Untitled - DropPDF

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Untitled - DropPDF
1110
Prima edizione ebook: febbraio 2016
© 2016 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-8940-9
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Librofficina
Art direction: Sebastiano Barcaroli
Immagine: © Shutterstock
Raffaella V. Poggi
Uptown Girl
A mia nonna e alla mia Tata
Capitolo I
Un rospo da ingoiare
Jacqueline scivolò giù dal letto per trascinarsi in bagno. Controllò le occhiaie
della notte insonne riflesse nello specchio.
Una sottile paura le impediva di compiere i soliti banali e quotidiani gesti, scossa
com‟era da un intimo tremore che le vibrava dentro.
Era una sensazione nuova vibrare, tremare… esistere.
Come ogni mattina fece la doccia, si asciugò e scelse con più cura del solito gli
abiti dall‟armadio. Le dita tremavano leggermente mentre abbottonava la
madreperla iridescente dell‟elegante pantalone blu, vestigia di un passato fatto di
agi e boutique. Infilò la giacca del completo sopra la camicia di seta impalpabile e
raccolse i folti capelli biondi pettinandoli con le mani. Quasi con fatica riuscì ad
annodarli nella coda.
Richiuse dietro di sé lo spesso portone a vetri e si fermò sulle scale ad aspirare
una boccata d‟ossigeno prima di immergersi in una New York avvolta dall‟aria
tersa del mattino.
“Avanti, Jackie, fatti forza”, si disse e si strinse il soprabito al petto come se
dovesse affrontare una tormenta. Purtroppo la tempesta era dentro di lei. Da
qualche settimana. Da quando tutto era precipitato.
Tutto insieme.
Il calmo immobilismo in cui trascinava le sue giornate era stato scosso
dall‟ennesimo terremoto. Questa volta il colpo era stato durissimo, aveva quasi
perso suo padre.
Controllò il display del cellulare per accertarsi che non vi fossero nuovi messaggi
dall‟ospedale, poi scese i pochi gradini che collegavano il portone alla strada, come
in tanti altri edifici di Manhattan, piccoli, antichi ed eleganti palazzi a tre piani,
tutti uguali e tutti diversi, pigiati l‟uno accanto all‟altro, quasi a voler affermare il
proprio diritto ad affacciarsi sugli stretti viali dell‟Upper West Side.
Era prestissimo e decise di recarsi da Carlton in metropolitana; inutile chiamare
un taxi, sarebbe comunque arrivata a Wall Street in poco più di mezz‟ora.
Le era costato molto prendere quell‟appuntamento, ma non sapeva che altro fare:
il direttore di una delle banche che finanziavano le imprese del padre aveva
chiamato per presentarle la situazione contabile e spiegarle di quanto fosse esposta
l‟intera compagnia. Aveva chiamato lei! Lei che non ne sapeva nulla degli affari di
suo padre. Nulla!
Il direttore le aveva spiegato la gravità della situazione, a cui purtroppo il padre
non era in grado di porre rimedio perché, estromesso e malato, non ne aveva più il
controllo da molti mesi, né c‟era più un solo collaboratore su cui poter contare.
Così Jackie aveva pensato agli amici, agli amici di suo padre, agli amici di
famiglia. Aveva telefonato il giorno prima a Carlton Brennan per esporgli il suo
problema, e lui l‟aveva liquidata velocemente: «So tutto, Jackie. Sappiamo tutto da
un bel pezzo. È Walsh, il nostro socio più giovane, che si occupa della faccenda.
Conosci Walsh?»
«Sì», aveva risposto lapidaria.
«Bene, ti prendo un appuntamento con lui: per te e tuo padre, questo e altro, cara.
Domattina può andar bene? Lavori?»
«Sì, lavoro, ma posso prendermi un paio d‟ore di permesso».
«Ok, facciamo sul presto. Ti richiamo per darti la conferma. Come sta Fred?»
«Diciamo meglio. Mi hanno assicurato che lo dimetteranno alla fine del mese. La
riabilitazione è lunga; l‟intervento è stato molto complesso, lo sai, ma lui ha una
fibra forte».
Carlton Brennan, oltre a essere amico di suo padre dai tempi del college, era
l‟esecutore testamentario di sua madre e colui che gestiva i fondi fiduciari di Jackie
e di suo fratello John. Anzi, per meglio dire solo di John, perché i suoi erano stati
svincolati per coprire le spese mediche del padre e pagare gli avvocati per il
divorzio miliardario del magnate Manfred Olson dalla seconda moglie, Antonia.
La società di Brennan, la CBS & Associates, come molti altri istituti di spicco
aveva impiantato la propria sede in uno dei grattacieli di Wall Street, scelta
obbligata per affermare il proprio prestigio agli occhi del mondo.
La metropolitana faceva tappa nel ventre del grande palazzo al sessanta di Wall
Street, accesso privilegiato nei giorni feriali per una miriade di impiegati, avvocati,
finanzieri, assistenti, segretarie, contabili che ineluttabilmente ogni mattina si
facevano trascinare dalle enormi scale mobili dentro il grande atrio di marmo, per
poi dirigersi verso uno dei ventisei ascensori che servivano l‟edificio.
Jackie guardò l‟orologio: era ancora presto, doveva ingannare il tempo per un
po‟, così decise di prendere un caffè in uno dei bar del grattacielo. Non aveva
mangiato nulla; quando era troppo agitata, si risvegliava dal torpore della sua
esistenza e, indizio più eclatante, il suo stomaco si rifiutava di accettare anche un
solo spillo, impegnato com‟era ad aiutare il diaframma a muovere i polmoni per
permetterle di respirare.
Era sempre così: fuori, all‟apparenza, era un essere vivente… senziente… vivo;
dentro, invece, si scatenava un uragano in grado di spazzare ogni cosa, seguito dal
silenzio totale della devastazione.
Si sedette su uno sgabello e sorseggiò il cappuccino al caramello dal bicchierone
di carta, passò il dito sul logo verde di Starbucks e si mise a riflettere su ciò che
avrebbe detto, su quello che avrebbe dovuto chiedere.
Si sarebbe prostrata? Umiliata?
Forse.
Sì.
Avrebbe fatto uno sforzo immane e avrebbe implorato, rinunciando all‟unica
cosa che l‟aveva mantenuta in vita: l‟orgoglio.
Jacqueline non sapeva nulla degli affari del padre, non le erano mai interessati,
aveva studiato altro; si era laureata a Yale in storia e letteratura e lì aveva
conseguito l‟abilitazione all‟insegnamento. E poi Antonia aveva fatto in modo che
lei fosse estromessa dalle imprese di famiglia, così si era tenuta a debita distanza.
In un mondo tutto suo.
L‟anno precedente, quando Manfred Olson aveva avuto il primo infarto, Antonia
aveva preso in mano tutte le attività di famiglia – aveva macchinato anni per
arrivare ai vertici dell‟azienda – e fin lì, tutto come da programma, si era detta
Jackie.
Proprio come la mitica Cassandra, Jacqueline Olson aveva tentato tante volte di
aprire gli occhi al padre, e mai era stata ascoltata: non era affar suo, non era
compito suo… verissimo. Lei non capiva nulla di economia, marketing, finanza.
Però una cosa l‟aveva compresa alla perfezione: la seconda signora Olson era
avida e voleva il potere. Tutto il potere.
Non si era sbagliata, solo una cosa non aveva previsto: non era riuscita a
immaginare che quella donna sarebbe riuscita a distruggere in poche settimane
tutto quello che suo padre aveva costruito in trent‟anni. Di proposito.
La Olson Company era sull‟orlo della bancarotta e Manfred Olson, come unico
proprietario, era il solo responsabile: sarebbe finito in galera, colpevole di essersi
fidato della propria moglie e del suo avvocato.
Gli Olson avevano una sola speranza: quell‟appuntamento.
CURLEY – BRENNAN – SCHUSTER & Associates. FINANCIAL AFFAIRS &
ADVICE – floor 39th.
Jacqueline lesse velocemente la targa d‟ottone sul muro vicino agli ascensori,
prima di farsi travolgere dall‟onda d‟impiegati in attesa e spingere dentro la grande
cabina dalla marea umana.
«Miss Olson, Mr Walsh la sta aspettando. Seconda porta sulla destra», la accolse
un‟efficiente receptionist, rigidamente seduta dietro un lucente bancone.
Bussò due colpi con le nocche sulla porta che le era stata indicata.
«Avanti». Una voce stentorea la fece trasalire.
Jackie entrò nel lussuoso ufficio con le gambe molli. Si guardò velocemente
intorno per non fissare lo sguardo su di lui. Era lo studio d‟angolo e aveva due
ampie finestre che incorniciavano lo skyline di New York nel cielo azzurro e senza
nuvole del mattino, regalando fasci di luce che solo a quell‟altezza riuscivano a
inondare Wall Street.
L‟arredamento era essenziale, nessun soprammobile, niente di personale, solo
oggetti di uso professionale; nessun quadro alle pareti, nessun diploma, solo due
prime pagine incorniciate: le copertine di «Forbes» e del «Times» dedicate a
Walsh.
Aveva letto quegli articoli, ammirata da lui e dalla sua “finanza sostenibile”,
come Walsh stesso aveva definito il proprio progetto. Era stato chiamato a
spiegarlo in alcune lezioni agli studenti di Harvard e aveva diffuso il suo pensiero
attraverso due libri che avevano riscosso un immediato successo, nei quali si
scagliava contro la finanza creativa che aveva portato l‟America sull‟orlo
dell‟abisso. Così il suo nome aveva cominciato a circolare anche fuori dagli
ambienti di Wall Street, in televisione, sui giornali, e per tutti lui era Walsh, solo
Walsh. Il suo nome era diventato sinonimo della nuova finanza positiva. In molti
avevano pregato e implorato di aderire al fondo d‟investimento da lui creato,
basato su un‟economia reale, fatto di beni rifugio, sostegno ai debiti dei Paesi
emergenti e alle loro più solide imprese. Il fondo, che Walsh aveva chiamato AntFund, aveva reso una fortuna a lui, alla sua società e a tutti i clienti che avevano
aderito, così era diventato il socio più giovane della Curley, Brennan, Schuster &
Associates.
