Alcuni elementi costitutivi dell`esperienza religiosa africana

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Alcuni elementi costitutivi dell`esperienza religiosa africana
Alcuni elementi costitutivi dell’esperienza religiosa africana
Juvénal Ilunga Muya*
La coscienza dell’unità, al di là delle diversità delle esperienze religiose africane, ci porterà in
questa relazione a fare venire alla luce alcuni elementi fondamentali della prospettiva e dei valori
che strutturano tali esperienze e che si rivelano importanti per un lavoro teologico di inculturazione
in Africa. Anche nel bel mezzo del processo di globalizzazione che tende sempre più ad annientare
le cosiddette “culture deboli” è possibile cogliere e discernere alcune tendenze ed alcuni
orientamenti di base che costituiscono le fondamenta sulle quali l’africano si mantiene nella
tensione tra modernità e tradizione. Il suo passato rimane sempre nel sottofondo come risorsa per
interpretare ed affrontare le nuove esperienze. Esso è radicato in una visione della vita come
apertura, orizzonte sull’Oltre, l’aldilà della ragione.
Una tale prospettiva è fondata in una concezione della vita come comunione tridimensionale,
una comunione che si mantiene viva e armonica mediante la parola. Tutto quanto presuppone la
centralità del concetto di antenato, che qui viene solo presupposto, ma non specificamente
analizzato. La sua analisi è rinviata a studi ulteriori. Sarà quindi attorno ai tre elementi sopra
elencati che si articola la nostra riflessione.
1. Simbolo e mistero: l’oltre della ragione
L’esperienza religiosa africana si basa sul presupposto che il mondo reale è formato da due
sfere che interagiscono: quella invisibile e quella visibile, delle quali l’ultima è in qualche modo
dipendente dalla prima. Ciò che succede nell’ambito di coloro che vivono nella sfera visibile non
può esser spiegato solamente da un’analisi dei processi concreti delle realtà visibili o fisicamente
osservabili, perché c’è un’interazione mistica di forze e di volontà tra le due sfere.
Di importanza teologica capitale è il fatto che qui Dio o la Divinità suprema viene posto aldilà,
oltre queste due sfere. Egli circonda tutto in quanto Creatore e come Colui che sostiene il cielo in
alto e la terra in basso. Questa Realtà Altra “nella quale viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” è così
tanto data per scontata che in alcune tribù non viene neanche menzionata esplicitamente e ad essa
raramente (in molti gruppi etnici) vengono offerti sacrifici e l’usuale culto rituale; perché ne è oltre,
al di sopra. Il culto spesso viene rivolto agli antenati, principali mediatori della vita. È importante
capire il significato di questa alterità-distanza.
Non si tratta assolutamente di un’esperienza dell’assenza di Dio, poiché la sua presenza è
talmente ovvia per l’africano che non c’è bisogno di convincere nessuno al riguardo. Ma si tratta di
un tipo diverso di rapporto col divino, di sperimentare la sua presenza-assenza. La sua presenza si
afferma tramite una mediazione, tramite l’interazione tra cielo e terra, visibile e invisibile. Egli è
posto al di là di tutto poiché l’esperienza religiosa africana è segnata dall’assenza di un dualismo
radicale.
Bene e male, vita e morte, amore e odio, giustizia e ingiustizia, fortuna e sfortuna, sono i due
campi opposti nel dramma del cosmo. Ma Dio non è impegnato da una delle due parti in modo
talmente “partigiano” che un altro agente gli si troverebbe di fronte come oppositore allo stesso
livello. Al contrario Dio è l’Oltre di questo dramma, e si trova al di là per poter agire come arbitro
ultimo, come campione del bene, della vita, dell’amore, della giustizia e dell’armonia. Una tale
visione si troverebbe non tanto lontana dalla teologia negativa, e penso specialmente al De non
aliud di Nicola Cusano.
Egli non può fare altro se non far vincere la vita perché egli è pienezza di vita. Come lo hanno
mostrato vari studiosi africani, la percezione fondamentale che l’africano ha di Dio non è tanto che
Egli è “Colui del quale non si può pensare di più grande”, ma “Pienezza, Sorgente di vita”. I vari
nomi per indicare il divino mettono infatti in evidenza questa essenza del divino come pienezza di
vita. Come Creatore, Egli è infatti l’unico che dia forza vitale e crescita. Lo si vede pure dalla
concezione che si ha delle piante medicinali. Le erbe medicinali debbono a Dio la loro efficacia,
poiché senza Dio non si può proprio riottenere la salute. Egli è l’unico donatore di tutto quanto è
necessario alla vita. Qui va sottolineato pure che Dio, se deve essere veramente sorgente di vita, non
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solo mantiene la vita, piuttosto genera la vita prima ancora che l’essere umano lo sappia. La vita
non è quindi proprietà dell’uomo, della quale egli può predisporre come vuole. Essa è da Dio e
viene partecipata agli uomini tramite la mediazione degli antenati (i fondatori del clan, i genitori
defunti) e degli anziani.
In tutto questo viene dato grande valore all’esperienza degli antenati, non di tutti, ma solo di
quelli che hanno condotto una vita esemplare. La centralità della mediazione degli antenati deriva
dal fatto che per l’africano la vita è fondamentalmente comunione. L’uomo si capisce a partire dalla
vita. Questa vita è capita come un flusso di relazione, come comunione. Ciò implica che l’individuo
non si definisce dalla ragione, ma dalla comunione. È dalla comunità che si capisce l’esperienza
umana. E la comunità comprende sempre coloro che nasceranno, i viventi sulla terra e coloro che
vivono nell’aldilà. Quindi dal momento in cui viene concepito il bambino, prima che si formi il
cervello, egli è già membro della comunità perché in lui è già presente la vita che nessun altro
essere al mondo gli può negare e che viene da Dio tramite gli antenati. Egli rende viva la memoria
degli antenati.
Proprio a causa dell’alterità radicale di Dio e della centralità della vita, il concetto del peccato
come offesa diretta a Dio non esiste. Egli è totalmente Altro e l’uomo non è capace di offenderLo. Il
male è quanto offende il diritto alla vita, nuoce alla vita, la diminuisce o la distrugge. Solo per via
indiretta tocca Dio, in quanto pienezza di vita. In questo senso non è del tutto sbagliato vedere
l’esperienza religiosa africana da una prospettiva fondamentalmente antropologica. Il concetto di
comunità nelle sue tre dimensioni ne costituisce una categoria fondamentale.
