pdf pubblicazione - Università degli Studi di Camerino

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pdf pubblicazione - Università degli Studi di Camerino
Arte Architettura
1/2006
DI BAIO EDITORE
www.unicam.it
numero verde 800 054000
Archeoclub d’Italia
movimento di opinione pubblica
al servizio dei beni culturali e ambientali
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1
Arte Architettura
IV
direttore editoriale
Giovanni Marucci
direttore responsabile
Gjlla Giani
Archeoclub d’Italia
Consiglio Nazionale degli Architetti
Università degli Studi di Camerino
Seminario di Architettura e Cultura Urbana
c/o Unicittà, via C. Lili 59, 62032 CAMERINO
email: [email protected]
In questo numero:
Giuseppe Arcidiacono, Francisco José Gentil Berger, Massimo Bilò, Alessandro Camiz, Umberto Cao, Donato Caporalini, Franco Cardullo, Tiziano
Cattaneo, Giovanni Battista Cocco, Gianni Contessi, Giovanni Corbellini, Enrico Corti, Lorenzo Dall’Olio, Inês Dantas Bernardes, Brunetto De Battè,
Gabriele De Giorgi, Mario Docci, Massimo Fagioli, Giovanni Fiamingo, Paolo Giardiello, Ernesto Maria Giuffrè, Bassam Lahoud, Marcello Maltese, Mario
Manganaro, Giovanni Marucci, Paola Mazzotti, Raffaele Mennella, Fernando Miglietta, Moduloquattro Architetti Associati, Gianfranco Neri, Pierluigi Nicolin,
Renato Nicolini, Leo Giuseppe Oceano, Marco Peticca, Massimo Pica Ciamarra, Jorge Cruz Pinto, Franco Purini, Concetta Rinaldi, Marco Romano, Mili
Romano, Paola Rossi, Stefania Suma, Cesarina Siddi, Antonino Terranova, Laura Thermes, Luca Zevi.
Foto e illustrazioni sono degli autori o, comunque, fornite dagli stessi. Gli autori sono responsabili dei contenuti dei rispettivi articoli.
in copertina
Giuseppe Arcidiacono, L’architetto (ritratto di Giorgio Peguiron), 1995, part.
grafica, impaginazione e coordinamento redazionale
Monica Straini
edizione
Di Baio Editore - via Settembrini 11 20124 Milano - tel. 02 67495250 - fax 02 67495333 - email: [email protected]
Arte Architettura
1/2006
www.dibaio.com
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Arte Architettura
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Donato Caporalini
L’Era progettuale
Note di redazione
Giovanni Marucci
Arte Architettura
Osservatorio. Storia, critica
Massimo Bilò
Divagazioni sulla metafora
Umberto Cao
Costruire la città senz’arte
Enrico Corti
Progetto e immaginazione sociale
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Brunetto De Batté
Modi di vedere. Vangelo secondo Germano
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Fernando Miglietta
Abitacolo e la fabbrica estetica. Dall’arte dell’architettura
e della casa alla Città/Opera d’arte
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Raffaele Mennella
Città di altre città. Ovvero cose di altre cose ...
Gianfranco Neri
Arte Architettura Immagine
Pierluigi Nicolin
Le avventure della Public Art
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Renato Nicolini
L’Arte dell’architettura e della città?
Marco Peticca
Architettura è Arte
Massimo Pica Ciamarra
Arte negli edifici e città come opera d’arte
Franco Purini
Arte e architettura tra mistero ed eversione
Antonino Terranova
Arte, architettura, paesaggi metropolitani.
La città senza arte né parte come materiale poetico
Rapporti e ricerche
Giuseppe Arcidiacono
Le geometriche concordanze tra arte e architettura
Francisco José Gentil Berger
Architetti italiani in Portogallo. Antonio Canevari (1681 - 1764)
Giovanni Battista Cocco
Arte e Architettura, la fabbrica dell’identità
Gianni Contessi
Fernand Lèger pittore per architetti
Giovanni Corbellini
Bello?
VII
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VIII
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Lorenzo Dall’Olio
Architettura e arti visive.
Territori e prospettive di un dialogo
Inês Dantas Bernardes
Il ruolo dell’architetto nella trasformazione
del paesaggio contemporaneo
Gabriele De Giorgi
Oltre la forma
Mario Docci
Il colore e la città.
Contributo alla rinascita dell’Arte del colore
Giovanni Fiamingo
+ o -? L'arte del negativo
Paolo Giardiello
Allestire, mostrare, comunicare.
Arte e architettura/oggetto e spazio
Ernesto Maria Giuffrè
Lo scenario dei grandi segni e l’insieme dei piccoli segni
Bassam Lahoud
Body Architecture
Marcello Maltese
Arte e comunità. La ricostruzione di Gibellina
102 Mario Manganaro
Petit Tour
105 Cesarina Siddi
Arte e paesaggio … 5 [s]punti di riflessione
108 Marco Romano
Contesto e modernità.
Progetti per il polo urbano della Fiera di Milano
114 Mili Romano
Altri sguardi dall’arte pubblica
117 Stefania Suma
Altri musei
Progetti raccontati
121 Franco Cardullo
Architettura come ammonimento.
Il significato simbolico dell’architettura
124 Jorge Cruz Pinto
Fra Architettura e Pittura
128 Massimo Fagioli, Paola Rossi
Palazzetto Bianco. Breve nota a margine del progetto
131 Moduloquattro Architetti Associati
(F. Ciappina, G. Fugazzotto, A. Russo, G. Scarcella)
Dai musei dell’iperconsumo al racconto metropolitano.
La città dell’arte
134 Laura Thermes
Architettura, pittura e scultura in un esempio ravennate
139 Luca Zevi
Memoria e quotidianità. Un progetto per ricordare
141 Alessandro Camiz
Modelli e atteggiamenti: figure antropomorfe
per il significato delle città
Concetta Rinaldi
Il progetto contemporaneo valorizzatore delle preesistenze
145 Tiziano Cattaneo, Leo Giuseppe Oceano
Le vie d’acqua: un connettore fra paesaggio naturale
e paesaggio culturale. Due casi a confronto
148 Paola Mazzotti
Il nuovo paesaggio marchigiano del recupero
post sisma: un laboratorio in corso
151 Premio di Architettura e Cultura Urbana
Camerino 2005
Donato Caporalini*
L’Era progettuale
Il XV Seminario di Architettura e Cultura Urbana, da cui scaturisce
questa pubblicazione, ha affrontato nodi teorici e pratici estremamente delicati, imbarazzanti per la cultura urbanistica contemporanea.
Sebbene infatti la nostra sia un’epoca lessicalmente soggiogata dal
riferimento alla dimensione progettuale che finisce per connotare ogni
nostro costrutto comunicativo, qualunque ne sia l’ambito semantico
(la citazione del progetto è obbligatoria sia che si parli di politica o di
scienza, di promozione o di arte, ecc.) noi avvertiamo quasi fisicamente il peso della crisi della cultura progettuale, in particolare di alcune discipline.
A ben guardare i rischi ‘di impotenza del progetto’ erano già enunciati nell’opera che ne celebrava l’avvento: nel suo Essay upon Projects Age (1697), Daniel Defoe, infatti, annuncia l’inizio della ‘Projecting Age’, l’età progettuale, ma nel contempo accenna al pericolo che
le grandi istituzioni sociali e i centri di potere restino impermeabili al
linguaggio progettuale.
Certo, si potrà dire che ciò non è vero (o non è sempre stato vero)
dato che nel ’900 abbiamo purtroppo assistito a progetti totalitari che
sono divenuti essi stessi esercizio smisurato di potere sulle strutture
sociali, culturali e biologiche di intere comunità.
Ciò non ha cancellato però il nesso tra società contemporanea e
pro-gettazione, ovvero la trasformazione intenzionale secondo un disegno razionale della realtà.
Semmai è vero che in alcuni campi - e segnatamente in quello dell’architettura - sentiamo la possibilità di un offuscamento della capacità progettuale.
Questo penso dipenda dal fatto che la complessità delle trasformazioni urbane, dei linguaggi architettonici a cui la cultura progettuale
deve far fronte, sia oggi sfidata da un duplice rischio ‘riduzionistico’
che è connesso alle trasformazioni sociali e culturali in atto (crisi del
welfare, ristrutturazione dei campi disciplinari dei saperi, sviluppo tecnologico, ecc..) .
Il primo di questi rischi è rappresentato dall’onnipotenza del mercato che tende, anche in questo campo, ad imporre la sua logica condizionando fortemente le scelte progettuali, che non sono in sintonia
con le compatibilità economiche e mercantili.
L’altro elemento di rischio è quello che io chiamo il ‘politeismo estetico’; figlio in parte dei fenomeni di democratizzazione dei consumi e
della stessa opera dissacratrice delle avanguardie, il politeismo estetico finisce per negare la possibilità stessa di un linguaggio architettonico condiviso, pretendendo di legittimare ogni gusto. Ciò, a mio parere, è anche una delle ragioni che rendono spesso ‘debole’ la politica.
Questi temi sono particolarmente pungenti quando si parla di recupero e rinnovamento del patrimonio esistente, specialmente se ci si
vuole cimentare con il compito di fare in modo che questa azione sia
diretta alla rivitalizzazione delle funzioni sociali e non ad una operazione puramente retorica e sentimentale, con i conseguenti rischi di falsificazione storica che inevitabilmente tale approccio comporterebbe.
Una parte delle risposte di cui abbiamo bisogno si trovano, ne sono certo, nelle competenti riflessioni di questo volume, di cui perciò
dobbiamo essere grati agli organizzatori e agli autori.
* Assessore ai Beni Culturali e Turismo della Provincia di Macerata
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G. Marucci, Above us only sky, inchiostro di china su carta
Giovanni Marucci
Arte Architettura
Il n. 15-16 di Architettura Città raccoglie un significativo resoconto
del XV Seminario Internazionale e Premio di Architettura e Cultura Urbana che si è svolto presso l’Università di Camerino nell’estate del
2005.
L’ormai tradizionale appuntamento camerte si propone di indagare
sulle trasformazioni degli spazi pubblici e dei luoghi di aggregazione
sociale, alla ricerca della qualità architettonica nei paesaggi urbani.
In ambito disciplinare persegue il confronto fra università e professione per approfondire criticamente i caratteri della ricerca e della pratica con spirito di reciproco apprendimento.
Motivazioni
Frenata l’espansione delle città, il tema principale negli ultimi tempi
è quello del rinnovamento e della trasformazione dell’esistente, riprendendo un processo storico di sedimentazioni e di contaminazioni
del tessuto urbano; un processo che oggi appare ricco di fermenti
creativi per l’eterogeneità delle componenti sociali e per le aspettative che esse portano con sé di città più vivibili. La variegata moltitudine di istanze di rinnovamento delle città mal si accorda con la rigidità
di programmi pianificatori a larga scala e sposta i temi progettuali verso un approccio per parti e quindi verso una maggiore attenzione ai
caratteri propri dell’architettura e al rapporto di questa con le altre arti, così come è sempre accaduto nei momenti migliori della storia dell’arte fino alle avanguardie del XX secolo.
All’architettura e alle altre arti si richiede, quindi, di colmare il vuoto
di cultura progettuale che ha caratterizzato la crescita incoerente di
molte città nella seconda metà del secolo appena trascorso e che ha
rappresentato un grave punto di debolezza per i paesaggi insediativi
in trasformazione, dominati direttamente ed esclusivamente dalle
contingenze sociali, politiche ed economiche.
Ecco, dunque, delinearsi vasti orizzonti di ricerca su nuovi caratteri di identità che presiedono ai fenomeni di trasformazione dei luoghi
e sulle ragioni per progetti di città possibili, più consapevoli dei valori
in gioco e più coinvolgenti per i suoi abitanti; un impegno progettuale
che sappia interpretare la società contemporanea, che si confronti
senza mimetismi con la morfologia dei luoghi, con la storia intesa nel
suo divenire, in cui l’antico riaffiori nella contemporaneità non come citazione e, tanto meno, come emulazione, ma come elaborazione del
pensiero architettonico.
Temi progettuali
Il Seminario ha compreso brevi relazioni programmate, comunicazioni e conversazioni sul tema - trattato in modo interdisciplinare da
docenti e qualificati professionisti - alternate a laboratori all’interno dei
quali gli iscritti hanno presentato le loro opere e si sono confrontati sui
diversi aspetti dell’argomento. I temi progettuali proposti sono stati:
n rapporto fra architettura e sedimentazioni storiche/archeologiche,
n allestimenti, rappresentazioni, architetture temporanee,
n luoghi e spazi per l’arte e l’aggregazione sociale.
Nelle giornate del Seminario è stata allestita la mostra delle opere
presentate in concorso dai partecipanti.
Eventi
Fra gli eventi sono da ricordare le mostre di Gino Marotta e Franco
Purini ‘Dentro la Pittura, Dentro l’Architettura’ in cui i due autori hanno operato reciproche incursioni nelle rispettive discipline e, infine, la
prima conferenza sul tema Architettura: scuola arte e professione in
Europa, in cui si sono incontrati rappresentanti del mondo accademico e professionale per trattare delle esperienze e delle prospettive dei
giovani architetti nell’Unione Europea.
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Massimo Bilò
Divagazioni sulla metafora
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L’architettura e l’arte
Aver scelto per questo Seminario un titolo come - Arte Architettura
- è un atto di lungimiranza; ma anche di coraggio, perché vengono coniugati in esso due termini che nel tempo sono stati caratterizzati da
rapporti ambigui o conflittuali. Sappiamo, infatti, che il carattere funzionale, la finalità utilitaristica, di cui si fregia gran parte dell’architettura l’ha messa spesso in posizione di minorità e sudditanza rispetto
alla altre arti. Nel medioevo - per fare un esempio - a differenza della
poesia e della musica, considerate ‘arti liberali’, l’architettura era posta tra le ‘arti meccaniche’, dove il termine arte significava tecnica,
mestiere, lavoro, confermando così l’antica concezione greca dell’inferiorità del fare rispetto al conoscere, del lavoro manuale rispetto a
quello intellettuale. Un’inferiorità che ha scavalcato i secoli ed è giunta sino ai nostri giorni con effetti nefasti, ultimo dei quali è rappresentato dalle strampalate riforme della scuola media e dell’università.
Eppure - tornando in argomento - mi sembra indiscutibile che l’architettura entri a tutto titolo nel novero delle arti propriamente dette,
dal momento che - per dirlo in estrema sintesi - stessa è la genesi,
stessi i processi formativi, stessi quelli conoscitivi.
E, d’altra parte, come non rivendicare una perfetta contiguità dell’architettura con le altre arti se nello stesso periodo in cui Kandinsky
o Braque o Picasso smontano la figuratività, Shoenberg scardina il sistema tonale, Marinetti frantuma i lessici, artisti come Loos, Gropius,
Meyer azzerano ogni precedente linguaggio, ogni precedente formatività, anche a partire dalla funzione?
Insomma - rovesciando le primogeniture e le gerarchie - quando all’inizio del XX secolo scultura e pittura si svincolano dai contenuti illustrativi naturalistici e assumono riferimenti figurativi astratti, come linee,
piani, volumi - riferimenti che sono propri dell’architettura, da sempre il rapporto tra le tre arti sorelle diventa meno allusivo e più diretto.
Architettura arte tra le arti, dunque, e con suoi caratteri propri. Ciò
che la distingue è la natura dei ‘materiali’ oggetto di manipolazione,
esattamente come accade per ogni arte. Cosa intendo per materiale
provo a dirlo con le parole che ha usato Aaron Copland per spiegare
la costituzione della forma musicale moderna. Egli sostiene che sono
materiali specifici della musica il ritmo, la melodia, l’armonia ed il colore. ‘Questi quattro ingredienti - scrive Copland - sono il materiale del
compositore; con esso lavora come qualunque artigiano’.
Analogamente ogni espressione artistica ha suoi specifici materiali. Tra i tanti usati per comporre l’architettura spicca proprio la funzione - una particolare funzione, se volete, cioè la funzione insediativa che non segna, quindi, una discriminante o una fatale menomazione,
come s’è pensato per secoli, ma solo una suggestiva specificità.
Sulla base delle considerazioni appena svolte, mi sembra possibile condividere il titolo del Seminario laddove pone un così stretto rapporto tra arte e architettura, e in questo quadro mi sembra di un qualche interesse esaminare il ruolo di un ‘oggetto concettuale’ che ha
grandissima rilevanza per l’arte, per la sua genesi, per la sua comprensione, per la sua trasmissione. Mi riferisco alla metafora, figura
retorica le cui proprietà e virtù sono abbastanza note, specie in letteratura e, in particolare, nei suoi piani alti, quelli abitati dalla poesia, dove tutto è metafora.
Ciò che vi propongo qui di seguito riguarda, appunto, la metafora
ed è una breve divagazione senza centralità e senza tesi sottostanti.
Sulla metafora
è noto da tempo che la metafora è caratterizzata dalla capacità di
svolgere un importante ruolo cognitivo: essa, in altre parole, è portatrice di informazione, organizza la nostra percezione della realtà. Proviamo ad esaminarla da questo punto di vista.
La metafora è costituita da due ‘fattori’ tra i quali si opera un trasferimento di significato; la sua forza sta nel consentire il passaggio di
qualche connaturata proprietà di uno dei due fattori all’altro.
Per spiegarmi con un esempio prendo uno dei tanti modi di dire co-
me è la frase ‘quell’uomo è un toro’ oppure - più vicina ai nostri interessi - ‘quella villa è un bunker’. Nessuno, guardando la villa in questione,
vedrà spesse pareti di cemento armato, sottili finestre a feritoia, chiusure blindate, armamenti bellici; ma, osservandola con più attenzione,
noterà che è proprio connotata da qualche attributo del bunker, come
la possanza strutturale, la compattezza volumetrica, l’indifferenza al
luogo, la pesantezza dell’insieme (sulla pesantezza, tornerò in seguito). Con estrema sinteticità la metafora mette in luce i caratteri salienti di quella villa. Quando abbiamo compreso una metafora, la somiglianza tra i due fattori che la costituiscono ci appare evidente e, soprattutto, sembra sempre esistita; invece è stata proprio la metafora a
creare la nuova associazione e a permettere l’apprezzamento di caratteristiche prima inosservate: ecco il ruolo cognitivo della metafora,
la capacità, come diceva Aristotele, di ‘far vedere’.
Tra i due fattori a confronto si è determinata una tensione, seppure
sia evidente che sul piano letterale l’espressione metaforica è falsa;
ne deduciamo che le proprietà su cui gioca la metafora non sono reali, ma culturali, come nota Umberto Eco.
Altra osservazione: molti termini usati dalla critica d’arte per descrivere particolari attributi di un’opera sono metaforici e, quindi, falsi sul
piano letterale; eppure la loro capacità suggestiva è ineguagliabile per
forza e sinteticità. Penso, ad esempio, ad alcuni aggettivi che spesso
qualificano l’architettura: aperta, chiusa, narrativa, assertiva, pesante,
leggera, e così via.
Della pesantezza ho già accennato parlando della villa-bunker. Sul
suo contrario, la ‘leggerezza’, mi voglio soffermare brevemente perché questo attributo segna e distingue in maniera determinante la ricerca moderna e contemporanea in architettura. ‘La nuova architettura, anziché monumentale, è leggera e trasparente, mutevole’ proclamava Teo van Doesburg già nel 1925. E Giedion nel 1929 scriveva:
‘Bella è una casa che poggi con leggerezza e possa adattarsi a tutte
le condizioni del terreno’.
La (piramide rovesciata come) metafora della leggerezza
‘…abbiamo esperienza del peso delle cose…’, scrive Calvino.
