Politiche degli impieghi e relazioni di clientela: alcune

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Politiche degli impieghi e relazioni di clientela: alcune
Politiche degli impieghi e relazioni di clientela:
alcune considerazioni sull’impatto della
regolamentazione di Basilea 2 sul mercato del
credito alle Pmi
di Alessandro Berti∗
Abstract
The application of the Basel 2 rules regarding credit risk management
highlights the problem of customer relationships, between banks and enterprises, especially Sme’s. The Italian financial actors have strongly debated
the topic of the ratings’ application, with considerably opposing views, based
more on the topic of credit rationing danger than the quality of customer relationships. In a country such as Italy, that has years of experience in multibanking and weak customer relationships, little or no attention has been paid
to the quality of the financial support provided by the banks. In fact, the
analysis has revealed the need of advisory and training in management jointly
of the need of sufficient loans. At the same time the Italian banking system
quite often neglects the quality of the human resources, concentrating their
efforts in information technology to evaluate the creditworthiness: only local
banks, because of their advantages, are ready to be the main bank for the
Sme’s. Once again, this conclusion confirms the necessity for lending banks to
invest in the quality of the staff and in the continuous reinforcement of the
customer relationships.
1. Introduzione
∗
Istituto di Studi Aziendali, Facoltà di Economia - Università di Urbino “Carlo Bo”.
Il presente articolo è stato pubblicato nel numero di settembre 2004 della Rivista “Argomenti”
1
L’analisi e lo studio delle relazioni di clientela in Italia ha, per lungo tempo, incentrato la sua attenzione sulla prevalenza di un modello basato sul pluriaffidamento, quale logico portato delle previsioni della vecchia legge bancaria, che per quasi sessant’anni ha regolato il sistema creditizio italiano. Sono
note, al riguardo, le prescrizioni normative dettate dal legislatore del 1936,
preoccupato di tenere fuori le banche dalle imprese e di attuare una rigida separazione e specializzazione per scadenze: affermare che il multifido sia stato
una conseguenza della vecchia legge bancaria è una realistica constatazione,
basata sia sulla vasta letteratura in argomento1, sia su numerose ricerche empiriche2. L’influenza esercitata dalla normativa antecedente l’adozione del Testo
Unico del 1993 è andata certamente oltre le intenzioni del legislatore, preoccupato, ora come allora3, delle conseguenze delle crisi bancarie sulla stabilità
del sistema finanziario e, soprattutto, che tali crisi potessero derivare da un
legame troppo stretto fra banche ed imprese, così come si era verificato nei
primi anni del secolo scorso. Ne è derivata una prassi che è stata spesso definita di tipo assicurativo, volta com’era ad erogare modeste quantità di credito
ad una pluralità di prenditori, in base ad una logica di calcolo probabilistico
più che di assunzione consapevole ed imprenditoriale del rischio. Prassi, quella descritta, che non poteva consentire il sorgere della figura del banchiere in
senso anglosassone, della main bank o banca di riferimento4, poiché il rivestire tale ruolo nei confronti delle imprese avrebbe significato eccessiva concentrazione dei rischi, intromissione nella gestione e, in definitiva, violazione
formale e sostanziale delle norme imperative e dello spirito della legge.
1
Sull’argomento cfr. A.Berti (2004), Strumenti e tecniche per la gestione del rapporto bancaimpresa, Egea, Milano.
2
In particolare cfr. C.Bisoni, L.Canovi, E.Fornaciari, A.Landi (1994), Banca e impresa nei
mercati finanziari locali, Il Mulino, Bologna, per quanto riguarda il distretto industriale modenese e P.Alessandrini (a cura di) (1994), La banca in un sistema locale di piccole e medie imprese, Il Mulino, Bologna, per quanto si riferisce alla realtà delle PMI nella regione Marche.
Cfr. inoltre, per una verifica empirica ancor meno recente ma sostanzialmente confermata, a
distanza di un decennio, nelle sue conclusioni dalle due precedenti, A.Alberici, G.Forestieri
R.Ruozi, per Confindustria, Comitato Nazionale Piccola Industria, Il costo effettivo del credito
nelle piccole e medie industrie, Editore S.I.P.I., Roma, 1983.
3
Anche per la normativa regolamentare nota come Basilea 2, infatti, la preoccupazione di fondo consiste nella ricerca della stabilità dei sistemi finanziari e creditizi, con l’unica, significativa variante, della globalizzazione nel frattempo intervenuta.
4
È noto come lo stesso Keynes ammonisse riguardo alla mancanza della banca di riferimento,
poiché quando nessuna banca è il banchiere dell’impresa “lo scrutinio del merito di credito diviene più difficile” ed incerto.
2
È noto che l’adozione della prassi sopradescritta, in formale aderenza al
dettato legislativo, ha avuto conseguenze di non poco momento sulla qualità
dei rapporti banca-impresa e sull’intensità della relazione che principalmente
li riassume, quella contenuta nel rapporto di affidamento: le banche hanno inteso finanziare le imprese, soprattutto quelle di dimensione più modesta, unicamente in relazione ai fabbisogni di capitale circolante netto, evitando di sostenere piani e progetti di investimento, allontanandosi dalla cultura del business plan e della programmazione economico-finanziaria5. I fabbisogni finanziari legati al capitale circolante netto sono stati, infatti, considerati nella prassi bancaria, come fabbisogni di breve termine, poiché derivanti dagli impieghi
in crediti verso la clientela e in scorte6: in parallelo, il presidio del credito a
medio-lungo termine ed il sostegno degli investimenti e delle iniziative produttive è stato lasciato agli Istituti di Credito Speciale (ICS). Non è difficile
cogliere le conseguenze, nell’ordine, di tipo culturale, organizzativo, gestionale, insite in tale impostazione, poiché:
• l’atteggiamento nei confronti delle imprese è stato dettato più che dalla preoccupazione di irrobustire e rendere più solide le relazioni, dal
timore che le stesse potessero degenerare, accentuandosi in tal modo
la prassi che poneva le garanzie al primo posto fra i requisiti di finanziabilità dei progetti imprenditoriali;
• le scelte di gestione del personale, la scelta organizzativa per eccellenza degli intermediari creditizi, sono state assunte non in dipendenza della necessità di instaurare relazioni collaborative e di
partnership, ma rapporti poveri, basati sulla transazione7 più che sulla
qualità;
5
Sull’argomento cfr. A.Giampaoli La programmazione finanziaria nelle imprese industriali,
CUSL, Milano, 1984.
6
Sull’effettiva brevità di tale genere di impieghi converrebbe riflettere opportunamente, poiché
è proprio nelle componenti del cosiddetto attivo corrente che è possibile, per il redattore del
bilancio, eseguire quelle manovre contabili (rivalutazione di scorte, mancata svalutazione di
crediti inesigibili, iscrizione di ricavi per fatture da emettere o false fatturazioni) note come politiche di bilancio e volte a migliorare il risultato contabile senza, con tutta evidenza, riuscire a
migliorare la situazione finanziaria.
7
Sono state per lungo tempo assenti, nell’organizzazione bancaria italiana, figure tipiche della
prassi anglosassone, quali i gestori imprese, spesso definiti, nell’ambito dei rapporti con le Pmi,
small business adviser. Si tratta di figure professionali che consentono un’elevata personalizzazione dei rapporti, approfondendone la natura fiduciaria attraverso una costante e stabile presenza in azienda. Com’è agevole intuire si tratta di un’impostazione delle relazioni di clientela
costosa e che richiede significativi investimenti, anzitutto in capitale umano, ma che, soprattut-
3
•
sotto il profilo gestionale, infine, un ambiente economico dominato da
una forbice fra tassi attivi e passivi tanto più elevata quanto più su di
essa si riflettevano molteplici inefficienze8, ha consentito, tuttavia,
un’ampia copertura di costi operativi legati più al presidio fisico del
territorio che alla ricerca di una migliore qualità dell’intermediazione,
per lungo tempo basata sul margine di interesse.