2. La vita come comunione tra viventi, coloro che nasceranno e coloro che vivono nell’al di là
Se la domanda fondamentale che sta al fondo dell’esperienza religiosa è quella di sapere come
dare un senso alla nostra vita terrena e assicurarsi che essa è significativa, armoniosa, buona e degna
di essere vissuta, tale significato diventa sperimentabile solo se si è fedeli agli antenati, al loro stile
di vita e se si mantiene presente il loro ricordo. Da qui l’importanza del culto degli antenati. Esso è
il luogo privilegiato per intensificare la “forza vitale”.
Esiste una sorte di rapporto pericoretico tra la comunità dei viventi e quella degli antenati. Da
una parte, la necessità del culto degli antenati si spiega dal fatto che i defunti possono essere felici e
quindi continuare a influenzare positivamente la vita terrena solo se continuano a vivere nella
memoria e nella venerazione dei discendenti. Tralasciare o dimenticare il culto degli antenati
avrebbe delle conseguenze nefaste per la vita, perché vorrebbe dire in qualche modo rompere la
comunione e quindi uccidere la vita. D’altra parte, in una prospettiva escatologica, i viventi tendono
alla pienezza della vita che è la partecipazione alla comunità degli antenati. Questa successiva
partecipazione sarà possibile solo nella misura in cui si gode già, incoativamente e terrenamente,
della comunione con la comunità dell’aldilà. Mi sembra che sia questa idea di fondo che si trova
alla base di tutti i riti (di nascita, di conferimento del nome, di iniziazione, di matrimonio, di
sepoltura, ecc.). È la comunione con gli antenati che garantisce felicità e benedizione, cioè la
pienezza della vita. Infatti la loro posizione dopo la morte li rende capaci di influenzare la vita
terrena.
Il rito di iniziazione, per esempio, mette bene in evidenza la centralità del concetto di comunità
per la comprensione della vita. Questo rito con il quale i giovani, quando raggiungono l’età adulta e
del matrimonio, vengono introdotti in una nuova stagione della vita, non è pensabile se non come
celebrazione del dono della vita in quanto comunione con gli antenati. I giovani vengono consacrati
alla comunità dei viventi e di coloro che vivono nell’aldilà. È in questo contesto che va pure
collocata la ricerca dell’africano a proteggersi contro tutte le forze malefiche che tendono a
diminuire la forza vitale (spiriti e antenati cattivi). Meriterebbero qui attenzione particolare pure i
veggenti, i maghi e gli stregoni. Essi possono essere definiti come quegli esseri umani che tentano
infatti di catturare le forze create da Dio nella natura per usarle a favore o a svantaggio della
persona. La diffusa paura della stregoneria, la frequenza di credenze e accuse di stregoneria e magia
e le pratiche per contrastare questi fenomeni sono segni dell’importanza della centralità della vita
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come comunione. Infatti molti studiosi hanno sottolineato il fatto che la stregoneria e la magia si
situano vicino al fallimento della comunione.
Tutto questo porta ad affermare che l’esperienza della vita come comunione rappresenta il
momento dominante dell’esperienza religiosa africana. Il risultato del progetto di vita dipende da
quanto felici e benefiche siano le relazioni con gli altri viventi (per l’africano l’umanità è anzitutto
la comunità) e con il mondo invisibile. Gli individui acquistano la loro identità di base attraverso le
relazioni (per es. di parentela di sangue e di parentela acquisita tramite matrimonio). Spesso si è
detto che invece della frase di Cartesio: “Penso, dunque sono (cogito ergo sum)” gli africani
userebbero dire: “Sono imparentato, quindi sono (cognatus ergo sum)”. Infatti, per l’africano,
l’uomo concreto non può essere capito, definito, a partire della solitudine dell’Io come
autocoscienza di sé; anche nella conoscenza l’uomo esiste sempre come “essere conosciuto”, quindi
in relazione. L’individuo vive e si capisce solo sulla base della sua appartenenza, relazione alla
comunità.
Non si tratta però di una relazione da individuo a individuo, come nel caso della filosofia
personalista, ma di una relazione dall’individuo alla comunità e viceversa. Si tratta quindi non tanto
dell’essere conosciuto o dell’unità tra corpo e spirito, ma dell’interazione ininterrotta tra i membri
della comunità. Il valore dell’interdipendenza attraverso le relazioni va quindi al di sopra di quello
dell’individualismo e dell’indipendenza personale: “io sono poiché noi siamo”. In questo senso già
Alexis Kagame aveva attirato l’attenzione sul fatto che la relazione basata sul sangue rimanda oltre,
aldilà della famiglia e del clan, in modo tale che pure nei nuovi Stati moderni africani gli uomini e
le donne si possono chiamare fratelli e sorelle, anche se non hanno nessun legame di sangue tra
loro.
Questa relazionalità della persona umana sta al fondamento dei valori dell’ospitalità e della
solidarietà. La solidarietà comunitaria tende anche a creare dei requisiti di condivisione e di
redistribuzione delle risorse. Questo principio di solidarietà non significa però che l’individuo perde
la sua identità nel gruppo. L’individuo è insostituibile, però deve sempre esprimere le sue
convinzioni avendo sempre in vista l’insieme della comunità, che in Africa ha una triplice
dimensione: viventi sulla terra, viventi nell’aldilà, nascituri. La relazione rimanda ad un
arricchimento del genere umano.
Questa centralità della comunione e della solidarietà può essere collegata al fatto che, in
generale, la relazione tra la comunità umana e il resto dell’universo non era sperimentata come un
progetto di una lotta nella quale gli umani avrebbero guardato l’universo come un oggetto o un
avversario, la cui natura e i cui fenomeni dovevano essere investigati e ridotti a formule per
padroneggiarlo e sfruttarlo meglio, ma l’universo viene sperimentato come un’eredità comune e i
suoi diversi componenti come partner potenziali nel progetto comune dell’esistenza. C’è quindi un
senso di mutua interdipendenza tra le diverse componenti dell’universo: gli esseri umani, il mondo
animale, la vegetazione, gli elementi, i corpi celesti, le forze lontane e vicine, sia visibili che
invisibili, che circolano intorno a noi.