A noi appare leggero con immediatezza ciò che si libra nell’aria. Ciò
che si protende verso il cielo acquista leggerezza, come ciò che nel
cielo si muove veloce alla maniera dell’uccello o dell’aeroplano, pesantissimo quando arranca a terra.
Ciò che sta in cielo appare leggero a chi è destinato a muoversi sul
terreno, ad erigersi con fatica dal terreno, e sul terreno costruisce la
sua dimora. La leggerezza non sembrerebbe dunque un attributo dell’architettura; eppure in architettura l’attributo della leggerezza è riconducibile a vari aspetti. L’aspetto più ovvio riguarda il rapporto con il peso, cioè con la forza di gravità. Corollario della gravità è l’equilibrio
statico. L’idea che noi abbiamo in merito alla gravità deriva da svaria-
te esperienze, anche molto diverse tra loro. Per quanto riguarda
l’azione di erigere manufatti, l’esperienza più semplice consiste nel
gioco infantile di far scorrere la sabbia tra le dita della mano per vedere come essa si dispone sul suolo, quale equilibrio raggiunge.
Come tutti sappiamo, la sabbia cadendo forma un cono. Benché
questa figura geometrica sia semplice, in natura la si incontra raramente. Anche in architettura, come in natura, il cono è poco presente; tra i rari progetti ispirati a questa forma sono memorabili i cenotafi
di Boullée.
Simile al cono, ma molto più utilizzata in architettura è la piramide.
Il cono non ha orientamento sul piano orizzontale, a differenza della
piramide che su questo requisito gioca gran parte dei suoi valori simbolici, esoterici e ambientali. La piramide egizia polarizza lo spazio
anisotropo del deserto, ne assorbe le sotterranee forze e le proietta
verso una particolare regione del cielo.
La piramide di pietra ‘a gradoni’ di Gioser a Saqqara, costruita dall’architetto Imhotep durante la III dinastia faraonica, è la più antica tra
le tante; essa ha un minor grado di astrattezza della piramide semplice - cioè senza gradoni - e nel contempo suggerisce un maggior senso di pesantezza, di stratificazione, di crescita dal basso, di costruzione artificiale. Questo ci porta ad affermare che l’astrattezza, intesa come semplicità della configurazione, conferisce leggerezza.
Per le sue caratteristiche geometriche e per alcune elementari conoscenze pratiche, percepiamo la piramide come il prodotto artificiale più equilibrato, quello che meglio simboleggia gli effetti della gravità, forza che regola minuziosamente la nostra vita sul pianeta; perciò
il suo rovesciamento si configura come un gesto simbolico di grande
rilevanza, un gesto di liberazione da un’ancestrale schiavitù.
Il rovesciamento produce interessanti effetti di natura psicologica e
percettiva: l’immagine di una piramide rovesciata, appoggiata al suolo per il vertice, contrasta con le nostre idee di peso ed equilibrio statico, crea uno stato di disagio. La piramide rovesciata è, insomma,
una figura ansiogena. Può sembrare, questa, un’affermazione gratuita; viceversa ha un ben preciso fondamento, che argomento con
un’analogia.
Carl Jung considera lo spazio e il tempo come ‘concetti di natura psichica ... sviluppati nel corso dell’evoluzione culturale in archetipi inconsci per la descrizione del mondo fisico’. Come dirà Konrad Lorenz, per
il singolo individuo essi rappresentano degli ‘a-priori’ trascendentali.
Orbene, anche il peso e l’equilibrio dei corpi sono a-priori trascendentali che assieme ad altre entità - tra le quali appunto lo spazio e il
tempo - radicano saldamente l’umanità al mondo fisico e ne consentono la comprensione.
Questo è il motivo per il quale ogni negazione del peso, ogni vistosa alterazione delle condizioni di equilibrio genera nell’osservatore
quello stato di disagio psichico al quale facevo riferimento poc’anzi;
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disagio che egli supera dandosi una qualche spiegazione. Per la piramide rovesciata la prima e più naturale spiegazione è la perdita del
peso, cioè una acquisita leggerezza. Così la piramide rovesciata diventa il simbolo stesso della leggerezza, del riscatto dalla gravità. Nella piramide la metafora si è incarnata. Non altrettanto accadrebbe con
il cubo o la sfera.
La gravità induce continue coercizioni al nostro desiderio di libertà
dai vincoli fisici; eludere la gravità è dunque un’ambizione. Essa accomuna molte architetture che la realizzano in svariate maniere, la più
elementare delle quali consiste proprio nel rovesciare la piramide o,
più realisticamente, consiste in ogni azione concreta che si apparenti, seppur metaforicamente, a tale rovesciamento, come accade quando s’inverte la distribuzione delle masse ed esse sembrano rarefarsi
procedendo dall’alto verso il basso. Il Palazzo Ducale di Venezia o la
villa Savoye a Poissy sono esempi noti di questo fenomeno: è proprio
la progressiva sottrazione di massa verso il basso a determinare il
senso di leggerezza e levitazione che tali edifici suggeriscono.
La metafora e la città
Per onorare il tema del Seminario, concludo questa divagazione
sulla metafora discutendo alcuni esempi storici di metafore riferite alla città, ad iniziare dalla albertiana metafora della città-corpo.
In questa metafora di ispirazione biologica il riferimento alla circolazione nei vasi sanguigni, al cuore pulsante, ai polmoni ossigenanti, ai
diversi tessuti e alle loro funzioni diverse, al sistema nervoso che regola il comportamento dell’insieme e così via, è evidente ed ha una
forza immaginativa che ha scavalcato mezzo millennio e tuttora è vitale, seppure l’iniziale organicità sia ormai affetta da esiziali patologie,
come collassi, alterazioni genetiche, tumori. Insomma: passano i secoli e non riusciamo a liberarci della città-corpo benché il cuore sia aggredito, le arterie congeste, i verdi polmoni asfittici. L’uomo comune
legge ancora la città sulla base della sua fisiologia.
Dall’esempio si deduce come una metafora abbia fortuna in forza
del sistema di luoghi comuni appartenenti ad una collettività; ciò significa che per funzionare la metafora deve incorporare un insieme di informazioni condivise, una competenza sedimentata, retroattiva.
Ancor più suggestiva e dirompente è stata la metafora della cittàforesta di Laugier. A chi conosce un poco di storia urbana, essa fa capire come, per il tramite di un effetto filtro, la metafora sopprima alcuni particolari e ne accentui altri che vengono evidenziati, scoperti. Nel
caso della città-foresta, l’intrico dei corpi, la molteplicità delle loro nature, l’odore acre del sottobosco, la penombra, la resistenza all’avanzamento; d’onde la necessità di aprire varchi, accelerare gli spostamenti, illuminare le parti, dare ordine, fare pulizia, come si deve fare
in una città degradata e superata dai tempi.
Gli studiosi di scienze cognitive affermano che nella evoluzione
scientifica il processo di tipo metaforico interviene nei momenti di crisi dei paradigmi accettati. è probabile che si possa dire qualcosa del
genere anche per quanto riguarda l’architettura: la metafora della città-foresta, infatti, nasce quando la situazione di Parigi diventa invivibile, quando la città d’ancien regime collassa di fronte agli effetti della prima industrializzazione e si impongono drastiche misure di razionalizzazione. Parigi è un’immensa foresta da incidere e tagliare per ridurla al modello che ispira Laugier: il grande e ordinato giardino suburbano dei paesaggisti suoi contemporanei, Le Von, Le Brun, Le Notre; una dimensione che cattura l’orizzonte e sarà propria della città
moderna. La metafora di Laugier è sopravvissuta per oltre due secoli tant’è che la troviamo ancora dietro le idee di Hausmann a Parigi e
di Mussolini a Roma.
Altre due metafore sono memorabili perché hanno accompagnato
e sostenuto l’avvento del Moderno. Mi riferisco alla metafora della città-giardino e a quella della città-macchina, tanto studiate e note da
non richiedere commenti.
Orbene, dopo la metafora biologica della città-corpo, quella naturalistica della città-foresta, quella paesaggistica della città-giardino, quella
funzionalista della città-macchina, nessun’altra sembra essersi consolidata. ‘... l’importanza della metafora è che sia sentita…come metafora ...’, scrive Borges: di un siffatto comune sentire oggi non c’è traccia.
A questo proposito riprendo alcune considerazioni già accennate
nei precedenti Seminari di Camerino.
La metafora urbana oggi
Le varie linee di ricerca sulla città complessa, diffusa, multietnica,
del terziario, del conflitto, dello scarto, dei non-luoghi, ecc. che ben
conosciamo, si muovono nell’ambito di aggettivazioni che non possiedono né l’identità, né la sinteticità allusiva, né la carica dirompente,
suggestiva e propulsiva della metafora. Non possiedono, soprattutto,
i caratteri cognitivi che prima ho descritto. Per lo meno, riferibili al progetto, al fare architettura.
Non sarà forse l’origine extradisciplinare di quelle aggettivazioni a
renderle poco praticabili? Un fatto è certo: le metafore costruite sul corpo, la foresta, il giardino, la macchina nascono dal pensiero di grandi
architetti o teorici dell’architettura e dell’urbanistica, non certo da letterati, sociologi, economisti, politici, le cui riflessioni, mi sembra di poter
dire, danno carne all’architettura in forma sempre molto indiretta e dilazionata, solo attraverso nostre faticose rielaborazioni disciplinari.
Insomma, l’universo della ‘metafora’ urbana in questo momento
sembra vuoto. Forse si tratta di aspettare chi sarà in grado di proporre nuove grandi sintesi. Nel frattempo conviene assumere un approccio pragmatico e rifuggire dai millenarismi o dai pittoreschi impressionismi che, di tanto in tanto, tornano di moda quando si tenta di tratteggiare nuovi paesaggi urbani.
Umberto Cao
Costruire la città senz’arte
Camillo Sitte con il suo celebre L’Arte di costruire la città, scritto alla fine dell’Ottocento, aveva avuto fortuna in tempi diversi e lontani: un
libro eversivo allora perché aveva messo in discussione ogni forma di
accademismo e trionfalismo urbano; un libro funzionale alla apertura
del dibattito sulla città moderna nel primo Novecento, perché tornava
al primato del cittadino e della ‘polis’; un libro ben accetto anche alla
cultura urbanistica del secondo dopoguerra attenta alla città reale,
quindi popolare e democratica (anche Kevin Lynch, secondo Manfredo Tafuri, si rifaceva alla ‘volontà collettiva di forma’ di Camillo Sitte);
un libro infine che negli anni Settanta e Ottanta divenne manifesto
della città antindustriale e della figuratività postmodernista.
Ma oggi tutto questo è perduto. Sitte diceva che ‘una città deve offrire agli abitanti sicurezza e, insieme, felicità’. Sarebbe sin troppo facile mettere in evidenza l’opposto: la città oggi è sinonimo di ‘insicurezza e dolore’. Certamente lo era stato già prima, a cominciare dagli
esodi verso le metropoli industriali, con gli scontri sociali della prima
parte del secolo, con i successivi conflitti delle minoranze giovanili o
di colore. Ma era ‘problema sociale’, inquadrabile in una prospettiva
ideologica di scontro politico e di rivolta, che non intaccava l’aspetto
fisico delle città storiche, né delle metropoli moderne. Oggi le città risentono ‘fisicamente’ di questo malessere.
Eppure si continua a lavorare per rendere le città ‘artisticamente
belle’. Solo che ci si affida non agli architetti-amministratori saggi e illuminati, ma agli ‘architetti-artisti-grandifirme’. La ‘bella città contemporanea’ è fatta di gemme solo apparentemente preziose, una sorta
di bigiotteria architettonica fuori misura, una esibizione di splendori
senza valore, pensata per stupire e talvolta per spaventare, tanto aggressiva quanto innocua.
Ma se architettura e città sono opere d’arte, e se le arti in genere,
dalla pittura alla letteratura ed al cinema, non sono né consolatorie,
né rassicuranti, perché l’architettura della città dovrebbe esprimere
certezze ed equilibri? Da una parte c’è chi continua a progettare città
perfette, dall’altra chi descrive la metropoli sempre più drammatica.
Non sarebbe meglio fare direttamente i conti con la realtà?
Per parlare delle città ‘senz’arte’ - allora - guardiamo ad un fenomeno come quello del Grande Raccordo anulare di Roma, contraddittorio risultato di una città legale al di fuori del progetto urbanistico.
Oggi Roma ha una ‘Stadtkrone’ imprevista e trascurata, la Città del
GRA, che prende corpo all’interno degli spazi vuoti che si creano tra
legalità e illegalità, e che non rientra nelle categorie della cultura urbana contemporanea: né città storica, né compatta, né verticale, né
orizzontale o diffusa. In un certo modo possiede requisiti dell’una o
dell’altra, ma appartiene ad una condizione specifica e ad una storia
recente.
La Roma del GRA è una città dalla duplice valenza. Percepita percorrendo il Raccordo è pura immagine. Il punto di osservazione è una
veloce traiettoria di attraversamento che mostra una città bidimensionale, senza profondità: il paesaggio è allineato linearmente. Visioni dinamiche e progressive servono a leggere costruzioni apparentemente ordinate e congruenti: grandi dimensioni e grandi altezze alternate
a vuoti e colline; sistemi residenziali compatti circondati dalla campagna; centri commerciali segnalati da iscrizioni e pubblicità; fabbriche,
uffici e alberghi rivestiti da pannelli riflettenti o marmi pregiati. Il tutto
ha una suggestione confrontabile con quella che si ha guardando una
costa lontana dal mare prima di entrare in un porto, quando tutto è appiattito e sfumato, tra case, fabbriche e colline.
Ma lasciando l’autostrada ed entrando nelle ramificazioni stradali
che l’accompagnano, si scopre che questa città nuova non esiste come tale, ma è la sommatoria di enclave distinte. Perché l’anello del
Raccordo aggrega e collega, solo apparentemente, cose autonome e
diverse. Le enclave sono distribuite in successione attraverso svincoli e cul-de-sac, ogni ambito appare separato dagli altri e governato da
leggi proprie; si configura cresce e si trasforma per suo conto. La striscia di asfalto larga quasi 40 metri, sino a 100 metri con le aree di per-
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tinenza, ne costituisce l’unico elemento di relazione; solo visiva però.
Non ci sono collegamenti veicolari diretti. Passare pedonalmente da
un’enclave all’altra significa oltrepassare campagne fangose, dislivelli e fossi, se non strade consolari o linee ferroviarie. Attraversare il
GRA è impossibile. Negli anni Sessanta i palazzinari romani costruivano prima le case poi, pezzo per pezzo, le strade di collegamento;
oggi la stessa logica costruttiva viene applicata dai grandi imprenditori del terziario: frettolose convenzioni o complesse operazioni di pro-
ject financing consentono ai giganteschi contenitori dell’ingrosso e del
consumo di depositarsi su aree immense, prima ancora che siano
realizzate le infrastrutture e le strade di servizio.
Eppure tutto è lì perché c’è il Raccordo. Un’autostrada che è al tempo stesso anello di scorrimento e legge insediativa. L’unica legge, perché questa è una città legale, ma spontanea. Nata come margine di
una Roma che non doveva crescere oltre, diventa il simulacro di una
metropoli.
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La città sull’autostrada nel XXI secolo:
lo sprawl secondo il ‘pixel-architekt’ Thomas Mann
La città sull’autostrada nel XX secolo:
il GRA a Roma
Enrico Corti
Progetto e immaginazione sociale
Architettura e Arte hanno, entrambe, a che fare con il termine progetto;1 entrambe sono sostenute da una intenzionalità proiettiva che
manipola la ‘rappresentazione’ del reale, ed è proprio per sottolineare questa particolare relazione con la realtà che facciamo intervenire
il termine ‘immaginazione’. Abbiamo sufficienti ragioni, oggi, per interrogarci sulle nostre facoltà immaginative, in un momento in cui nel nostro universo di artefatti architettonici, sono comparse, con crescente
frequenza, strane apparizioni, che hanno scosso le nostre abitudini e
le nostre attese percettive; quasi un’altra fauna lontana da ogni riferimento stabile, certo, consolidato rispetto a ciò che abbiamo chiamato
architettura o sperimentato come città.2
Mi riferisco a diverse e ormai numerose esperienze accomunate
dall’utilizzazione di tecnologie digitali, che si propongono come ‘avanzamento’ logico-concettuale del progetto sostenuto dal ‘pensare digitale’ sviluppate nei laboratori dell’ipermodernità, e diffuse dalle pervasive reti della comunicazione di massa.3 Così si incominciano a vedere gli effetti che derivano dall’utilizzo inconsapevole di queste nuove
raffigurazioni alle quali si attinge come fossero prodotti di cosmesi,
grandi barattoli di cipria, contenitori di rosee e profumate illusioni con
le quali si tenta di imbellettare il consunto volto della vecchia architettura e della città.
Troppe immagini, poca immaginazione?
La mia convinzione è che difficilmente potremo assumere qualche
criterio di confronto con queste e con le altre esperienze di produzione formale della contemporaneità, se restiamo al livello dell’immagine
e non riconsideriamo l’immaginazione e il suo significato sociale.4
Per tutta la seconda metà del Novecento (il secondo lungo dopoguerra) la riflessione sugli aspetti immaginativi del progetto è rimasta
sullo sfondo. Le traumatiche esperienze della prima metà del secolo,
impedivano alla seconda di sollevare il velo, di liberare nuovamente il
pensiero immaginativo che è stato esorcizzato tramite scoppi appa-
rentemente rivoluzionari (l’immaginazione al potere con tutte le possibili radicalizzazioni dell’utopia) o irretito nel paludamento ideologico
dell’impegno politico dell’intellettualità.5
Alle prese con gli sbandamenti più recenti, credo si debba insistere nuovamente sulla funzione del progetto nella costruzione dell’immaginazione sociale e, reciprocamente, sull’importanza dell’immaginazione sociale nella costruzione del progetto.
Il progetto interpreta e decodifica la realtà sociale attraverso le rappresentazioni simboliche, le rielabora, le consolida e le trasforma:
opera costantemente sul limite, fra congruenza e incongruenza, fra
utopia e ideologia, dove si colloca la frontiera della libertà e dove si
gioca la battaglia più importante.
E dunque, da un lato concordo con Marco Romano che invita a non
essere incolti, superficiali o stupidi nel manovrare la grande eredità
simbolica delle immaginazioni collettive che hanno reso possibile la
città e l’architettura. I margini di invenzione, ha detto Marco, sono modesti. Io non concordo sulla loro ‘modestia’; sono molto complicati ma
importanti: il progetto ha sempre il compito di esplorare l’incongruenza possibile, non per il gusto dell’invenzione, ma perché è l’unica verifica delle nostre rappresentazioni, sempre in bilico fra la stanca ripetizione (ideologica) o la fuga immaginifica nell’altrove.
Ha parlato, Marco Romano, di un deposito, di un magazzino dove
stanno i tematismi collettivi, i simboli dotati di senso che si sono esplicitati in forme spaziali e temporali della città, ai quali possiamo ancorarci.
Ma c’è anche uno scantinato, come ci racconta Calvino per la città
di Teodora; questa città aveva combattuto in tutti i modi possibili per
eliminare ‘l’altra fauna’, tutti gli insetti pericolosi, innocui o fantasiosi,
contro i quali pensò di aver vinto la sua battaglia, isolandoli negli
scantinati; fino al giorno in cui gli ircocervi, le arpie, gli unicorni, i basilischi e via dicendo si rimpossessarono nuovamente della città.