Ed era diventato schifosamente ricco.
«Si accomodi, Miss Olson».
Sì, conosceva Walsh.
Lui stava da pochi mesi con Brittany Russo, una delle amiche storiche di
Bradley, il suo fidanzato, così nell‟ultimo periodo si erano incrociati spesso.
Jacqueline obbedì e sprofondò nella poltrona di cuoio.
«Allora, Miss Olson, il mio tempo è prezioso. Ho accettato questo appuntamento
unicamente perché Brennan me lo ha chiesto», la accolse l‟uomo.
Muta, Jackie alzò lo sguardo su di lui: sulla trentina, castano chiaro, capelli
mossi studiatamente spettinati, basette lunghe, occhi nocciola. Incredibili occhi
nocciola, a mandorla, grandi e profondi. Alto. Bello, bellissimo. Per lo meno
bellissimo per lei, giacché incarnava proprio il suo ideale maschile.
«Abbiamo studiato la situazione di suo padre. Come già saprà, Miss Olson, è
disperata, altrimenti lei non sarebbe qui». S‟interruppe per regalarle un veloce
sorriso che non contagiò gli occhi. «In pratica tutte le società sono compromesse»,
spiegò, sfogliando distrattamente il fascicolo che aveva davanti. «Ho trovato uno
spiraglio: non le prometto la luna. Non riavrete l‟intero patrimonio,
ovviamente…».
«A me interessa solo che mio padre non finisca in carcere, nelle sue condizioni
non sopravvivrebbe», lo interruppe lei, concitata.
«Questo si può facilmente impedire». Si era alzato in piedi e aveva appoggiato le
mani sui fianchi, scostando la giacca del suo elegante completo grigio che si aprì
sulla camicia aderente.
Jackie rimase incantata a osservare il cotone candido, quasi trasparente, che
velava il suo petto lasciando intravvedere i muscoli ben delineati e le corone dei
capezzoli. Affascinata, osservò la fila di bottoni che non riusciva a celare
completamente la linea disegnata dai peli del suo ventre: non riuscì a trattenere lo
sguardo, seguì quella scia tuffarsi sotto la H della fibbia della cintura che a stento
gli tratteneva i calzoni sui fianchi. Deglutì, attratta dal suo petto, e, senza volerlo,
vide la propria lingua leccare le punte rosee dei suoi capezzoli. Si scosse inorridita
da quel pensiero lascivo, aiutata dall‟inquietudine che le procurava il suono della
sua voce.
«Come le ho già detto, il mio tempo è denaro e nessuno fa niente per niente,
Miss Olson». Le offrì un altro sorrisetto lampo mettendo in mostra, solo per un
attimo, una fila di denti bianchissimi. «Se lei farà qualcosa per me, penso proprio
che questa transazione andrà in porto».
«E… che cosa potrei fare, io, per lei?», domandò Jackie, improvvisamente
terrorizzata.
«Vede», cominciò lui, per nulla imbarazzato, «queste pratiche sessuali tanto di
moda – bondage, esclavage, BDSM… insomma, tutta quella roba lì – mi attirano
molto: sono curioso. Ben inteso, sono solo alla fase documentale», disse, portando
le mani avanti, come se stesse divulgando la sua nuova passione per il
backgammon e cercasse di spiegarne le regole.
Jackie era pietrificata nella poltrona, la bocca secchissima, e cercava di
controllare i tremori del proprio corpo. Che cosa le stava dicendo? Che cosa
diamine le stava chiedendo, quell‟uomo?!
“È pazzo! O sono pazza io che sto qui ad ascoltarlo”, urlò tra sé, sconvolta, ma
come sempre non mosse un muscolo, non cambiò espressione e ricacciò indietro
sdegno e paura, rifugiandosi dentro la spessa corazza che si era costruita intorno.
«Non posso certo chiedere alla mia fidanzata», borbottò lui, come se fosse ovvio,
scrollandola dai suoi pensieri. «È cattolica, povero cuore…».
“Cattolica non osservante”, si disse Jackie, pensando a Brittany Russo. “Chissà
se si era appena comunicata, quando si scopava Bradley nella limousine degli
Zielinski, la domenica al club”.
«…e non mi piacciono quei club privé, sono solo dei postriboli, mi passi il
termine, Miss Olson».
«Prego!», riuscì ad articolare Jacqueline, sarcastica, sollevando il sopracciglio.
«Poi, siccome conosco solo la teoria, non vorrei fare brutte figure con altri adepti
più esperti. Lei conosce certe pratiche, signorina?»
«No», rispose categorica. La rabbia le aveva fatto ritrovare la voce.
«Con il suo fidanzato, fa solo sesso vaniglia? Sa, in certi ambienti il sesso
normale viene definito vanilla».
«Non credo proprio che la cosa la riguardi».
«Chiedevo così, pour parler», fece lui, indifferente. Poi continuò: «Questa è la
mia proposta finanziaria». Le porse il fascicolo che aveva davanti. «È spiegato
tutto dettagliatamente e in modo semplice. Se accetta di diventare il mio oggetto
sessuale, Miss Olson, la nostra transazione andrà in porto e suo padre si troverà a
navigare in acque sicure, con ancora due o tre società in attivo. Dentro il fascicolo
troverà il mio biglietto da visita con l‟indirizzo. La aspetto questa sera alle nove.
Abbiamo finito», disse, congedandola bruscamente.
Jacqueline ripensò per tutto il giorno a quell‟incontro: quanti minuti era durato?
Quattro? Cinque? Forse sei minuti per decidere le sorti di quel che restava di una
dinastia e di migliaia di famiglie che dalle attività di suo padre traevano
sostentamento.
Ancor prima di uscire dall‟edificio aveva cominciato a riflettere: avrebbe
accettato.
Sì, avrebbe accettato perché si trovava con le spalle al muro, giacché da lì a
pochi giorni se non avessero trovato le coperture necessarie, suo padre sarebbe
stato incriminato per bancarotta fraudolenta. E non avrebbe retto a un simile colpo,
non dopo due infarti e l‟intervento.
Avrebbe accettato perché gli scampoli di un impero erano meglio di nulla,
nonché tutto ciò che restava dell‟eredità Van der Graaf. Ogni centesimo dei beni di
sua madre era stato investito nelle azioni della società, tanti anni prima, e ora tutto
apparteneva a quella donna. Tutti gli sforzi e i successi del padre si erano dissolti
in una svendita dissoluta i cui proventi erano finiti nelle tasche della sua matrigna.
Se c‟era anche una sola possibilità di salvare almeno il fondo fiduciario di suo
fratello John, e quindi garantirgli un futuro, lei avrebbe accettato.
E poi c‟era la famiglia, o meglio, zia Rosalind, a cui non poteva dare l‟enorme
dispiacere di trascinare i Van der Graaf nel barato del disonore e infliggerle l‟onta
che il crac avrebbe comportato.
Sì, perché Jacqueline era una Van der Graaf, ultima erede, insieme a suo fratello
John, di quello che restava di una dinastia. Non poteva permettere che il nome di
sua madre e dei suoi avi venisse infangato.
Ma non voleva mentire a se stessa: oltre a tutto questo, oltre ai più nobili motivi,
lei avrebbe acconsentito perché - doveva ammetterlo - era sempre stata attratta da
lui, e questo era un dato di fatto. E soprattutto perché, per la prima volta in sei anni,
cioè da quando era finita con Matt, aveva percepito un brivido che l‟aveva fatta
sentire ancora viva.
“Allora non sono morta”, si era detta, seduta davanti a lui.
“Allora non sono morta”, si stava ripetendo in quel momento, leggendo il piano
di salvataggio della Olson Company, dietro la cattedra, mentre la sua classe
svolgeva in silenzio la relazione a sorpresa su Charles Dickens.
Era un piano ben congegnato, doveva ammetterlo, e l‟analisi dei fatti che
avevano portato suo padre alla rovina era spiegata in maniera chiara. Anche agli
occhi di un profano risultava evidente che, dal momento in cui Antonia era riuscita
a strappare la presidenza a suo marito, convalescente dopo il primo infarto, e la
carica di AD della compagnia era stata affidata al suo ultimo amante, Allan Doyle,
quasi tutte le società erano state svuotate dei profitti, divisi non certo equamente
fra i due complici e alcuni membri compiacenti dei vari consigli
d‟amministrazione.
L‟idea di Walsh era di impiegare gli utili delle piccole aziende in attivo per
ripianare i debiti, vendere le parti sane che ancora avevano un mercato, smantellare
il fallito e trattenere nelle mani di Manfred Olson solo tre società: la più grande, da
cui era partito, e due piccole, quasi familiari, ma dalla struttura granitica. Walsh
s‟impegnava a gestire l‟intera operazione, occupandosi della fase di start up fino a
che suo padre non si fosse rimesso, percependo come unico compenso il rimborso
spese.
“Sì, rimborso spese più un piccolo contributo in natura”, si disse Jackie,
sdegnata, leggendo quel punto del progetto. Il precedente proposito di accettare
venne meno; i dubbi, ovvi e giusti, cominciarono ad assillarla: non voleva darla
vinta a quell‟uomo, non era da lei.
Dentro, si sentì rimescolare al solo pensiero di ciò che sarebbe accaduto: non
sapeva nulla di certe pratiche.
Nulla!
Nulla, tranne il fatto che erano oscene.
Cercò di non farsi prendere dal panico, tentò di rilassarsi. Era in classe davanti ai
suoi alunni, doveva darsi un contegno.
Una volta che il suo animo in tormenta si fu placato un po‟, riprese a leggere il
business plan, ma non capì molto di ricollocazioni di azioni, aumenti di capitale,
tempi tecnici e roba simile. Invece, quello che aveva compreso bene era che
Antonia – la bellissima, fantastica Antonia Fisher, seconda moglie di suo padre –
era riuscita a intascarsi tutto quanto: aveva preteso la quasi totalità dei beni paterni
che nuove clausole aggiunte ad hoc al contratto prematrimoniale durante la
convalescenza del marito le avevano permesso di ottenere, e tra questi era incluso
il patrimonio della madre di Jacqueline, che negli anni aveva intestato a nome delle
varie società mobili e immobili, più gran parte del capitale investito durante gli
anni nelle imprese di famiglia, nonché tutto il resto di cui il marito era il primo
beneficiario. Manfred Olson si era ritrovato così con poche migliaia di dollari in
banca, senza casa, senza assicurazione medica ed era stato costretto a stabilirsi,
insieme al figlio John, nel miniappartamento di Jacqueline.
