana che qui si trovano in uno stato ancora embrionale.
Nel primo saggio, Shakespeare e il suo critico Brandes, Šestov accusa quest’ultimo
di avere frainteso il senso dei lavori shakespeariani, nella misura in cui li apostrofa
come pessimisti ed ingenui, convincendosi perciò, in maniera inopportuna, che «il
compito del poeta consista nel profondersi lamentosamente nei suoi versi, e quello del critico letterario nel ripetere il poeta» (p. 741). Tra i ‘figli’ di Shakespeare
va annoverato in primis Amleto, il quale, paragonando il mondo ad un «giardino
abbandonato», dimostra la sua lacerazione interiore dichiarando fedeltà eterna alla
tragedia. Il principe di Danimarca è il massimo esempio del risveglio edificante di
colui che si desta dopo essere stato vittima di un profondo torpore. Egli, come
Bruto, Lear e Macbeth, si trova davanti ad una serie di aut-aut in cui gli effetti della scelta diventano irreversibili, come dimostrano i loro monologhi, prova di come i protagonisti siano sempre in balia di tormenti estremi. D’estremo rilievo è il
fatto che Šestov prenda in esame la totalità delle opere shakespeariane, poiché,
nella sua ottica i personaggi di Shakespeare sono legati non solo al loro creatore,
ma al genere umano tutto. Una prospettiva differente, quindi, da quella ‘astratta’
di Vygotskij, per il quale l’Amleto va analizzato come opera a sé stante.
Un leitmotiv dei testi šestoviani è il paradosso, che il pensiero non deve temere
di far sorgere, tentando di ammorbidire gli animi. Né si possono eludere domande
fondamentali quali «essere o non essere?», pendant di un’altra frase pronunciata da
Amleto «The time is out of joints: / O cursed spite. That ever I was born / to set
it right» (Hamlet, atto I, scena IV). Probabilmente, dopo aver letto questa tragedia,
Šestov fu spinto a chiedersi «Cosa si può fare, cosa si può intraprendere di fronte
agli orrori dell’esistenza?». Sisifo, condannato a far rotolare un macigno per l’eternità, incarna perfettamente tale assurdità, perché ha consapevolezza della sua
azione. Sisifo ricorda Amleto, il quale «ha una coscienza ma questa non lo ispira,
anzi non fa altro che tormentarlo. La coscienza non è la sua guida, ma piuttosto un
giudice, un nemico, un boia. E davanti ad essa Amleto non ha il coraggio di non
inchinarsi» (p. 279). Egli non riesce a non chinare il capo verso la coscienza considerata il giudice supremo, tuttavia egli non può rimuovere l’esistenza del demone
che lo tortura in silenzio.
La tragedia consiste propriamente in ciò: sapere d’essere prigionieri della ragione, ma non poter far nulla per liberarsene, perché la paura di restare senza una percorso prestabilito che c’indichi un sicuro cammino è più forte dello stesso senso di
costrizione. I personaggi tragici hanno vissuto esperienze che li hanno portati al limite della ragione, mutilandone l’anima. Sul loro volto è facilmente rintracciabile que-
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sto strazio, tanto che «All’uomo che dorme il sonno sembra la migliore forma di esistenza. Ridestatelo, fategli vedere una vita diversa, non incatenata da facili fantasie
ma profonda e libera, e con gioia al posto del sonno vegetativo» (p. 369).
Shakespeare rappresenta uno dei primi maestri per Šestov, un genio versatile
che nonostante l’impossibilità di una risposta non si stancò mai di chiedersi «perché?» e «a che scopo?». Egli comprese la dimensione infelice, convinto – come
Šestov e diversamente dagli altri uomini che preferiscono non guardare in faccia la
tragicità dell’esistere – del maggior valore della ‘tempesta’ rispetto alla quieta regolarità dei fenomeni.
Nel secondo saggio, intitolato Turgenev, Šestov analizza il pensiero di quello
che egli considera il più colto e raffinato degli autori russi. Lo scrittore realista
scrisse alcune opere di critica letteraria, tra le quali Amleto e Don Chisciotte, in cui
pone l’attenzione su chi, come Amleto, non si cura delle leggi universali. Abbagliato dal razionalismo occidentale, Turgenev elogia i metodi infallibili della scienza, come se nulla potesse mettere in discussione il «claire et distincte» cartesiano.
Tuttavia, negli anni che vanno dal 1840 in poi, Turgenev coglie come essenza
di ogni cosa il timore, abbandonando tutta la riverenza nutrita verso la scienza. Di
conseguenza cambia anche il suo giudizio nei confronti di Amleto, visto non più
come un «eroe fallito», bensì come un eroe tragico. Turgenev comprese solo
molto tardi quanto la sterile cultura europea lo avesse ingannato, facendo suoi i
versi di Lamartine: «Je vais sans savoir où, / J’attends sans savoir quoi» (p. 917).
Non c’è apparentemente alcun collegamento fra la scrittura di Turgenev e
quella di Shakespeare, tuttavia entrambi rientrano in quella categoria di autori
scomodi che, a detta di Šestov, rifiutarono la scienza, riscattando la propria libertà
di volontà. La soluzione alla dimensione tragica della vita è vivere nella continua
frammentarietà, lottare affinché il nostro sapere si frantumi in mille lastre. Šestov
si accanisce contro coloro i quali si sottomettono alla necessità, mentre tesse le
lodi degli uomini che, al pari dei due autori, peregrinano senza voltarsi mai ad
ammirare ciò che è stato.
Sembra però ancora lontanissimo il raggiungimento di questa sorta di superuomo nietzscheano, in quanto «L’uomo di cultura ed erudito vien colto da terrore al pensiero di potersi staccare anche solo per un momento dal suolo – come se
sapesse fin da ora a quali conseguenze andrà incontro. Ed è pronto a mentire a se
stesso ad ogni costo, pur di non apprendere che presto o tardi il “punto di vista
generale” di questo mondo si rivelerà comunque insufficiente e capace di spiegare
alcunché» (p. 835). Questa è l’esplicitazione del dolce sonno in cui, secondo Shakespeare, il mondo è sprofondato.
MARIA MERANTE