Se abbiamo l’impressione che l’altra fauna ci stia invadendo allora
dobbiamo imputarne le ragioni alla stanchezza immaginativa che ha
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caratterizzato la cultura europea forse più che le altre culture con le
quali la globalizzazione ci fa confrontare. Quello che sembra certo è
che la ricerca architettonica (e più ancora quella urbana) ha fatto, per
troppo tempo, a meno dell’arte e di una rielaborazione simbolica e
dunque di immaginazione. è l’arte che frequenta più gli scantinati che
gli archivi e i magazzini; è l’arte che addomestica l’ircocervo, le arpie
e gli unicorni, rendendoci domestiche e comprensibili anche le nostre
rimozioni, dando corpo alle nostre recondite aspirazioni di libertà.
Questo orizzonte immaginativo era ben presente in Louis Kahn:
amo iniziare, diceva, perché è all’inizio del progetto che ci sono le vere domande, del perché e del che cosa è. Molti progetti di oggi non mi
sembra che inizino, ma assurdamente si complicano in sempre più
raffinate elaborazioni di figure, quasi che l’obiettivo fosse la libertà dell’immagine e non quella, assai più significativa, dell’immaginazione;
presente in Aldo Rossi, la cui opera, teorica e pratica, è tutta una profonda riflessione sull’immaginazione. Se devo parlare dell’architettura
oggi, della mia o di quella di altri, ritengo sia importante illuminare i fili che riconducono la fantasia alla realtà e l’una e l’altra alla libertà ...
E io credo alla capacità dell’immaginazione come cosa concreta, concetti che esprime, in forma metaforica, con la città analoga. è a commento di questa tavola che specifica, infatti, il suo ammonimento: immaginazione nel reale, non immaginazione del reale.
Questo è il vero discrimine: alle volte si pensa di poter acquistare
maggiore libertà immaginativa rifiutando il fardello che la realtà sociale e la cultura ci impongono; e allora si cade vittime di astratte utopie
o di pretese ideologiche o di altri padroni; il vero problema è star dentro, dentro la realtà sociale, dentro la cultura, dentro l’architettura,
dentro la città, esplorando in questa internità tutte le possibili libertà.
E in questa battaglia arte e architettura non solo sono alleate, ma
comprovano e rafforzano la loro radice comune.
1. Mestieri progettanti sono stati definiti da Pippo Corra nel suo intervento al Seminario
(Arte Architettura, Camerino 2005).
2. La critica che in questa sede ha svolto Marco Romano sulle proposte presentate al
concorso per la Fiera di Milano non lascia dubbi sul fatto che è stato completamente
espunto il riferimento ai modi canonici di interpretare la città e, nella fattispecie, ai tematismi collettivi che hanno fondato la città europea.
3. Ci si può riferire al catalogo della prima biennale di architettura di Pechino 2004; o ad
altri cataloghi come quello della mostra di Graz Latents Utopias o quello del Centro
Pompidou Architetture no-standards, per citare i più noti.
4. Aveva iniziato negli anni ’30 del secolo scorso Karl Mannheim a interrogarsi sui meccanismi (sociologici) che presiedono al costituirsi di quelle grandi immaginazioni collettive che sono le ideologie e le utopie. Karl Mannheim, nel riflettere per la prima volta in
modo sistematico su queste faccende, considerava due fondamentali patologie del
pensiero immaginativo, identificate con l’Utopia e l’Ideologia, nelle quali riconosceva i
frutti malati delle culture europee dei primi anni ’30. Entrambe sono figure di non congruenza con la realtà sociale; la prima perché non ritiene possibile strutturare significati se non immaginando l’altro e l’altrove; la seconda perché non opera nella realtà
sociale, ma perché ad essa sovrappone una propria visione convenientemente deformata.
5. Per altro incapace - come argomentava polemicamente Tafuri - di una autentica posizione nei confronti della realtà sociale.
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SoftOfficeUK, Nox, 2000
(Un)Plug Building, Francois Roche e Stephanie Lavaux, 2001
Excideuil Folie, dECOi Architects, 2001
Maison Dom-In(f)o, DR_D LAB, 2002-2003
Brunetto De Batté
Modi di vedere
Vangelo secondo Germano
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Non si può entrare nelle critiche della mostra, organizzata secondo
Germano Celant e realizzata insieme a Gae Aulenti e Pierluigi Cerri,
... è come sparare sulla crocerossa, e poi secondo il vangelo di Germano c’è tutto, esattamente come ci potevamo aspettare, il rapporto
tra Arti & Architettura è in parte terreno suo. Così viene catturata l’attenzione del mondo in questa grande iniziativa per Ge nova 04 città
europea della cultura.
Ovviamente partendo da un punto fermo: gli anni ’60 e l’arte povera e da lì verso diversi punti cardinali e tematiche tra ieri e oggi.
La rassegna raccoglie differenti percorsi ed esplorazioni.
Una stagione di intensa trasformazione che attraversa le utopie disegnate dei primi del secolo, le distopie dell’architettura radicale, le
tecnotopie, le esperienze sfaccettate della Bauhaus, la fotografia come lettura della realtà, frammenti di film.
La mostra Arti & Architettura, curata da Celant, ci accompagna verso la conclusione del viaggio che Genova ha intrapreso lungo il 2004,
dedicato alla cultura europea. Il ‘ritorno’ alla contemporaneità che
questa grande mostra rappresenta è un’apertura verso un nuovo
cammino, più che il punto d’arrivo di un percorso.
Infatti tratta di percorsi e attraversamenti, una disseminazione di
eventi lungo un’asse che attraversa la città ed il fronte mare, installazioni e oltre a bill boards anche arredi urbani, pensiline e chioschi.
Tra le installazioni allestite in strada, piazze, chiostri di nobili palazzi, nei cortili del Palazzo Ducale e la ‘mostra storica’ allestita al suo interno, troviamo una impressionante quantità di autori e ricchezza di
opere presentate.
Ma quello che interessa sottolineare è questo terreno di confine,
territorio neutro degli scambi disciplinari che nel secolo precedente
sempre più in crescendo, quasi in modo esponenziale, ha dilatato le
dimensioni.
Il terreno della quotidianità, dell’urbano ospita e diventa set (fotografico, cinematrgrafico, teatrale, performance ...), luogo dove si rin-
novano le discipline, si verificano sul campo della contaminazione in
una messa a punto degli strumenti, delle affinità, delle strategie e degli obiettivi.
Siamo di fronte al meglio del meglio per stare dalla parte della città
e di Celant, in fondo la filosofia è provocare l’effetto Bilbao (come preannunciato in una prima mostra preparatoria nel settembre del 2003),
ma questo è per non addetti, o più vicini all’arte, ma noi sappiamo che
l’architettura è servita anche per meravigliare, per essere spettacolo
nello spettacolo oltre Debord.
La nuova strategia supermoderna (molto vicino al progetto di design) gioca sul paradosso, lo spiazzamento, l’estraneità e queste soglie di ibridazione introducono nuovi significati alla città e nuovi percorsi intuitivi progettati molto vicino alle arti dove la funzione è sempre più secondaria all’involucro.
Questo è anche il senso della mostra (vicino allo spirito genovese
dell’accumulare) e raccoglie il percorso e le varie tangenze al tema,
Genova infatti diventa come lo è sempre stata il punto di snodo per discorsi innovativi (i mille, il socialismo, arte povera, post modern, marcatré ...)
La straordinaria invenzione di Celant è di aver progettato una festa
neo-barocca, prodotto una macchina per fuochi artificiali a ripetizione
dentro e fuori i palazzi, una festa che vuole scuotere, un modo per attirare a sé curiosità, l’attenzione dell’Europa e non solo. Il Sindaco Pericu scrive: Una visione del mondo che ha prodotto - in una stagione
di intensa trasformazione e ‘modernizzazione’ della città e del suo
ruolo nel mondo - il grande teatro delle strade ‘nuove’ e delle magnifiche dimore che ora si recuperano al pubblico. Uno spettacolo per
molto tempo non godibile perché rivolto al proprio interno.
Genova vuole capovolgere questa tradizionale e splendida introversione, aprirsi, mettersi in mostra, mettersi in discussione. Ecco allora
che il ‘museo’ scende nelle strade e nelle piazze con una serie di opere contemporanee che cercano un dialogo non scontato con le imma-
gini, gli spazi, i significati che abbiamo ereditato dalla nostra storia.
Penso che la discussione non mancherà. Il ‘nuovo’ che modifica,
anche con gesti vistosi, il nostro panorama abituale non può lasciarci
indifferenti. E noi non vogliamo essere indifferenti all’esigenza di ripensare il futuro sintonizzandoci sulla lunghezza d’onda dei maggiori
artisti e progettisti contemporanei, riflettendo sul nesso tra cultura, sviluppo e mutamento urbano.
Certo riappropriandoci della ricchezza della nostra storia, coscienti
che Genova ha saputo essere nel corso dei secoli un laboratorio di invenzioni e non solo, più di recente, durante la stagione dell’industrializzazione del primo Novecento, ma anche negli anni a noi più prossimi, quando ha provato a riflettere sulle sue possibili nuove vocazioni.
Un compito e una sfida che considero di nuovo attuali come nei momenti delle grandi svolte.
Unico rammarico è che Genova poi alla fine viene sempre vista come la Genova Antica che esclude il novecento ... ma come altre città
è una città moderna fatta di periferie, di insediamenti considerevoli extraurbani come Prà-Voltri di Gardella e Zanuso, Pegli di Rizzo, Quezzi e Sturla di Daneri ...), periferie che hanno certo bisogno di rinnovo,
di azioni ed operazioni di contaminazione ... in fondo l’effetto Bilbao si
può esercitare, visto che ha funzionato anche sui margini urbani.
Questo forse valeva la sperimentazione, visto che il senso di contributi di scambio è da riferire all’happening, all’installazione, all’effimero, all’istant city ... strumenti che portano alla valutazione di possibili interventi successivi di progetto e che possono divenire momenti
di partecipazione, radunando paesaggi di paesaggi nello spirito del
tempo.
Quello che emerge è che Genova è una città per narrare. è ovvio
che ciò che è esposto è secondo il vangelo del critico d’arte Celant ...
Ma poteva essere interessante sapere come un Acconci, un Branzi, un Cook o Mendini ... tanto per far alcuni nomi ... potevano organizzare proposte, progetti, installazioni su parti di città periferiche o in
spazi urbani critici, opere/progetto che potevano suggerire o verifica-
re frammenti o come la sopraelevata poteva diventare un parco come
si tenta a New York o in altre periferie ... anche se ‘l’invasione’ di 50
cartelloni d’arte di 6x3 m più i pannelli alle fermate d’autobus ha determinato l’estensione e la comunicazione della mostra alla città.
L’idea è un’amplificata maniera d’intendere arte & città remember di
Voltera ’73.
Le installazioni esterne sono una provocazione superata, basta
ascoltare come specchio segreto i commenti più fini ed ironici dell'opera stessa, passi Mendini e Rossi e Hollain, ma per il resto sono
installazioni gratuite, delusione da Pesce e Gehry, ma anche le collocazioni sono discutibili ... da un punto di vista del rapporto con l' ambiente.
Forse, ribadisco, se installate in parti di città con problemi, l'operazione finalizzava anche lo scopo di provare con l'arte e l'installazione
possibili correzioni o simulazioni di mutamento.
Poi, ho notato grandi assenze, da Barragan o Goeritz a De Carlo.
Ugo La Pietra, Strum ... ma questo diventa un gioco per tutti i visitatori di registrare le assenze, che prosegue nei bar con liste allungate
sui tovaglioli ...
Personalmente avrei preferito una lettura ancor più critica basata
su possibili categorie e strategie d'intervento nelle tematiche dell'urbano anziché una mostra di firme.
La mostra (di grandissimo rilievo internazionale), più che arte & architettura è arte e architettura. Personalmente avrei preferito una lettura ancor più critica basata su possibili categorie e strategie d’intervento nelle tematiche dell’urbano anziché una mostra di firme. Arti &
architettura è un gran tema di attualità toccato in alcuni numeri di Lotus, ma credo che una vera immersione nel tema ne valga la pena
n
n
Si potrà correggere il tema con vere immersioni operative?
Potranno rientrare nei prossimi programmi culturali effetti di laboratorio in parti di città dove le operazioni artisitche diventano vero
strumento progettuale?
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Vedute di Genova
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Ge-nova 2004
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Raffaele Mennella
Città di altre città
Ovvero cose di altre cose ...
Il tema arte-architettura o il suo simmetrico, sicuramente sempre
presente nelle intenzioni del fare con più o meno vigore e asserzione,
ha visto nelle attività genovesi del 2004, in particolare nella mostra di
Palazzo Ducale e qualche installazione posta nei ‘dintorni’ (la seconda corte dello stesso Palazzo Ducale, Fontane Marose, De Ferrari,
Caricamento, Piazza Matteotti, S. Lorenzo ecc ...), una sorta di occasione per ricordare e puntualizzare.
La mostra divisa espositivamente, quindi fisicamente, in un ‘sopra’
(le sale del Palazzo) ed in un ‘sotto’ (i suoi recuperati scantinati) ha ripercorso il secolo da poco trascorso nel tentativo di rappresentare le
differenze tra il passato, il passato prossimo ed anche ‘il quasi oggi’.
Con queste differenze si sono evidenziate le mutate attese ed i percorsi propagandati e realizzati in quasi settanta anni. Anni di storia
che ci riguardano. In sostanza erano presenti i lasciti, le contraddizioni e quindi anche i giusti ed inevitabili superamenti.
Nel ‘sopra’ era presente una sorta di fase ‘eroica’, molto densa ed
affascinante per la presenza degli esordi avanguardistici, ma molto distante dal nostro presente, anche se la distanza storica, temporalmente, non è poi così abissale. Ma gli stupori dei giovani e le allegrezze da ‘rimpatriata’ dei più ‘maturi’ che si coglievano in visita, in qualche modo, mi è parso che segnassero incontri e ritrovamenti con
qualche dolcezza di troppo e comunque da racconto nostalgico.
Il ‘sotto’, inevitabilmente incompleto e francamente deludente nel
riassunto di questi ultimi trenta anni, era un racconto in itinere, quindi, un percorso non ‘compiuto’ e soggetto, fortunatamente, ad essere
osservato anche con qualche diffidenza.
Il dato significativo di questa seconda parte, mi è parso, sia stato
quello di mettere in evidenza percorsi ‘individuali’ piuttosto che ‘collettivi’ e/o comunque di gruppo riconoscibili.
Il problema naturalmente non era, superficialmente, di linguaggio,
perché ogni epoca ne ha uno proprio ancorché le cose che si raccontano, nello stesso tempo, non sono necessariamente analoghe e/o
necessariamente confrontabili o ascrivibili ad appartenenze per somma di singoli, ma di mutata condizione di ‘ruolo’ della comunicazione.
Anche l’architettura, al pari degli altri apparati di relazione e rappresentazione, infatti, è soggetta a tali mutamenti.
Ne deriva, per quanto mi riguarda, una sorta di ‘morale’: nei momenti ‘eroici’ l’architettura si manifesta prevalentemente come arte,
‘diventa arte’, si serve dei modi rappresentativi tipici della ‘propaganda’ artistica (saloni, mostre, manifesti, proclami, riviste di tendenza
ecc ...); estende la sua ragione, evidenzia la sua condizione ‘sufficiente’ oltre quella naturale che è sempre e comunque quella ‘necessaria’
del suo essere ragione costruttiva.
L’architettura si racconta come arte, quando sente che l’urgenza al
cambiamento è necessaria alla propria sopravvivenza, e per essa, all’interpretazione dei nuovi ‘contenuti’ che la società ‘reale’, di cui fa
parte anche per scelta politica, indica ed esprime, quanto meno, come esigenza. Ed esprime con forza ‘accelerata’ il bisogno di ‘nuovo’
anche con l’uso di ideologie e lo pone come questione urgente rispetto alle resistenze del passato-presente. In sostanza l’architettura, almeno dei primi settanta anni del secolo scorso, ‘esce’ come arte perché le altre arti sono da tempo presenti ed in prima fila a formare
l’ariete che sta abbattendo, con ‘il tempo perduto’, la stanchezza e
l’inadeguatezza dei sistemi e degli apparati di una società al tramonto. Il ‘Götterdämmerung’ in filosofia, in letteratura, in musica ecc. era
avvenuto da tempo, ma il ‘Biedermeier’ avversava tutto il ‘nuovo’. Avversava, esemplificando il tutto sul panorama austriaco ed in particolare, per esempio, nella Vienna pre-conflittuale, quella che sarebbe diventata la ‘Looshaus’, un’opera d’arte in un luogo d’arte, di una città…
d’arte, allora come oggi! … un edificio che può stare soltanto in una
città di milioni di abitanti secondo quanto lo stesso Loos dirà del suo
edificio nel 1914.
Ed ecco un punto che, rispetto all’arte dell’architettura di ‘ieri’ in
confronto all’oggi, mi pare decisivo. La messa in conto che l’agire ‘ar-
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tistico’ prevedeva la città come scenario e per essa il decoro della ‘casa’ dei cittadini, secondo il frasario del tempo. Questo fatto, però, rispetto alla città borghese anche ‘progressista’ era già morto negli anni venti. Ma proprio da quel momento la città diventa un’altra città, città di altre città. Città tra di loro anche ripetibili, uguali a misura di ‘necessità’. Le avanguardie ed i prossimi ‘maestri’ pensarono alla città
come ‘altra’ città ed il fare artistico come condizione intellettuale, come parte di un tutto rispetto al modo di vivere, come itinerario emancipativo. In questo il ‘Das neue Frankfurt’ di Ernst May dal 1926 al
1931 mise insieme architettura, artigianato (design), teatro, cinema,
pittura, moda ..., come racconto di uno stesso momento, come assunto, come programma, di una rottura degli schemi del sapere e del fare e del vivere la propria contemporaneità. Lo scontro politico sarà come sempre scontro di potere ma le rappresentazioni si apparterranno. Le arti furono oppositive quando opportunisticamente non optarono per il conformismo. La distinzione tra innovazione e tradizione avrà
bisogno anche dopo gli anni Trenta di appellarsi ai linguaggi dell’arte
e l’architettura non potrà certo sottrarsi a questo impegno. Al regime
delle colonne e degli architravi come ci si sarebbe potuti opporre se
non con l’ordine e l’autonomia disciplinare confortata dalla metafisica? E chi meglio della ricerca artistica poteva richiedere il privilegio di
esprimersi andando ‘oltre’ anche all’interno degli stessi apparati?
In ogni caso in gioco era di certo il consenso ma ancora una volta
l’idea di appartenenza andava ricercata per porre ‘gruppi’ contro
‘gruppi’. Talvolta minoranze contro maggioranze perché così si era più
evidenti ed in relazione con altre ‘minoranze’ significative: quelle internazionalmente, culturalmente, rilevanti. La voglia di porre l’idea di città nuova affianco e/o ‘sopra’ alla città trovata era dichiarata. La città
di milioni di abitanti era necessariamente una città che si doveva costruire secondo i presupposti di altre città e la metropoli che si affacciava e si immaginava in qualche misura non poteva che essere una
‘dismisura’ di un panorama le cui ‘matrici’ erano identificate con le città ‘alte’ degli Stati Uniti; New York e Chicago come prototipi. I risultati non potevano che essere dei riassunti, o punti emblematici per altri
trasposti.
In sostanza l’architettura con i suoi edifici a conforto si declinava
con l’arte per la ripresa e la riconferma della città come massima
espressione collettiva placata e resa condivisibile con l’esigenza diffusa d’arte. La città per tre milioni d’abitanti ha il suo centro direzionale di grattacieli perimetrati da un impianto bramantesco e l’iconografia
dominante allude ed attinge alla nuova arte cinematrografica.