Il riflesso delle conseguenze sommariamente descritte si allarga anche a
considerazioni in merito alla prassi ed alla strumentazione tecnica adottate per
la comprensione e la valutazione dei problemi finanziari, la valutazione del
fabbisogno, il supporto alle esigenze delle imprese. Rapporti di affidamento
caratterizzati da forme tecniche prevalentemente di breve termine, con bassi
rapporti fra utilizzato ed accordato9 e con un’esasperazione degli aspetti garantistici, non possono che risolversi nell’adozione di strumenti e tecniche di
facile utilizzo, che più che approfondire le reali questioni riguardanti
l’esistenza della capacità di reddito e della capacità di rimborso, consentano di
giungere a rapide evidenze di sintesi, minimizzando i costi unitari di istruttoria. Dal momento che non è possibile (o risulta difficile) incrementare la redditività dei rapporti di clientela10 mediante l’intensificazione della qualità delle relazioni intrattenute, ampliando la gamma dei servizi offerti ed appoggiando la ricerca di più elevati volumi di intermediazione sul vantaggio informativo, è necessario ridurre i costi sostenuti per l’analisi ed il controllo delle imprese affidate. Non è difficile arguire, date queste premesse, circa la qualità
del rapporto banca-impresa in Italia e, in particolare, circa il rapporto banchePmi11: rapporto caratterizzato da reciproca incomprensione, mancanza di trasparenza, sfiducia e diffidenza tanto più elevate quanto più, nel corso degli
to, è compatibile esclusivamente con un modello di relazioni di clientela impostato su rapporti
di monoaffidamento o di banca di riferimento.
8
Si pensi alla prevalenza statale negli assetti proprietari della maggior parte del sistema bancario e creditizio italiano, si pensi alle dimensioni del deficit pubblico ed alla necessità di finanziarlo con un debito sempre più vorace, vanamente contrastato dalle banche e, soprattutto, contrassegnato da un livello di tassi insostenibilmente elevato.
9
Cfr. sull’argomento la ricerca empirica di F.Barca e G.Ferri “Crescita, finanziamento e riallocazione del controllo: teoria e prime evidenze empiriche per l'Italia” in A.A.V.V. Il mercato
della proprietà e del controllo delle imprese: aspetti teorici ed istituzionali, Banca d'Italia,
Roma, 1994.
10
Cfr.sull’argomento M.Comana, M.Modina “La redditività dei prestiti bancari: evidenze empiriche e proposte migliorative”, in Materiali, n.22, Assbank.
11
Si vedano in proposito le considerazioni di M.Comana e M.Modina in “La redditività dei
prestiti bancari: evidenze empiriche e proposte migliorative” cit., pag.7.
4
anni, risultava faticoso valutare il fabbisogno finanziario delle imprese, da una
parte, crescere e svilupparsi senza avere al proprio fianco un partner bancario
degno di questo nome, dall’altra. Su queste premesse, che non hanno un rilievo semplicemente storico, si innesta il dibattito sulla nuova regolamentazione
prudenziale che, in forza di quanto si è appena affermato non può essere circoscritto ad un esame tecnico sui requisiti di capitale o ad uno studio di idonei
modelli statistici di valutazione del rischio in funzione del prezzo.
2. Il dibattito su Basilea 2: alcune considerazioni metodologiche
Lo stato delle relazioni di clientela, come si è visto storicamente inquadrabile nell’ambito del modello del fido multiplo, sta tuttavia subendo significative modificazioni, in parte legate alla riduzione del numero di banche affidanti12, in parte ad un cambio di indirizzo strategico nella politica degli impieghi delle banche maggiori. Se il primo dato emerge dall’esame delle serie
storiche del flusso di ritorno della Centrale dei Rischi, la seconda notazione è
frutto sia dell’esame della letteratura più recente, sia dello studio attento dei
reali contenuti del documento di Basilea 2. Quanto alla riduzione del numero
delle banche affidanti, esso deriva certamente anche dalla riduzione complessiva dei competitori sul mercato del credito, frutto dell’imponente processo di
fusioni ed acquisizioni avvenuto nel sistema bancario italiano. Per quel che
riguarda, invece, i mutamenti della politica degli impieghi, il dato richiede
un’analisi ed un’interpretazione più approfondite. È bene annotare che i termini del dibattito sull’argomento sono, nella realtà, molto distanti da un serio
affronto del problema della qualità delle relazioni di clientela e che la componente polemica ed antagonista, tradizionalmente presente nel rapporto bancaimpresa, sembra prevalere. In particolare, sull’argomento, si devono registrare
prese di posizione riconducibili ad uno schema sintetizzabile come segue:
™ da parte delle imprese maggiori, la sottolineatura, quasi ossessiva ed
ormai consueta, della necessità di maggior capitale di rischio,
dell’intervento più massiccio del venture capital e, come sempre, della quotazione in borsa. I termini recenti del dibattito animato sulla
stampa, economica e non, ricalcano del resto questo schema: il male
del capitalismo italiano è la capitalizzazione troppo scarsa e la mode12
Come si può facilmente arguire dalla lettura delle serie storiche dei dati della Centrale dei
Rischi contenuti nel Bollettino Statistico della Banca d’Italia, non solo è costante la riduzione
del numero medio di banche per soggetto affidato, ma anche fra le imprese pluribancate cresce
la quota di fido erogata dalla prima banca.
5
sta dimensione del mercato borsistico, il vincolo finanziario allo sviluppo deriva dalla mancata propensione al to go to public delle imprese, l’entrata in vigore delle disposizioni di Basilea 2 renderà migliori
e più virtuosi i protagonisti del rapporto banca-impresa. Non sfugge
l’ingenuità e lo schematismo di una tale impostazione, che sembra
non solo difettare di realismo ma che, soprattutto, attribuisce qualità
taumaturgiche alla Borsa che questa non possiede: è noto che neppure
nei Paesi il cui sistema finanziario è storicamente orientato al mercato, si può fare a meno della presenza di banche efficienti e competitive ma, soprattutto, è impensabile che l’unica struttura finanziaria virtuosa sia quella che vede prevalere il capitale di rischio attinto sui
mercati mobiliari;
™ da parte delle imprese minori e delle associazioni che le rappresentano, i timori di razionamento e di un’eccessiva applicazione di automatismi da parte delle banche, unitamente alla spersonalizzazione delle
relazioni di clientela: tale presa di posizione si innesta, peraltro,
sull’abusato argomento per il quale il vero freno allo sviluppo sarebbero le banche, mai pronte a sostenere le idee degli imprenditori bisognosi di capitali. Lo schema culturale che sottende tale tipo di impostazione è in realtà assai povero, spesso basato su una mentalità che
richiede alle banche la maggior quantità di finanziamenti possibili, al
minor costo possibile, evitando ove possibile di fornire garanzie ma,
soprattutto, di fornire informazioni. Schema dominante nelle Pmi, per
le quali la personalizzazione dei rapporti con i finanziatori e la mancanza di formalità nelle relazioni di clientela rappresenta la regola, in
specie nei distretti e nei circuiti finanziari locali: da tale impostazione
derivano addirittura prese di posizione che vedono nella richiesta dei
bilanci e dei conti aziendali una vera e propria mancanza di fiducia;
™ da parte del sistema bancario, ripetute ostentazioni di sicurezza e
tranquillità, alle quali si affiancano dichiarazioni che, nella sostanza,
affermano che gli intermediari creditizi sono pronti a seguire ed assistere le imprese in tutti i loro progetti: se solo queste ultime fossero
aperte e trasparenti, la qualità delle relazioni di clientela potrebbe, finalmente, elevarsi.