La riuscita della vita dipende moltissimo da come queste diverse componenti interagiscono,
negoziando con attenzione e “rispettosamente” le risorse comuni a disposizione di tutti. È come se
l’universo intero avesse personalità, coscienza, sensibilità e anima. Da una prospettiva della cultura
scientifica e industriale, si qualificherebbe facilmente tale atteggiamento di superstizione,
animismo, feticismo o idolatria. Forse una chiave di lettura per una migliore comprensione di questa
visione consiste nell’apprezzare l’importanza della relazione tra il visibile e l’invisibile di cui
abbiamo parlato sopra e che apre un’altra chiave di lettura del rapporto tra autonomia e teonomia.
3. Un’altra lettura del rapporto tra autonomia e teonomia, immanenza e trascendenza
Come dicevamo già, la relazione tra gli esseri umani e il resto dell’universo è governata dalla
distinzione tra “visibile” e “invisibile”. L’invisibile non è semplicemente ciò che non può essere
percepito dai sensi umani, ma piuttosto ciò che è al di là della gamma delle percezioni ordinarie.
Questa categoria di “ordinario” non è identica al concetto occidentale di “naturale” in
contrapposizione a quello di “soprannaturale”, poiché queste categorie occidentali sono basate su
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una concezione particolare del mondo, che è alla base della scienza moderna. Secondo tale visione
del mondo, l’universo è regolato da una serie di “leggi di natura”. Gli eventi e i processi avvengono
in esso in conformità con queste leggi. E se avviene qualcosa “al di fuori di” o in contrasto con
queste leggi, si considera come sopra o preternaturale. Dal punto di vista della fede viene chiamato
miracolo, mentre scienziati atei persistono nel ritenere tale dato come effetto di una legge naturale
finora sconosciuta.
La distinzione africana tra visibile e invisibile si colloca su un altro registro. Il pensiero
soggiacente è piuttosto che l’intero mondo della realtà - spiriti, persone, oggetti, parole, gesti - è
portatore di forza ed efficacia a due livelli: il livello ordinario, che è percettibile e “gestibile” senza
conoscenze o poteri speciali, e il livello mistico, che può essere percepito e gestito solo con
percezioni e poteri rafforzati. Il livello mistico potrebbe esser capito se lo inseriamo nel contesto di
forze che interagiscono. Dalla sua esperienza religiosa, l’africano sa che non può mai rendere conto
di ciò che accade o può accadere semplicemente considerando il visibile, dal momento che non si
può escludere in tutti i casi l’influsso delle forze invisibili. Da qui l’importanza cruciale, per gli
individui come per la comunità, della conoscenza dell’invisibile e del modo di entrare in contatto
con l’invisibile. Si potrebbe dire che il miracoloso o il preternaturale è parte essenziale della
coscienza religiosa africana.
Una componente centrale del mondo invisibile sono gli antenati. Come abbiamo già accennato,
il legame con gli antenati viene visto in termini di flusso continuo della vita che parte da Dio tramite
loro verso i viventi. Essendo passati attraverso la morte, gli antenati sono diventati membri
prominenti del mondo invisibile, dove condividono i poteri mistici che non sono accessibili
normalmente ai vivi. Essi sono più vicino a Dio, l’invisibile par excellence, con il quale sono in
grado di comunicare e al quale possono presentare più efficacemente i bisogni dei vivi. Essi sono
pure più vicini alle altre forze invisibili e per questo sono in grado di metterle in moto per il bene o
per il male. In questa posizione, gli antenati non sono solo modelli e guide della generazione
attuale, essi sono anche fonte di identità e possono fare da mediatori con Dio.
Per meglio capire la trascendenza di Dio, per esempio presso i Bantu, si può inoltre rilevare il
fatto che l’Essere supremo, “principio di tutto”, non è da includere nella categoria degli esseri o ntu.
Questi esseri sono concepiti come aventi un principio. Gli esseri o la categoria del ntu ha la vita per
partecipazione. Dio non è ntu, pur essendo la fonte della vita del ntu, il Padre degli uomini e di
tutto. Egli non è un Essere, cioè una essenza, poiché è l’Eterno. Dio non appartiene alla categoria
degli esseri. Egli esiste necessariamente. Egli è il “Totalmente Altro”. Questa trascendenza-alterità
di Dio è sottolineata dalla letteratura orale dei Bantu, specialmente nei proverbi.
Per esprimere che Dio è al di là di ogni bene, essi ricorrono a vari proverbi che traducono l’idea
che Dio non ha bisogno delle nostre offerte materiali. I Mongo lo chiamano ad esempio come
“Colui che tuona al di sopra di noi”, Nyakomba. I Bakongo affermano che al di là di tutto regna
Nzambi Mpungu. Egli è il grande indipendente, colui sulla base del cui comando tutto avviene.
La trascendenza di Dio deve essere considerata assieme alla sua immanenza, come due attributi
complementari. Questo significa che Egli è così lontano” (trascendente) che gli uomini non
possono. raggiungerlo. Tuttavia, egli è così “vicino” (immanente) che sta loro appresso. Egli viene
pensato come qualcuno che abita nel cielo, “lassù”, al di là della portata degli uomini. È
significativo che quasi tutti i popoli africani associano Dio con il cielo, in un modo o nell’altro.
Il concetto di trascendenza viene espresso pure nei proverbi che traducono l’esperienza secondo
la quale “non può esserci e non c’è oltre Dio”. Egli è la realtà più abbondante dell’essere, cui non
manca alcuna completezza. Egli sfugge anche al concetto e alla descrizione degli uomini, è
semplicemente “l’Inesplicabile”, come lo chiamano gli Ngombe. Questa inesplicabilità si giustifica
dal fatto che egli è puro spirito ed in quanto tale è incomprensibile. Gli Ashanti si rivolgono a Lui
come allo “Spirito imperscrutabile”, nessuna mente umana può misurarlo, né l’intelletto può
comprenderlo o afferrarlo.