Il suo contrappunto tedesco, confermando il suo impegno per la
nuova ‘Millionenstadt’, si appella all’architettura ed alla sua autonomia
proponendola algidamente metafisica, ed in qualche modo psicologicamente surreale. Nei primi cinquanta anni del secolo scorso il rapporto arte-architettura passava per la città, e la città, mi pare, ne co-
stituiva l’impegno. La città tuttavia del ‘futuro’, la città visionaria delle
utopie e delle idealità sia di ‘destra’ che di ‘sinistra’ era una città che
ricercava non solo nuove forme, ma nuovi significati, nuovi contenuti.
I ‘cittadini’, però, pur essendone la ragione erano ‘folle’, numeri ... automi come nelle rappresentazioni di Fritz Lang, mai individui se non
singoli, solitari protagonisti di racconti astratti ed allusivi.
Il ‘sopra’ del racconto espositivo porta una data emblematica: il ’68.
Qualche anno prima Mies Van der Rohe in un’intervista spiegava
che il termine ‘Baukunst’ in tedesco definisce con più precisione l’architettura a differenza del più generico termine ‘Architektur’. La parola composta da ‘Bau’ = costruzione e ‘Kunst’ = arte, ha in sé come la
sostanza, la ragione di un fare progettuale. Dal necessario, dall’utile,
dal pratico ... si arriva a forme elevate che colgono l’essenza dell’arte
pura. Ma è qui che si arresta la tensione di un’arte che sperava di essere soprattutto il segno di una emancipazione.
Il ‘secolo breve’ consegna il proprio testimone con la sepoltura delle città ‘tradizionali’, più o meno metropoli pienamente realizzate nei
territori, alla presa di coscienza del nuovo mondo delle megalopoli dei
paesi emergenti. Le città senza misura si figurano ancora una volta
come ‘altre’ città, ma la loro natura è data dalla somma delle cose.
Non solo non vi è nessun perimetro bramantesco che tenga insieme
le parti, ma ogni parte è una singolarità. Ed il particolare per il tutto è
una figura retorica di certo assente nei nuovi racconti.
Persa la carica eversiva e l’ironia per la dismisura delle città metropoli, dalla Pop Art in avanti, il mercato smette di essere in ‘convitato
di pietra’ come lo era stato sempre e da sempre e finisce per essere
l’essenza delle cose, il vero dichiarato protagonista, il ‘Don Giovanni’
della nuova rappresentazione. In questa situazione sembra più coerente che sia il design con i suoi oggetti dichiaratamente di consumo,
‘artistici’ e di breve durata, che siano le arti performative che ridisegnano tutto il possibile spazio a disposizione nell’illusione di assicurare per istanti allusioni a luoghi di relazione, ad essere i soggetti più
prossimi alle esigenze del ‘nuovo’ mercato, del ‘nuovo’ reale. L’architettura sembra nella sua ansia di protagonismo ‘artistico’ relegata a ripercorrere, solo, la strada dell’identificazione con i ‘monumenti’ per
assicurarsi un ruolo oltre l’immagine ed il suo consumo.
In una conversazione tra Jean Nouvel e Jean Baudrillard sul finire
del secolo (gennaio 1999) i due intellettuali ragionano sul desiderio di
onnipotenza dell’architettura:
J.N. è da moltissimo tempo che gli architetti si considerano degli
dei! Hanno una sola paura, che giustamente, venga tolto loro questo
sogno! L’architettura è soltanto arte della necessità. La maggior parte
delle volte, al di fuori della necessità o dell’uso, non c’è architettura,
ma scultura, commemorazione.
J.B. C’è uno strano piccolo museo, che tu sicuramente conosci, costruito da Kenzo Tange a Nizza. è adorabile. è una deliziosa piccola
costruzione collocata su un piano d’acqua, non lontano dall’aeroporto.
è stata edificata già tre o quattro anni fa ed è sempre rimasta vuota,
perché non ci sono mai stati i fondi necessari per trovarle un contenuto. Dunque, è il museo del vuoto ed è una meraviglia; è un gioiello ...1
Nel 1964 Martin Heidegger tenne una conversazione su ‘L’arte e lo
spazio’. Dalla trascrizione riprendo un passo: ... ammesso che l’arte è
il porre in opera la verità, il lasciar-essere-nell’opera la verità e che verità significa non ascosità dell’Essere, non ne consegue allora che
nell’opera d’arte figurativa è per l’appunto lo spazio vero ad assegnare la misura, quello che disvela il suo più proprio esser-proprio?2
Se questo fosse, ‘l’oggetto’ servirebbe a misurare lo spazio, a far riconoscere lo spazio come singolare, e non l’oggetto in quanto tale.
Ogni autoreferenzialità, dunque, sarebbe l’evidenza di una menzogna!
Tra le due considerazioni citate c’è un lasso di tempo di 35 anni.
Considerando queste distanze, il ‘secolo breve’ è stato lunghissimo!
1. Baudrillard J., Nouvel J., Architettura e nulla - Oggetti singolari . Electa, Milano 2003
2. Heidegger M., L’arte e lo spazio. Il Melangolo, Genova 1979
19
1929, Dziga Vertov, L’uomo con la macchina da presa
1911, Vienna in caricatura (La Looshaus nella Michaelerplatz. Il tranquillo
Fischer vov Erlach: peccato che non conoscessi questo stile, altrimentii non
avrei rovinato questa bella piazza con i miei ornamenti)
1933, El Lissitsky con Sophie Küppers, Devoto all’epoca dell’esplorazione di Cheluskin
20
1927, Walter Ruttman, Berlino,
Sinfonia della grande città
1931, Fritz Lang, Metropolis
1926, Marcel L’Herbier, Le Vertige
1929, Hugh Ferriss, Tecnology
1930, David Butler, Just Imagine
Fernando Miglietta
Abitacolo e la fabbrica estetica
Dall’arte dell’architettura e della città alla Città/Opera d’arte
Spazi del futuro/Città e nuovo millennio
Quando si parla di ‘altro spazio’ ci si riferisce ad uno spazio alternativo, ad uno spazio che non c’è, ad uno spazio invisibile, che immaginiamo, che è nei nostri desideri, ad uno spazio che vorremmo costruire; comunque ad uno spazio altro, un luogo in cui ritrovare identità e valori, percorsi e sentimenti della nostra storia, della nostra
esperienza sociale ed umana.
Uno spazio altro, confinante sempre più con lo spazio della lontananza, lo spazio dell’utopia, lo spazio dei nostri desideri.
Quanto volte abbiamo immaginato uno spazio diverso, in grado di
esprimere i nostri bisogni. Una città, una casa, degli oggetti in cui riconoscersi con il proprio destino. Viviamo, invece in città prive di immagine, di riferimenti simbolici, di architetture di qualità. Le città sono
sempre più anonime, alienanti, invivibili. L’arte è sempre quella del
passato, mai del presente; una storia che anticipa puntualmente un
futuro assente.
Le città d’arte sono sempre quelle storiche, la contemporaneità
sembra tutta da abolire, da rimuovere. Sempre e comunque, il Novecento pare non lasci traccia; i suoi segni appaiono deboli, non convincenti, a volte retorici, vere e proprio enunciazioni corali di regime.
Si impone ai nostri occhi la città del non senso, dello spiazzamento culturale ed esistenziale, la città da cui fuggire. La città dialettica,
democratica, la città dell’arte, diviene sempre più un’utopia. Non c’è
più spazio per la creatività. L’immaginazione appare ininfluente come
la stessa idea di città. Il mercato vince sulla cultura della città.
Eppure, si costruisce, si pianifica; le città si modificano continuamente, grandi aree vengono compromesse, snaturate, riconsegnate a
disegni faraonici, a investimenti e speculazioni lucrose. Nuove volontà pubbliche e private regolano e anticipano il destino delle città.
Mutazione e diversità sono state due costanti storiche nella formazione della città; la città moderna pare invece aver dimenticato proprio
questa caratteristica alimentando processi di edificazione elefantiaca
secondo i modelli di un linguaggio ripetitivo e ossessivo. Solo una città che nasce dall’arte può avere un futuro; la città del domani si costruisce con l’arte. Solo l’arte può costruire la città dei valori, la città
delle differenze, la città della creatività diffusa.
E di arte e di architettura di qualità dovranno nutrirsi le città del domani nel loro processo di riqualificazione urbana e ricostruzione territoriale, dai centri antichi alle periferie degradate. Dinanzi alla retorica
monumentale, alla insignificante riproposizione di stilemi del passato
e la affermazione negativa della babele di forme e linguaggi anonimi
ed insignificanti, è necessario nel nuovo millennio promuovere un progetto di contaminazione della qualità architettonica in cui riaffermare
accanto ad una nuova idea di città, forme altre, dissacratorie, eretiche, di nuova creatività.
è giunto il momento di ripensare le città come organismi viventi, in
armonia con la natura. Nei prossimi decenni la comunicazione in rete
trasformerà anche gli spazi urbani e l’esplosione migratoria creerà altre complessità e mutamenti epocali. Nuove forme di città disegneranno il nostro futuro.
Città Opera d’arte
La storia della città è storia dell’arte, ossia storia degli oggetti dal
valore artistico e simbolico. Oggetti che generano la forma e la struttura della città.
Attorno alle relazioni tra arte, città e oggetto ruota il futuro della
qualità dello spazio urbano; la sua attuale crisi è, appunto, la crisi dei
rapporti tra creatività, architettura e città. Un rapporto che nella storia
ha prodotto invece esempi di città d’arte e singolari architetture.
Lo spazio della città, così come per altri versi lo spazio della casa,
è dunque, spazio di oggetti relazionati, di pieni e di vuoti, che si distinguono per qualità, per ‘differenza dell’arte’, perché fanno riferimento a
regole d’arte.
Una differenza di valore che, come spesso è accaduto nella storia
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dell’umanità, può generare l’opera d’arte, in alcuni casi città d’arte.
Che cosa sarebbero, allora, città come Roma, Firenze, Parigi, senza le loro cattedrali, i loro monumenti, le storiche architetture, senza
quella ricchezza di piazze, fontane, sculture; senza, cioè, quegli oggetti d’arte che le identificano e le rendono riconoscibili?
Certamente città anonime, con un corpo ma senza anima, luoghi
effimeri, spazi dell’alienazione umana ed esistenziale come gran parte degli spazi urbani contemporanei: appunto non-città, non-luoghi,
sempre più periferie.
Ma non bastano gli oggetti a migliorare la città se non sono urbanisticamente organizzati; la bellezza della città è anche il suo disegno,
la sua forma, che a volte può anche non corrispondere alla qualità artistica dei suoi componenti.
è quindi, la qualità dei segni storici, il loro costituirsi e affermarsi
nell’impianto urbano che influenzano la progettazione del nuovo, lo
sviluppo delle città, il futuro stesso delle città.
Ma la città oggi è anche una ‘complessa macchina linguistica’ in cui
all’oggetto artistico si è contrapposta l’immagine pubblicitaria, ai luoghi di incontro la ‘piazza telematica’, alle relazioni di umanità di un
tempo un sistema di informazioni e di comunicazione multimediale.
Una grande comunità di forme e linguaggi aperta alla contemporaneità che rilancia con forza l’utopia di una città come un’immensa opera
d’arte proiettata a delineare l’idea di un futuro diverso, di un’alternativa possibile.
L’arte della città si impone, dunque, come arte nuova, l’arte delle arti, in un sistema della comunicazione che si alimenta nei laboratori
creativi della contaminazione e degli attraversamenti, e per questa
sua complessità capace, finalmente, di riconquistare l’alfabeto estetico di una nuova alleanza tra natura e artificio, tra città e ambiente
Una alleanza capace, forse, di restituire valore alla città e all’architettura come forma d’arte.
La fabbrica estetica. L’Arte dell’Architettura e della Città
La città è opera d’arte che appare e scompare, con noi, con il nostro sguardo, la memoria, la percezione del futuro.
La città è opera d’arte totale, collettiva, a cui tutti partecipiamo coin-
volti nel palcoscenico delle infinite illusioni e delle inquiete certezze.
La città è teatro della nostra vita, dei mutamenti e delle diversità del
mondo; spazio psichico di solitudini e affollamenti, di forme e linguaggi, di idee, sogni e utopie.
La città è forma complessa; la sua mutazione è il suo divenire, il
suo futuro la tutela della sua identità, della sua struttura fisica quale
valore emblematico di una cultura. Il pensiero umano genera la sua
forma, e le sue forme a volte agitano altri pensieri, altre forme.
Eppure, ogni città è rimando di altre città, di altri luoghi, di città che
si richiamano, si rincorrono, agitano forme e segni della nuova globalità urbana; si abitano, si parlano, quasi a costruire un mondo di città
in cui è bello tuffarsi per ritrovare le ragioni di un’idea urbana.
La città è rappresentazione, è movimento continuo, è continuità di
immagini, segni, oggetti che suscitano visioni, quasi costruiscono una
città di città.
La città è visione infinita, è nuovo orizzonte di idee, è spiazzamento prospettico, è creatività.
La città è Arte, è Architettura del mondo. Ecco, l’arte della città, l’arte di costruire la città, la sua bellezza, il suo fascino, la sua seduzione. La città è fabbrica estetica, costruzione di unità e differenze, spazialità di luoghi e non luoghi, attraversamenti e contaminazioni, interferenze e sovrapposizioni.
Ma ogni città è anche ogni altra città. è l’arte di costruire vuoti e pieni dell’identità collettiva.
La città oggi più che mai è complessità, di nuovi segni di ‘medialità
comunicative’, articolazione e complementarità di subidentità.
Ecco, allora, la città cinematografica, con la sua arte urbana, con
il suo potere di dissolvimento e compenetrazione, con la sua forza comunicativa e la sua capacità di reinventarsi e, tuttavia, in grado ancora, da un lato, di narrare luoghi, storie e emozioni, dall’altro, di rinnovare l’esperienza estetica tra arte, architettura e nuove forme della
spazialità metropolitana.
L’arte di costruire la città, lancia così, tra memoria e futuro, la sfida
progettuale di una nuova dimensione estetica che, nella complessità
di una condizione plurale, ritrova nuovi temi per ripensare i luoghi della alienazione contemporanea e disegnare il futuro.
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Abitacolo. La fabbrica estetica
Abitacolo. Città Opera d’Arte
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Fernando Miglietta, Laboratorio Città delle Arti, ‘Architetture e progetti di spazi pubblici - Nuovi paesaggi contemporanei nelle città italiane’
Gianfranco Neri
Arte Architettura Immagine
Lo spirito, quello non è un problema. Era lì, c’è sempre,
lo sappiamo. Ma - i corpi? I corpi sono il mistero.
Franco Cordelli
Quello che si è da poco concluso, è stato il secolo delle immagini.
L’ingresso delle masse sulla scena della storia ha trovato in esso il
luogo di elaborazione più straordinario mai realizzato prima, per ampiezza e complessità degli strumenti e delle tecnologie impiegate.
La rapidità dell’immagine e la sua compiutezza (il sintetico per antonomasia), il suo essere senza storia (senza tempo), la sua capacità di cogliere direttamente la sfera affettiva dei destinatari, la facile accessibilità ai suoi codici, la sua ‘eleganza mistica’, infine, hanno fatto
dell’immagine quello strumento formidabile attraverso cui milioni di individui hanno condiviso una comune, planetaria esperienza visiva.
In particolare nell’ultimo secolo, l’arte ha radicalmente modificato
l’immagine e ne è stata altrettanto profondamente trasformata. Alimentandosi l’una dell’altra, arte e immagine hanno costituito una trama sempre più inestricabile, una mutua dipendenza, una reciproca legittimazione tale da non potersi immaginare l’esistenza dell’una senza l’altra.
L’immagine, entità fondamentale di mediazione tra visione e pensiero, tra realtà e rappresentazione, realizza proprio nella congiunzione tra queste polarità, una divaricazione, uno spazio insicuro - collocato al limite tra il visibile e lo spirituale - che apre all’universo immaginativo.
In tal senso, anche la Forma Moderna ha condiviso appieno questa
dinamica, essendo essa ancora elemento di transito verso lo spirituale. Una complessa elaborazione in cui il purismo, la funzionalizzazione e l’astrazione geometrica imprimeva un’inedita ulteriore accelerazione verso ciò che poteva spingerla a ricercare ciò che si nascondeva al di là di essa.
è noto il contributo fondamentale dato dall’architettura dell’ultimo
secolo a questa complessa articolazione che dal Futurismo ha segnato ogni sua tappa importante.
La Modernità ha costruito sin dal proprio esordio una particolare mitologia delle immagini. Esse hanno trovato nel Cinema, prima, la loro
più geniale sintesi creativa e poi nella Pop Art una declinazione mercantile-cultural-spettacolare che, appunto insieme all’architettura, ha
anticipato alcuni temi concettuali e applicativi dell’ultima rivoluzione
tecnologica.
La definitiva affermazione delle masse e del macchinismo richiedeva un linguaggio senza aggettivi, semplice fino al grado zero, e l’arte
era pronta a guidare questo nuovo corso: sostenuta da una forte tensione etica, l’opera moderna era tesa a promuovere il riscatto dell’umanità e realizzare un sogno di eguaglianza tra individui.
Tuttavia una profonda mutazione ha dissolto negli ultimi due decenni quel sogno, vaporizzandone i contorni insieme al progetto di società che tentava di veicolare. Si è avviata da allora una fase di generale mutamento, peraltro non ancora conclusa, che veniva salutata nel
’94, nel celebre Rapporto Delors, come uno stadio dello sviluppo
umano ‘i cui effetti saranno paragonabili, a termine, a quelli della prima rivoluzione industriale’. Com’è noto, tale rivolgimento è il risultato
più sorprendente, il prodotto più consistente della rivoluzione dei nuovi media elettronici.
Intervenendo a trasformare radicalmente le nostre mappe spaziotemporali, questo mutamento ha anche attribuito all’immagine un potenziale illimitato di azione sulla realtà.
Si è così compreso che i media elettronici hanno fatto del mondo
delle immagini l’immagine del mondo, e che noi stessi, la nostra immagine, finalmente può tentare con opportuni accorgimenti di farne
parte. In essa tutto è immediatamente presente e, quindi, accettato
per concreto: nell’azzeramento dell’intervallo tra visione e immaginazione sta la condizione della totale figuratività del mondo che consente ora alla vita di coincidere con l’arte.
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Ma il legame (l’intimità) tra arte e immagini non è sempre stato così stretto, né sempre così necessario. Si potrebbe anzi affermare che
nella storia umana i tempi in cui questo intreccio si è verificato siano
stati tutto sommato brevi, essendo per la maggior parte gli sguardi
orientati altrove rispetto all’immagine.1
Ed è proprio l’ultima rivoluzione tecnologica - la creazione digitale
dell’immagine, ovvero la sua riduzione a pura matrice numerica - che
ha reso questa impalpabile entità definitivamente indipendente e autonoma dal suo correlativo reale e corporeo, accelerando la fine di
quella mediazione di cui si diceva poc’anzi.
L’immagine completamente artificiale - riproducibile all’infinito geograficamente delocalizzata, si trasforma in puro immateriale e non
già in strumento per accedervi. Lo spirito si emancipa definitivamente
dalla materia, dal peso e dal corpo. In qualche modo, non essendo
necessario per esistere, passare per la materia, contenendo essa già
tutto, l’immagine si fa essa stessa materia nel cui codice genetico è
già tutto pre-visto.
Molta dell’architettura contemporanea si trova quasi del tutto integrata in questo processo di creazione disincarnata di forme e materie.
Totalmente immersa all’interno della sfera della comunicazione elettronica, della manipolazione e riproduzione all’infinito, abolito lo spazio tra se stesse e il tangibile, le immagini architettoniche diventano il
reale costruito del mondo nel quale non è più questo ad attenderle,
ma sono esse stesse ad anticiparlo per sistemarvisi con matematica
esattezza.