Una sommaria rassegna del dibattito sulle conseguenze dell’introduzione
delle prescrizioni regolamentari di Basilea 2 nello stato attuale dei rapporti
banca-impresa, induce invece, a qualche ulteriore approfondimento, ripulito di
incrostazioni ideologiche e maggiormente attento ai dati di realtà. La discussione, anche in ambito scientifico, sull’applicazione delle nuove norme di vigilanza regolamentare, in effetti, si è a lungo soffermata su due temi, ritenuti
6
di interesse preminente: l’assorbimento di capitale conseguente all’adozione
dei rating e le modalità di costruzione dei rating stessi. Poca o nessuna attenzione è stata posta, al contrario, sul tema delle relazioni di clientela,
sull’intensità dei rapporti banca-impresa, sulla qualità del lavoro bancario
nell’analisi e nella gestione del rischio di credito, sulla valutazione del fabbisogno finanziario d’impresa quale momento essenziale del rapporto di affidamento13. Volendo fare un paragone per illustrare le conseguenze di tale dimenticanza, sarebbe come se il progettista di un edificio si fosse concentrato
sulla qualità e robustezza dei materiali delle pareti, degli intonaci, degli infissi, sugli elementi usati per la copertura, sugli impianti e sulla tinteggiatura,
trascurando completamente la questione del terreno dove dovrà sorgere
l’edificio e della solidità delle fondamenta.
In effetti, è proprio la quotidiana prassi bancaria nell’affronto dei problemi
finanziari delle imprese ad essere stata assunta come un dato scontato e non
suscettibile di essere messo in discussione; prassi sulla quale, peraltro, si fondano tutte le valutazioni di affidabilità delle imprese, la misurazione della capacità di reddito e della capacità di rimborso, la verifica dello stato di salute
dei soggetti affidati14, la capacità di comprendere i fabbisogni finanziari in
termini di natura, qualità e durata; prassi, infine, che salvo eccezioni circoscritte, prende ancora come modello di riferimento strumenti ed approcci non
solo obsoleti e fuorvianti ma, soprattutto, incoerenti con l’impostazione del
problema data dalle nuove prescrizioni regolamentari. Incoerenza testimoniata
da un passaggio del documento di Basilea 2, perlopiù trascurato in quasi tutti i
contributi presenti nel dibattito, che afferma che «(…) ai fini
dell’assegnazione dei rating, le banche devono tenere conto di tutte le informazioni pertinenti e per ogni prenditore dovrebbero osservare almeno i seguenti fattori:la capacità storica e futura di generare liquidità, necessaria a
rimborsare i propri debiti e a fare fronte ad altre esigenze finanziarie, quali
13
Sulla stretta correlazione esistente fra qualità dei dati utilizzati e validità dei modelli di rating
adottati, si veda F. Cannata “Rating esterni e dati di bilancio. Un’analisi statistica” in Studi e
note di Economia, 3/2001.
14
Si tratta dell’utilizzo dell’insieme di tecniche e strumenti di analisi noti come analisi per indici o analisi della solvibilità a breve termine. Sull’inadeguatezza di tale approccio esistono contributi teorici e verifiche empiriche: cfr.in particolare A.Giampaoli Banca e Impresa, Egea, Milano 2001 quanto ai primi; quanto alle seconde si veda, rispettivamente, R.Barontini, La valutazione del merito di credito. I modelli di previsione delle insolvenze, Il Mulino, Bologna, 2000 e
A.Berti “Modelli statici e modelli dinamici per la valutazione del rischio di credito: una verifica
empirica” in corso di pubblicazione su Banche e Banchieri.
7
le spese per investimenti necessari affinché il prenditore resti operativo e sia
in grado di gestire i flussi di cassa;(…)». È noto, infatti, che proprio l’analisi
per indici non è in grado di valutare correttamente la liquidità prodotta dalla
gestione, basando il proprio approccio su criteri statici e non dinamici. È singolare, peraltro, che il passaggio in questione sia stato trascurato, poiché avrebbe potuto indirizzare il dibattito in modo molto più costruttivo: quale impresa, infatti, potrebbe dissentire su un criterio di valutazione della propria
solvibilità basato sulla capacità storica e prospettica di produrre liquidità?
Per quel che riguarda il nostro Paese, l’impostazione storicamente seguita
dalla Banca d’Italia, lascia alle singole banche la decisione sui metodi più opportuni da adottare per l’apprezzamento del rischio di credito. Tuttavia si deve
sottolineare l’aspetto più rilevante che, sotto il profilo metodologico, definisce
tale impostazione. In una circolare sui controlli dell’ottobre 199815, la Banca
d’Italia si è occupata del processo del credito, delineando in maniera ineccepibile le varie tappe del processo del credito ma, soprattutto, mettendo al centro del processo istruttorio la componente soggettiva del valutatore, quale elemento di sintesi in grado di fornire il giudizio finale sopra un insieme di dati
il più possibile ampi, approfonditi, oggettivi. Nel documento, in effetti, si indica che «(…) nella fase istruttoria le banche acquisiscono tutta la documentazione necessaria per effettuare una adeguata valutazione del merito creditizio del prenditore, sotto il profilo patrimoniale e reddituale, e una corretta
remunerazione del rischio assunto. La documentazione deve consentire di valutare la coerenza fra importo, forma tecnica e progetto finanziato; essa deve
inoltre permettere l’individuazione delle caratteristiche e della qualità del
prenditore, anche alla luce del complesso delle relazioni con lo stesso intrattenute. Nel caso di affidamenti ad imprese, ad esempio, sono acquisiti i bilanci
(anche consolidati, se disponibili), nonché ogni altra informazione utile per
valutare la situazione attuale e prospettica dell’azienda». È facile immaginare che un processo creditizio impostato secondo tali prescrizioni non possa
prescindere dalla presenza di capitale umano qualificato. Il che, con tutta evidenza, pone la questione della cultura, della preparazione e della formazione
del personale bancario, negli ultimi anni considerato riduttivamente e mestamente alla stregua di un costo puramente amministrativo, quando invece rappresenta ancora la risorsa principale di qualunque intermediario creditizio che
15
Cfr.Banca d’Italia, Istruzioni di vigilanza per gli enti creditizi, circolare n.4 del 29 marzo
1988, 145° aggiornamento del 9 ottobre 1998, nel Supplemento ordinario n.175 alla Gazzetta
Ufficiale della Repubblica Italiana, Serie generale, n.245 del 20.10.1998.
8
non intenda divenire virtuale, scomparendo nelle nebbie di internet, erogando
prodotti e servizi all’interno di relazioni di clientela del tutto spersonalizzate16.
Ma pone anche questioni in termini di adeguatezza della strumentazione tecnica e della metodologia utilizzate, oltre che, ovviamente, di politiche del credito17. Infine, anche in questo caso, la conoscenza di tale tipo di impostazione
del processo del credito non potrebbe che essere condivisa da qualunque tipo
di impresa, togliendo di mezzo le troppe sovrastrutture che sovraccaricano il
dibattito: la ricerca della “coerenza” fra progetto finanziato, importo erogato e
forma tecnica prescelta imposta correttamente l’affronto del problema sotto il
profilo metodologico.