Altre tribù dicono proprio che il Nome di Dio è sconosciuto, o gli danno un nome, come quello
dei Lunda, Njambi-Kalunga, che significa “il Dio dell’ignoto”, o quello degli Ngombe,
Endalandala, che vuole dire “l’Inesplicabile”, o quello dei Masai, Ngai, che significa “l’Ignoto”. Il
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nome di una persona ha solitamente nelle società africane un significato descrittivo della sua
personalità e del suo essere. Nel caso di Dio, la gente può conoscere alcune delle sue attività e
manifestazioni, ma nulla sa della sua natura essenziale. Il paradosso sta nel fatto che lo conoscono,
eppure non lo conoscono; non è estraneo per loro, eppure sono estraniati da lui; egli li conosce, ma
essi non lo conoscono. Così Dio si presenta agli uomini come misterioso e incomprensibile,
indescrivibile e al di là del vocabolario umano: ciò fa parte della natura essenziale di Dio.
Al di là di questa trascendenza, egli è pure immanenza, così che gli uomini possono stabilire
una relazione con lui. Gli Ngombe lo descrivono infatti come “Colui che riempie tutto”. Attraverso
vari atti (sacrificio, offerte, preghiere e invocazioni), l’uomo cerca di avvicinarsi a Dio. Ma sacrifici
diretti a Dio sono veramente rari, vista la coscienza della sua trascendenza assoluta. Però si associa
Dio con molti fenomeni e oggetti naturali, esprimendo così che Dio partecipa alla sua creazione:
non esiste dove o quando egli non possa esser trovato, dal momento che è contemporaneo a tutte le
cose. Non è panteismo e non ci sono prove che si consideri ogni cosa come fosse Dio o Dio come
ogni cosa. Va ribadito che per la maggiore parte della loro vita, le popolazioni africane pongono
Dio a un livello trascendentale, facendolo apparire come distaccato dalle loro faccende quotidiane,
ma sanno bene che egli è immanente, si manifesta negli oggetti e fenomeni naturali e possono
rivolgersi a lui ovunque e comunque. In sintesi si può dire che in teoria Dio è trascendente, ma in
pratica è immanente.
La trascendenza viene pure resa attraverso il concetto di preminenza, di grandezza e
supremazia. Infatti molte società, come gli Akan, i Baluba, gli Ngoni, i Tonga ed altri, parlano di
Dio come “Il Grande” o il “Grande Dio”, o il “Grande Re” o “lo Spirito immensamente grande”.
Per gli Zulu, Dio è principalmente Unkulunkulu, cioè il “Grande grande”, per gli Ndebele che usano
lo stesso nome, esso significa “il più Grande dei grandi”. Quindi l’idea di trascendenza rimanda a
quella di preminenza di Dio. La sua trascendenza va colta pure nella sua spiritualità: si crede che
Dio sia spirito. Per afferrare questo aspetto di Dio, alcuni popoli (i Ga, i Langi e gli Shilluk) lo
paragonano al vento o all’aria. In un inno tradizionale Shona ad esempio ci si rivolge a Dio come al
“Grande Spirito”. Qui Dio è ritratto come spirito attivo e creativo.
Riassumendo, potremmo dire che l’interazione tra invisibile e visibile serve a trattare il
problema della trascendenza e dell’immanenza. La trascendenza di Dio è, come abbiamo indicato
sopra, salvaguardata attraverso il rispetto della sua distanza dai vivi. Il contatto con lui viene
mantenuto attraverso la mediazione degli antenati e le preghiere. In un certo qual modo gli antenati
rendono il trascendente immanente. L’accesso al trascendente non può che essere mediato, avvenire
nell’ordine del simbolico. In questo contesto fondamentalmente mistico, il simbolo non solo evoca
la realtà, ma la rende presente. Questo diventa più chiaro nell’esperienza africana della Parola.
4. La parola come luogo di manifestazione della vita
a. La Parola come atto costitutivo dell’esperienza religiosa africana
a) Parola e creazione
Un’altra caratteristica dell’esperienza religiosa africana è che essa è in relazione con la funzione
fondamentale della Parola. Come è risaputo, nell’Africa tradizionale non vi è evento che non abbia
un significato religioso. Ora una delle caratteristiche dell’esperienza religiosa africana è che essa è
in relazione con la funzione fondamentale della Parola. L’importanza data alla Parola è dovuta al
fatto che tramite essa l’uomo può entrare in relazione con il Divino e partecipare alla sua azione
creatrice. Infatti la parola, il verbo è l’espressione par excellence della forza, dell’essere nella sua
pienezza (...) Per l’esistente, la parola è il soffio animato e animante dell’orante; essa possiede una
virtù magica, essa realizza la legge della partecipazione e crea il nominato per sua virtù intrinseca”.
In qualche modo Jahnheinz Jahn ha ragione quando dice che in Africa “ogni azione dell’uomo, ogni
movimento nella natura riposa... sulla parola, sulla forza creatrice della parola, che è essa stessa
acqua e fuoco e seme e Nommo (= il Genio della creazione che si identifica praticamente con la
parola stessa), quindi forza vitale”.
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Questa importanza della parola si può giustificare sulla base di tre motivi seguenti: - il fatto che
la parola rimanda a Dio (essa ha origine in Dio); - il fatto che l’uomo partecipa tramite essa della
forza creatrice divina in quanto “creatura privilegiata par excellence”,• - il fatto che la parola ha una
familiarità col mondo materiale (essa contiene gli stessi elementi del mondo: l’acqua nella saliva,
l’aria nei vapori del polmone che soffiano, la terra come riferimento del senso delle parole, e il
fuoco nel calore delle parole). In quanto tale, la parola ha mille modi di manifestarsi: tramite la
produzione letteraria, nei canti, negli inni del tamburo, nel sorriso, nella danza che non è altro se
non il dispiegamento nello spazio del movimento che anima la parola. Tutto quanto costituisce
l’importanza e la potenza della parola. Essa è efficace e creatrice. Questo appare molto bene
nell’ambito del conferimento del nome alla persona umana.
b) La nominazione
La parola è il medium della nominazione. In molte tribù africane, dopo la nascita di un bambino
è previsto il rito, la cerimonia di conferimento del nome, che colloca socialmente il bambino e
determina quello che egli è. Per l’africano dare il nome al neonato non significa solo collocarlo nel
contesto sociale, ma dire pure la sua identità. Se il nome non dà l’identità al neonato, esso però
permette di identificarlo. Infatti non si tratta di dare al neonato in modo attivo un’identità, poiché
ognuno nasce già con la sua identità, ma di procedere ad una identificazione, una interpretazione dei
segni che permettono alla comunità che gli conferisce tale nome di dichiarare chi egli sia. Esistono
infatti diversi segni per riconoscere l’identità di una persona.