Non che a lei dispiacesse o che le pesasse occuparsi di loro, solo che quella
situazione aveva compromesso irrimediabilmente la salute del padre, il quale aveva
avuto un tracollo e si era salvato grazie a un intervento al cuore che aveva avuto
del miracoloso. Anche in quel momento Jackie si era sentita viva, così viva che
aveva pensato di essere sul punto di morire di crepacuore.
“Non posso accettare, non posso! Io non ci riesco!”, continuò a ripetersi per tutto
il tragitto fino a casa. Aveva deciso di camminare, una passeggiata le avrebbe
schiarito le idee… forse. Magari avrebbe trovato il coraggio di chiamarlo e dirgli
che…
“No, io non lo chiamo! E poi non ho neppure il numero”.
Senza fermarsi, aprì la sua ventiquattrore, un‟elegante borsa di pelle bordeaux, e
cercò il biglietto da visita nel fascicolo. Il numero c‟era, anzi ce n‟erano due, più
un terzo scritto a penna sul retro. Oltre al numero di telefono, lui aveva scritto
l‟indirizzo - Rushmore. Ottanta, Riverside Boulevard – e un codice numerico.
Sospirò e ripose il biglietto nella borsa.
Rientrò nel suo appartamento quando già si accendevano le prime luci della sera.
Aveva partecipato a una riunione, a scuola, ma non era riuscita a concentrarsi.
Richiuse la porta dietro di sé e mise la catenella al chiavistello, quasi quel gesto
rassicurante bastasse a chiudere fuori il mondo, a liberarla dall‟indecisione, a
impedirle di uscire, almeno per quella sera. A trattenerla lì, nel conforto delle sue
quattro mura.
Posò la borsa sulla piccola scrivania, sui fogli sparsi, sulla bolletta delle spese
mediche del padre, proprio accanto alla proposta di finanziamento che la sua banca
le aveva fatto due giorni prima, quando era andata a chiedere un prestito,
proponendo come unica garanzia il proprio stipendio. Voleva evitare a tutti i costi
di intaccare il fondo fiduciario del fratello, che aveva appena iniziato il college.
Voleva che avesse anche lui le stesse possibilità che aveva avuto lei e che
frequentasse Yale senza assilli economici. Guardò ancora i fogli della banca e,
presa da un raptus di rabbia, stampò il palmo aperto sui documenti.
«Ecco qua, dov‟è finita la reputazione di tutta una famiglia!», sbraitò a voce alta,
senza che qualcuno potesse udire il suo sfogo.
“È una follia, è una follia, è una follia”, continuò a ripetersi sotto la doccia, dove
si era rifugiata per cercare sollievo, come se l‟acqua potesse cancellare anche le
preoccupazioni.
“È una follia, è una follia, è una follia”, si disse mentre componeva il numero del
padre. Non era riuscita ad andare all‟ospedale, quel giorno, ma doveva almeno
salutarlo.
«Ciao cara, sto bene. Sto proprio bene, questa sera», la salutò Manfred Olson.
«Sono venuti a trovarmi Carlton e Amanda. Brennan mi ha detto che sei passata da
loro, stamattina, e che Walsh ti ha spiegato come ha intenzione di agire per
rimettere in piedi la Olson, vero?»
«Sì, papà», rispose Jackie con un filo di voce.
«Sono così sollevato, non ne hai idea».
«Sono molto sollevata anch‟io», mentì lei.
Jackie chiuse la comunicazione, andò in camera, si vestì in fretta. Chiamò un taxi
e uscì di casa sbattendo la porta.
Diede l‟indirizzo al tassista e si sedette sul bordo del sedile, in pena. Ogni
singolo muscolo stava vibrando e il cuore tremava più di tutti, battendo furioso
dentro al petto. Girò la vecchia manovella per aprire il finestrino e riuscire a
respirare una boccata fresca: anche l‟aria carica di gas di scappamento era meglio
dell‟odore nauseabondo che impregnava l‟auto. Doveva riacquistare il dominio di
sé, doveva rilassarsi e cercare dentro la solita imperturbabilità: aveva vissuto
situazioni anche peggiori, molto più dolorose. Bastava respirare e non pensare…
“È sbagliato, è tutto sbagliato! E poi, perché incalzarmi?”, si chiese. “Perché
stasera? Stasera e non domani, magari?”.
Al “perché proprio io”, si era data ben più di una risposta, tutte ragionevoli,
benché folli.
Comunque adesso era lì, davanti alla portineria del lussuoso palazzo di Walsh, in
preda al panico.
«C‟è qui Miss Olson per lei, Mr Walsh», annunciò il concierge alla cornetta,
prima che la voglia di fuggire avesse la meglio su di lei. «Può salire, è attesa.
Ultimo piano, ascensore numero tre, sulla sinistra. Ha il codice, signorina?», le
chiese l‟uomo in livrea, cortese.
Lei annuì, lui lo aveva scritto sul biglietto da visita: era un numero facile da
ricordare.
Digitò la sequenza, dovette concentrarsi per mettere a fuoco il display. E
all‟improvviso le venne in mente una risposta: “Non vuole darmi modo di
riflettere, non vuole che ci dorma su e magari accetti il fato, o la possibilità di
un‟altra soluzione. Vuole piegarmi e vuole farlo subito, finché è in tempo per
agire”.
Capitolo II
Contrattazioni
L‟ascensore si aprì direttamente sull‟anticamera dell‟appartamento, come in tutti
i più moderni e lussuosi attici della città.
Jackie non fece in tempo a mettere fuori il piede dalla cabina e fu assalita da un
feroce ammasso di pelo che abbaiava furioso; il cane le posò le enormi zampe sulle
spalle, facendole perdere l‟equilibrio. Jacqueline finì a terra sotto il peso
dell‟animale che continuava ad abbaiarle sul viso come un forsennato.
«Vieni via, brutta bestiaccia!». Lui aveva afferrato il cane per il collare e lo stava
trascinando dentro. «Mi scusi, Miss Olson, le assicuro che non accadrà più. Non
vedrà mai più quest‟infido animale», riuscì a dirle, sovrastando i guaiti del cane.
Jackie si rimise in piedi, scrollò la polvere immaginaria dal suo sedere e sorrise
fra sé. Aveva sempre amato i cani, specie quelli grandi.
«Guarda, Matthew, dei cuccioli!», aveva gridato allegra mentre passeggiava per
la Trentanovesima, mano nella mano con Matt. Si erano avvicinati alla scatola di
cartone su cui c’era scritto con un pennarello: “Se non mi porti via con te, mi
sopprimeranno”. Avevano guardato dentro: c’era solo un cucciolo femmina, un
batuffolo di pelo marrone e nero che guaiva e saltellava.
«Non deve morire! Sai, Matt, mi piacerebbe tanto prenderla, ma Antonia mai e
poi mai la accetterebbe in casa, e mio padre fa tutto quello che vuole lei. Non deve
morire», aveva ripetuto, rattristata.
«Sei proprio un‟ingenua, lo scrivono apposta per intenerire i cuori di burro come
il tuo».
«E se finisse nelle mani di qualche delinquente? Ho sentito che usano i cuccioli
per addestrare i cani da combattimento».
«Questo è più probabile. In effetti, da queste parti organizzano roba del genere.
Be‟, potrebbe stare da me, è pieno di cani in tutto il palazzo. Hai ragione: non deve
morire». Le aveva sorriso, con quel suo sorriso così bello e innamorato, e aveva
tirato su il cagnolino dallo scatolone.
«Davvero lo faresti?», aveva strillato lei felice, poi, però, si era incupita. «No,
Matt. Non puoi occuparti anche di un cane».
«È vero che sono sempre in bolletta, piccola, ma sarò in grado di dare qualcosa
da mangiare a un cucciolo», le aveva risposto lui, risentito.
«Oh grazie, amore! È il più bel regalo che potessi farmi». Gli era saltata al collo
e aveva baciato lui e il cane.
«Sono mortificato, Miss Olson, sta bene?», le domandò Walsh, solerte,
precedendola nell‟appartamento.
«Non è nulla. Dov‟è, adesso?»
«Nel ripostiglio della cucina. Stia tranquilla, non ci disturberà più: siamo soli.
Venga, di qua», e le fece strada imboccando un ampio corridoio illuminato da luci
soffuse.
Jacqueline diede un‟occhiata circolare all‟appartamento. Alla sua destra si apriva
un‟immensa zona giorno. Era un attico ultramoderno, arredato con pezzi di
designer famosi, osservò con occhio esperto. In lontananza poteva ancora sentire i
guaiti attutiti del cane.
«Giacché è qui, deduco che abbia accettato la mia proposta, Miss Olson, quindi è
superfluo perderci in inutili preamboli. Poi, le confesso che sono piuttosto ansioso
di cominciare».
La precedette nella camera. La stanza era completamente bianca: sul letto, un
cubo di pelle candida, era steso un copriletto di raso argentato. I comodini,
anch‟essi bianchi, erano laccati e lucidissimi, come il comò. Anche le due porte
attigue, presumibilmente dell‟armadio e del bagno, avevano la stessa finitura.
L‟attenzione di Jackie fu però attratta dalla bubble chair, la poltrona trasparente
con i cuscini argentei che pendeva dal soffitto a cui era assicurata da una catena a
grossi anelli, intervallati da pesanti moschettoni.
«Le piace il mio nuovo acquisto? È di un designer scandinavo piuttosto famoso».
«Sì, è di Eero Aarnio, conosco i suoi lavori: mia madre era un‟interior designer».
«Capisco che sia piuttosto difficile stupirla».
«No, al contrario. Sono molto stupita», balbettò perplessa, perché voltandosi
aveva notato una telecamera montata su un treppiede, puntata in direzione della
poltrona appesa. «Ha intenzione di riprendermi?»