3. Comportamenti bancari e qualità delle relazioni di clientela:
l’evoluzione recente
Il verificarsi di un’imponente migrazione di numerose Pmi dalle banche
maggiori alle banche locali18, non assoggettate ai nuovi vincoli prudenziali,
rappresenta un punto di partenza illuminante per l’analisi dei comportamenti
recenti delle banche italiane: comportamenti che sembrerebbero indirizzati
tout court ad una riduzione del credito disponibile per le imprese, specie se
Pmi. In proposito, una riflessione più serena può essere di aiuto rispetto ai
vincoli consueti (ed “ideologici”) dello schema che concentra il dibattito sul
tema dell’assorbimento di capitale, del razionamento del credito, dei rating
quali strumenti punitivi. Il motivo per il quale la discussione abbia assunto tale impostazione e le ragioni della prevalenza assegnata a questi temi è, con
tutta probabilità, da ricondursi ad alcune realistiche constatazioni. La prima di
queste, dalla quale discendono tutte le altre, è che la maggior parte delle banche italiane, alle quali viene demandata la quota preponderante del credito erogato al sistema produttivo, è quotata in borsa: circostanza, questa, che se da
16
Non si può tacere, peraltro, che un tale scenario, verosimilmente, rappresenta l’ideale definitivo di molti amministratori delegati che dichiarano quale scopo principale della loro attività di
gestione la “creazione di valore per l’azionista”. Valore, con tutta evidenza, completamente
svincolato dal perseguire la responsabilità dell’intermediario quanto all’efficiente allocazione
delle risorse.
17
Sul punto cfr. R. Ruozi, R. Zara, Il futuro del credito alle imprese, EGEA, Milano, 2003.
18
Gli impieghi economici delle banche di credito cooperativo, alla fine del 2003, si erano incrementati, rispetto all’anno precedente, del 17,3%, contro un +5,8% del resto del sistema.
(Fonte: Federcasse in www.creditocooperativo.it).
9
un lato è da valutarsi positivamente, poiché ha posto il problema di una maggiore efficienza e di una maggiore qualità della gestione per il management,
dall’altro è fonte di preoccupazione per chiunque abbia a cuore la qualità dei
rapporti banca-impresa, poiché costringe le politiche degli intermediari creditizi dentro schemi angusti, volti a ricercare utili di breve periodo, ottenuti sovente mediante riduzioni di costi19. L’intervento sui costi, in effetti, diviene
l’unica strada praticabile quando è preclusa la strada dall’intervento sul prezzo/tasso applicato. Se si legge l’argomento in tale prospettiva, più ancora che
Basilea 2 o la necessità di inseguire un’elevata redditività (si leggano, in proposito, le impegnative dichiarazioni sui ROE obiettivo di molti amministratori
delegati), il vero “colpevole” del razionamento pare essere, paradossalmente,
proprio l’ambiente di tassi stabilmente bassi che caratterizza non solo
l’Europa ma quasi tutto l’Occidente industrializzato. Dal momento che il capitale è una risorsa scarsa (e per una banca quotata lo è ipso facto, essendo nota
l’avversione dei mercati alla sottoscrizione di aumenti di capitale), la cui crescita avviene quasi esclusivamente a mezzo dell’accantonamento a riserva degli utili, diviene essenziale il conseguimento di risultati d’esercizio positivi,
soprattutto attraverso tagli di spese e riduzioni di personale, poiché i prezzi
del settore, ovvero i tassi di interesse, sono da tempo a livelli molto bassi.
Come testimoniato da recenti, autorevoli contributi20, tale politica è stata perseguita attraverso l’adozione, sempre più diffusa, di modelli automatici di valutazione del rischio di credito, tesi ad evitare, per quanto possibile,
l’intervento della risorsa per eccellenza di ogni banca di relazione, il capitale
umano. È agevole constatare che tale tipo di scelta gestionale conduce a ridurre al minimo l’assunzione di rischi nell’attuazione delle politiche creditizie,
dal momento che, dovendo tenere presente il trade-off fra rischi assunti e riduzione al minimo del capitale regolamentare necessario, si preferisce la detenzione di un portafoglio prestiti poco rischioso, scarsamente redditizio ma
anche caratterizzato, in buona sostanza, dall’assenza di costi unitari di istruttoria e di gestione della relazione. In tal modo, con tutta evidenza, si recupera la
redditività dei rapporti di affidamento non già attraverso più ampi volumi e,
soprattutto, con l’applicazione di tassi congrui e coerenti con la rischiosità del
soggetto affidato (il che richiederebbe analisi approfondite e conseguenti forti
investimenti in capitale umano), ma quasi esclusivamente attraverso la riduzione al minimo dei costi.
19
20
Cfr. R. Ruozi, Il futuro del credito alle imprese, cit.
Ibidem.
10
All’interno del quadro che si è sommariamente tentato di descrivere la
questione dell’applicazione delle nuove regole di Basilea 2 appare poco più
che un pretesto per giustificare, soprattutto da parte di alcuni dei principali
competitori del mercato del credito italiano, un razionamento del credito che
non deriva dalla severità dei rating in sé, bensì dall’occasione che questi hanno rappresentato per una ricomposizione del portafoglio prestiti. In altre parole, la ricerca esasperata di risparmi di costo, in assenza di possibilità di incremento del contributo offerto dal margine di interesse e dall’attività di intermediazione tradizionale, impone una rigorosa selezione del portafoglio prestiti, poiché una più ampia assunzione di rischi risulterebbe incoerente e, soprattutto, non praticabile, in assenza di investimenti in formazione ed in personale
qualificato. Selezione del portafoglio che si traduce nell’esclusione, quasi automatica, non solo dei prenditori effettivamente caratterizzati da un elevato
grado di rischiosità, ma anche di tutti coloro che (è agevole il riferimento alle
Pmi), si rivolgono alle banche poiché sono strutturalmente deficitari di competenze gestionali in materia finanziaria e che, proprio per questo, necessitano
non solo di finanziamenti ma anche di finanza, di competenze, di consulenza,
in materia di scelte di investimento, di crescita, di ristrutturazione
dell’impresa. Ma poiché l’erogazione di servizi è costosa e, soprattutto
nell’area credito, non può prescindere dalla presenza di un qualificato capitale
umano, è preferibile pre-selezionare in maniera molto rigida il portafoglio
prestiti, riducendo al minimo i costi, la rischiosità e, soprattutto, l’impatto sul
capitale. L’obbiettivo, più volte dichiarato, della necessità di creare valore
per l’azionista, giustifica pienamente tale politica gestionale ed è, con essa,
perfettamente coerente: non altrettanta coerenza è possibile ritrovare rispetto,
ad esempio, alla missione di qualunque banca che voglia farsi carico di sostenere lo sviluppo del territorio nel quale opera, finanziando le nuove iniziative
imprenditoriali ed aiutando quelle esistenti a consolidarsi ed irrobustirsi. Non
conviene, infatti, investire in qualità delle relazioni di clientela se ciò comporta maggiori costi e diviene preferibile, almeno nel breve periodo, che di ciò si
facciano carico altri intermediari, quali le banche locali. Non a caso, come già
evidenziato in precedenza, sono state queste ultime a registrare i più elevati
tassi di incremento degli impieghi economici, a dimostrazione che i timori di
razionamento paventati dalle Pmi non erano infondati: e ciò non tanto in conseguenza dell’applicazione delle modifiche alla regolamentazione prudenziale, bensì in forza di un consapevole mutamento della politica degli impieghi.