Questo spiega pure la varietà dei nomi. Ci sono nomi che esprimono “un’idea filosofica
generale”, altri “il rango” (posizione) nella famiglia (primogenito, beniamino, ecc.), altri ancora
indicano la somiglianza del bambino con un defunto della famiglia, altri rimandano alle circostanze
nelle quali è nato il bambino, altri ancora sono destinati a scongiurare il destino (il male, la
sofferenza, la morte, ecc.), per esempio quando il bambino nasce dopo la morte di colui che lo ha
preceduto. Il Nome pone quindi il bambino in relazione. Esso conferisce personalità al bambino
inserendolo in un flusso di relazioni vitali con gli antenati, coloro che vivono nell’altro mondo e
coloro che vivono già qui sulla terra, con tutto il cosmo e l’Assoluto. Il bambino viene così
riconosciuto come membro della comunità in tutta la sua tridimensionalità.
Il nome intende cogliere l’essere stesso della persona. Si può parlare di una certa mistica del
nome. Esso introduce in un certo modo di pensiero, di sentire, di agire e di stare in relazione. In
questo contesto ricevere un nome è molto più di una semplice designazione. Il nome ha in qualche
modo un valore ontologico e determina la personalità di colui che lo porta. Ecco perché nei
momenti decisivi della vita - per esempio all’iniziazione e all’intronizzazione del Re - nei quali
l’uomo subisce una trasformazione piena di conseguenze e responsabilità, tale cambiamento di
personalità viene pure espresso nell’adozione di un nuovo nome.
Conferendo il nome al bambino è tutta la comunità che lo accoglie nel suo seno, lo riconosce
come membro e si dà un mezzo per avere accesso a lui. In tutto questo processo non c’è solo colui
che riceve il nome che viene identificato, ma è tutta la comunità in quanto tale che si identifica.
Essa dice quello che il bambino o il Re è, ma dice pure le proprie attese nei suoi confronti, il modo
stesso di essere e di capirsi della comunità di fronte alla comunità degli antenati (defunti), del
cosmo e dell’Assoluto. Nel destino dell’individuo si gioca il destino di tutta la comunità. Avviene
quindi una doppia identificazione, quella del bambino e quella della comunità. Questa
identificazione rafforza i legami tra i membri della comunità e la coscienza della loro appartenenza
comune, nello stesso modo in cui lo fanno altri elementi della parola come la narrazione delle
genealogie e il racconto delle mitologie in occasione delle cerimonie solenni e delle benedizioni38.
Tocchiamo qui un altro punto decisivo nell’esperienza religiosa africana, cioè quello della
narrazione.
c) Parola e narrazione
Nelle genealogie e nei racconti mitologici tutto è orientato verso la narrazione della storia degli
antenati e delle loro esperienze. In queste narrazioni, l’africano li rende presenti e offre alla
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comunità tribale o nazionale una chance di sopravvivenza garantendo così il bene di ogni singolo
membro della comunità. Nella narrazione si rendono presenti le leggi e i precetti degli antenati. Per
avere la pienezza di vita, l’africano pensa che l’uomo debba rifarsi sempre all’esperienza degli
antenati. Questo significa che si deve continuare a narrare la biografia degli antenati in tutte le
situazioni di vita, perché ad essa è legata la salvezza. È proprio questo lo scopo della ripetizione dei
gesti, riti e parole che vengono dagli antenati.
Certo, non sempre la narrazione è esplicita, ma con la ripetizione dei gesti, riti e parole
caratteristici degli antenati viene risvegliato ed espresso il vivente ricordo di quelli e dei loro gesti,
riti e parole, perché diano al loro popolo felicità e lo liberino dal male. Gesti, parole e riti devono
attualizzare il ricordo e la continua narrazione deve mantenere in vita il benefico effetto per la
generazione futura. Gli antenati diventano per via della mimesis modelli che garantiscono il futuro.
Il vantaggio di questa prospettiva sull’Assoluto è di insistere sul carattere affettivo della verità
che il racconto riesce a mettere in evidenza. La verità del racconto avviene in un processo
intercomunicativo tra l’evento raccontato, l’oratore e l’uditore. Essa è d’ordine affettivo, ci prende
dall’interno del nostro essere e ci porta verso la comunione. Si tratta di essere coinvolti nella verità
del racconto poiché si è toccati dal racconto. Questo approccio metterebbe bene in evidenza in un
processo sull’inculturazione della fede cristiana in Africa lo specifico della verità cristiana che è una
verità che avviene, si dà nella Parola. Il racconto ha un carattere comunicativo, cioè una capacità di
mettere in relazione, in dialogo in vista di un evento che avviene nel racconto stesso. Già l’ascolto
stesso suppone ed esige di mettersi a disposizione dell’altro, di credere che egli abbia qualcosa da
dirmi.
Perciò, se la storia umana e l’esperienza che ne facciamo esigono di essere raccontate, allora è
possibile cogliere nei racconti sull’esperienza degli antenati in Africa elementi che permettono di
plasmare la storia, la vita in comune secondo la “legge della fedeltà alla storia” che è una legge di
libertà e di creatività.
Così il nome non solo permette di designare la persona, di inserirla in una comunità o di narrare
la storia e i gesti degli antenati, ma esso è pure un mezzo per avere un accesso alla realtà, alla
persona. Il solo fatto di pronunciare un nome agisce su colui che lo porta in bene o in male.
Pronunciare un nome è in qualche modo agire sulla persona che lo porta, toccare il suo essere. Ne
scaturisce come conseguenza che occorre evitare di nominare le realtà e le persone di una certa
importanza. La parola ha un’efficacia “transfisica”, mistica. Essa è capace di creare realtà e
situazioni nuove. La parola, il semplice fatto di nominare, agisce, provoca dei risultati.