«Sì. Qualcosa in contrario?»
«Ha intenzione di divulgare le riprese su internet?», chiese, asettica.
«No. Ha la mia parola».
«A pensarci bene», fece Jackie annoiata, «non m‟importa molto, temo solo
eventuali ripercussioni sul mio lavoro».
Walsh rise. «Miss Olson, stia tranquilla, non metterò i filmati in rete, potrei
essere riconosciuto».
«Ovvio. Preferisce mostrare le immagini a una cerchia ristretta di amici?»,
domandò Jackie con un sorriso forzato.
«Io non ho amici, Miss Olson. Le riprese sono per mio uso esclusivo, se questo
la rasserena».
«Le ho già detto che non m‟importa. Faccia quello che vuole».
«Bene! Cominciamo davvero bene. Fare quello che voglio di lei, Miss Olson, è
proprio ciò che desidero. Voglio il suo asservimento totale per tutto il tempo che
staremo insieme e…».
«Come?!», lo interruppe sconvolta. «Non è solo per questa sera?»
«No, signorina. Ho bisogno di stimoli per accollarmi il peso del salvataggio della
Olson Company. Nella vita ho sempre avuto bisogno d‟incentivi per raggiungere i
miei traguardi». Fece uno dei suoi veloci, fintissimi sorrisi e per la prima volta la
toccò, sfiorandole la spalla. Fu una scossa elettrica per Jackie, che chiuse gli occhi
e inspirò forte.
«Mi aspetto che lei soddisfi, da ora, ogni mio capriccio. Prima di spogliarsi,
vorrei sapere se le sono chiare tutte le procedure spiegate nel fascicolo. Le assicuro
che il mio piano funzionerà e può ritenere suo padre al sicuro fin da subito. Se ha
dei dubbi, preferirei chiarirli adesso», fece, in tono professionale.
«No, è tutto chiarissimo, ogni passaggio. Sono ben altre le cose su cui ho delle
perplessità, ma mi sembra di capire che quelle non siano in discussione».
«È molto sveglia: c‟intenderemo alla perfezione. Allora», cominciò lui, freddo
come il ghiaccio, «i baci non sono richiesti. Ho già una soddisfacente relazione
vaniglia con la mia fidanzata». La scrutò di sottecchi per spiarne una qualche
reazione. Jackie non cambiò espressione, non mosse neppure le palpebre.
«Desidero che lei usi il tono più formale possibile, in mia presenza. In pubblico le
è concesso chiamarmi Mr Walsh; in privato, dovrà invece rivolgersi a me
chiamandomi Signore, Sir, Padrone o Master, a lei la scelta».
«Credo che sceglierò Signore, se per lei va bene», rispose fredda.
«Sì. Non desidero ricevere nessuna confidenza», proseguì algido.
«Perfetto: io non desidero dargliene».
«Io invece la chiamerò come più mi aggrada e la tratterò come più mi aggrada.
Non dovrà rispondermi a tono. Io sono il suo Signore, io posso, lei no. Dovrà
indossare tutto ciò che le chiederò d‟indossare e fare ciò che le dirò di fare, in
qualsiasi momento, senza obiettare».
«Questo era già chiaro in principio. Suppongo anche che dovrò parlare solo se
interpellata».
«Ovvio. Gradirei che i suoi occhioni verdi assumessero un‟espressione meno
strafottente, Miss Olson».
«Questo è un po‟ più difficile, Signore. Credo che mi limiterò a non guardarla, se
per lei va bene». Aveva letto qualcosa, quel pomeriggio, dei rapporti fra
dominatori e sottomessi, si era preparata per l‟interrogazione.
«Va bene. Non sono un sadico e non gradisco sentirla gridare, quindi spesso
useremo questa». Aveva tirato fuori dal primo cassetto del comò una ball gag, uno
di quei bavagli di cuoio nero con una pallina rosa, probabilmente di silicone.
“Non vuole sentirmi, ma ha tutte le intenzioni di farmi urlare”, si disse Jackie,
cercando di ricacciare indietro la rabbia che stava lentamente affiorando. “In
fondo, io sono morta, SONO MORTA! Perché arrabbiarmi?”, si ripeté ostinata,
come faceva ogni volta per dominare le situazioni più sgradevoli. “Pensa solo che
potrebbe essere piacevole, finire tra le sue braccia. Brittany sembra essere
particolarmente soddisfatta. Se quella… – uhm, è meglio che non dica cos‟è –
venisse a saperlo, penserebbe che lo faccio per ripicca. Lungi da me. Brad può
scoparsi chi vuole. Mi seccherebbe davvero molto se pensasse che mi sia abbassata
al suo livello. Io so che è sbagliato, è tutto sbagliato!”, si disse, ma non aveva mai
mentito a se stessa, non lo avrebbe fatto neppure in quel momento: “Forse è meglio
che tu lo ammetta, Jacqueline, sei una puttana esattamente come Britt e tutte le sue
amichette, giacché hai intenzione di scoparti il suo ragazzo… Be‟, no! È lui che
vuole scopare te, se vogliamo essere precisi”.
«Non intendo procurarle più dolore di quanto lei sia disposta a tollerare»,
continuò Walsh, mentre Jackie cercava di digerire l‟idea che avrebbe patito del
dolore fisico. «Non desidero provocarle ferite, farla sanguinare o farle qualsiasi
cosa richieda cure mediche, sono stato chiaro?»
«Sì, chiaro».
«Adesso è proprio ora che si spogli, Miss Olson», le ordinò suadente, tirando
l‟elastico che imbrigliava la sua lunga coda bionda, sciogliendole così i capelli, che
le ricaddero mossi e fluenti sulle spalle.
«Ah, un‟ultima cosa, per la sicurezza: io gradirei non usare il preservativo. Posso
mostrarle le mie analisi, per rassicurarla», cominciò, distaccato, come stessero
parlando di miscele di caffè, «ma vorrei conoscere la sua, di situazione medica».
“Allora è proprio vero che vuole fare sesso. E già stasera! E io che speravo fosse
una burla, che idiota! Ok, ci siamo… e magari vuole picchiarmi. Si usano le fruste,
in questi giochetti. Anche le verghe. E le bacchette. Ganci, mollette… Ho visto
certe foto, su internet! In che guaio mi sono cacciata?”, stava urlando Jackie dentro
di sé.
«Usa qualche tipo di contraccettivo, signorina? Non desidero metterla in nessuna
situazione imbarazzante».
«Cominceremo senza preservativo, ti farà meno male», le aveva sussurrato Matt
all‟orecchio. Erano nudi, sdraiati su quella branda che lui chiamava letto.
«È proprio quello che mi preoccupa, a scuola ci hanno spiegato di non fidarci,
perché possono uscire delle gocce che contengono spermatozoi, potrei rimanere
incinta lo stesso».
«Stai parlando del liquido prespermatico, Jackie: sono arciconvinto che solo con
quello il genere umano si sarebbe già estinto da un pezzo. Il rischio – se c‟è – è al
secondo rapporto consecutivo; stai tranquilla, amore, non ti metterei mai in
difficoltà».
«Se restassi incinta, sarebbe una tragedia: quell‟arpia di Antonia non so che cosa
mi farebbe passare».
«Ce l‟hai a morte con la moglie di tuo padre, ma a me sembra a posto. Nei miei
confronti è sempre molto carina e generosa».
«Per forza, vuol portarti a letto, Matthew! Possibile che non ci sei ancora
arrivato?»
«Guarda che non sei Biancaneve, Jackie; smettila di piagnucolare per la matrigna
cattiva, ti stai fissando. Con la scusa che ti hanno spedito in Svizzera in collegio,
non fai che compiangerti. Se non sbaglio adesso sei qui, no? Non fare la bambina
viziata: per favore, cresci. Dove eravamo rimasti?». Matt, l‟aveva attirata a sé,
voleva fare l‟amore. Stavano per farlo, per la prima volta, ma lui l‟aveva sgridata e
lei si era irrigidita. Si era rinfilata la maglietta, si stava rivestendo per andare via.
«No, non litighiamo, piccola. Soprassediamo, per questa volta non faremo niente,
ma non andartene, vieni qua».
«Non trattarmi come fossi una bimbetta demente. Un consiglio, Matt: non fidarti
di lei, è una serpe e ne ho le prove».
«Vieni qua, torna a letto», l‟aveva pregata.
Jackie si era lasciata convincere e… non avevano soprasseduto.
«Sì, prendo la pillola», rispose senza inflessione. «Il mio rapporto è
monogamico, almeno per quel che mi concerne. Non posso parlare per il mio
fidanzato, ma sono quasi certa che in tutte le sue relazioni usi il preservativo,
esattamente come fa con me». Walsh sollevò impercettibilmente il sopracciglio,
sorpreso dalle sue parole. «Anch‟io posso mostrarle le mie ultime analisi, che mi
sono state richieste dalla scuola al momento dell‟ultima assunzione, quattro mesi
fa. Se lo desidera, posso tornare a casa e mandargliene copia via mail», sciorinò il
suo discorsetto senza mostrare il minimo turbamento, ma in realtà era agitatissima;
dentro di lei si stava rimescolando un vulcano che era sul punto di eruttare. Tentò
un‟ultima via di fuga.
«No, non sarà necessario, credo proprio che mi fiderò». Rise del suo tentativo di
sfuggirgli. «E altre relazioni pregresse?»
«Non esistono e non sono argomento di conversazione», sbraitò lei risentita,
chiudendo il discorso.
«Come vuole, Miss Olson. Ora però si spogli», la incoraggiò Walsh con un
sorriso, azionando la telecamera.
«Ho solo un veto, un limite che non sono in alcun modo disposta a oltrepassare».
Si era ricordata solo in quel momento di aver letto da qualche parte che i Master
cedevano spesso le loro schiave ad altri dominatori: quella era una cosa che per
nulla al mondo sarebbe riuscita a tollerare. Doveva metterla bene in chiaro. «Non
accetto di essere ceduta, non tollererò che altri partecipino a queste sedute e non
accetterò di partecipare o assistere a orge», proclamò con tutta la fermezza di cui fu
capace.