4. Modelli di intermediazione e regole di vigilanza: strategie bancarie e sviluppo del rapporto banca-impresa alla luce di Basilea 2
11
La nuova regolamentazione prudenziale, in effetti, propone prepotentemente la questione della qualità delle relazioni di clientela nel nostro Paese,
dal momento che richiede agli intermediari creditizi di scegliere fra diverse
opzioni strategiche: in particolare, per quanto detto, si tratta di scegliere fra un
modello di relazioni di clientela spersonalizzato e reso possibile da un massiccio uso della tecnologia ed uno, già messo in atto efficacemente dalle banche
locali, che sceglie decisamente la banca di relazione quale formula di intermediazione, investendo sul capitale umano. Il primo consentirebbe di ottenere
elevati risparmi di capitale regolamentare e giungerebbe alla redditività più
che attraverso l’incremento dei ricavi, attraverso la riduzione dei costi operativi. Il secondo modello, al contrario, è imperniato proprio sull’investimento
in capitale umano e scommette fortemente sulla possibilità di sviluppare relazioni di clientela intense, stabili e durature, in un’ottica di medio-lungo termine21. È dubbio, tuttavia, a parere di chi scrive, che la scelta fra i due modelli
possa essere considerata neutrale ed indifferente per la qualità delle relazioni
di clientela, soprattutto in rapporto alla crescita ed allo sviluppo delle Pmi. In
altre parole, la questione che si pone potrebbe riassumersi come segue: indipendentemente da ovvie considerazioni circa la libertà di ogni impresa bancaria di decidere in perfetta autonomia le proprie politiche del credito, con quale
metro tali politiche devono essere misurate? Con quello, ovvio ed immediato,
del risultato di bilancio e della “creazione di valore per l’azionista” o con
quello, di più difficile interpretazione, soprattutto nel nostro Paese, della capacità del sistema bancario di sostenere il sistema produttivo? E se la risposta
fosse quella meno scontata, a chi competerebbe la valutazione? Non esistono22, in Italia, esperienze analoghe a quelle del Regno Unito, dove esistono
21
È noto, tuttavia, che proprio le prescrizioni di Basilea 2 determinano un maggior assorbimento di capitale regolamentare in relazione all’instaurarsi di rapporti di affidamento di mediolungo termine, ritenuti più rischiosi proprio in relazione alla durata media dell’operazione. Se in
una logica di gestione del rischio improntata ad un approccio di portafoglio tale conseguenza,
in astratto, pare accettabile, poiché i titoli a scadenza più protratta devono naturalmente essere
considerati più rischiosi, la prescrizione è incoerente non solo con l’auspicio di relazioni di
clientela di lungo periodo, ma anche con le caratteristiche dei rapporti in essere in molti Paesi
dove prevale la figura della main bank.
22
Tuttavia, a partire dal 2003, la Compagnia delle Opere ha avviato un iniziativa, denominata
Sistema Italia, volta a ridisegnare l’impianto e la struttura delle proprie convenzioni bancarie:
sono state già avviati, con esiti favorevoli, tre progetti-pilota, a Napoli, Pesaro e nella provincia
di Rieti, finalizzati ad incrementare il contenuto di servizi e di consulenza all’interno del rapporto creditizio in convenzione.
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associazioni quali il Forum for Private Business23, che si occupano di valutare
la qualità delle relazioni di clientela, non appena in termini di costi, ma di reale capacità di risposta alle esigenze delle imprese affidate. Esiste invece, come
è noto, una diffusa e capillare attività di lobbying demandata dalle imprese alle loro associazioni di categoria, ma tale attività riverbera sotto il profilo delle
relazioni di clientela quasi esclusivamente in termini di migliori condizioni di
utilizzo del prestito, di tassi più favorevoli, di abbattimenti di prezzi o di costi:
in altre parole, riverbera in termini quasi esclusivamente di copertura del fabbisogno finanziario. In realtà tale attività difficilmente è stata capace di andare
al cuore del problema, che non è la copertura delle esigenze di liquidità delle
imprese, ma il perché sorge il fabbisogno finanziario e se la risposta sia meritevole di approfondimento. Non è difficile scorgere, all’interno di questa lettura delle relazioni di clientela, l’impostazione che collega strettamente lo sviluppo delle imprese alla possibilità, per queste ultime, di attingere con facilità
alle risorse finanziarie che necessitano loro, quasi che il problema si risolvesse
nella disponibilità di denaro a buon mercato, quando non erogato a fondo perduto. Non c’è idea imprenditoriale che possa sostenersi semplicemente per la
disponibilità di finanziamenti, a fondo perduto o a costi ridotti: quando manca
la redditività, quando il risultato operativo non è positivo o è inconsistente,
quando non esiste la compatibilità finanziaria per nuove iniziative di impresa
o per nuovi investimenti24, non potrà essere l’accesso agevolato al credito a
risolvere il problema. La questione riguarda da vicino, invece, la cultura imprenditoriale delle Pmi, gli strumenti e le tecniche della gestione d’impresa, la
serietà della formula competitiva adottata, la redditività e la capacità di generare un flusso di risorse finanziarie adeguato a mantenere l’impresa in condizioni di equilibrio e di solvibilità: per tutto questo non servono maggiori risorse o risorse più a buon mercato, servono intermediari finanziari responsabili e
preparati, in grado di aiutare le Pmi italiane non solo e non tanto a crescere a
23
Il Forum for private Business è un’associazione di piccole e medie imprese inglesi che si occupa di verificare la qualità delle relazioni di clientela in rapporto all’effettivo sostegno dato
alla gestione, e non solo sotto il profilo quantitativo. Il Forum svolge ricerche presso i propri
associati con cadenza biennale, con la collaborazione e la supervisione dell’Università di Nottingham. Cfr. sull’argomento A. Berti, Strumenti e tecniche per la conduzione del rapporto
banca-impresa: il caso inglese, Materiali Assbank, n.23, 1998.
24
A maggior ragione se si tratta di investimenti immobiliari, il cui contributo alla redditività
dell’impresa è nullo. Al contrario, spesso si assiste ad un affronto del problema molto superficiale e che può essere sintetizzato come segue: le imprese fanno investimenti e necessitano di
crescere, le banche devono semplicemente preoccuparsi di coprire i relativi fabbisogni.
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tutti i costi, quanto piuttosto a creare ricchezza con continuità, assicurando la
costanza ed il miglioramento delle condizioni di benessere delle imprese stesse, di chi vi lavora, del territorio nel quale operano. Sotto tale profilo, come si
tenterà di illustrare nell’ultima parte del presente contributo, il modello di intermediazione che appare rispondere meglio alle questioni che si sono poste è
quello adottato dalla banca locale rispetto al suo territorio di insediamento.