Nell’efficacia della parola o del nome risiede un’azione transfisica che, precisamente, mette le cose
in attività. Vista l’importanza della parola, occorre quindi non solo educare tramite la parola, ma
educare pure alla presa di paro1a. La parola sta al centro di tutta l’educazione. Dalla nascita si cerca
di conformare la condotta del bambino al nome che egli porta e l’educazione è orientata in modo
tale che egli faccia onore al nome che porta. La parola non è soltanto un mezzo per educare, in
quanto essa rivela l’ideale da seguire, ma si educa pure alla presa di parola. Una tale educazione
pone l’accento sul silenzio come momento fondamentale della parola.
d) Il silenzio della parola
Il silenzio della parola è inoltre una custodia e una salvaguardia della sacralità della parola. Essa
non manifesta la pienezza del suo valore se non quando è circondata dal silenzio. Il silenzio rivela la
stima e la fiducia che si ha nel confronto dell’oratore. In quanto tale il silenzio valorizza pure la
persona.
Ogni parola ha conseguenze e quindi è impegnativa. Da qui la necessità di gestirla bene. Il
linguaggio è esigente e obbligante. La parola in Africa sembra effettivamente qualcosa di sacro. Il
silenzio mette bene in evidenza questa sua sacralità. La parola in quanto tale può essere mediazione
di benedizione, espressione di preghiera, strumento di liberazione (per esempio nel caso di
esorcismi), ma può pure rendere ammalati o uccidere (nel caso di maledizione, di cattiva sorte). In
essa abbiamo accesso alla salvezza come salute, in essa avviene la riconciliazione, poiché per
l’africano l’enunciazione-confessione della propria colpa provoca la sua eliminazione. Tutto questo
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significa che si rispetta la parola e il rispetto avviene tramite la parola e il silenzio. Se si è
responsabili, lo si è nel rispetto della parola. Proprio per questo, pure il silenzio è un momento della
parola in quanto può conferirle un valore significativo unico.
Il silenzio della parola rivela un atteggiamento di padronanza di sé e di apertura verso l’alterità
della verità. Infatti, come dice Pierre Erny, in Africa “...la parola riceve il suo valore pieno in
quanto parola ammaestrata, come il segreto valorizza la scienza, così pure il silenzio valorizza il
verbo”. Il silenzio consiste anzitutto in una certa economia della parola. Poi la parola stessa
contiene dei silenzi che si manifestano nelle allusioni vaghe, nelle imprecisioni volontarie che
obbligano l’ascoltatore a cercare il vero senso tramite la riflessione, tramite delle domande o
obiezioni ugualmente piene di allusioni.
Il silenzio della parola è inoltre una custodia e una salvaguardia del segreto in quanto
manifestazione della stima e della fiducia nell’ascoltatore. Perciò il silenzio valorizza pure la
persona. La parola manifesta la pienezza del suo valore quando è circondata dal silenzio. Così
circoscritta la parola, ci tocca ora far venire alla luce un modo fondamentale nel quale si dà la
parola in Africa, cioè a contesto della palabre, “colloquio”, che è il luogo per eccellenza di
espressione della parola come elemento fondante della comunità.
b. La Parola come palabre
a) Palabre, quid?
Il termine palabre viene dallo spagnolo e vuole dire “parola”; usato in francese rimanda ad
un’esperienza africana, cioè al modo in cui la parola entra nel processo di significazione della storia
di un soggetto o di un gruppo sociale: come intendere la parola come una realtà che contiene più
che delle parole? Come evitare di lasciarsi prendere dal gioco di parole e come cogliere la vera
realtà che è contenuta nella parola?
Nell’Africa subsahariana, la palabre ha essenzialmente a che fare con la funzione della parola
nella sua dimensione comunitaria. Esistono vari tipi di palabre: al livello della famiglia, del clan o
del villaggio, tra villaggi o ancora tra due tribù; ma tutti questi contesti rimandano al contesto della
famiglia e il modo di procedere è sempre lo stesso.
La palabre potrebbe quindi essere definita come raggruppamento popolare nel quale si dibatte
di tutto quello che concerne la vita di un africano. Per mezzo della palabre “si discutono gli affari
pubblici, si risolvono i conflitti, si stabiliscono atti giuridici, ecc.”. Emerge da questa definizione il
carattere popolare, pubblico della palabre, così pure il suo scopo che è l’interesse di ognuno e di
tutti. Infatti si può ricorrere alla palabre tanto per gli affari che riguardano l’interesse pubblico
quanto per quelli di interesse personale. In fondo avviene in essa un evento a carattere
fondamentalmente comunitario che concerne l’ordine e/o la vita comunitaria. Così si potrebbe dire
che la palabre è un cammino di ricerca comune per trovare una legge di vita sociale, uno stile di
vita. Vista la complessità dei campi che tratta, esistono pure vari tipi di palabre.
Qui il nostro interesse va innanzitutto verso quel tipo di palabre che si potrebbe definire come
“la riduzione di un conflitto tramite il linguaggio, un cancellare umanamente la violenza per mezzo
della discussione”. L’origine della palabre sta quindi in un “diritto danneggiato” o in un “ordine
perturbato” o da organizzare, cioè essa parte sempre da una denuncia portata presso il re o presso il
consiglio della comunità da un membro o un clan o una tribù che vede il suo diritto danneggiato. La
denuncia richiede che si convochi il raggruppamento. Dal modo stesso in cui si dispone la comunità
emerge lo scopo della palabre, cioè la comunicazione, ridare vita, ricomporre tutta la comunità.
Infatti, nella maggioranza dei casi, la gente viene disposta in un cerchio in modo tale che ogni
villaggio si siede insieme, disposizione che mette in evidenza la dimensione comunitaria della
palabre. Nella palabre è infatti tutta la società stessa che “si mette in cammino, interroga le proprie
referenze (punti di riferimento), prende distanza e tenta di entrare in un dialogo ininterrotto con se
stesso e con l’Altro da sé”. Essa lo può fare solo perché la palabre articola la parola come una
parola “data ad un altro”, “indirizzata a”. Questa donazione esige dal donatore una messa in forma
che è anche un’articolazione del senso.
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La palabre mette in gioco pure un’altra dimensione fondamentale della parola: la sua creatività.