«Altrimenti?», fece lui strafottente.
«Altrimenti la trascino in tribunale», ribatté lei furiosa.
«E sia…», rise. «Comunque non mi era nemmeno passato per l‟anticamera del
cervello. Come le sono venute certe idee?»
«Histoire d’O».
«Ah!».
Capitolo III
Il prezzo da pagare
Jacqueline non aveva indossato niente di elegante o sexy di proposito. “Magari
inorridisce e cambia idea”, aveva pensato, infilandosi un completino intimo
sportivo rigorosamente bianco. Aveva indossato una delle tante camicette, un paio
di calzoni di tweed con le pince, un giacchino corto e aderente coordinato e
ballerine senza calze: quella era la sua divisa anche a scuola, non si sarebbe
mostrata diversa da quello che era proprio quella sera. Aveva anche legato i capelli
con la solita coda.
Ora stava sbottonando con mani tremanti il giubbotto antracite e ne osservava
attentamente i bottoni per non cedere alla tentazione di alzare gli occhi e fissarlo.
Non sapeva neppure come fosse vestito, perché si era ben guardata dal posare lo
sguardo su di lui, un po‟ per l‟imbarazzo, un po‟ per l‟inquietudine.
“Inquietudine? No, è proprio terrore, Jackie! Comunque mi complimento, non
una sbavatura, non un cedimento… per ora”, si disse, abbastanza soddisfatta,
mentre si sfilava i calzoni e cominciava a sbottonare la camicetta, perfettamente
consapevole degli sguardi di Walsh e della telecamera puntata su di sé.
«Gradirei, per le prossime volte, che usasse biancheria un tantino più provocante,
Miss Olson. E che magari indossasse calze autoreggenti, reggicalze, giarrettiere,
quella roba lì, insomma. Mette mai scarpe col tacco?». Lei non rispose. «Le ho
fatto una domanda», incalzò, gentile.
«A volte».
«Mettiti pure quello che vuoi, bellezza, tanto te lo tolgo appena mi capiti a tiro»,
aveva scherzato Matt, strappandole via il reggiseno di pizzo trasparente per
raggiungere più in fretta i suoi seni con la bocca.
«Non ti piace il mio completino nuovo?»
«Uhm!», aveva grugnito lui, troppo impegnato a succhiarle un capezzolo.
«Lo so, sono troppo piccole», aveva protestato Jacqueline.
«Che non ti passi per la testa di farti gonfiare le tette!». Si era tirato su, allarmato.
«Sono perfette, stupende», aveva mormorato, sfiorandole delicatamente i seni.
«Non farti condizionare da quelle stupide delle tue amiche, che a diciott‟anni
hanno già un quintale di silicone addosso. Come si fa a scopare con quelle
puttanelle di plastica?»
«Non sono puttanelle e non sono mie amiche. Non essere volgare, Matthew»,
aveva protestato risentita.
«Hai un corpo stupendo, Jackie. Due gambe e un culo da favola», l‟aveva fatta
girare a pancia sotto per mordicchiarle le natiche e poi le aveva appoggiato la
punta dietro.
«No! Lì, no! Non voglio, Matt!».
«Prima o poi me lo prendo, Jackie, rassegnati». Le era entrato dentro per la via
che aveva aperto un po‟ di tempo prima, e aveva preso a spingere sempre più forte.
«Ha un corpo magnifico, Miss Olson, da calendario. Sì, credo che prima o poi la
fotograferò. Ora passiamo a cose serie: le ho detto che sono un neofita di queste
pratiche, per cui non sono capace di effettuare nodi e legature che la blocchino in
tutta sicurezza, così comincerò con questi». Aveva tirato fuori dal cassettone una
serie di fasce di cuoio nero e le aveva lanciate sul letto. «Lo sa che organizzano dei
corsi di bondage?».
Jackie guardava la scena stranita, talmente turbata da non provare neppure
imbarazzo a trovarsi nuda davanti a lui, sentiva solo scorrere in sé il tremore che
l‟aveva accompagnata per tutto il giorno e stava ancora facendo vibrare le sue
membra. «No, non lo sapevo», rispose in un soffio, come stessero conversando di
un corso di ricamo. Sgranò gli occhi e osservò i suoi movimenti, mentre metteva in
ordine sul letto tutti quei gadget: l‟inquietudine aumentava a ogni gesto sicuro di
quell‟uomo.
«Sì, sì. Corsi per principianti, per esperti, corsi di legatura avanzata, shibari, così
si chiama… ce n‟è per tutti i gusti», le spiegò.
«Ha bisogno dei miei dati per procedere all‟iscrizione?», domandò lei, sarcastica.
Non riuscì a trattenere la lingua.
L‟ironia…
L‟ironia era la sua chiave per affrontare il mondo.
Era lo scudo con cui si schermiva, la sua unica difesa contro paura e dolore, il
filtro che usava per guardare gli altri dall‟alto, chiusa nel suo eremo di ghiaccio,
con l‟occhio disincantato della vera snob. Era la lente che usava per osservare
coloro che si affannavano a recitare quella farsa che chiamavano “vita”, mentre lei
languiva come morta e lasciava che i giorni scorressero tutti uguali, ubbidendo al
volere altrui alla stregua di una marionetta senza volontà propria.
«No, nessun corso», rispose lui e gli scappò una risatina, «credo che resterò
autodidatta».
Walsh fece poi una cosa ancor più strana: sollevò un poco la bubble chair con
una mano, fece scattare il moschettone, la sganciò dalla catena e depositò il guscio
di plastica trasparente in un angolo della stanza.
«Vieni qua!», le ordinò. Jackie non poté più evitare di guardarlo: indossava una
camicia nera fuori dai pantaloni anch‟essi neri e aderenti, con le maniche arrotolate
ai gomiti e i primi tre bottoni aperti a lasciar intravvedere i peli del petto. Si
trattenne dallo sfiorargli l‟incavo del collo con l‟indice. Sospirò appena e per poco
non le mancò il fiato quando incrociò i suoi occhi, che la stavano ammirando, pieni
di desiderio.
No, non poteva sbagliare: era cupa brama, quella che vi leggeva. Uno sguardo
sconosciuto, un baratro misterioso in cui sentiva il bisogno di tuffarsi.
Quell‟uomo le piaceva, inutile negare. Tantissimo.
Aveva voglia, dopo un tempo incommensurabilmente lungo, Jackie aveva voglia.
Aveva voglia di un uomo, di quell‟uomo. Aveva voglia che lui le ordinasse di
piegarsi alla propria volontà, aveva voglia di sentirlo dentro di sé. Lo voleva e si
avvicinò.
Obbedì diligentemente e indossò le due fasce di cuoio che disegnavano un otto,
un occhiello per il gomito, uno più grande per la coscia. Erano fatte apposta per
bloccare il braccio contro la gamba, proprio sotto la natica. Prima indossò la destra,
poi lui le fece infilare la sinistra, sorreggendola per il fianco.
“Sono perduta”, pensò Jackie, incrociando un‟altra volta il suo sguardo. “Mi
piace da morire. Da morire. In fondo sono già morta, tanto vale morire di nuovo tra
le sue braccia… Voglio un bacio, voglio un bacio da quella bella bocca. Mica
posso chiedere… Come si fa? Mi perdoni, Master, desidererei ricevere un bacio…
E se poi mi dice di no?”.
«Girati!», le ordinò e la fece voltare prendendola per la vita. L‟aveva sfiorata
appena, notò la ragazza.
“Mi dice no, di sicuro: senti che tono! Dov‟è finita „Miss Olson‟? Mi sa che è un
vero dominatore, altro che alle prime armi! L‟avrà già fatto? Con chi? Con
Brittany? Dov‟è andato, adesso?”. Walsh era uscito dalla stanza lasciandola lì,
nuda, ferma in piedi. “A lei li dà, i baci, però”, si sorprese a riflettere, colta dal
disappunto. “Baci al botulino! Ha pure il tatuaggio intorno alle labbra! Brittany
Russo, „poverocuore‟, sconvolta da qualsivoglia pratica sessuale, è una vera
novità! Ero convinta che Britt, nella sua lunga e gloriosa carriera, avesse
sperimentato di tutto”.
Jackie lasciò che i suoi pensieri seguissero la solita via del sarcasmo. “Be‟, di
tutto, non saprei, ma sono quasi certa che abbia sperimentato tutti, tutti gli uomini
che le sono capitati a tiro, e anche qualche donna”. Le aveva viste con i suoi stessi
occhi, anni prima, in camera di London Zielinski, la sorella del suo fidanzato. Le
aveva sorprese tutte e tre mentre si baciavano sdraiate sul letto, nude. Brittany,
London e anche la loro amichetta, Paris: tre nomi che sembravano le tappe di un
viaggio in Europa, ridicoli.
Non poteva essere gelosa di Brittany! L‟aveva sempre copiata in tutto: si era fatta
bionda per assomigliarle, si era messa le lenti a contatto verdi e cercava perfino di
imitarla in fatto di stile.
Jackie, dal canto suo, comprava solo ciò che le piaceva, anche ultimamente che
con lo stipendio d‟insegnante poteva permettersi solo i grandi magazzini, e
Brittany continuava a imitarla. “Ma perché non assume un personal shopper?
Paparino, il magnate degli elettrodomestici del New Jersey, non le nega nulla e ora
ha un fidanzato più ricco di Creso… A proposito, eccolo che torna, il fidanzato più
ricco di Creso. È inutile, lo ammetto, sono gelosa. È come un coltello girato nel
petto, come una frustata…”.
«Ah!», gridò Jackie, sorpresa dal colpo di flagellatore sulle natiche. Si girò
indietro di scatto, per guardare l‟attrezzo. Non era certo il morbido frustino
frangettato che vendevano nei kit del piccolo dominatore su eBay, con quelle
perline di plastica alle estremità faceva un male cane.
Represse un grido stringendo le labbra. Quando la seconda fustigata le arrivò
dietro le cosce, le uscì una specie di singulto.