5. Credito alle Pmi e regolamentazione prudenziale: il nuovo ruolo
delle banche locali
L’enfasi sul ruolo della banca locale quale realistica, possibile soluzione
per i problemi posti da Basilea 2, nasce anzitutto da alcune considerazioni riguardo al rapporto con il proprio territorio di riferimento. In particolare il tipo
di area elettiva per una banca locale, soprattutto se a struttura cooperativa (ma
non solo), non può che essere quella contraddistinta dalla presenza di un tessuto di piccole e medie imprese e di comunità civili di dimensioni contenute,
anche se un importante spazio di mercato per questi intermediari creditizi potrebbe essere anche quello delle fasce periferiche delle grandi città. Si può
pertanto affermare che la banca locale, che spesso è anche una piccola banca,
si caratterizza per l’essere radicata nel proprio territorio di insediamento, omogeneo quanto a cultura, valori, economia: la banca locale nasce per
l’effetto congiunto e contestuale dei soggetti (famiglie ed imprese) che sul territorio mostrano esigenze non soddisfatte di risparmio e di investimento. Il legame della banca locale con il proprio territorio di riferimento è tale da definirne non appena l’operatività, ma la stessa ragion d’essere: pertanto, la cultura e la realtà sociale ed economica locali rappresentano i fondamenti
dell’azione della banca locale, che spesso nasce dalla condivisione di valori di
solidarietà presenti nella cultura del territorio attraverso persone ed imprese
attente al bene comune. La vera missione della banca locale può essere definita, allora, nella creazione di valore per il territorio, vero azionista della banca
stessa attraverso i soci, famiglie ed imprese: il ruolo che la banca locale assume è quello di interprete e portatrice di interessi del proprio territorio di riferimento. L’attenzione alle Pmi, così connaturata alla storia delle banche locali
è legata alla stessa natura ed alla nascita di tale tipo di imprese, che nascono e
si sviluppano in rapporto al crescere ed allo svilupparsi del proprio territorio
di riferimento, specularmente ed in parallelo alla nascita ed allo sviluppo della
banca locale. Le Pmi, pertanto, trovano storicamente nella banca locale la figura della banca di riferimento, la main bank della tradizione anglosassone, la
cui missione diviene così sempre più quella di partner consapevole e profes-
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sionale che accompagna lo sviluppo delle imprese, assumendo così il ruolo di
figura-chiave nei circuiti finanziari locali.
Per le Pmi il passaggio dall’accesso al credito alla fruizione di servizi finanziari evoluti è un passaggio fondamentale affinché l’applicazione delle
nuove regole non risulti penalizzante, poiché le rende meno rischiose e più
consapevoli delle conseguenze finanziarie delle proprie scelte gestionali: tale
passaggio è reso possibile dalla conoscenza che le banche locali possiedono
dei bisogni delle imprese clienti. La risposta può così svilupparsi in termini di
maggiori servizi offerti, mettendo a disposizione professionalità in grado di
dare una vera e propria consulenza, ad elevato valore aggiunto, che, sovente,
nessun altro interlocutore (professionisti ed associazioni) riesce a dare.
L’erogazione di servizi diviene essa stessa presupposto dell’intermediazione
tradizionale, e non appena un ulteriore settore di attività, poiché il crescere
della domanda di qualità del supporto finanziario offerto e del sostegno accordato mette in gioco la capacità della banca locale di affiancare concretamente l’imprenditore in tutte le scelte rilevanti dal punto di vista finanziario.
Alcuni esempi possono meglio documentare l’importanza del modello di intermediazione adottato dalle banche locali quale possibile soluzione per i problemi posti da Basilea 2 alle Pmi:
ƒ la copertura del fabbisogno finanziario d’impresa, che è sia di risorse
(finanziamenti), sia di conoscenza (finanza) e che deve essere supportato non appena attraverso maggiori erogazioni, ma attraverso la diffusione di una più ampia cultura d’impresa;
ƒ le possibilità di crescita e di sviluppo “propositivo” delle banche locali rispetto alle associazioni ed alle professioni, partners necessari ed
indispensabili per un riferimento concreto al territorio (si pensi, in
particolare, alla presenza cruciale della banca locale nei patti territoriali), ma sovente inadeguati;
ƒ l’aiuto e l’assistenza alle imprese nella fase del passaggio generazionale, fra i più delicati nella vita delle piccole imprese, al fine di mantenere nel territorio e per la comunità locale ciò che il territorio e la
comunità locale, anche grazie alla banca locale stessa, hanno saputo
generare.
Le banche piccole e locali potrebbero fruire, nella chiave di lettura proposta dalle nuove prescrizioni regolamentari (la riduzione del rischio di credito e
la sua migliore e più efficiente parametrazione rispetto al patrimonio di vigilanza posseduto), di tutta una serie di vantaggi: una migliore conoscenza della
clientela affidata già nella fase antecedente la concessione del credito (vantaggio nello screening); migliori informazioni sulla clientela stessa nel corso
dello sviluppo della relazione di credito, grazie al flusso continuo di contatti
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ed informazioni sul conto degli affidati stessi (vantaggio nel monitoring);
maggiore capacità di tutelare le proprie ragioni di credito, specie in caso di
difficoltà del debitore, grazie a strumenti di pressione disponibili all’interno
della comunità locale (vantaggio nell’enforcement).
I vantaggi ora descritti sono certamente rafforzati ove la banca locale assuma veste cooperativa, dal momento che tale tipo di banche eroga (anche per
vincoli regolamentari e legislativi) la maggior parte del credito nei confronti
dei soci, sui quali le informazioni disponibili dovrebbero essere più abbondanti e di migliore qualità, dal momento che in fase di ammissione del soggetto
ne è stata vagliata la credibilità, affidabilità e reputazione, ciò che dovrebbe
anche sanzionare “socialmente” comportamenti scorretti. D’altra parte, la
banca locale, soprattutto se in forma cooperativa, risolve il problema
dell’asset substitution, ovvero la circostanza che gli azionisti abbiano interesse a trasferire la ricchezza attesa dai creditori a sé stessi, accrescendo il rischio
ed il rendimento atteso delle attività. E ancora: sono le banche locali a finanziare lo sviluppo e la crescita dell’imprenditoria nascente, in virtù degli stabili
legami con la propria comunità che contraddistinguono le banche locali dagli
altri intermediari creditizi.
Si prenda il modello di relazioni di clientela definito da un atteggiamento
dell’intermediario creditizio che si pone come banca di riferimento per le imprese: in questo caso, presente in Europa nei sistemi finanziari inglese e francese, la banca, pur non intromettendosi nella gestione e senza partecipare al
capitale di rischio, chiede una relazione pressoché esclusiva, ricercando al
massimo grado possibile lo sfruttamento dei vantaggi di informazione, di
transazione e di localizzazione tipici dell’intermediario creditizio.
In particolare: il vantaggio informativo, derivante dall’approfondita conoscenza del cliente e delle sue necessità, incrementato dalla possibilità di osservare termini e modalità dei rapporti commerciali e di fornitura, affinato nel
tempo man mano che la relazione si stabilizza, consente di ridurre il rischio
morale ed attenua il rischio di credito, rendendo meno costosa l’attività di
monitoring (un vecchio cliente, già noto, è più affidabile di un nuovo cliente,
ed il mantenimento della relazione comporta minori costi di informazione); il
vantaggio transattivo, derivante dalla canalizzazione dei flussi finanziari
dell’impresa affidata, coniugandosi con una maggiore conoscenza del cliente,
consente di trarre informazioni specifiche riguardo alla natura ed alla qualità
delle relazioni intrattenute, alla specificità del business, al rischio d’impresa;
infine il vantaggio localizzativo, tipico delle banche locali di cui ci stiamo occupando, consente di trarre profitto dall’esperienza maturata grazie
all’insediamento sul territorio, dalla conoscenza dell’ambiente, dalla sensibilità rispetto all’ambiente economico e sociale, fornendo maggiore qualità
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all’informazione sul rischio di credito per esempio anche grazie all’analisi settoriale.