Pre-visione assoluta, quindi, non profezia; veggenti in apparenza,
le nuove immagini architettoniche2 declinano un senso dell’Avanguardia improprio, un’avanguardia senza anticipazione. Essa trova la sua
condizione non in quanto luogo di apparizione improvvisa e inattesa
di un’opera - portatrice di novità assoluta in cui il linguaggio del mondo è costretto a reinventarsi - ma, al contrario, condizione che confer-
ma ciò che è atteso e funzionale alla sua riproduzione. Nell’arte ‘l’opera era l’imprevisto che spuntava alla vista, che emergeva alla vita.
L’opera, come l’individuo, è una trovata, un accidente, una bella sorpresa. è necessaria interiormente, una volta che c’è; ma questa necessità, considerata dall’esterno, è un caso: ciò avrebbe potuto non
essere. La noia, con queste tecnologie meravigliose e ultramoderne,
è la loro affidabilità: esse prevedono tutto. è, in altre parole, la definizione di accademismo’,3 altro che choc.
Della acuta trasposizione del termine Avanguardia fatta da Leverdant, torna ora l’originaria accezione militare, e un’aggressività verbale dei suoi miliziani che dissimula malamente chi invece si è palesemente adeguato alle consuetudini visive e concettuali più correnti e
corrive. Una veemenza frequentemente accompagnata anche da un
molto avanguardistico darwinismo disciplinare: sono-migliore-di-teperché-vengo-dopo-di-te. Come un’automobile, un frullatore o un
quotidiano supera il precedente declassandolo, così l’opera che si auto-definisce Nuova supera quella che l’ha preceduta relegandola a
scarto, esprimendo, in quell’essere migliore, una vera e propria condanna morale.
Sono molte le colpe che i sostenitori della neoavanguardia attribuiscono a questi argomenti, soprattutto quelle, inemendabili, di misoneismo. Ma quanto costoro pensano e fanno, si cala perfettamente su
molta architettura attualmente prodotta. Frontalità, come luogo della
rappresentazione cui si accompagna quanto di più prossimo vi è all’idea di rivelazione; leggerezza e trasparenza, come trasposizione
della piattezza e della fluidità televisiva; semplificazione dei partiti
chiaroscurali, come deliberata identificazione con l’assenza di profondità; dissimulazione dei segni dalle materie edilizie, come cancellazione delle tracce del lavoro umano (che le conferirebbero un tempo,
una storia); questo soltanto per indicare alcune tematiche (prevedibilmente) ricorrenti.
Tutto ciò parla della scomparsa del corpo degli edifici, le sole prerogative, le ultime, a richiamare l’attenzione sul deterioramento e la fine delle cose umane e della materia. A ricordare l’esistenza e la profondità del tempo che vive al di là dell’incessantemente presente delle immagini digitali, che mostrano di aver trovato, erroneamente, il segreto dell’eternità.
Ma, infine, va ricordato il senso diffuso di spettacolarità delle attuali immagini. Che coniuga un’idea del Nuovo come trasposizione della
continua, infinita espansione della produzione e del consumo, di merci e di informazioni: ‘quel che costituisce il valore, ivi compreso quello di mercato, di un’informazione è la sua novità … Il mercato dell’arte è informazione tradotta in quotazione. E l’informazione si misura sul
grado di scarto dalla media ... è per questo che le forme più valorizzate sono oggi le più inattese, perché, facendo più evento delle altre,
riescono meglio a far parlare di sé … Paga solamente lo scarto dal codice; il dovere di originalità personale è diventato una necessità economica materiale ...La ricerca dell’optimum informativo, chiamata anche scoop, si rivela essere il solo arbitro che opera nell’arbitrario generalizzato del turbine innovatore del perpetuo’.4
Un turbinio sregolato e privo di misura, atopico e fluido, quello dell’arte e dell’architettura - aggettivazioni peraltro perfettamente intercambiabili con quelle che connotano il capitale finanziario5 - che ha
dato l’impressione a molti, di poter inopinatamente e insperatamente
partecipare a una temperie culturale che sino a poco tempo fa - nell’arte e nell’architettura - appariva straordinariamente selettiva.
Ma, si sa: tutti avanguardisti, nessun avanguardista, e le troppe immagini fanno fuori l’immagine.
Infine una singolarità, consistente nel notare come nel corso di questi ultimi anni, a proposito dell’immagine - nonostante la sua piena affermazione planetaria - si sia parlato poco o affatto di un aspetto decisivo che la riguarda: il carattere non solo ambiguo bensì propria-
mente luttuoso che fissa e condiziona il suo statuto. Questa lieve amnesia, questa distrazione nascondono una delle chiavi principali per
interpretare un fenomeno che travalica la contesa tra avanguardia e
reazione. All’immortalità, alla vittoria delle immagini sul tempo, corrispondono i confini del corpo, la sua irripetibile contingenza, quella finitezza che lo rende allo stesso tempo illimitato e meravigliosamente
insoluto.
Portare alla luce il corpo in architettura non è un disimpegno dalla
civiltà dell’immagine o un semplice tentativo di ricomposizione della
disciplina - poiché ‘l’essere umano, è questa la sua natura, non sopporta la decomposizione della forma, la nascita dell’informe’6 - bensì
il tentativo di auto-tracciare un percorso, se si vuole, sul margine
sconcertante e affascinante del mondo che può finire.
è un passo per non cedere al giogo digitale, al gioco immaterialemercantile dell’immagine-spettacolo e del disimpegno digitale, del
profilattico mettersi al sicuro in un’immaginazione disincarnata. Riesaminare il corpo è riformulare l’antica questione, attualissima, del rapporto con la materia del mondo, la sua misura e l’incommensurabilità
dell’invenzione artistica e architettonica.
1. Vedi Régis Debray, Vita e morte dell’immagine, Il Castoro, Milano 1999, cap. I.
2. Mi riferisco al saggio di Franco Purini, Le nuove immagini architettoniche tra superficie
e istantaneità, pubblicato su ‘Metamorfosi’ n. 12, che anticipò lo sviluppo di gran parte
delle vicende architettoniche che seguiranno negli anni successivi.
3. Ivi, p. 236.
4. Ivi, p. 132.
5. L’immagine è la merce più preziosa oggi in commercio ed è il vero braccio armato della società della comunicazione, in cui realizza l’equazione ‘il Visibile = il Reale = il Vero … (E) ora, come il mercato fissa sempre più la natura e i limiti delle rappresentazioni sensibili …, il segno di uguale si trasforma e diventa: ‘invendibile = irreale, falso, non
valido’ (Debray, p. 300).
6. Jean Clair, De Immundo, Abscondita, Milano 2005, p. 17.
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Pierluigi Nicolin
Le avventure della Public Art
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L’abbellimento dello spazio pubblico
Prima di iniziare a esaminare il problema dell’arte civica, si potrebbe richiamare alla memoria l’esordio e il tramonto dell’ idea della città
come opera d’arte. Nell’affrontare i rapporti tra arte e città nel mezzo
di un decisivo processo di trasformazione non sembra inopportuno ricordare alcuni aspetti della città del passato: sono presenti poiché le
città sono strutture sedimentarie e molte parti della città storica continuano ad essere abitate. Viene meno, semmai, la nostra capacità di
vedere e non è difficile immaginare che molti, pur vivendo nel mezzo
della sostanza edilizia della città tradizionale, non riescano a percepire che in maniera debole e distratta la realtà in cui si trovano.
Per questo vale la pena ricordare per sommi capi alcuni presupposti della costituzione dello spazio urbano tradizionale, lo spazio che
forma la sostanza edilizia della città sette-ottocentesca, ad esempio,
tuttora una parte consistente della città europea.
Per introdurci nell’argomento possiamo risalire alle prime trasformazioni cinquecentesche, proseguite con relativa continuità sino all’ottocento (fintantoché nei primi decenni del nostro secolo il sistema
dell’urbanistica tradizionale non viene sovvertito). Possiamo far risalire queste pratiche alle trasformazioni della Roma del rinascimento,
con le grandi opere innovatrici intraprese alla fine del ’400 da Sisto IV,
detto ‘Restaurator urbis’, e proseguite dai papi successivi sino al ‘piano’ di Sisto V, nella seconda metà del cinquecento, con i famosi tracciati realizzati con finalità eminentemente religiosa che costituirono
successivamente l’ossatura della Roma barocca. Con questi interventi, è la città in quanto tale ad essere considerata oggetto di un intervento complessivo. è nel quadro di questa azione urbanistica che viene messo a punto un programma destinato a dare forma allo spazio
pubblico. Vediamo all’opera un proposito di trasformazione urbana
che agisce direttamente su strade e piazze, trasformandole in uno
spazio altamente formalizzato.1 Tale processo investirà nel secolo
successivo molte città europee (ma anche le città di altre parti del
mondo collegate con il dominio europeo) dando luogo alla cosiddetta
città barocca.
Siamo nella fase del passaggio dalla città mercantile alla forma della Città di Stato nella quale si realizza quella occupazione dello spazio pubblico da parte dello Stato o della Chiesa. Nella costituzione del
nuovo spazio pubblico le sedi del potere centralizzato sono un elemento decisivo per la formalizzazione dei nuovi rituali estetici e di potere. Per immaginare la portata del cambiamento dobbiamo pensare
che lo spazio pubblico, la piazza ad esempio, era in precedenza ottenuto prevalentemente per effetto della disposizione di palazzi o monumenti. Una differenza nella concezione dello spazio pubblico tra rinascimento e barocco perciò consiste nel fatto che, con il barocco, la
nozione di regolarità piuttosto che all’edificio viene attribuita di preferenza allo spazio pubblico, il quale diventa l’obbiettivo principale degli
interventi urbanistici.
Potremmo ravvisare un aspetto simbolico nell’avvento del dominio
del ‘regolare’ nello spazio pubblico al momento in cui se ne impossessa un potere superiore. Lo normalizza, lo controlla e lo trasforma da
quell’ambito di mediazione di interessi conflittuali e particolaristici, tipico della città mercantile, in luogo rappresentativo di un nuovo ordine sovrano. Possiamo vedere una caratteristica dello spazio barocco
nella organizzazione di una coreografia umana mentre nella piazza
dell’illuminismo la concentrazione fu usata come fondamento sociale
dell’unificazione visiva. Anche se non si può dire che l’illuminismo
semplicemente fallì nel tentativo di progettare l’unità nelle piazze,
possiamo vedere nell’autosufficienza di questi spazi, nella loro intoccabilità, una manifestazione dell’insuccesso di questo procedimento
nel costituire lo spazio pubblico.
Tali concetti sono presenti nell’urbanistica sino all’inizio del nostro
secolo. Possiamo indicare il movimento americano della Civic Art e
della City Beautifull (con il suo monumento teorico: il trattato di Hegeman2) come l’ultimo importante tentativo di proseguire questa tradizio-
ne. L’arte moderna di costruire le città (‘Modern Civic Art’), scriveranno W. Hegemann e E. Peets nel 1922, può apprendere ampiamente
dallo studio dei valori acquisiti nel ’600 e ’700 che a loro volta erano
stati profondamente influenzati dall’antichità classica.3 In questo spazio così predisposto, quando viene effettivamente realizzato, l’arte civica trova la sua collocazione ed eventualmente il suo senso.
Possiamo concludere, almeno simbolicamente, la vicenda della
produzione dello spazio pubblico urbano ancora a Roma con l’apertura, in occasione del giubileo del 1950 (!), della via della Conciliazione
a seguito dell’abbattimento della Spina dei Borghi.
Che ci si trovi ad agire nelle morfologie della città tradizionale, o negli spazi discontinui della città moderna, la nostra considerazione dello spazio pubblico è radicalmente cambiata.
è possibile che il rito collettivo di un tempo non si celebri più in uno
spazio fisico ma nello spazio virtuale dei media: la nozione tradizionale di luogo pubblico è messa in discussione nelle società avanzate e
dubitiamo della sua stessa esistenza. E tuttavia la stessa nozione di
non-luogo appare a sua volta, come abbiamo visto in Augè, frutto di
un artificio retorico o, perlomeno, un concetto ambiguo. Se le strutture commerciali, il traffico automobilistico lo occupano in maniera pervasiva contribuendo a rendere incerta la definizione di tale spazio, se
lo interpretano soltanto in chiave competitiva, anche l’arte non può
che tentare di mettere alla prova il suo potere mediante la messa in
campo di strategie di occupazione di quello stesso spazio: sia che si
tratti del luogo reale di una città, sia che si tratti di un sito reperito nell’ambiente virtuale delle reti di comunicazione.
L’ Arte pubblica
Come reagire a questa caduta di rappresentatività dello spazio
pubblico prodotto dall’estetica dell’embellissement, cosa fare al momento in cui la tradizione dell’arte civica viene meno?
Una soluzione è quella di interferire con lo spazio urbano, distorcerlo, produrre una sorta di disturbo occupandolo con un messaggio privato. Porre in punti cruciali della città un’arte che, sviluppatasi nella
‘galleria privata’, cerchi non solo un luogo di esposizione all’aperto ma
una interferenza significativa nei confronti dei modelli di rappresentazione da contestare è l’ipotesi delle sculture, delle installazioni di Richard Serra. Poste sovente in spazi pubblici rilevanti, le opere di Serra si prefiggono lo scopo di ridefinire la specificità di tali luoghi entrando in conflitto con aspettative, pregiudizi estetici, comportamenti. Che
siano poste di traverso ad una strada o nel mezzo della Federal Plaza di New York (Tilted Arc, 1981), tali installazioni rappresentano il trasferimento di una sensibilità privata negli spazi pubblici; sollevano un
problema politico, interferiscono con gli standard di sicurezza, impediscono la trasparenza, deviano percorsi.
Sovente destinate a suscitare polemiche, molte opere di Serra so-
no di fatto confinate in luoghi marginali, come vedremo anche per altre esperienze, oppure sono destinate a ritornare negli spazi controllati delle gallerie e dei musei, o, come nel caso della installazione della Federal Plaza, ad essere rimosse. Per questa via l’arte entra nello
spazio pubblico come una installazione, ne costituisce una interpretazione, o una contestazione a seconda dei casi, può limitarsi a soprassegnare lo spazio (come nel caso di Buren), cerca il confronto tra la
cultura altra - o ‘alta’ - e lo spazio ‘basso’ dei comportamenti di massa. è in questo confronto, è da questa intenzione pedagogica, che i
conflitti si generano e scattano i meccanismi di espulsione. Oppure, in
rare circostanze, tali inserimenti vengono assorbiti dallo sfondo, rientrano a far parte del contesto metropolitano con i suoi segni pubblicitari, le sue superfetazioni tecnologiche, i segnali di circolazione, le
barriere, le presenze tecniche.
Il tentativo di lavorare con i materiali stessi di tali deiezioni metropolitane, di operare adottando i segni delle manifestazioni comunicative dello spazio pubblico contemporaneo - totem pubblicitari, insegne, manifesti, scritte ... per ‘trasmettere’ altri messaggi è l’obbiettivo
di Barbara Kruger (da vedere anche come critica dei compiacimenti o
delle collusioni della pop-art di un Claes Oldemburg). Adottando lo
stesso sistema di segni del contesto, l’efficacia del messaggio artistico dipende dalla capacità dell’artista di contestare quello stesso codice, di introdurre scarti imprevisti nel messaggio.
Se l’arte, in questo modo, si trova collocata nel campo agonistico
nel quale avviene la competizione degli altri segnali (soprattutto pubblicitari) essa metterà in campo sue strategie di differenziazione. Proprio perché si tratta di una intrusione, si cerca di differenziare l’intervento artistico dagli altri messaggi.
Nel caso di Barbara Kruger i procedimenti di presa di distanza possono essere cercati nel contenuto del messaggio, la parte scritta: critica, antagonista, poetica, e in ogni caso fuori contesto. Altre strategie
consistono nell’operare uno scarto attraverso una particolare scelta
della dislocazione o della restituzione grafica del messaggio, oppure
operando cambiamenti di scala, o altro. O perché, al contrario, si occupa abusivamente un luogo deputato come un tabellone elettronico
a Time Square.
In questo caso, come anche in quello dei lavori di Jenny Holzer, il
cui mezzo artistico sono le parole che scorrono su schermi elettronici, l’opera si confronta con l’apparato della comunicazione urbana e
territoriale, interferisce con il sistema dell’informazione grafica introducendovi correttivi sia visivi che testuali. La Holzer combina l’evanescenza del linguaggio con la forte presenza fisica di simboli LED per
creare opere provocanti, talvolta sconcertanti. Assumendo il sistema
della comunicazione urbana come sua propria referenzialità, anziché
opporvisi, questo lavoro tende a mettere in luce le possibilità di un uso
alternativo di questo stesso apparato, lavora all’interno di un proces-
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so spingendolo in avanti, forza il sistema comunicativo della metropoli contemporanea alla ricerca di momenti emancipativi.
Un luogo antagonistico allo spazio concitato della comunicazione
metropolitana è indubbiamente il parco. è attraverso lo sguardo di alcuni artisti come Mary Miss che si cerca di superare la astrazione autoreferenziale, quella perdita del sito che ha reso al tempo stesso monumentale e nomadica la scultura modernista.4 A differenza dei minimalisti, che in genere si sono dedicati a singoli pezzi astratti ‘Miss ha
tentato di costruire non oggetti ma luoghi. In teoria questo approccio
dovrebbe consentire a spazio e memoria di condensarsi in forme che
comincino a suggerire qualcosa che trascende, ad affermare qualcosa che non sia soltanto la propria esistenza oggettiva. In contrasto
con le forme monolitiche di artisti quali David Smith, Donald Judd e
Richard Serra, i progetti di Miss rappresentano altrettanti tentativi di
coinvolgere l’osservatore costruendo non un monumento totemico,
ma un intero ambiente’.5
Miss si richiama ad artisti quali Nancy Holt, Alice Aycock e Richard
Fleischner. Ciò che li avvicina è il tentativo di coinvolgere l’osservatore riferendosi a strutture note, in qualche modo cioè chiedendogli di
condividere un linguaggio comune. ‘Questi artisti’, afferma, ‘(Holt,
Fleischner, Trakas, Aycock e Armajani) sono più interessati al coinvolgimento dell’osservatore nelle strutture che alla mera costruzione di
oggetti da guardare. Il loro stile è meno autoritario rispetto a quello degli scultori che li hanno preceduti; le loro opere non sono più monolitiche, e l’immaginario cui attingono richiamandosi a ponti, cortili o edicole le rende accessibili. La differenza di atteggiamento più importante è che questi artisti cercano di stabilire un dialogo con il pubblico
partecipando agli incontri con la cittadinanza, alle sedute delle commissioni di piano, insomma calandosi in situazioni molto pragmatiche.
In definitiva tentando di mettere a punto un linguaggio visivo alla portata di molti’.6
Vi sono poi i tentativi di produrre eventi attraverso happening e artworks interattivi usando mezzi come performance, video, installazioni, fotografie o murali. Tentativi di creare un linguaggio per un nuovo
genere di ‘public art’ da localizzare in stretta vicinanza di singole comunità: in scuole, chiese, ghetti, marciapiedi, biblioteche, garages, nightclubs ...7 in contrasto con le proposte ufficiali degli architetti e delle autorità, come è avvenuto nell’episodio del ‘risanamento’ della Quarantaduesima Strada e di Times Square a New York.8 Esempi di questa ricerca sono tre mostre pubbliche curate dal 1991 da Mary Jane
Jacob a Charleston (1991), Chicago (1994) e Atlanta (1996) dove
ognuno di questi programmi si prefiggeva di coordinare l’azione di diversi artisti, rispondendo alle caratteristiche delle città in cui si svolgevano (Site Specificity) indirizzandosi ad un pubblico normalmente non
interessato all’arte.9
Infine si potrebbe fare menzione degli innumerevoli esempi in cui lo
spazio pubblico viene pedonalizzato e per così dire ‘arredato’ dall’arte. è una attitudine diffusa e quasi sempre deprimente poiché rivela
una incomprensione delle tensioni che hanno coinvolto lo statuto dello spazio pubblico della città, con il suo degrado, la sua violenza, ma
anche con la vitalità della contraddizione e le tracce residuali del suo
vecchio statuto. In questo caso lo spazio pubblico è inteso come museo all’aria aperta, sulla scorta dei celebri esempi degli anni cinquanta, come le famose plazas o ‘acropoli’ miesiane che ospitano sculture
di Calder o Picasso (legate alle discussioni sulla monumentalità nella
città contemporanea, iniziate da J. L. Sert, F. Léger e S. Giedion nel
194310 e proseguite sino al CIAM di Bergamo del 195111 e di cui sentiamo, come abbiamo visto, l’eco nelle preoccupazioni di C. Moore).