Ognuno può parlare liberamente e infatti la palabre non finisce finché tutti i partecipanti abbiano
espresso ciò che gli sta a cuore. Conviene qui sottolineare la libertà di parola di ogni membro e di
tutta l’assemblea, come pure il carattere dialogico che riveste la ricerca della verità nell’esercizio
della giustizia. Infatti non solo si dialoga nel dibattito pubblico, ma la ricerca stessa degli argomenti
si fa nel dialogo, nella consultazione segreta tra i gruppi responsabili della palabre. In tutto questo si
manifesta lo scopo della palabre, che è di mettere comunitariamente fine ai conflitti tramite la
parola e la sua creatività. Il fallimento della palabre significa risurrezione del conflitto o irruzione
della violenza.
In questo contesto viene messa in evidenza la funzione risanatrice della parola. La parola è
capace di produrre la salvezza o di distruggere, può edificare la comunione o distruggerla. Essa è
qualcosa di efficace e di dinamico. La funzione della palabre consiste infatti nel vigilare affinché
una parola detta nella comunità sia produttrice di vita e non di morte. Nella logica della palabre tutti
hanno diritto alla parola. In questo senso la palabre garantisce l’uguaglianza e l’accesso di tutti alla
parola in vista dell’edificazione della comunità. La decisione finale alla quale si giunge al termine
di un processo di palabre è frutto non di un compromesso o di una votazione secondo il principio
della maggioranza, ma di un solido consenso tra tutti i membri e che permette di intravedere la via
da percorrere insieme.
Si potrebbe dire che la palabre è in fondo un processo ermeneutico. L’ermeneutica viene qui
intesa nel senso generale come interpretazione, sforzo di comprensione di quello che si vuole dire e
di quello che di fatto si dice e quindi proclamazione delle verità di senso, delle loro traduzioni
nell’attualità e il loro chiarimento, come pure la loro interpretazione. Si tratta di un impegno nel
dono del senso e della scoperta del senso di un testo o di un documento. In quanto tale
l’ermeneutica è sempre un ampliamento del senso originario. Infatti per spiegare, chiarire e
esplicitare, l’interprete usa molti significati. Così la palabre ricorre ai proverbi e diverse allusioni.
Però non è solo la presenza dei proverbi nella palabre a renderla ermeneutica, ma i proverbi
stessi sono interpretati e costituiscono nello stesso tempo degli strumenti di interpretazione. Infatti è
proprio della palabre che in essa la verità avvenga solo progressivamente in un lungo processo dove
ognuno dei partecipanti esprime la sua opinione e il suo pensiero, correggendosi e riaggiustando
progressivamente la sua posizione a seconda della percezione della luce della verità come essa si
manifesta nel processo stesso dello scambio. Alla fine si aderisce alla conclusione non perché è
l’espressione della maggioranza, ma perché nella voce della comunità ognuno riconosce la propria
voce. La palabre non è solo un lungo processo comune di chiarificazione nella ricerca della verità,
ma è soprattutto ricerca comune della pace e della comunione.
b) Palabre, pace e comunione
Si potrebbe pure definire la palabre come una ricerca comune tramite la parola in vista di
mantenere l’integrità della comunità, cioè di promuovere la vita tramite una riconciliazione che crea
pace. Si tratta di uno sforzo di tutti per assicurare la pace. È una ricerca attiva per via del dialogo,
della parola per stabilire una pace fondata sulla giustizia e la benevolenza, una pace armonica. Che
l’armonia e la pace siano i veri scopi della palabre lo si può pure vedere dal modo in cui si risolvono
i conflitti. Alla fine della palabre si cerca sempre di salvare pure il colpevole e di non esaltare
troppo il vincitore. Quello che importa è la riconciliazione e che venga ristabilito l’ordine.
Un tale processo è esigente e richiede alcune condizioni per la sua realizzazione. Innanzitutto ci
vogliono delle guide sagge (capaci di discernere tra il male e il bene), competenti (nell’eloquenza e
nella conoscenza della storia) ed esperte delle tradizioni degli antenati. Inoltre ci vuole la presenza
di tutti gli interessati e l’insieme della comunità, poiché senza l’accordo di tutti e di ciascuno
l’armonia sociale non può essere realizzata. Queste condizioni suppongono la libertà di parola, cioè
di parlare e di essere ascoltato. Tutti sono responsabili dell’armonia sociale.
Inoltre ci vogliono dei principi di base comuni della discussione, i quali servono da referenti
stabili e solidi per i giudizi e gli orientamenti. Tra questi principi possiamo indicare quello del
rispetto dello spirituale, della gerarchia dei valori, del rispetto della vita e dell’uomo e quello del
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rispetto e della promozione della pace. La palabre richiede una maggiore oggettività e una grande
sincerità. Esse si realizzano de facto tramite la presenza di tutti. Quando qualcuno non è sincero,
quelli che lo conoscono sono presenti e possono protestare. Come dice bene Atangana, “quello che
colpisce nella palabre, come pure in ogni dialogo sincero tra gli africani, è la libertà e la franchezza
nel confronto, nel modo in cui gli uni e gli altri si liberano da ogni falsa cortesia, si dicono la verità
in faccia”. È in gioco qui la sincerità di tutta la comunità. In quanto tale, la palabre è strutturata
attorno ad alcuni elementi fondamentali.
c) Elementi strutturanti della palabre
Per raggiungere il suo scopo, la palabre ricorre a vari generi di espressione: proverbi, racconti
(novelle, fiabe), parabole e simboli. La relazione che esiste tra questi elementi è tale che possiamo
trattarli insieme. Infatti, il proverbio è un elemento dei racconti e utilizza generalmente dei simboli
come mezzo di espressione, e le parabole sono simile a dei racconti. I simboli vanno qui capiti in
senso ampio come immagini che rendono presenti allo spirito un essere, un’idea o un’azione. Il
simbolo è dunque il modo privilegiato di espressione dei proverbi, dei racconti e delle parabole.
Esso rende il racconto vivido e facilita la comprensione di quanto viene espresso.
I proverbi sono elementi costitutivi della palabre. Il proverbio è un argomento che costituisce la
trama dell’argomentazione. Strumento di argomentazione, il proverbio è un mezzo per eccellenza di
comunicazione. In esso, la comunicazione non è più trasmissione di conoscenze attraverso prove
stringenti, ma un’arte, un tipo di commercium dell’esistenza con l’esistenza. Siamo così rimandati
all’elemento fondamentale della palabre, cioè l’esistenza o la vita. La prova, l’argomento, si fonda
sulla vita e mira alla vita. Il proverbio diventa così il principio protettore della vita e ogni dialogo
“palabrico”, cioè in situazione conflittuale, si fonda su questo principio e viene condotto in
riferimento a questo principio. Il proverbio è quindi un principio di argomentazione che suppone un
principio vitale, esistenziale come fondamento del suo dispiegamento. Questo non vuol dire che non
esiste il ragionamento tramite prove razionali.