Si tratta di vantaggi che le banche locali riescono ad assommare in modo
efficiente all’interno della propria formula d’intermediazione, grazie anche a
rapporti di natura prevalentemente informale, fortemente personalizzati e basati sulla fiducia ed il commitment reciproco. Le istruttorie che ne derivano
sono, di conseguenza, fondate quasi esclusivamente su una valutazione di reputation testimoniata da rapporti personali e sull’esistenza di garanzie, unico
dato realmente disponibile ed accertabile. Ne deriva una modesta capacità informativa in capo ai documenti ufficiali, di bilancio e non, essendo l’effettiva
performance aziendale perlopiù documentata sulla base di informazioni assunte in loco: il vantaggio informativo, tipico degli intermediari creditizi, è
infatti esaltato dalla compresenza di un fortissimo vantaggio localizzativo, che
connota in modo del tutto particolare le banche avente dimensione operativa
modesta e limitata sotto il profilo territoriale. Inoltre: la banca locale opera in
un mercato di dimensioni limitate, e la situazione di asimmetria informativa
che si trova a fronteggiare è certamente meno accentuata di quella di una banca maggiore, che opera in mercati molto più grandi; nelle comunità piccole le
performances passate e presenti degli imprenditori locali sono note e conosciute ed il rapporto con la banca è molto forte, riducendosi il rischio di selezione avversa e di comportamento opportunistico.
Per questa ragione è molto più probabile che la banca locale ricorra a contratti impliciti (più flessibili e meno rigidi di quelli espliciti, oltre che meno
costosi, poiché non implicano spese di negoziazione) rispetto alla banca di
maggiori dimensioni, poiché a differenza di quest’ultima ha maggiori possibilità di far rispettare tali contratti e guadagnare dalla loro attuazione. D’altra
parte, i comportamenti devianti da parte dei prenditori di fondi, sono facilmente conoscibili su scala locale da parte di altri contraenti potenziali, nonché
da altri finanziatori: si ridurrà o sarà eliminata la possibilità di contrarre altri
prestiti, essendo venuta meno la reputazione. La questione della reputazione
assume una grande importanza in una comunità piccola, sia per la banca locale, sia per la sua clientela, poiché un cliente insolvente potrebbe non trovare
più un’altra banca disposta a concedere prestiti, una volta che la reputazione
sia intaccata. La banca locale assume in tal modo la veste di “segnalatore”, a
cui guardano le altre banche per orientare il credito ma, soprattutto, con la
concessione del credito a soggetti cui le banche maggiori lo negherebbero e
con la creazione di condizioni in cui l’insolvenza sia meno conveniente, le
banche locali espandono direttamente ed indirettamente l’offerta di credito,
costruendo rapporti i cui costi di monitoraggio siano minimi, mentre
l’impegno dei clienti a rispettarne le clausole, senza indulgere in comporta-
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menti opportunistici, sia sufficiente a mantenere la buona qualità del credito
erogato.
In prospettiva, un significativo punto di forza delle banche locali potrebbe
essere rappresentato dal patrimonio di informazioni e di conoscenze circa la
qualità dei debitori: tale vantaggio, d’altra parte, dovrebbe essere ulteriormente rafforzato, rifondando e ri-orientando i criteri di valutazione del merito di
credito, abbandonando la prassi garantista per abbracciare principi di validità
economica e tecnica delle iniziative da finanziarie. In tal modo la banca locale
assumerebbe un ruolo importante, se non fondamentale, di stimolo nei confronti delle imprese più piccole, spinte a focalizzare la loro attenzione sulla
qualità e fattibilità dei progetti di investimento, aumentandone la possibilità di
successo. Infine, un atteggiamento della banca locale sempre più orientato a
fungere da banca di riferimento per il sistema delle Pmi, può consentire a queste ultime una maggiore stabilità degli affidamenti bancari ottenuti, un minore
condizionamento delle garanzie nell’ottenimento dei prestiti, minori errori di
programmazione della gestione e delle scelte di investimento, sia in capitale
fisso, sia in capitale circolante, riduzione del rischio complessivo di gestione,
copertura del fabbisogno finanziario effettivamente commisurata alla dimensione di quest’ultimo. In definitiva, una migliore capacità di governo e di gestione del proprio fabbisogno finanziario e, di conseguenza, migliori e meno
rischiosi rapporti bancari.
Si consideri, del resto che alle imprese, soprattutto se di piccole dimensioni, occorrono rapporti solidi con banche in grado di comprenderne le esigenze
e di costruire, intorno al tradizionale rapporto di affidamento, una rete di servizi reali di consulenza e di formazione, destinati a migliorare non solo la
scelte della gestione finanziaria, ma, in primo luogo, la stessa cultura imprenditoriale. Proprio per quanto detto, di conseguenza, le banche locali sembrano
esser le più adatte a rivestire tale ruolo: nell’ambito del credito cooperativo,
peraltro, sono stati varati progetti25, in varie zone d’Italia, all’interno dei quali
sono stati forniti agli imprenditori partecipanti, rispettivamente:
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È bene annotare che si tratta di progetti, nella fattispecie quello del Credito Cooperativo è
denominato Progetto Impresa, ai quali gli imprenditori partecipano dietro pagamento di un corrispettivo per un servizio che si vuole non solo di qualità ma, soprattutto, percepito come tale
anche in chiave di sviluppo futuro dei rapporti. Il progetto, sinora, è stato avviato nella provincia di Ascoli Piceno, nella provincia di Siena, a Como e a Bologna: come nel caso di Sistema
Italia, anche in questo caso gli esiti sono stati lusinghieri per le banche proponenti, con nuove
edizioni e con l’ampliarsi del progetto a nuovi settori. Si deve sottolineare, tuttavia, una differenza fondamentale: mentre il progetto del Credito Cooperativo è stato avviato su iniziativa
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o
formazione di tipo economico finanziario, sui temi della gestione
d’impresa, con particolare riguardo alla natura del fabbisogno, alle
scelte in materia di investimenti, programmazione e struttura finanziaria;
o strumenti informatici di valutazione dell’impresa condivisi con la
banca, in modo da rendere comune il linguaggio in materia di valutazione delle performances aziendali ma, soprattutto, di rendere concreto quanto appreso in aula, in particolare per le scelte strategiche di
crescita e sviluppo;
o consulenza continuativa e check-up aziendali erogati da personale della banca destinato a svolgere il ruolo di gestore e formato in aula insieme agli imprenditori partecipanti al progetto: in questo modo si
rende possibile non solo una comunanza nell’apprendimento ma, soprattutto, la creazione di rapporti più solidi, in quanto basati sulla
condivisione dei problemi e della metodologia di affronto degli stessi.
Si tratta solo di una delle molteplici possibilità che si offrono
all’intermediario creditizio che intenda impostare la propria formula intermediativa sul modello della banca di relazione. Com’è agevole intuire si tratta
anche di un modello di relazioni di clientela impegnativo, che richiede investimenti in capitale umano, in strumenti, anche informatici e che non può che
tendere alla fidelizzazione del cliente attraverso rapporti esclusivi: senza dubbio una gestione improntata ad un modello di relazioni poco diffuso nel nostro
Paese, quello della banca di riferimento, modello che le banche locali, al di là
dei nominalismi, sembrano avere sinceramente fatto proprio.
6. Conclusioni
Il tema del rapporto banca-impresa, sul quale il dibattito degli ultimi mesi
ha riversato abbondanti riflessioni, viene indubbiamente rimesso a fuoco dalla
regolamentazione di Basilea 2, se solo si sia disposti ad abbandonare le posizioni di contrapposizione per provare a costruire nuove relazioni che consentano uno sviluppo migliore e più efficiente. La domanda vera che Basilea 2
pone non riguarda, nella realtà, come invece paventato da più di un attore
dell’ambito imprenditoriale, la questione del razionamento del credito per
delle banche locali, quello della Compagnia delle Opere è stato proposto dalle imprese e, perlopiù, a grandi banche.