«Brava, bimba, non gridare, così mi piaci. Allarga un po‟ le gambe e spingi in
fuori il culo». Le carezzò le natiche, delicatamente, con reverenza, prima una poi
l‟altra, e passò a sfiorarle la pelle serica dietro alle cosce. «Hai delle gambe e un
sedere perfetti, lo sai?», le sussurrò guardandola negli occhi.
DLING-DLING CLANG CRASH DLING-DLING.
«Oh, mio Dio! Ti sei fatto male?». Jacqueline, piegata a testa in giù, aveva spiato
il ragazzo attraverso la fessura che si apriva tra le sue gambe tese, un po‟
divaricate.
Lui si era inginocchiato accanto al cabaret caduto e stava raccogliendo i cocci
dei bicchieri infranti per riporli sul vassoio. «No, ma non dovresti sfoderare così
quel paio di gambe, sono un’arma impropria», le aveva detto ridendo.
Il giovane si era bloccato di scatto, col vassoio delle consumazioni in mano,
letteralmente spinto indietro dall’apparizione del più bel paio di gambe che avesse
mai guardato: la ragazza era china con le gambe tese, ferma in mezzo al vialetto
che portava ai campi da tennis e si stava allacciando una stringa. La gonnellina si
era sollevata mettendo in mostra un sederino da sogno, strizzato nelle culotte
candide.
«Mi dispiace tanto, Matthew». Si era abbassata ad aiutarlo e aveva posato la
racchetta ai margini del sentierino.
«A me non dispiace per niente», le aveva risposto lui, sfoggiando un sorriso
sfolgorante. «Sono un vero spettacolo. Come fai a sapere il mio nome?»
«È scritto lì», e aveva indicato la targhetta appuntata sulla divisa da cameriere
del Westchester Country Club.
«Ah, già», aveva mormorato lui e aveva continuato a sorriderle, inebetito dai
suoi occhioni verdi. «Non ti ho mai visto qui prima, sei ospite di qualcuno?». “Di‟
di sì. Di‟ di sì. Speriamo che non faccia parte di tutta questa congrega”, si era detto
Matt, speranzoso.
«Sono qui con mio padre, Manfred Olson: lo conosci?»
«Sì, certo». “Per lo meno è un brav‟uomo, un vero signore, e dà mance
favolose”, aveva pensato lui. «Come mai non ci siamo mai incontrati allora?»
«Sono appena rientrata in America, studio fuori. Collegio in Svizzera».
«Ah!». “Calmo, Matt, calmo. Frena. Non è merce per te, e poi, l‟hai vista bene?
Avrà sì e no sedici anni, roba da galera. Questa volta non vai in riformatorio, ti
aprono direttamente le porte della prigione anche solo se la guardi!”.
«Sono riuscita a convincere papà a lasciarmi frequentare qui l‟ultimo anno prima
del college; penso che ci rivedremo», gli aveva sorriso sbarazzina.
«Meno male», aveva risposto lui istupidito, a voce alta. “Meno male: di anni ne
ha almeno diciassette, forse diciotto”. «Come ti chiami?»
«Jacqueline, ma preferisco Jackie».
«Come Jacqueline Kennedy», le aveva sorriso di nuovo, «e il tuo fratellino si
chiama John, vero?»
«No», aveva riso anche lei. «Il suo nome completo è John Fitzgerald. Sai, mia
madre era di Boston», ed erano scoppiati a ridere.
Walsh si sedette sul letto, le afferrò le natiche e la attrasse a sé.
Jackie, con le braccia bloccate contro le cosce, in piedi di fronte a lui, si sentiva
totalmente impotente. La bocca di Walsh le stava sfiorando i seni.
«Sì, dopotutto, perché no?», disse lui, più che altro a se stesso, e prese in bocca
un capezzolo turgido. Cominciò a succhiare, con vigore, sempre più forte finché
non le strappò un gemito di piacere. «Zitta o ti metto il bavaglio», e prese a
succhiarle l‟altro, ancor più forte. A quel punto fu lui a emettere un gemito.
Le infilò due dita tra le gambe, insinuandogliele dentro il sesso. «Sei bagnata.
Bradley dice che sei frigida, vediamo di smentirlo», grugnì strofinando il viso
contro il petto di Jacqueline, muta, e riprese a muovere le dita dentro e fuori,
sempre più veloce. «Cazzo, non ce la faccio: ho già voglia di scopare! È meglio
che t‟immobilizzi altrimenti non riesco a finire», le spiegò, come se lei potesse
capire ciò che aveva in mente.
La liberò velocemente dalle cinghie alle cosce e le fece indossare un paio di
manette di cuoio morbido, bloccandole i polsi sul davanti. Le manette avevano un
moschettone, notò la ragazza. Poi le fece mordere la pallina di silicone rosa e
assicurò la ball gag legandogliela dietro la nuca. Si alzò dal letto, la sollevò da terra
afferrandola con un braccio sotto il sedere e agganciò il moschettone alla catena
appesa al soffitto, in modo tale che Jackie rimase appesa con le braccia tese in alto,
sollevate sul capo, toccando terra in punta di piedi.
«Sei una ballerina, no? Non dovrebbe essere un grosso problema per te sollevarti
sulle punte». Sorrise strafottente, mostrando di conoscere molte cose di lei. Poi
prese una lunga catenina di metallo che aveva due pinzette alle estremità e ne
posizionò una su ciascun capezzolo. Jackie emise un rantolo attraverso la pallina
che le bloccava la bocca.
«No, no, non lamentarti», la avvertì e tirò la catenella che le fece tendere i seni e
allungare i capezzoli. Infine prese due corde con cui le legò le caviglie: ne assicurò
una al piede del letto e l‟altra allo zoccolo del comò, cosicché la ragazza rimase
appesa con le gambe aperte, i muscoli tirati e i seni tormentati da un dolore
lancinante. Jackie lasciò ciondolare il capo, sbattendo il mento contro il petto,
vinta.
«Ecco, ora sei pronta, Jackie. Sapessi che spettacolo che sei!», quasi gridò,
ansimante. Jacqueline sollevò le palpebre e rimase sconvolta dal lampo di
esaltazione che intercettò nel suo sguardo.
Walsh tirò un po‟ la catenella ai seni per far vibrare il corpo in tensione, appeso
alla catena, e fremette di desiderio. Le afferrò i fianchi con le mani, la attirò a sé;
eccitato, cacciò fuori la lingua e prese a lambire il metallo che mordeva i capezzoli,
prima uno poi l‟altro, con piccole leccate concentriche, dandole sollievo. Poi si
allontanò da quel magnifico corpo appeso quel tanto che gli fu sufficiente per
trovare la distanza giusta per sferrare i suoi colpi, e scagliò la frustata col
flagellatore, dietro, sul sedere, le cosce, poi ancora il sedere. Davanti, girandole
intorno, sulla pancia, sulle cosce, sul seno, solo una frustata su quei seni magnifici
e perfettamente rotondi, uniti dal metallo della catena che li rendeva ancor più
erotici. Quindi di nuovo dietro, tra le natiche, sempre più forte.
Jackie aveva abbassato il capo, rassegnata. A ogni sferzata provava sempre meno
dolore e sempre più piacere, il piacere della liberazione.
Non riusciva a urlare, guaiva, proprio come la bestia che, chiusa nello
sgabuzzino, stava graffiando la porta per uscire; poteva sentirla, anche in quello
stato.
Jackie gemeva e le lacrime le scendevano lungo le gote, inarrestabili. Il dolore
fisico aumentava, mentre quello che si portava dentro da ormai troppi anni,
scemava lentamente e stava fluendo via insieme al pianto.
Non era vero che Matt l‟aveva lasciata o che era stata lei a lasciarlo, niente di
tutto ciò era vero. Aveva cercato di convincersi, per dimenticarlo. Si era detta per
anni: “Matt è sposato, ha dei figli. No, no, Matt è gay, ora è gay e le donne non gli
piacciono più”, ma la verità era che Matt era morto. Non era morta lei, era morto
lui! Doveva convincersene e accettarlo. Accettare che lui non sarebbe tornato:
Matthew era morto.
E quei colpi che le infliggevano un dolore fisico sempre più intenso la stavano
liberando dalla sua ossessione. Strinse forte i denti intorno al silicone, era tutto ciò
che poteva fare per reprimere la sofferenza.
SWISHHH.
“Matt è morto”.
SWISHHH.
“Matt è morto”.
SWISHHH.
“Matt è morto”.
A ogni frustata un grido: un grido di piacere, un grido di dolore che non usciva
dalle labbra forzatamente turate di Jacqueline, ma dalla bocca aperta di Walsh, che,
sudato, si era strappato via la camicia, poi i calzoni, restando nudo, in erezione, a
sferrare i suoi colpi e a gridare.
Un‟ultima frustata, decisa, in mezzo alle gambe forzatamente aperte, un ultimo
grido, disperato, e Walsh si avventò sul moschettone delle manette, la sganciò dal
soffitto e Jacqueline cadde pesantemente sulle ginocchia.
Lui, feroce, le si avventò contro. Reso folle dal desiderio, la abbracciò da dietro e
le entrò dentro con furia, piegato su di lei. Cominciò a spingere, in ginocchio,
abbandonato sulla sua schiena, la guancia incollata alla spalla di lei, grugnendo e
urlando.
Jackie rimaneva muta: non un suono, non un gemito usciva più dalle sue labbra.
Era troppo presa ad assaporare il piacere che le stava montando dentro, facendosi
largo a sovrastare il dolore delle frustate, il dolore dei muscoli indolenziti, il dolore
del peso di un uomo abbandonato su di lei. Stava godendo, in silenzio. Stava
godendo delle grida di piacere che quel maschio le stava urlando nelle orecchie.
Venne, un orgasmo così potente come mai ne aveva sperimentati. Un‟esplosione
dei sensi tanto feroce che, nonostante la pallina rosa, le sfuggì un grido.
«Cazzo, Jackie! Sto venendo!», urlò lui, un urlo belluino, cui fecero eco i guaiti
lontani del cane che raspava chiuso nello stanzino. Dopodiché rimase immobile,
chino su di lei, a gustare i postumi dell‟orgasmo, aggrappato ai suoi seni, tenendola
stretta a sé.