Nel dopoguerra, Alexander Calder, figlio di un artista della Civic Art
americana autore a sua volta di numerosi monumenti pubblici, diventa il principale fornitore di un’arte pubblica e monumentale di successo internazionale. Un’arte che ha potuto connotare tutti i luoghi dell’attività moderna: stazioni, aeroporti, piazze, campus universitari, sedi di
banche e società. Un’arte nella gran parte dei casi per un’architettura
destinata a grandi società e agenzie governative, caratterizzata da
spazi, come dichiarava Calder nel 1969, che ‘dovevano essere riempiti’. Le sculture di Calder, mobiles e stabiles, incontestabilmente moderne nelle loro forme, sono state per un lungo periodo la soluzione
universale per il terrain vague lasciato a disposizione da architetti alla ricerca di una integrazione delle arti plastiche. Dal 1946, quando un
mobile alto più di tre metri, Twenty Leaves and an Apple, fu collocato
nella hall del Terrace Plaza Hotel di Cincinnati, sino agli anni settanta, Calder realizzò una serie innumerevole di installazioni in luoghi
pubblici sforzandosi di dare una personalità ai siti in cui collocava le
sue opere.12
Con gli anni settanta il modello formalista, di cui Calder fu il maggior interprete, entrò in crisi senza che ciò impedisse agli epigoni di
continuare ad occupare gli incerti spazi pubblici della città contemporanea trasformandoli in ricettacoli di deiezioni e allestimenti provvisori a testimonianza di un declino inarrestabile.
1. Anthony Vidler, The scenes of the Street: Transformations in Ideal and Reality, 17501871, in on Street, The MIT Press, 1978.
2. Werner Hegeman, Civic Art, New York, 1922.
3. cit. in: Antonio Monroy, Piani e progetti per Manhattan. Formazione della ‘Central city’
in U.S.A., in Lotus 7, Alfieri Venezia, 1970, p. 314.
4. Rosalind Krauss, Sculpture in the Expanded Field, in The Anti-Aestetic, a cura di Hal
Foster, Bay Press, Seattle-Wahington, 1983
5. Christian Zapatka, L’arte del coinvolgimento nell’opera di Mary Miss, in Mary Miss, ‘Costruire Luoghi’, Motta Architettura, Milano, 1996, p. 8
6. Mary Miss, On a Redifinition of Public Sculpture, Perspecta 21, 1984, p. 68.
7. Mapping the Terrain. New Genre Public Art, Edited by Suzanne Lacy, Bay Press, Seattle, Washington 1995.
8. Sandro Marpillero, 42nd Street: Peepland e altre storie, in Lotus 93, Electa Milano 1997,
pp.109-121
9. Mary Jane Jacob, Il ‘Pubblico’ nell’Arte Pubblica’, in La città degli interventi, Comune
di Milano, Progettto giovani, Milano, 1997.
10. J. L. Sert, F. Léger, S. Giedion, Nine Points on Monumentality, in Architecture Culture, 1943-1968. A Documentary Anthology, Columbia Books of Architecture, Rizzoli
New York, 1993.
11. The Heart of the City: Towards the Humanisation of Urban Life, ed J. Tyrwitt, J. L. Sert,
E. N. Rogers (New York: Pelligrini and Cudahy, 1952).
12.. Tra gli innumerevoli interventi di Calder possiamo ricordare quelli dell’aeroporto Kennedy di New York (1957), di Montreal 1967, di Città del Messico (1968), di Parigi-La
Defence (1975), di Chicago (1968), Hannover, Los Angeles, ecc.
31
Barbara Kruger, Installation view, Mary Boone Gallery, New York, USA, 1991
Renato Nicolini
L’Arte dell’architettura e della città?
32
Un punto interrogativo rimette in discussione, se non addirittura
sconfessa, il titolo di un mio articolo, poi pubblicato su ‘Abitacolo’, che
avevo inviato come abstract al Convegno. Vorrei - col punto interrogativo - scongiurare anche solo l’idea di una possibile gerarchia tra i
due termini, di un’arte della città che si configuri come una sorta di superarchitettura. Tra arte e città si stende piuttosto una rete di relazioni possibili tra i due termini. Una serie di reti, direi anzi, tanto più fitte
- ed intrecciate - quanto più sono plurali i fenomeni estetici (acustici,
visivi, tattili, percettivi - effimeri - oggi anche telematici, virtuali, immateriali) che ne costituiscono le maglie, e quanto più si rivela plurale (e
conflittuale) il linguaggio dell’architettura.
Di fronte ad una selva così intricata, per farmi largo afferro l’ascia
di Musil. Una frase dalla pagina d’apertura de ‘L’Uomo senza Qualità’. Le città si riconoscono al passo.
Qualche tempo fa, a Siena, a cena nella contrada del Bruco con un
amico rivisto dopo molto tempo e che oggi insegna Estetica proprio
nell’Università di quella città, Alberto Olivetti, abbiamo progettato un
Seminario sull’estetica della città, che partisse proprio da questa frase; contaminandola con i risvegli notturni di Marcel Proust. Prendere
una particolare forma dell’esperienza estetica, la nostra sensibilità al
rumore e al silenzio (‘ascoltare il silenzio / ascoltare le pietre bianche’,
scriveva di Venezia il più grande compositore del Novecento italiano,
Luigi Nono) ed applicarla alle città, partendo dalla condizione (così
analoga alla derive surrealista) del risveglio.
Mi accorgo di aggiungere rami al mio labirinto, anziché fare largo.
Torniamo perciò alla frase di Musil, che nel nostro caso va applicata
in tutt’altro senso. In coppia con un’altra considerazione di Musil, sempre in apertura di romanzo, in cui Ulrich si interroga su come mai tutta la soggettività del nostro mondo moderno, la sua inaudita varietà di
comportamenti, finisca per approdare all’oggettività della statistica e
della prevedibilità. Come mai, insomma, il massimo apparente di sog-
gettività si trasforma in qualcosa di straordinariamente simile al suo
contrario, la meccanicità? Musil è anche figlio di quest’aporia, e da
questa considerazione risulta più vicino al Futurismo di quanto in genere non venga riconosciuto.
Anche questa è una divagazione. Di questo ragionamento sottolineo l’importanza della riconoscibilità di qualcosa che, più che avere
una propria consistenza specifica, è la sommatoria di componenti diverse ed eterogenee, come il passo, cioè la sommatoria dei modi di
spostarsi e dei rumori che producono, di una città.
Ille his est Raphael, timuit quo sospite vinci rerum magna parens,
et moriente mori. ‘Questo è Raffaello. Lui vivente temette d’esser vinta la Natura - la grande genitrice delle cose - e lui morto di morire con
lui’. Così dice l’epigrafe sulla tomba di Raffaello al Pantheon. Un luogo che mi è caro, dove entro ogni volta che passo nella piazza, anche
quando vado di fretta, sospinto dagli impegni - tante sono le cose, per
me sempre nuove, che ha da dirmi. Quanto però è ormai lontano dal
nostro tempo!
La chiara distinzione tra Soggetto ed Oggetto, tra Soggettività ed
Oggettività, fondamento del mondo classico ed espressa nell’idea di
percezione esatta del reale, è ormai irrimediabilmente compromessa.
Non solo l’oggettivo, addirittura il meccanico è entrato - quasi di contropiede, proprio nel momento della massima offensiva dell’avanguardia contro la corrispondenza tra realtà ed oggettività - nel campo del
soggettivo, ibridandolo in modo irreversibile.
Il fascino dell’inorganico e del meccanico non è stato avvertito soltanto da Musil, è stata generalmente la controparte della soggettività
nella nuova rappresentazione dell’Arte messa in scena dalle avanguardie all’inizio del Novecento. Come distinguere il vero dal falso, la
donna amore della propria vita, dal meccanico doppio malvagio, dalla
bambola del dottor Coppelius (il riferimento a E. A. Hoffmann ed alla
sua serie di sosia, serve a ricordarci, per non tirare sempre in ballo il
Lenz di Buchner nell’interpretazione di Deleuze e Guattari, come, per
più di un aspetto, il Romanticismo tedesco sia stato la prova generale
di questa messa in scena), alla falsa Maria androide di ‘Metropolis’ di
Fritz Lang? Col ‘non ti credo’ opposto da Grotowski (e da Carlo Cecchi) alle ‘interpretazioni’ dei suoi attori? Possiamo certamente affermare che, nelle avanguardie del Novecento, soggettività e meccanicità si
presentano come una sorta d’indissolubile sinolo aristotelico.
Anche per il peso che le nuove arti tecnicamente riproducibili - come il cinema e la fotografia, dove non esiste più l’originale - assumono nel contesto dell’esperienza artistica. è per arrivare a comprendere questo fino in fondo, che Walter Benjamin scrive il famoso saggio
‘L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica’.
Prendiamo un artista della fotografia come Henry Cartier Bresson.
Non possiamo certo classificare la sua teoria dello scatto fotograficoistant decisif sotto la rubrica dell’elogio della meccanica. Henry Cartier Bresson ha sempre ricordato il proprio apprendistato artistico
presso il pittore Andrè Lothe, un purista, aderente all’Esprit Nouveau
di Le Corbusier e Pierre Jeanneret. La sezione aurea (la cui importanza Andrè Lothe ricordava ai suoi allievi continuamente), dunque, una
regola compositiva, non era intesa come incompatibile con l’eccezionalità dell’evento. La lezione di Cartier Bresson è rivolta a tenerli insieme entrambi, senza separare la non pianificabilità dello scatto e
l’accuratezza dell’inquadratura dell’immagine.
Gli ultimi vent’anni, per la direzione imprevista che ha preso lo sviluppo tecnologico, non verso una sorta di monumento alla meccanica
attraverso i viaggi spaziali, ma verso il piccolo del bit, del chip e della
comunicazione - verso la comunicazione in tempo reale, in tutta la sua
immediatezza, instantaneità e pervasività; e verso l’ingannevole perfezione della simulazione dell’immagine attraverso il computer, gli ologrammi, le tecniche della realtà virtuale - ripropongono, anche se in
una prospettiva apparentemente più morbida, più disneyana - dove
comunque si cerca di dare l’illusione della compattezza e della totalità, piuttosto che la percezione del frammento e della crisi - la medesima questione.
Lo stesso progetto neorealista, ritrovare una relazione virtuosa dell’arte con la realtà, di Rossellini (o di Ridolfi) andrebbe misurato piuttosto con l’aspetto affettivo, che non con quello razionale - lukacsiano, della realtà. Così come, in architettura, Aldo Rossi o Louis Kahn
(nella loro ricerca di relazione con il Mito, la Storia, la Memoria) - resistono alla seduttività della formula di Robert Venturi (l’inclusività dell’e - e, anziché l’eclusività dell’o - o), che non escludendo apparentemente nulla dalla realtà ne esclude però la finalizzazione, dunque l’essenza della progettabilità.
In questa tendenza generale colpisce l’assenza d’intenzioni di regia
anche lontanamente paragonabili a quelle delle Avanguardie dell’inizio del Novecento. Chi ha tentato di teorizzare nuove tendenze, come
Achille Bonito Oliva con la Transavanguardia, ha richiamato la nostra
attenzione, piuttosto che sul loro carattere, su una situazione generale di perenne trasformazione. Ormai senza più nemmeno l’illusione di
una direzione coerente. All’artista si aggiunge un altro soggetto autonomo, che autonomamente interviene nel campo dell’estetica, il critico, votato, più che alla comprensione, all’ideologia del traditore.
Al simulazionismo iperrealista corrispondono - in una prospettiva rovesciata - i romanzi di Philip K. Dick. ‘Ubik’, ‘In senso inverso’, ‘Le tre
stimmate di Palmer Eldritch’, ‘L’uomo nell’alto castello’, ‘I simulacri’,
‘Follia per sette clan’ che ripetono, in fondo, sempre la stessa trama.
La realtà, così come ci appare, si sfalda progressivamente, e, sotto le
sue macerie, emergono i lineamenti di un’altra realtà, anch’essa però
destinata a rivelarsi inconsistente ed a sfaldarsi. Nella quale, proprio
perché l’alternanza è tra gradi diversi di compattezza fino allo sfaldamento finale, non c’è vera possibilità di mutamento. L’identità, lo ave-
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va già insegnato Ovidio con ‘Le Metamorfosi’, può sussistere solo come mutamento. Philip K. Dick trasforma la domanda: ‘cosa è reale?
Cosa non lo è?’, nell’altra, più vitale: ‘cosa è umano? Cosa non lo è?’.
Voglio cercare un ultimo esempio nella politica. Pietro Ingrao, presentando un suo piccolo libro, ha voluto sottolineare l’egoismo, la soggettività, del suo impegno politico. ‘Se non avessi sentito le ingiustizie
del mondo come un’offesa personale, se non ne avessi sofferto come
se mi toccassero direttamente, non avrei avuto la forza di fare le scelte che ho fatto’.
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L’essere ed il sé
La ferita di Musil all’idea stessa di qualità, qualcosa che si fonda
sull’identificabilità del carattere, aveva colpito proprio quel sé, che oggi sembra centrale, addirittura debordante.
Non importa quanto la nostra cultura e le nostre abitudini quotidiane siano soggettive. Il loro senso è nascosto altrove - nella grande
massa dell’essere. Essere che avvolge e comprende il nostro sé. Insieme cui - anche senza consapevolezza - apparteniamo. Produttore
del general intellect, della filosofia perenne (o comunque lo vogliamo
chiamare), che permane; per quanto ce ne possa distrarre l’invadente luccicanza del sé.
Aldo Rossi, nella sua Autobiografia scientifica, cita una poesia di
Holderlin, per spiegare la propria ricerca di un’architettura sprechless
und kalt, ‘senza parole e fredda’. Ho ricercato e trovato questa poesia
nel volume dei Meridiani dedicato alle poesie di Holderlin. La stagione sprechless und kalt è l’inverno, quando i muri si ritrovano nudi sotto la pioggia e rivelano la propria natura ‘fredda e senza parole’. Solo
la banderuola di ferro cigola sopra la casa dell’uomo. Aldo Rossi ama
questa poesia perché comunica in modo meraviglioso l’essenza dell’architettura. All’architettura non si può chiedere di sostituire lo splendore della natura, le trascorse stagioni, dalla primavera all’autunno,
ricche prima di fiori e poi di frutta, quando la sua abbondanza riempiva tutto il declivio del colle fino a sporgersi sul lago. Forse Raffaello ...
Ma l’architettura oggi ci parla con un altro linguaggio, quello del riparo essenziale. Solo il suo grado zero, dice Holderlin e con lui lo ripete Aldo Rossi, può essere tollerato dall’uomo che, rilkianamente, ‘è
nato per abitare l’aperto, inconsapevole del pericolo’. Bisogna intendere correttamente il significato della venustas vitruviana, una bellezza che non è piacevolezza ornamentale, ma è indissolubile (come sono per Aristotele l’anima e il corpo) dall’utilitas e dalla firmitas. Specie
adesso, aggiungerebbe Heidegger, che ‘viviamo nella mezzanotte del
mondo’, nella sua ora più buia, quella in cui ‘i-tre-che-sono-uno (Cristo, Dioniso ed Ercole)’ lo hanno abbandonato, e solo i poeti possono
ancora ritrovarne le tracce.
Intendo l’architettura come qualcosa dalla natura anfibia. Di questa
duplicità, specialmente adesso che manca la stessa figura (non soltanto volontà e possibilità) del principe per infondere carattere unitario all’arte pubblica, m’interessa relativamente poco l’aspetto comunicativo, la possibilità di rappresentare idee e valori - per dirla con Galvano della Volpe. M’interessa piuttosto ciò che l’architettura quasi nasconde dentro di sé, il suo carattere quasi ontologico, il legame indissolubile con uno degli a priori trascendentali di Kant, lo spazio. L’architettura interviene nel definire la nostra relazione mentale, persino
affettiva, con lo spazio: la dimora, la contrada, la città, il paesaggio.
Questo non può che fare apparire secondario, effimero, destinato col
tempo ad affievolirsi ed a scomparire, ogni forzatura del suo linguaggio nella direzione di una maggiore comunicazione. Guardo le architetture-sculture, a partire dal Guggenheim Bilbao di Frank O.Gehry,
che si propongono come griffe, firme garanzia di qualità nel paesaggio urbano, e mi domando quanto - tra un secolo - il loro destino sarà simile a quello del Monumento a Vittorio Emanuele II del Sacconi,
oggi appesantito dalle sue stesse allegorie risorgimentali non più immediatamente comprensibili.
Architettura, arte e città
Come è largamente noto, per il Bellori l’arte che riportava il primato sulle altre era la pittura, proprio perché cosa mentale, più vicina all’idea, di quanto potranno mai esserlo scultura ed architettura, che per
esprimersi devono passare attraverso maggiore materia. Forse Renzo Piano, affermando, come ha fatto recentemente, ‘la bellezza è una
bellissima idea’, non si rende conto di essere ancora soggetto all’idea
del Bello. Se, d’altra parte, è opportuno rovesciare l’idealismo belloriano, questo rovesciamento non può tradursi nell’affermazione del
primato dell’architettura nella gerarchia delle arti.
Non che questo esperimento non sia stato fatto, anche in tempi recenti. Penso all’appello di Mario Sironi in occasione della Triennale
del ’36, muri ai pittori. E, all’opposto, al ruolo dominante dell’architettura nei progetti di Terragni, come il Palazzo del Littorio di Como, ed
anche in quelli eseguiti con la collaborazione dello stesso Sironi, il 1°
Concorso per il Palazzo del Littorio a via dell’Impero, o l’allestimento
del Palazzo delle Esposizioni per il Decennale del ’32. Questa duplicità d’intenzioni porterà a forti contrasti tra architetti e pittori, risolti con
la rigidità della gerarchia dall’Accademico d’Italia Marcello Piacentini,
nei controversi tentativi di applicazione della legge bottaiana del 2%.
De Stijl sottopone tutte le arti ad una gerarchia immateriale, che
non privilegia nessuna di loro. Tutte tendono, in ugual modo, a rivelarci la continuità dello spazio, la sua essenza, qualcosa che è oltre
l’esperienza fenomenica. Un qualcosa, sia detto di sfuggita, che acquista un altro sapore dopo il postmoderno di Philip K. Dick e la sua
narrazione letteraria della realtà come un insieme di scatole cinesi (in
cui l’ultima spesso contiene la prima). Di conseguenza, tutte le arti
debbono, architettura compresa, non soltanto il design (siamo ai tempi del Bauhaus), sottostare a regole. è celebre la polemica Mondrian
- Van Doesburg a proposito dell’uso della diagonale nel Cabaret Aubette, che Mondrian non riteneva legittimo. In questo senso non c’è
né differenza di scala né gerarchia tra i problemi posti dall’arredo dello studio parigino di Mondrian e quelli del New York Boogie Woogie.