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quel che riguarda le Pmi, o l’adeguatezza del capitale al rischio assunto, per
quanto concerne gli intermediari. Come si è cercato di dimostrare nel corso
del lavoro, il problema, posto in questi termini, si riduce ad una mera applicazione tecnica di regole, mentre riemergono, in buona parte irrisolti, i temi della qualità delle relazioni di clientela con imprese, le Pmi, il cui fabbisogno di
competenze e di cultura procede di pari passo con quello di natura finanziaria.
Le mancanze e le lacune nella preparazione imprenditoriale, l’assenza di organizzazione e di funzioni dedicate alla finanza aziendale oltre a riflettersi direttamente sulla qualità della gestione finanziaria (per l’assenza di processi di
programmazione finanziaria, per le modalità di assunzione delle scelte di investimento, per le scelte in materia di struttura finanziaria, storicamente squilibrata sull’indebitamento), rilevano in termini altrettanto immediati
sull’applicazione dei rating interni da parte delle banche affidanti le Pmi. Si
pensi, in particolare, agli indicatori di anomalia, le cui segnalazioni penalizzeranno fatalmente imprese abituate ad una gestione della tesoreria aziendale del
tutto priva di pianificazione, non concordata con le banche affidanti e, soprattutto, non consapevole. In tale prospettiva gli appelli rivolti dal sistema bancario al mondo delle imprese perché questo si acconci ad una più ampia e fiduciosa apertura sembrano privi di realismo, quasi che il problema possa trovare
soluzione semplicemente con una maggiore trasparenza ed una maggiore apertura verso i finanziatori. In questi appelli, infatti, c’è tutta la scontatezza
non solo del pregiudizio bancario che afferma che i rapporti banca-impresa
non sono efficienti per colpa delle imprese e della loro ritrosia ad aprirsi alle
banche, ma anche dell’ipotesi che gli intermediari creditizi siano già attrezzati
ad assistere le imprese, comprendendone i fabbisogni ed aiutandole a migliorare la gestione, sia sotto il profilo economico, sia sotto il profilo finanziario.
Nella realtà, come si è potuto vedere, le politiche degli impieghi, soprattutto
in tempi recenti, sono state dettate da preoccupazioni improntate a pure e semplici esigenze di bilancio, allo scopo di ridurre i costi ed assicurare una gestione uniforme e standardizzata del rischio di credito, tesa a ridurre i costi unitari di istruttoria per soggetto affidato, utilizzando in modo massiccio sistemi automatici di valutazione. Se un tale approccio può essere condivisibile,
almeno in astratto, avuto riguardo alla redditività dei bilanci bancari ed alla
necessità di ridurre ed ottimizzare l’impatto sul patrimonio regolamentare, esso rappresenta, tuttavia, una modalità inadeguata ad incoraggiare l’evoluzione
del rapporto banca-impresa nel senso della partnership. In effetti, se lo stato
delle relazioni di clientela dovesse rimanere quello che si è descritto, le ricadute di Basilea 2 sarebbero certamente quelle meno desiderabili, poiché la
nuova regolamentazione non avrebbe rappresentato altro che un pretesto per il
sistema bancario per giustificare una politica degli impieghi di disimpegno e
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di allontanamento dalla capacità di soluzione dei problemi finanziari delle imprese, in specie se Pmi: l’enfasi sull’adeguatezza del capitale e sulla costruzione di modelli che ne rendano l’uso massimamente efficiente, soprattutto se
rapportato ad un rischio che si vuole sempre più contenuto, rischia di mettere
in secondo piano la situazione delle imprese, che rischiano di vedersi ridurre
non tanto e non solo il credito disponibile, quanto piuttosto la possibilità di
poter contare su un supporto per la crescita e lo sviluppo.
Sotto tale profilo la nuova regolamentazione, lasciando fuori, almeno per
ora (e salvo intendimenti diversi delle nostre autorità di Vigilanza) le banche
locali, ovvero le banche di dimensioni ridotte o modeste, le chiama ad un
compito di supplenza per il quale le stesse, almeno a giudicare dalle iniziative
assunte e dalla quota di impieghi assorbita, sembrano preparate. Le banche
locali, proprio per la loro superiore sensibilità nei confronti delle imprese del
loro territorio e per i vantaggi di cui godono, soprattutto in termini informativi
e localizzativi, sono poste in condizione di conoscere meglio le esigenze della
loro clientela e di soddisfarle non solo e non tanto con strumenti finanziari e
con un adeguato sostegno, in termini quantitativi, ma, soprattutto, con la consulenza in materia di decisioni di investimento, di scelte di finanziamento e,
più in generale, fornendo loro la formazione manageriale di cui difettano. A
tale compito queste banche, pure di dimensioni ridotte, sono già preparate
poiché da sempre hanno impostato il proprio modello di intermediazione e la
propria presenza sul territorio in termini di banca di relazione e non semplicemente come banca di transazione. I costi da sostenere per rafforzare tale
modello di intermediazione sono, peraltro, in gran parte già sostenuti, soprattutto per quel che riguarda il personale e, per quanto concerne i costi di informazione, sono già recuperati nell’ambito di rapporti di clientela di grande intensità. Le iniziative che si sono descritte testimoniano, d’altra parte, che tali
banche hanno maturato un elevato grado di consapevolezza circa i contenuti
della loro presenza sul territorio e della loro formula di intermediazione, facendosi carico anche del gap di cultura manageriale che, fatalmente, caratterizza le piccole imprese. È proprio su quest’ultimo piano che, a nostro parere,
si deve lavorare per migliorare la qualità della gestione delle imprese migliorando, nel contempo, la qualità dei rapporti e del portafoglio bancario: al contrario, politiche degli impieghi che continuassero ad esasperare criteri di selezione del portafoglio prestiti e di selezione del merito di credito volte a trascurare la qualità dell’analisi, pur di minimizzare i costi, lascerebbero fuori una
percentuale altissima di imprese la cui rischiosità è legata, perlopiù, a carenze
di formazione manageriale ed al tradizionale difetto di cultura finanziaria delle Pmi. In forza di quanto detto è presumibile che i mutamenti nel mercato del
credito a seguito dell’introduzione delle nuove regole di Basilea 2 saranno vi-
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sibili in particolare per una presenza più massiccia e significativa delle banche
locali. Ove si consideri, inoltre, che queste stesse banche restano, almeno per
ora, fuori dalle previsioni regolamentari di Basilea 2 (pur essendo in realtà
preparate in termini di capital adequacy ma non per quanto riguarda
l’adozione di un sistema di rating interni) non è difficile immaginare che esse
possano giocare un compito rilevante nello sviluppo di un rapporto bancaimpresa fortemente connotato da criteri di partnership e di fiducia reciproca.
Rimane tuttavia il grande interrogativo legato all’ovvia constatazione che, a
contrariis, una quota degli impieghi pari orientativamente all’80% del totale
viene erogata da grandi banche, la cui politica dei prestiti, se dovesse rimanere
quella attuale, non pare in grado di sostenere efficacemente il sistema economico italiano nel difficile momento che sta attraversando: senza dimenticare
che si tratta di banche la cui politica del personale e le cui scelte organizzative
si sono caratterizzate per ampi processi di espulsione e ristrutturazione. Processi che dovranno fatalmente invertirsi, una volta che una ripresa del ciclo
economico più solida ed un ambito concorrenziale meno appiattito sui risparmi di costo chiederanno inevitabilmente di essere affrontati con risorse adeguate. Saranno questi i binari, probabilmente, destinati a dettare la direzione
verso la quale evolverà il sistema delle relazioni di clientela del nostro Paese,
così come dipenderà dal ritardo che gli intermediari e le Pmi accuseranno nel
percorrerli la possibilità di un’evoluzione più efficiente del rapporto bancaimpresa.
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