Walsh aspettò di essersi calmato un poco. Sganciò le pinzette ai capezzoli, liberò
le caviglie, che erano ancora legate dalle corde e, per ultimo, le tolse la ball gag,
forse per paura che lei parlasse.
Si alzò e la guardò dall‟alto, mentre lei rimaneva china sulle ginocchia, muta, il
capo abbassato, con i folti capelli biondi che le oscuravano il viso come un
paravento che protegge l‟intimità di chi si spoglia dagli sguardi rapaci di un
voyeur.
Le scostò i capelli per guardarle il viso di bambola, le guance arrossate, le labbra
gonfie. Lei levò lo sguardo su di lui, uno sguardo vuoto, senza ironia, senza
domande.
Improvvisamente Walsh la afferrò per i capelli costringendola ad alzarsi e la
trascinò con sé, si chinò a raccogliere una manciata dei suoi vestiti abbandonati per
terra e la trascinò attraverso il corridoio nell‟anticamera dell‟ingresso; la sospinse
fuori facendola cadere e le lanciò addosso i suoi indumenti.
Lui tornò dentro.
Jacqueline, seduta a terra davanti all‟ascensore, raccolse la giacca, la camicia.
Poteva sentire ancora i lamenti del cane. “Ha messo la museruola anche a te,
vero?”, si disse, pensando all‟animale chiuso in casa.
Walsh tornò immediatamente e le lanciò addosso il resto della sua roba. «Ecco i
tuoi vestiti. Fuori di qui, puttana!». Fece per andarsene, tornò indietro, la guardò
dall‟alto. «E ringrazia il tuo Signore per averti scopata!», le gridò.
Jackie sbarrò gli occhi.
«Ho detto: ringrazia il tuo Signore per averti scopata!», ruggì.
Jacqueline si scosse e sbatté le palpebre, spaventata. «Grazie, Signore, per
avermi scopata», mormorò appena, con i vestiti a coprirsi il petto come unico
scudo.
Lui si voltò e rientrò in casa senza degnarla di uno sguardo.
Capitolo IV
La prima volta
Seduta a terra nel piatto della doccia, Jackie si godeva la sensazione delle gocce
di acqua tiepida che le battevano addosso.
“Come hai fatto a pensare che tutto questo non avesse un prezzo?”, si chiese,
abbracciandosi le ginocchia e cullandosi avanti e indietro, sotto il getto caldo che
stava lavando via il dolore delle frustate, la sensazione viscida che il suo sperma le
aveva lasciato tra le gambe e lo sporco che si sentiva addosso. “E soprattutto come
hai fatto a pensare che tutto questo non avesse il prezzo più alto che tu potessi
pagare?”.
Si asciugò, anche le lacrime, prese due aspirine, si mise a letto e provò a dormire.
Erano passati tre giorni.
La cosa che la torturava di più era non sapere nulla della situazione finanziaria di
suo padre. A tutto il resto si era imposta di non pensare, per non morire un‟altra
volta.
«È venuto anche Ed a trovarmi, questa mattina presto. Mi ha detto di star
tranquillo, Walsh si sta occupando di tutti i nostri affari e sta rimettendo a posto le
cose. Hai conosciuto Walsh, vero, Jackie?», le domandò suo padre, la domenica
pomeriggio, sprofondato tra i cuscini del suo letto d‟ospedale.
«Sì, papà, conosco Walsh», rispose asettica, «e ho visto il suo piano di
salvataggio: tu sei in buone mani».
«Lo so, cara. Sono molto più tranquillo. Ti suona il cellulare, Jackie», la avvisò
suo padre.
«È un messaggio», spiegò, e lesse con attenzione.
“Stasera alle nove. Tutta la notte. Puntuale. Abbigliamento consono. W”.
“Abbigliamento consono? Ha aspettato che mi riprendessi dalle frustate prima di
richiamarmi”, osservò con apprensione, “così può rifrustarmi ancora. E io che
avevo sperato che fosse finita lì, visto come mi ha liquidato. Meno male che
Bradley è a Los Angeles, dietro a quell‟attricetta di soap, così non vede i segni. Mi
chiederebbe spiegazioni e di sicuro, finalmente, mi mollerebbe. Tanto ora sono
povera”.
In realtà Jackie sperava proprio che non lo facesse: erano sei anni che aspettava
che lui si stufasse, ma in quel momento le faceva comodo avere lo scudo di un
fidanzato, anche solo di facciata, per non essere completamente alla mercé di
Walsh, anche se lui sembrava sapere bene che tipo di rapporto ci fosse tra lei e
Brad. D‟altronde raccogliere informazioni era il suo mestiere. Doveva stare molto
attenta.
Non poteva fare altro, ormai doveva andare fino in fondo: la posta era davvero
troppo alta. Fu quella l‟unica cosa a cui riuscì a pensare per tutto il tragitto fino al
Rushmore.
«Miss Olson, Mr Walsh mi ha detto di farla salire. Vada pure, è attesa», la
accolse il portiere. Questa volta Jackie aveva indossato un tubino beige
aderentissimo che finiva due dita sotto il ginocchio, con un cinturino nero in vita.
Si era truccata gli occhi di nero; a Walsh dovevano piacere le donne truccate, visto
che amava Britt che sicuramente non aveva mai messo il naso fuori di casa senza
averlo incipriato prima. Aveva infilato ai piedi un paio di décolleté italiane écru,
tacco dodici, in acciaio. Quelle particolari scarpe italiane erano le uniche su cui
riuscisse a camminare senza procurarsi lesioni semipermanenti. Bastava sollevarsi
sulle punte e il gioco era fatto: riusciva a muoversi sui trampoli con la stessa abilità
delle sue “amiche” del Country Club.
E di sicuro con maggiore grazia.
Aveva deciso di non portare la biancheria intima. Niente. Neppure gli slip:
Walsh voleva lingerie più raffinata? Peggio per lui, Jackie non intendeva
compiacerlo. Come unica concessione, aveva messo delle calze autoreggenti. Tinta
carne. Con la riga.
L‟ascensore macinò velocemente un piano dopo l‟altro. Le porte si aprirono,
Jackie mise fuori il naso: nessuna traccia del cane. Nessuna traccia di lui.
Sbottonò lentamente il suo vecchio trench inglese, si fece coraggio ed entrò
nell‟ingresso.
Il corridoio girava a sinistra e portava alla zona notte, sulla destra si apriva un
salone immenso con pochi mobili, bianchi. Anche da lì Jackie intravvedeva lo
spettacolo di luci che New York offriva, gratuitamente, al mondo intero, una
rappresentazione che non finiva mai di stupirla per la sua bellezza involontaria:
nessuno aveva inteso predisporre un siffatto miscuglio di case, grattacieli, luci e
vetri al solo scopo di creare una visione tanto sublime da sembrare il capolavoro di
un grande artista, salvo poi scoprire che forse non era altro che un altro paesaggio
dipinto dal dito di Dio.
Affascinata da quello spettacolo, non lo aveva sentito arrivare e aveva sussultato
quando aveva percepito le sue mani sulle spalle che gli stavano sfilando il
soprabito.
Walsh lasciò cadere l‟indumento per terra, avvicinò il viso al suo capo e inalò il
profumo che emanava dai suoi capelli.
«Numéro Cinq? Non le piacciono le cose moderne, Miss Olson?»
«Dipende», rispose lei senza voltarsi; non era ancora pronta a guardarlo, non
dopo l‟ultima volta, almeno. «Era il profumo di mia madre: è un po‟ come averla
sempre vicina», ammise in un sussurro.
«Ha ragione, Miss Olson. I profumi stimolano i ricordi più dolci».
«Oh, Edna, che profumo il tuo stufato! Hai fatto anche i boxty», aveva
cinguettato Jackie nella piccola cucina della nonna di Matt.
«Li ha fatti apposta per te, Jackie, sa che li adori». La faccia sorridente di
Matthew era spuntata da sotto il lavello.
«Va‟ a lavarti, ragazzo, che adesso si mangia. Se abitassi ancora qui, non avrei
più problemi con queste dannate tubature».
«Lo sai, nonna, tu stai troppo lontano sia dal college che dal club».
«Eh sì, quello è un lavoro d‟oro. Ringrazio tutte le sere la Beata Vergine che ti ha
fatto trovare quell‟impiego e ti ha fatto mettere la testa a posto! Vieni, ti do gli
asciugamani puliti. Certo, lei ti ama… ma è ora che tu la lasci andare, non fa per
te». Jackie aveva sentito involontariamente le pillole di saggezza che l‟anziana
signora aveva inteso impartire al nipote. Edna alzava sempre la voce perché, come
tutti i sordi, era convinta di non essere udita.
«No! Io non posso, non voglio!», aveva gridato Matt, arrabbiato. E Jackie aveva
teso l‟orecchio.
«Lo so che sei innamorato, Matt, ma pensaci bene, credi che una come lei starà
per sempre con uno come te, con un…».
«…con un bastardo? Con un ragazzo di strada? Parli così per via del
riformatorio? Lei lo sa, sa tutto di me. Sa che papà è morto, accoltellato in galera.
Sa che mia madre mi ha mollato qui da te che non avevo neanche un mese… sa
tutto, tutto di me! Sa dello spaccio, della banda, dei furti, sa ogni singola cosa!».
«Pensi davvero che ti sposerà? Pensi che i suoi accetteranno che lei si leghi a te?
Andrai a pranzo da loro, la domenica? Quella ragazza è davvero roba fine, Matt,
mettitelo in testa. Ti romperai le ossa. Questo è il momento di lasciarla andare».
«No, non posso. Non ce la faccio».
«Hai avuto la borsa di studio per il master alla Columbia e devi pensare a
studiare. Lei invece andrà a Yale, come farete?», aveva chiesto, preoccupata,
l‟anziana donna.
«Troveremo il modo!».
«I profumi stimolano anche i ricordi più tristi, Signore».
«Vuol vedere la casa, Miss Olson?»
«Non credo sia necessario».
«È impaziente, signorina?», le sussurrò all‟orecchio, mentre le dita s‟insinuavano
tra i capelli a cercare le forcine, per disfarle lo chignon.