L’influenza della città moderna per antonomasia d’allora, New York, è,
in entrambi casi, ugualmente assente e presente.
Aumentando la rete delle relazioni ed allentandosi ogni forma di gerarchia (non solo tra le arti; ma tra estetica ed etica, che già Wittgenstein definiva ‘due facce di una medesima attività’, senza dunque ci
fosse impellente bisogno di ritornare sulla questione in una non lontana Biennale d’Architettura di Venezia ...; o tra consumo colto e consumo di massa del tempo libero) dovrebbe aumentare la rete delle possibilità. E, poiché anche il tradizionale primato delle istituzioni pubbliche nella committenza dell’arte pubblica si allenta (il Rockfeller Center di New York non è più un esempio isolato di come il mecenatismo
privato intervenga direttamente sulla città; voglio citare la Trump Tower, in tutto l’efferato kitsch della sua parete interna a più livelli, per la
cui intera altezza l’acqua scorre incessantemente, perché non c’è solo l’intervento educato di Renzo Piano sul Lingotto di Torino), ne dovrebbe conseguire un aumento delle possibilità. La loro varietà dovrebbe - come logico risultato di questo ragionamento - caratterizzare il paesaggio urbano dei nostri tempi.
Come avviene dunque che questa varietà non si produce affatto? E
che, al contrario, una certa quantità di edifici griffe che hanno avuto
celebrità negli ultimi anni, si assomigli pericolosamente? E che questi
edifici possano sembrare progettati più per il non luogo della città mediatica globale, che non per le città reali in cui sorgono? L’Auditorium
romano di Renzo Piano è stato comunicato come l’arrivo, quasi messianico, della contemporaneità anche a Roma; ma non si può certo affermare che la progettazione dell’Auditorium si sia preoccupata più di
tanto del rapporto formale con la parte di città in cui sorge. Né con il
Villaggio Olimpico, che pure unisce le firme di Libera e Moretti, né con
il viadotto di Corso Francia, subiti come meri limiti.
è giusto osservare che il fenomeno della riduzione delle tendenze
linguistiche non caratterizza solo l’architettura. Più che come conseguenza del tono generale, piuttosto friendly che agonistico, del postmoderno italiano, l’interpreto come conseguenza della concentrazione accentuata che caratterizza l’industria della comunicazione.
Non molto diversamente - vorrei aggiungere - dalle conseguenze di
gare per l’aggiudicazione di grandi appalti, come quello celeberrimo
del Ponte di Messina, dalle quali è escluso come criterio di valutazione ogni parametro di qualità, che non sia configurabile come parametro tecnico e soprattutto economico.
Non credo, vorrei aggiungere, che questo panorama sia soltanto
italiano. Relativamente poche opere divenute icone globali stanno
prendendo il posto nel mondo che prima apparteneva ad un sistema,
in perenne conflitto ed ibridazione, di culture locali capaci di governare se stesse. Questo può ritenersi una conseguenza inevitabile della
globalizzazione, ma è il tipo di modello che si sta affermando - in relazione con l’astrazione della comunicazione più efficace, piuttosto
che con la concretezza di un luogo - a generare perplessità.
Per la sua neutralizzazione, occorrono più condizioni. Partirei da
una rinnovata capacità di osservazione critica, che si traduca in un’intelligenza ed in un progetto leggeri. L’ultima volta è forse accaduto
con la Transavanguardia di Achille Bonito Oliva. Nel campo dell’architettura, né la Tendenza di Rossi, Aymonino, Semerani, Dardi e Polesello; né la Strada Novissima di Portoghesi alla Biennale di Venezia;
né Mario Fiorentino con la costruzione del Corviale, in contrappunto
ai suoi corsi ed alle discussioni con il gruppo dei suoi assistenti all’Università di Roma, sono riusciti a tanto.
Darò una specificazione soggettiva di un’altra condizione. Questa
si eserciterà all’interno dell’altra categoria kantiana essenziale alla nozione di progetto: il tempo. Paragonando il tempo occorrente all’elaborazione del progetto a quello necessario alla sua percezione, appare immediatamente che non si tratta di quantità paragonabili. Non a
caso Cesare Brandi propone per l’opera d’arte il concetto d’astanza.
La semplice presenza dell’opera d’arte contiene la quantità d’informazione sufficiente al suo godimento. Questa sensazione può essere affinata ed elaborata, ma è anche - e lo è in primo luogo - emozione immediata.
Oggi la forza dell’arma principale, con cui l’opera d’arte può imporre a noi la sua astanza, l’immagine, è indebolita dalla sua stessa diffusione. La quantità di immagini che recepiamo ogni giorno, proposta
dai mezzi di comunicazione di massa, dall’edicola dei giornali alla tv,
allo schermo del computer o del videofonino, equivale ad un’iconoclastia attraverso il potlach, lo scambio eccessivo.
Da qui la mia convinzione - ma ogni architetto potrebbe forse proporre una ricetta diversa - che uno scambio corretto tra architettura e
le altre arti, che arricchisca l’architettura del loro immaginario, anziché
imprigionarla impoverendola in un altro sistema di regole, possa avere origine da una sorta di doppio movimento. In questo contatto che
l’altro da, l’architettura può rinnovare la propria capacità semantica,
piuttosto che tentare di assimilare la specificità di altre arti, proponendosi come una sorta di grande scultura urbana.
Il doppio movimento riguarda da un lato le modalità di progettazione. Si tratti della formula - solo in apparenza semplice - di Rem Koolhaas (‘XL, X, M, S’); o delle raffinate elaborazioni sulla sezione aurea
di Cesare Cattaneo: non esiste progetto senza l’auto imposizione di
una regola, la scelta di un punto di vista. Ma questa regola, ducham-
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pianamente, è celibe, non genera nulla da sé sola. Ha ragione Franco Purini, quando afferma la qualità dell’architettura come qualcosa
che deve essere nascosta. Ha ragione Mies van der Rohe quando afferma che questa qualità (cioè Dio) può rivelarsi - li abita - solo nei
particolari. Voglio sottolineare che l’eccesso di comunicazione uccide
il gioco, e che un certo grado di gioco sapiente, di invenzione libera e
disinteressata, è necessario all’arte, in particolare all’arte dell’architettura, che già Milizia trovava a rischio di noia.
L’altro movimento, quello della comunicazione, non più la costruzione ma il suo spettacolo, sarà tanto più efficace quanto non pretenderà di integrarsi, quasi spiegandola, con l’architettura, ma vorrà piuttosto metterla a cimento. L’effimero non ha certo aiutato a comprendere criticamente il senso né della piazza del Beaubourg, né della Basilica di Massenzio.
Ma certo il Colosseo illuminato in rosa o in violetto, o l’aquila di Napoleone, che spiega le sue ali su tre schermi piazzati davanti all’Arco
di Costantino nel film di Abel Gance, ultimo kolossal del cinema muto, hanno arricchito la serie delle relazioni simboliche che oggi - duemila anni dopo Cristo - possiamo intrattenere con i monumenti dell’antica Roma. Mentre la grande piazza inclinata del Beaubourg, realizzata con uno sventramento nel cuore del Marais, già in partenza è stata concepita come il luogo di uno spettacolo continuo, capace di dare
un senso nuovo all’arte di strada parigina, e di produrre, come suo
completamento, quel grande gioco urbano che è la fontana di Tinguely. L’evento e la sua scena fissa possono sempre trovare nuove ed impreviste relazioni, non ancora esaurite né dalla storia degli allestimenti d’artista in piazza Plebiscito a Napoli, né dai tentativi di diretta televisiva dei Capodanni urbani, dei concerti del Primo Maggio, etc.
Proprio la ricchezza delle possibilità mi fa trovare strano l’impoverimento e la banalizzazione in stereotipi, diffusi in modo ugualmente
massiccio ed omologante, dell’immagine delle nostre città contemporanee. Una paradossale situazione cui è impossibile rassegnarsi.
Marco Peticca
Architettura è Arte
Il tema è ‘Architettura e Arte’. Nel magnifico cortile rinascimentale
del Palazzo Ducale dei da Varano pongo un accento, una congiunzione diventa un verbo, il titolo del convegno cambia e appare così quello del mio intervento: ‘Architettura è Arte’. Sembra una ovvietà, ma mi
accorgo subito che è un tema arduo da sviluppare. Con cinque brevi
note, cinque diversi argomenti, si afferma che l’Architettura è:
1. costruzione, opera realizzata;
2. razionalità e fantasia;
3. arte e scienza;
4. consapevolezza del fatto che costruire è contemporaneamente
distruggere;
5. arte civile.
Così espongo brevemente alcuni frammenti di pensieri dubbiosi.
1. Cosa intendiamo per Architettura? Il disegno o le opere? Il corpus disciplinare o la fabrica? Ambedue senza confonderli però!
L’Architettura comunemente e ufficialmente è ritenuta un’arte; tuttavia ciò che, nel diffuso sentire, apparentemente la allontana dalle altre arti sono la utilitas e la firmitas; tanto che, se l’Architettura fosse
solo venustas, forse sarebbe più facile dimostrare la sua artisticità,
ma, senza tali peculiari caratteristiche, certamente l’Architettura verrebbe snaturata e non sarebbe più Architettura. è una questione di
dosi, di quantità, di equilibrio tra le parti componenti.
Ma lo ‘specifico’ - riesumando un efficace termine sessantottino dell’Architettura è proprio l’utilità pubblica e privata, ove risiede la sua
civiltà, la sua eticità: ciò tende ad allontanare e a sfumare la percezione della ‘artisticità’ dell’Architettura che invece, proprio in quelle caratteristiche, fonda la sua prima ragione di essere. Senza utilità, per non
dire senza stabilità, non c’è arte nell’Architettura anzi non c’è l’Architettura. C’è altro. Si trasferisce il senso verso la scenografia, la scultura, la land-art e verso altre manifestazioni il cui essere arte risulta
molto più facilmente e indiscutibilmente accettato proprio perché so-
no manifestazioni più lontane dai bisogni umani primari.
Ancora oggi una concezione accentuatamente ottocentesca dell’Architettura la vuole scissa da uno dei suoi primari aspetti intrinseci
e fondanti: quello tettonico, di costruzione, di opera realizzata.
La dipendenza dell’Architettura dalle leggi della fisica, dalle caratteristiche della materia e dalla materia stessa, che all’Architettura dà
corpo, apparentemente le sottraggono il valore artistico ‘alto’.
Sulla disciplina, all’interno del fare Architettura, tra gli architetti e gli
altri operatori del settore, si riflette una stessa ombra portata da una
fuorviante concezione dell’arte che penalizza e scinde la nostra Architettura: vi è da una parte ciò che è nobile, elevato, sublime, ideale e
come tale valorizzato e, nello stesso tempo, si trascura il fatto che l’Architettura è il risultato che si ottiene ponendo materia su materia, materia a fianco di materia (il che viene correntemente e concordemente
ritenuto vile, prosaico). Nell’Architettura non c’è l’anima separata dal
corpo o meglio non c’è anima senza corpo, né corpo senza anima. Il
corpo dell’Architettura è la sua anima e la sua anima coincide con il
suo corpo. La materia coincide con il cosiddetto ‘spirito’ dell’Architettura, con il suo spazio, con il suo tempo. L’architettura è costruzione e
la costruzione non è una subordinata della composizione architettonica, ne è la continuazione. Dunque l’Architettura è costruzione.
2. Se, come pare accertato, nella parte sinistra del cervello risiedono le facoltà della logica e nella parte destra risiede la creatività, sicuramente il cervello è uno solo. L’Architettura non è soltanto fredda razionalità, né solo fantastica visione. La fantasia sostiene ed è a sua
volta sostenuta dalla logica; esse insieme supportano il pensiero e la
parola, strumenti del linguaggio umano: prosa e poesia. La poesia
scavalca, supera la barriera della coscienza e affonda le radici, quelle che le danno efficacia e ragione di essere, nell’inconscio, dove le
antitesi si congiungono e si identificano. La ‘lateralità’ è un elemento,
un veicolo fondamentale per condurre una composizione architettoni-
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ca e produrre un’opera di Architettura dove accade che, quando si
conquista solo razionalmente il ‘centro’ del problema, si perde per intero il problema stesso, la sua unitarietà. Per produrre un’opera di Architettura è necessaria la simultaneità di un atteggiamento razionale
e di una veste poetica, dove l’uno trasmuta nell’altra e viceversa. Dunque l’Architettura è insieme razionalità e fantasia.
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3. Nell’introduzione a ‘Architettura - Saggio sull’Arte’, Etienne Louis
Boullée si domanda: ‘Cos’è l’architettura? La definirò io, con Vitruvio,
l’arte del costruire? - una bella sintesi - Certamente no. Vi è in questa
definizione un cuore grossolano. Vitruvio prende l’effetto per la causa.
La concezione - dico io l’idea - dell’opera ne precede l’esecuzione. I
nostri antichi…’. Successivamente Boullée pretende di scindere nell’Architettura l’arte dalla scienza dove: ‘…l’immagine della capanna
primordiale, che precede nella mente dell’uomo la sua costruzione…’
rappresenta ‘…produzione dello spirito…’ ed è ciò che ‘…costituisce
l’architettura e che noi di conseguenza possiamo definire come arte di
produrre e di portare fino alla perfezione qualsiasi edificio’.
‘L’arte del costruire è quindi qualcosa di secondario che a noi sembra corretto indicare come la parte scientifica dell’architettura. L’arte e
la scienza; ecco ciò che noi crediamo dover distinguere nell’architettura’. Boullée gerarchizza, separa, specializza. Il secolo dei lumi porterà conseguenze incisive sugli ordinamenti civili d’Europa e di tutto il
mondo occidentale; per quanto ci riguarda più da vicino: la scissione,
inconcepibile per l’Architettura, tra scuola di belle arti e scuola politecnica; scissione dalla quale dobbiamo ancora oggi riprenderci completamente. Grande frattura della disciplina architettonica che negli ordinamenti scolastici a volte, spesso, pone la composizione, riduttivamente detta progettazione, lontana, quasi in contrasto con la progettazione esecutiva, con la costruzione dell’opera e con l’opera stessa!
Nel pensiero dell’uomo e nelle sue migliori opere, comprese le opere di Architettura, la razionalità trasmuta in fantasia e il fantastico in razionale. Non vi è limite netto tra espressione razionale e espressione
fantastica. Dunque l’Architettura è arte e scienza.
4. Va acquisita la consapevolezza del fatto che costruire è contemporaneamente anche distruggere. Non v’è azione edificatoria che non
implichi azioni demolitorie, distruttive. Fatto ad arte e artefatto sono
composti con gli stessi etimi e esprimono due diversi e divergenti significati. Artificio significa anche inganno. Pertanto si noti il linguaggio
tradizionale della critica d’arte e dell’estetica, dove abbondano frasi e
parole come: le conquiste dell’arte; il sublime; l’impalpabile; il sacro;
l’orrido; il mostruoso - nel doppio significato -; il funesto; il terribile; l’armonia; la gradevolezza; la gioia; l’estasi …
L’emozione che trasmette un’opera d’arte a volte, spesso, è violenta. Il suono della propria voce ‘interno’, ‘cavernoso’, ‘osseo’ che si per-
cepisce al centro del tholos nella Tomba degli Atridi a Micene, oppure
al centro di una delle volte circolari ribassate a sezione ellittica del soffitto del primo piano del parcheggio sotterraneo di Luigi Moretti a Villa Borghese a Roma, suscita impressione e incute terribilità, nella immediata dualità che si stabilisce tra noi, la nostra carne e la pietra, tra
l’Architettura e l’uomo. E il sublime dell’arte è lo stesso della guerra:
chi non è stato orribilmente affascinato dalla sequenza dell’attacco alle Twin Towers? E prima ancora dalla visione della grandiosità mostruosa di un’esplosione atomica? E il fascino del fuoco? La sua bella potenza che annienta? La sua luce accecante e il focolare domestico, i ‘fuochi’ dei censimenti antichi. Nella triade vitruviana per definire l’Architettura è nominata la Venustas, ma Venere è l’amante di
Marte. La marzialità con le sue azioni distruttive è l’altra faccia della
medaglia dell’arte e dell’Architettura. Ares, Marte con la sua forza micidiale si unisce a Venere, forza edificante e produttiva. La mitologia
degli antichi greci e romani offriva e offre ancora una diffusa consapevolezza della compresenza e coincidenza di due forze contrapposte,
amore e odio, amore e morte, della bivalenza delle due azioni. E poi
Armonia, agli artisti così cara, è figlia di Venere e di Marte. Questa
consapevolezza va esplicitata e tenuta attivamente presente quando
ci si occupa di Architettura. Dunque costruire è distruggere.
5. Chi è l’architetto? Cosa è l’Architettura?
Trovo la risposta nelle parole di Hans Poelzig per il quale l’insegnamento della composizione architettonica è più che un ‘dovere’ accademico e una attività subordinata alla ‘professione’ di architetto.
L’insegnamento di Poelzig allena alla incertezza e rafforza il dubbio. L’architetto non è uno specialista, non è - solo - colui che sa disegnare, né colui che ha - solo - fantasia. Essere architetti, fare Architettura ha attinenza con la sfera etica: è lotta contro se stessi e contro le debolezze della natura umana. La definizione corretta di architetto è offerta da questo poco frequentato maestro quando afferma
che: ‘Essere architetto non significa essere uomo del mestiere nè
specialista, bensì uomo, combattente per tutto ciò che è umano’.
Dunque l’Architettura è arte civile.
Principali riferimenti bibliografici
Cesare Brandi, Eliante Arcadio o della scultura, Eliante o della architettura, Giulio Einaudi editore, 1956.
Etienne Louis Boullée, Architettura saggio sull’Arte, Marsilio Editori/Padova, 1981.
Marco Biraghi, Hans Poelzig, Architettura Ars Magna 1869-1936, Arsenale Editrice
S.r.l./Venezia, 1992.
Margherita Petranzan e Gianfranco Neri, Franco Purini, La città uguale, Il Poligrafo casa
editrice/Padova, 2005.
Marco Peticca, Parole … Aforismi, digressioni, note e racconti brevi di architettura, Editrice Librìa/Melfi, 2005.
James Hillman, Un terribile amore per la guerra, Adelphi Edizioni S.p.a./Milano, 2005.
Massimo Pica Ciamarra
Arte negli edifici e città come opera d’arte
1. Dipinti, bassorilievi e sculture un tempo erano parte integrante
dell’architettura. Gli spazi delle chiese e dei grandi palazzi erano animati da affreschi ideati indissolubilmente per loro; le sculture articolavano facciate, raccordavano al cielo le costruzioni, integravano gli
spazi esterni del costruito. Quando queste integrazioni - spontanee,
quasi naturali (sono nelle architetture rupestri, nella civiltà micenea ed
in quella egiziana, nei templi greci e nell’architettura romana, nella
cultura cinese, indiana ed atzeca) - danno segni di stanchezza, cioè
quando riduzionismi, semplificazione del gusto e banalizzazioni del
costruire prendono il sopravvento, in Italia si immaginò di poter sostenere ‘per legge’ l’arte negli edifici. Nacque così la legge ‘del 2%’ - voluta da Giuseppe Bottai, Ministro dell’Educazione Nazionale dal 1936
- scaturita dal dibattito che coinvolse Argan, Gadda, Longanesi, Montale, Quasimodo, Ungaretti ed altri protagonisti della cultura italiana:
per legge il 2% della spesa di ogni costruzione doveva riguardare
‘opere artistiche’.