Le fiabe e le parabole sono dei racconti più ampi che includono il proverbio come parte
integrante. Esse espongono una situazione che dà la lezione morale in modo visuale. Esse
proteggono da una situazione sia mettendo in guardia, sia tramite la raccomandazione che è
contenuta nel proverbio. Il loro ruolo principale è di far comprendere il proverbio. In quanto
argomento, il proverbio è spiegato e giustificato dai racconti che riflettono una situazione nella
quale si fonda il proverbio-principio. Si potrebbe dire che il ricorso simultaneo alle fiabe, alle
parabole e ai proverbi permette di catturare il attenzione, di dare un insegnamento morale e di
fornire una giustificazione e spiegazione del principio. L’impiego di tutti questi generi letterari
manifesta che la ricerca comune della verità non rileva soltanto della logica, ma pure
dell’ermeneutica. L’argomentazione non è una pura logica, ma ha una “funzione comunicativa e
interazionale”. In quanto tale essa presuppone pure la tradizione e la storia. La palabre include
questi due elementi come suoi elementi costitutivi.
Con storia intendiamo gli eventi passati vissuti dal clan o dalla tribù e con la tradizione
rimandiamo ai costumi, alle abitudini ricevute dalla famiglia, clan o tribù, o dalla storia. In quanto
tale la vera tradizione non ha bisogno della violenza per imporsi, poiché è tramite la sua forza
interna che essa ha permesso alle culture di sussistere, permettendole tramite la sua saggezza di
capire il senso ultimo della vita e di conformarsi ad esso. Perciò, la storia e la tradizione sono una
fonte importante dove si attingono argomenti, principi e criteri di giudizio durante la palabre.
Questo riferimento alla storia e alla tradizione non ha niente a che fare con il conservatorismo, ma
serve a stimolare la creatività. Nella palabre, la tradizione non è qualcosa di fisso, ma di vivente,
che lascia agli oratori la libertà di interpretazione e di invenzione.
La tradizione e la storia sono così la fonte dove la palabre prende la sua linfa di vitalità, di
giustizia e di esattezza. Infatti è dalla riflessione sul passato che deve partire la riflessione
contemporanea per tracciare, delineare gli orizzonti di soluzione dei problemi attuali, poiché i
problemi umani hanno una base comune di confronto con la natura esteriore, interna e con altri
uomini. Sono diversi solo i mezzi e il modo di risolverli, ma i problemi e i modi di porli rimangono
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quasi identici. La storia e la tradizione ci permettono di cogliere così un altro dato fondamentale
della palabre, cioè che in essa avviene la relazione come comunione.
L’esperienza fondamentale che sta alla radice della palabre è quella della comunione. La
comunione esige di prendere in considerazione tutti i membri della comunità in quanto soggetti
parlanti. La comunione è vera solo quando la comunità promuove e garantisce la libertà di ciascuno
dei suoi membri e quando ogni membro è conscio di essere libero solo nella relazione con la
comunità. Il riferimento alla comunità è fondante per la libertà stessa dell’individuo.
La palabre è quindi un processo dinamico, la cui dinamicità è fondata nella capacità dei singoli
di portare avanti nuove esperienze che arricchiscono la comunità. L’esperienza personale contiene
sempre una dimensione comunitaria. Ogni esperienza è in relazione con la parola, ma è sempre
all’interno della comunità che la parola manifesta la sua trasparenza e la sua capacità creatrice di
vita. Ecco perché il luogo della parola e di verifica di ogni esperienza è la comunità, cioè il contesto
della relazione con l’alterità. In questa prospettiva, l’individuo non è il criterio ultimo di
riferimento, ma egli sta in relazione con la comunità. È questa relazione che fonda l’individuo come
soggetto. Ritroviamo così una delle tesi fondamentali che abbiamo voluto qui sostenere: l’emergere
della democrazia in Africa suppone di prendere sul serio un terzo elemento, quello della fraternità.
Se è vero che il concetto di comunità è fondamentale per la comprensione della persona in Africa,
rimane pure vero che tale concetto è molto legato alla tribù o clan. Come si può pensarlo al di là
della tribù nel contesto della costruzione dello stato-nazione e di un mondo fraterno? Tale rimane la
sfida.
5. Conclusione
La considerazione dell’esperienza religiosa africana come luogo teologico rimanda quindi a
prendere sul serio tutto il deposito culturale religioso dell’uomo africano. Le nostre osservazioni di
ordine epistemologico sul concetto di “esperienza religiosa africana” e sul concetto di luogo
teologico, come pure le nostre riflessioni su alcuni elementi della tradizione religiosa africana,
hanno mostrato come la rielaborazione teologica africana non possa fare totalmente astrazione dal
contesto di vita del suo destinatario, dalla sua visione e dal suo desiderio di dare senso alla propria
esistenza nell’universo. Qualsiasi teologia rimanda in effetti a colui che l’ha prodotta e a colui che
vi si riconosce. Inscrivendosi in questo quadro più contestuale, il teologo africano non può non fare
intervenire alcune categorie fondamentali della sua esperienza religiosa (un’altra visione della
ragione, la dimensione trascendentale di tutto il creato, la parola come palabre, l’interazione tra
visibile e invisibile, la vita come comunione).
Il concetto di fondo che percorre questa esperienza come un filo rosso è quello della posizione
africana di fronte alla vita. A questo punto la figura di Gesù di Nazareth, riconosciuta come `Via,
Verità e Vita”, diventa imprescindibile. Per cui il punto di partenza di una teologia che vuole
prendere sul serio l’esperienza religiosa africana non deve essere cercato nelle nostre
rappresentazioni, bensì in questo gioco di comunicazione tra il vivente par excellence e gli uomini e
le donne africane assetate di vita.
*Dalla rivista “Euntes Docete”, LIV, 2001, n. 2, pp. 155-174. L’A. è professore alla Pontificia
Università Urbaniana.
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