«Impaziente?!». Jacqueline si voltò risentita e si trovò i suoi occhi nocciola
piantati addosso, a leggerle l‟anima. Il respiro le si bloccò in gola, ansimò e lasciò
che le sue dita le sciogliessero i capelli.
«Gradirei che lei portasse sempre i capelli sciolti, quando è con me», mormorò
suadente, soffiandole il suo alito caldo sul viso. Jackie rimase qualche attimo
stregata dal contatto dei loro occhi, dall‟odore del suo fiato, poi lui la allontanò da
sé afferrandola per le braccia.
«Deve perdonare il mio impeto della volta scorsa, Miss Olson. Come le ho detto,
sono un neofita e mi sono lasciato trasportare dalla foga del momento,
immedesimandomi un po‟ troppo nel ruolo. Sono i contrattempi dell‟inesperienza,
non accadrà più».
«Avrei detto che lei fosse molto competente, Signore, che sapesse esattamente
cosa fare e come farlo», disse lei, senza sarcasmo.
«No, posso assicurarle che era la prima volta. Ora desidererei accertarmi di non
aver lasciato segni permanenti sul suo splendido corpo. Oh, perdoni la mia
scortesia! Desidera qualcosa da bere, un drink?», le propose, sfiorandole il collo
esile con il dorso delle dita.
«No. Non desidero nulla», scandì forte Jackie, anche se non era vero,
desiderava… lui. Aveva una voglia matta di sentirlo penetrare ancora nelle sue
carni.
Lo aveva sognato, aveva sognato di essere frustata. Forse rigirandosi nel letto
aveva provato dolore e la sua mente aveva stimolato il sogno, fatto sta che aveva
rivissuto quei momenti e si era svegliata in preda a un orgasmo.
“Mi è piaciuto?”, si era chiesta. “No, non mi è piaciuto per niente! Mi è piaciuto
fargli perdere la testa e sentirlo e vederlo godere a quel modo di me. Sì, ho goduto
di essere il suo oggetto sessuale e sono qui di nuovo pronta a tutto per soddisfare il
mio Signore. Mio? No, non è mio: è di Brittany! Che questa cosa ti sia ben chiara,
Jackie, perché non cambierà!”. Pensieri scomposti si susseguivano nella sua mente.
“Finalmente, dopo tanto tempo, desidero qualcosa, ma questo qualcosa non mi può
appartenere”. Mai avrebbe pensato di desiderare tanto ciò che apparteneva a
Brittany. Mai avrebbe pensato di provare invidia o gelosia nei confronti di una
ragazza che aveva sempre guardato dall‟alto della sua supposta superiorità morale,
intellettuale e, perché no, anche estetica. Era gelosa di Brittany Russo, doveva
ammetterlo, e avrebbe fatto meglio ad accontentarsi del semplice fatto di essere di
nuovo viva.
Dita lievi la costrinsero a girare su se stessa e fecero scorrere la cerniera
dell‟abito con studiata lentezza, per poi spostarsi sulla pelle delle scapole nude,
scostandole i capelli.
«Vedo che mi hai preso in parola, hai indossato biancheria finissima,
impalpabile, per il nostro incontro». Le fece scivolare giù le spalline dell‟abito,
sfilandolo e facendolo cadere ai suoi piedi. «Fatti guardare». La fece ruotare come
in un passo di danza e lei si ritrovò, nuda, tra le sue braccia, il viso premuto contro
il suo petto. Ancora non osava alzare il volto per paura di non resistere alla
tentazione di posare le labbra sulla sua bocca così sensuale e carezzare le basette
con le dita. Si limitò a infilare il naso nello scollo della camicia bianca sbottonata.
Annusò appena il suo profumo, cercando di non far rumore inalando, per timore
che lui si accorgesse di quella licenza non concessa. Appoggiò la mano sul suo
braccio muscoloso, solo per non perdere l‟equilibrio, evitando accuratamente di
sollevare lo sguardo e non cedere, non cedere, non cedere alla tentazione sempre
più pressante di baciarlo.
Improvvisamente lui le afferrò i capelli dietro la nuca e le fece sollevare il viso.
Per un brevissimo istante Jackie credette che l‟avrebbe baciata, invece la prese per
il polso e la trascinò, nuda, in camera. Lei gli trotterellò dietro, camminando sulle
punte per non cadere dai tacchi.
Walsh la buttò sul materasso, alzò l‟intensità delle luci, accese la telecamera,
questa volta puntata sul letto, e vi saltò sopra, in ginocchio, accanto a lei.
Portava i jeans e aveva i piedi nudi, notò Jackie. La fece sdraiare e prese a
esaminarla, sfiorandole tutto il corpo con il palmo della mano aperta. Indugiò solo
un po‟ di più sui seni; la fece voltare, le carezzò la schiena e il sedere su cui erano
visibili ancora alcune strie sbiadite e qualche crosticina. Posò la bocca sul suo
fondoschiena e le carezzò i glutei con le labbra. Improvvisamente, con violenza, le
infilò le dita tra le natiche.
«Stasera ci occuperemo di questo», e le premette il pollice sull‟ano.
«No!». Lei scattò in ginocchio allarmata. “Sodomia, no! Sodomia, no!”, gridava
dentro di sé.
«No?! Invece sì! Sì, e ancora sì!», le sbraitò sul viso. La afferrò bruscamente
dietro il collo, la buttò sul materasso a faccia in giù e le si sdraiò sopra. «Non osare
dirmi di no! Non osare!», le urlò all‟orecchio, premendole il viso sui cuscini.
«L‟hai mai fatto con Brad?». Lei negò appena, muovendo il capo bloccato dalla
sua mano. «Con qualcun altro?», gridò. Lei negò di nuovo.
Non lo aveva concesso neppure a Matt.
Dopo di lui c‟era stato solo Brad, a cui aveva concesso il meno possibile di se
stessa, per non tradire il suo amore. In tutti quegli anni aveva sempre cercato di
non godere quando Brad la prendeva, ma a volte era stato inevitabile perché il suo
corpo traditore amava il piacere e Bradley aveva un pene di dimensioni tali che
toccava ogni corda, così, ineluttabilmente, la portava all‟orgasmo. Lei cercava di
mascherarlo per mostrare freddezza e tenerlo il più possibile lontano da sé, per
rimanere fedele alla memoria di Matthew. E poi… lei era morta… Morta dentro.
Più morta di Matt.
Con Walsh era diverso, come sottomessa era obbligata a dare e provare
soddisfazione, senza coinvolgimenti, e tutto ciò le aveva procurato la liberatoria
sensazione di non sentirsi in colpa.
«Allora sarà la tua prima volta!». La voce bassa e irata di Walsh, che lasciava la
stanza, la riportò alla realtà.
«La prima volta dovrebbe essere tutto perfetto, Jackie, invece guarda dove
siamo! Può esserci un posto più squallido di questo?»
«È casa tua e io sono con te. Non c‟è un posto più bello per me», aveva risposto
Jacqueline, abbracciandolo stretto e baciandogli le palpebre socchiuse.
«È una topaia, Jackie, uno scantinato fetido in un palazzo fetido, abitato da gente
fetida. Usciamo da qua, troviamo un albergo. Ti meriti di meglio… ti meriti il
meglio, Jacqueline».
«Io ho il meglio: non c‟è niente meglio di te e voglio farlo qui, tra le lenzuola che
profumano di te».
«Sai, Jackie, credo che sia meglio aspettare. Continuiamo così, stiamo bene lo
stesso. A me va bene lo stesso».
Lei lo aveva baciato, depositandogli una raffica di umidi baci sulle labbra, lo
aveva guardato negli occhi e gli aveva detto di no, che lo voleva, subito, lì. Si era
spogliata e lo aveva spogliato. C’era stata una piccola scaramuccia, ma Jackie
ormai aveva deciso che Matt doveva essere suo, proprio in quella stanza, proprio
in quel momento.
Si erano abbracciati, baciati, leccati, toccati come avevano fatto tutte le altre
volte, sempre a casa di Matt, nella “topaia”, come la chiamava. Poi lui si era
sdraiato sul corpo disteso di Jacqueline, le aveva fatto aprire un po’ le gambe, le
aveva preso la testa fra le mani e le aveva carezzato le guance, guardandola negli
occhi mentre le entrava dentro, piano, pianissimo. L’aveva baciata per distrarre la
sua bocca dall’urlo che stava per uscirle dalle labbra. Era stato come profanare
un santuario, per lui, e lo aveva colto un intenso senso di malinconia per aver
aperto il prezioso scrigno della sua purezza. Oh… era stato troppo bello, uno di
quei momenti perfetti, irripetibili. Ecco, sì: il loro era un amore irripetibile, aveva
pensato Matthew, indossando il preservativo e facendosi largo dentro di lei
un’altra volta, fino a raggiungere l’estasi – perché di estasi si era trattato – tra le
sue braccia, sciolto dai suoi baci.
Jackie scese veloce dal letto, si guardò intorno a cercare una possibile via di
fuga. Non poteva starsene lì sdraiata ad aspettare che Walsh tornasse e mettesse in
pratica i suoi piani.
Incrociò le mani sui seni e uscì dalla camera, raggiunse l‟ingresso e afferrò i suoi
indumenti con l‟intenzione di rivestirsi ancora una volta nell‟atrio dell‟ascensore.
«Dove credi di andare?». Lui le era ricomparso davanti. «Non costringermi a
utilizzare il sistema classico premi-punizioni, perché francamente mi sentirei un
pappone», sbraitò.
Jackie si sollevò e lasciò cadere a terra i vestiti.
«Fila in camera!».
Obbedì, rientrò nella stanza bianca e si avvicinò alla poltrona sospesa, che era
tornata al suo posto.
«Appoggia le mani al comò», le ordinò. «Ora apri un po‟ le gambe. Bene. Sai,
Jackie», le disse infilandole una mano umida tra le cosce, «vista da dietro, con le
gambe aperte, vestita solo di queste calze provocanti e con i tacchi alti, lo faresti
rizzare anche a una statua», e prese a spalmarle una sostanza viscosa tra le natiche.
Fine dell'estratto Kindle.
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