Tre Gazzette Ufficiali in sequenza - 1942/1949/1960 - documentano la vicenda di questa norma negli anni centrali del secolo scorso: le
immagini correlate (in una litografia numerata avuta trent’anni fa non
ricordo da chi e della quale non riesco più a decodificare le tre firme)
richiamano le ben diverse realtà di quei periodi della nostra storia. Ancora nel 1997 la Legge 352 - ‘Disposizioni sui beni culturali’ - disquisisce sulle commissioni giudicatrici; poi - luglio 1999 - il Disegno di
Legge sull’architettura rinverdisce questa norma desueta, demagogicamente riaffermata anche nella Legge sull’Architettura recentemente approvata. Non oso pensare a quali immagini contemporanee i miei
donatori avrebbero affiancato a queste Gazzette.
Una constatazione però è certa: quando le opere d’arte entrano
‘per legge’ negli edifici, perdono la capacità di integrarsi. Non più componenti essenziali del messaggio o della testimonianza che l’edificio
sostiene, tendono a ridursi ad accessori che sembrano avvalorare Sir
Gilbert Scott e la sua assurda definizione di architettura come ‘orna-
mento della costruzione’. Eclatante il caso delle stazioni della Metropolitana di Napoli: benché qui le opere d’arte travalichino ampiamente la quota del 2%, benché introdotte con finalità di ampio respiro, anche qui sembrano giustapposte, ‘abbelliscono’, appartengono ad
un’idea forte, ma mostrano indifferenza agli spazi dove sono immesse. Per 70 anni quindi si è sviluppata in Italia una rincorsa legislativa
ancorata ad una visione dell’architettura anacronistica, estranea alla
condizione contemporanea.
Finché le città si andavano formando attraverso processi ormai obsoleti, poteva anche essere concepibile che i singoli edifici vivessero
delle loro figure e che i loro stilemi potessero assumere valore essenziale. Però non è stato sempre così. Le città sono nate come luoghi di
difesa - prima di tutto dalla natura - luoghi di scambio, di aggregazione, di identità. Gli spazi delle città venivano definiti per avere senso,
cioè per rappresentare e consentire riti. Da sempre il senso più profondo del costruire è insito nelle relazioni fra le parti, anche se storia
dell’architettura, codici e manualistica hanno focalizzato l’attenzione
sulle qualità espressive dei componenti costruttivi. Di tutt’altro segno
è l’analisi storica delineata da Reyner Banham in The Architecture of
the Well-Tempered Environment o quella di Bruno Zevi, specie nelle
straordinarie letture dei 20 monumenti + 20 complessi edilizi + 20 spazi aperti. Oggi - in insiemi dove caos, contraddizioni, diversità e complessità sono fattori positivi - dimensioni e velocità evolutiva hanno reso evidente che architettura è anche - soprattutto - paesaggio, infrastrutture, urbanistica; che la qualità delle trasformazioni va cercata nel
dialogo fra frammenti, fra edifici e contesti; che prevale l’interesse per
l’armatura formale degli interventi, mentre i linguaggi dell’architettura
fanno i conti con il design dei componenti di produzione industriale.
Oggi non ha senso alcuno ‘aggiungere’ opere d’arte all’architettura:
l’espressione architettonica risiede anzitutto nelle relazioni immateriali con i contesti; il senso di un intervento è molto al di là del suo linguaggio o di protesi singolarmente espressive.
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Di qui la relativa indipendenza fra ‘armatura della forma’ e ‘linguaggi espressivi’; la profonda distinzione fra ‘materiali della costruzione’ e
‘materiali dell’architettura’; l’architettura intesa come ‘costruire secondo principi’ ed estesa all’insieme dei processi di trasformazione dell’ambiente di vita. Di straordinaria chiarezza l’affermazione di Giancarlo De Carlo: Credo nell’eteronomia dell’architettura, nella sua necessaria dipendenza dalle circostanze che la producono, nel suo intrinseco bisogno di essere in sintonia con la storia, con le vicende e le
aspettative degli individui e dei gruppi sociali, coi ritmi arcani della natura. Nego che lo scopo dell’architettura sia di produrre oggetti e sostengo che il suo compito fondamentale sia di accendere processi di
trasformazione dell’ambiente fisico, capaci di contribuire al miglioramento della condizione umana.
Che necessità ha la nuova Fiera di Milano di opere d’arte? Il Museo
della cultura ebraica a Berlino non era decisamente più interessante
quando era privo dei suoi allestimenti? Il Guggenheim di Bilbao è nato per accogliere espressioni d’arte contemporanea, ma l’interesse
che suscita non è per quanto contiene: c’è chi lo apprezza per l’inconsueto linguaggio espressivo o chi come me è maggiormente attratto
dal formidabile intreccio con le infrastrutture ed il contesto in cui si è
immerso. Un qualsiasi ponte di Maillart o di Calatrava non è di per sé
assimilabile ad una gigantesca scultura? Nessuno di questi ponti accetterebbe sequenze di statue come quelle che stabiliscono spazialità e senso del Ponte di Castel Sant’Angelo a Roma.
Per quasi apodittica definizione, l’architettura non cerca - spesso
non tollera - né aggiunzioni né decorazioni.
2. Questo non vuol dire che qualsiasi architettura - qualsiasi formazione o trasformazione dell’ambiente - non possa o non debba nascere dal pensiero integrato di partnership complesse - formate da esperti provenienti da settori disciplinari diversi ma capaci di ‘in-disciplina’ cioè liberi da ottiche settoriali, aperti alla molteplicità dei punti di vista:
partnership di cui siano parte anche ‘artisti’, cioè persone tese a suscitare emozioni soprattutto attraverso elementi privi di funzioni codificate o conosciute.
Sentivo tempo fa Joseph Rickwert distinguere ‘teoria’ - testimonianza di esperienze, strutturazione di idee e pensieri scaturiti dal fare - da
analisi critica ed argomentazione filosofica. Sviluppo allora un ragionamento teorico limitato, ma fondato su esperienze dirette. Sin dalla
fase di concezione di alcuni progetti ho avuto occasione di dialogare
con artisti che non esaurivano il loro contributo nell’autonomia espressiva di un qualcosa bene o meglio collocato nello spazio. Il progetto è
il prodotto di partnership animate da contrasti ma anche da un simultaneo comune sentire: interazioni, non azioni a cascata.
Umberto Mastroianni utilizzò alcune sue ‘esplosioni’ nel progetto
per il Parco nel centro storico di Reggio Emilia. Con Gianni Alfano
nacque il tema spaziale che anima l’interno della casa DG a Massalubrense. Renato Barisani disegnò il ‘muro’ su cui si fondava la proposta di ridisegno della Lutzowplatz a Berlino. Anche i giochi plastici
della fontana dell’Istituto Motori del CNR - le articolate appresature di
mattoni su piani sovrapposti - derivano dal mancato finanziamento dopo il concorso - della soluzione discussa e disegnata con lui. Riprendemmo quelle tracce nell’intreccio materico della piazza antistante. Molti temi alla base della Piazza di Fuorigrotta hanno radici in dialoghi con registi o nella ‘videocittà’ focalizzata in uno dei primi Festival di Narni curati da Carlo Infante. I grandi obelischi che delimitano
come ‘termini’ lo spazio della Piazza, furono di supporto ad interpretazioni di artisti della comunicazione come Pietro Grossi, Marcello Aitiani, Mit Mitropoulos, Patrik Prado e Fred Forest. Con Fred proponemmo poi alcune sistemazioni per i giochi olimpici di Atlanta: è suo
il buco del mondo cui si ispira la base della ‘ciminiera/periscopio’ della Città della Scienza a Bagnoli. Qui Dani Karavan ha realizzato la sequenza delle 19 porte della conoscenza fissando quello che diventerà il percorso d’ingresso al Museo. Sempre nella Città della Scienza,
captando elementi dello straordinario paesaggio di cui quella architettura voleva entrare a far parte, abbiamo realizzato il ‘pensatoio’, lavorando su ‘assenze’, smaterializzando, immettendo solo trame contrapposte ed un albero di ulivo.
Il luogo per pensare - realizzato a Verona in occasione della mostra
‘L’uomo e la pietra’, ma previsto per il Parco di Civita Castellana - intreccia esperienze e poesie diverse: un posto per navigare con la
mente. Seduti, guardando il nord polare nella sottile fessura fra due
muri a fasce orizzontali di pietra con diversi trattamenti, in sommità
percorsi da rivoli sonori d’acqua saltellante resi metereopatici da una
cellula fotovoltaica. Ci si siede su blocchi sagomati che sorgono dal
piano ribassato, con inserti forati per raccogliere la pioggia fra muri arcuati a guisa di prora, pavimenti con inserti a bassorilievi indicano il
tempo che trascorre. Fra alcune lastre del pavimento prorompono
nontiscordardimé.
Per Ponte Parodi a Genova, l’obiettivo era una Piazza che captasse la musica del vento avvalendosi di un’orchestra con regia informatica (dovuta sostanzialmente a Raffele Pisani, esperto di acustica di
rara sensibilità ed esperienza). Tutt’altre le ‘arpe eolie’ del progetto
(poi abbandonato) per l’attraversamento della Baia del Cattaro dove
musica e luce volevano essere elementi forti del paesaggio. Attualmente Maurizio Nannucci si accinge a rafforzare lo spazio traforato
che impronta la Biblioteca comunale in costruzione a Pistoia.
Queste esperienze - ma anche i recenti progetti di concorso per la
Porte d’Hollerich a Luxembourg, l’ampliamento del Museo San Telmo
a San Sebastiàn o il ridisegno di Piazza Brunelleschi a Firenze - sono tentativi che non si limitano al mondo delle ‘arti figurative’: emozioni che non coinvolgono solo il vedere, ma vorrebbero estendersi a tut-
ti i nostri sensi. L’arte, la civiltà - come diceva Antoine de Saint-Exupery - non ha solo a che vedere con le cose materiali, ma con gli invisibili legami che legano una cosa ad un’altra.
Il rapporto arte/architettura non si esaurisce in intrecci fra arti figurative o visive. Le trasformazioni dello spazio incidono fortemente sui
comportamenti umani; possono liberare felicità, creatività, rapporti. In
questo senso non ha senso la famosa affermazione di Oscar Wilde:
tutta l’arte è completamente inutile. Lo spazio architettonico - se ci liberiamo da riduttivismi funzionalismi - trascende le utilità pratiche, ha
l’utilità sostanziale di generare reazioni emotive, diverse nel tempo e
nei contesti. Nei nostri ambienti sono fondamentali spazi di libertà,
senza funzioni conosciute né derive in recite istituzionalizzate: dove si
discuta, ci si confronti, ci si radichi, si manifesti.
Il rapporto arte/architettura coinvolge quindi molteplici forme di comunicazione ed espressione, dei singoli come della collettività. Gli
spazi abitati riflettono la cultura e le ambizioni di una società. Una volta realizzati durano nel tempo, cioè sono vissuti ed utilizzati da altre
mentalità. Lo iato temporale progetto/realizzazione, desiderio/realtà, è
ampio anche quando diviene un’aliquota di quello in Italia purtroppo
abituale. Tempo delle trasformazioni fisiche e velocità del mutare di
esigenze e mentalità hanno diverso ordine di grandezza. Il disegno
degli spazi non può quindi limitarsi a registrare desideri, deve aprire a
possibilità, intelligenze, opportunità; assume qualità artistica quando riecheggio un aforisma di Karl Klaus - trasforma la risposta funzionale, la soluzione, in enigma.
3. Non solo per gli edifici ed ogni trasformazione dell’ambiente di vita - a grande come a piccola scala - ma anche per le ‘opere d’arte’ un
assunto basilare distingue espressioni autonome, autoreferenziali;
messaggi, significati che prescindono dai contesti; dalle espressioni
tese a partecipare, legarsi, immergersi. Non propongo gerarchie. Affermo solo l’interesse prevalente per quanto sia forte nell’esplicitare il
suo essere parte di un tutto. Altra è l’ammirazione per quanto non è
ancorato saldamente ad un luogo, ai contesti fisici, spaziali ed a-spaziali che lo definiscono. Le divagazioni su queste tematiche sarebbero infinite: evito così anche di chiedermi perché un’immagine sottratta alla chiesa per la quale è nata, trasportata in un museo, non fa più
miracoli.
Ancora, è diversa la valutazione per quanto nasce per essere stabile nel tempo, e quanto invece è effimero o comunque legato a temporalità determinate. Il disegno dello spazio - l’architettura nella sua
accezione più ampia - l’ambiente di vita come lo definiscono i francesi, è il quadro delle azioni umane: spazi costruiti, ma soprattutto quelli non costruiti dei quali feci apologia l’anno scorso proprio qui a Camerino (ArchitetturaCittà n. 12-13/2005).
Ho iniziato ricordando che un tempo dipinti e sculture erano parte
integrante dell’architettura. Concludo parafrasando la nota profezia di
Keynes -verrà un giorno in cui l’economia sarà ricondotta al ruolo secondario che le spetta e diventeranno prevalenti rapporti umani e
creatività - auspicando il giorno in cui siano inconcepibili architetture
che non indaghino il rapporto fra prevedibilità dello spazio ed imprevedibilità dei comportamenti umani.
Non più quindi sculture autoreferenziali anche se abitabili, bensì
componenti del paesaggio capaci di stimolare rapporti ed ogni forma
di socialità.
L’essere parte di un luogo e dei molti contesti che lo definiscono tautologico in architettura - è inconsueto per molte altre forme di
espressione se non per la land art. La raccolta della Fattoria di Celle
- ne rendo la sintetica informazione ‘istituzionale’ di Pier Luigi Guastini - è uno straordinario esempio di arte ambientale, quella particolare
forma di espressione in cui lo spazio non è semplice contenitore, ma
parte integrante dell’opera. L’artista individua uno spazio per la realizzazione del suo intervento, studia gli elementi del luogo (clima, luce,
vegetazione …), considera quanto pervade l’ambiente circostante,
opera in simbiosi. Camminando nel parco, vicino a ricchezze botaniche e faunistiche, si scoprono ormai quasi 70 opere - tra gli alberi, nei
prati, tra i filari di olivi, sulle acque dei laghetti, all’interno delle costruzioni - firmate da artisti contemporanei come Marino Marini, Magdalena Abakanowicz, Fausto Melotti, Bukichi Inoue, Roberto Barni, Dani
Karavan, Alberto Burri, Olavi Lann, Beverly Pepper, Gianni Ruffi, Dennis Oppenheim, Robert Morris, Ulrich Ruckriem e tanti altri. A giugno,
in occasione della presentazione del lavoro di Daniel Buren - la cabane éclatée aux 4 salles - intreccio labirintico/lineare di specchi e colori - apprezzando i minuti dettagli di questa ‘para-architettura’ riflettevo
su come - a differenza dell’architettura che vive di contaminazioni,
adattamenti, mutazioni d’uso - per le ‘opere d’arte’ il dettaglio - ogni
elemento del linguaggio - è essenziale. Sopratutto osservavo come
chi era lì, dentro ed intorno alla cabane éclatée, ne vivesse diversamente l’esperienza. Quelle di Celle sono straordinarie opere d’arte
che perdono autoreferenzialità, proprio mentre in architettura vacue
mode ricorrenti sembrano affermare l’opposto: gli edifici non solo si
avvalgono dei minuti linguaggi espressivi dei propri componenti industriali, ma nel loro tutto addirittura sconfinano nel design, negli oggetti, esaltano proprie autonomie espressive.
Gli edifici che anni fa in Francia venivano definiti les objets trouvés
(significato in italiano: non già trovati, bensì perduti, vale a dire quelli
che, perso ogni rapporto, galleggiano nello spazio) - queste forme dell’edificare sono denominate oggi les solitaires, con tutta la tristezza
del termine. Sono edifici che puntano a perfezione interna, si definiscono intelligenti, ma ignorano il contesto, proprio come le prime forme di vita, trasparenti, dotate di simmetria bilaterale, esseri primordiali che poi, nella catena evolutiva, acquisendo la pelle e non più traspa-
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umani, creatività - mitigato l’interesse per gli oggetti in sé - si esalta
quello per le relazioni, spaziali ed a-spaziali. Dall’arte negli edifici e
dall’arte di costruire le città, si trasmigra nella costruzione sociale di
nuovi paesaggi urbani, da cui città come opere d’arte.
renti, hanno potuto deformarsi o meglio acquisire reali ragioni di forma, stabilire relazioni, raggiungere superindividualità e quindi forme di
socialità.
Se gli ambienti di vita debbono sostenere comportamenti, rapporti
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Illustrazione da Fletcher, Sir Bannister, A history of architecture
Linguaggi espressivi che hanno origine
nel design dei componenti
Pica Ciamarra Associati, Intrecci di architetture
Pica Ciamarra Associati, Pensatoio,
Napoli/Bagnoli - Città della Scienza
Frank O. Ghery, Museo Guggenheim a Bilbao
Franco Purini
Arte e architettura tra mistero ed eversione
Il rapporto tra l’arte e l’architettura, emerso prepotentemente negli
ultimi anni come protagonista del dibattito disciplinare e anche della
trasformazione reale delle città, non può essere indagato con la necessaria tensione innovativa se si rimane all’interno di questa stessa
bipolarità ovvero all’interno di un modello sostanziale militare di sopraffazione, di invasione, di conquista. Considerando infatti l’arte in
rapporto all’architettura nasce subito un problema di competizione tra
la pittura, la scultura, la video-arte, l’installazione, le performance, ma
anche il cinema, la fotografia, la pubblicità e l’architettura, una competizione nella quale si cerca di trovare quali sono gli elementi distintivi
dell’una rispetto alle altre e di queste rispetto alla prima. Sapere che
l’architettura è un’arte che incorpora elementi delle altre arti non serve a molto, né aumenta la conoscenza del rapporto tra l’arte e l’architettura accertare quanto di queste altre arti possa essere incluso nell’architettura senza che questa perda la sua specificità. Certo, si potrebbe affermare che l’architettura è l’arte nella quale la presenza dello spazio, che c’è anche nelle altre arti, si fa presenza non solo rappresentativa ma fatto concreto, fisicità che si aggiunge comunque alla rappresentatività virtuale dello spazio che c’è anche nell’architettura, che quindi considera lo spazio stesso due volte, vale a dire spazio
reale e spazio traslato. Detto in altri termini questo discorso significa
che l’architettura è un’arte che, a differenza delle altre, accoglie in essa il corpo, quasi ingerendolo, laddove la pittura, la scultura, la videoarte, l’installazione, la fotografia, il cinema o la pubblicità lo presuppongono all’esterno come lettore, fruitore, interprete, modificatore. Ingerendo il corpo, l’architettura lo sottopone a una sorta di TAC istantanea
che lo seziona a strati e poi lo ricompone in altri assetti dopo averlo
sottoposto a processi cinetici e a complesse manifestazioni visivo-tattili nelle quali è importante il senso della contiguità con le masse tridimensionali e con la profondità prospettica. Tale operazione decostruttiva/ricostruttiva ha la sua chiave nella funzione, l’unica ragione, nonostante ciò che ha detto Adolf Loos, per la quale si fa architettura.
Bisogna comunque aggiungere che, nel rapporto tra l’arte e l’architettura considerato dal punto di vista dell’arte, quest’ultima assume
sempre il ruolo di arte applicata. La public art, l’arte ambientale, e anche la scultura nello spazio pubblico sono sempre forme d’arte in
qualche modo di servizio, che inseriscono l’arte stessa in un processo sostanzialmente entropico. Tuttavia anche il fatto che l’architettura
soltanto ingloba il corpo, pur se incontestabile, non è essenziale. Negli ultimi anni è invalsa la tendenza a considerare l’architettura un’arte incompleta alla quale solo l’arte vera può conferire una conclusione adeguata. Rimanere nell’ambito della competizione tra le arti non
aiuta a comprendere veramente la natura del rapporto tra l’arte e l’architettura, finendo nel migliore dei casi con il favorire la messa a punto di una sorta di tassonomia di ruoli, nella quale ci sarebbe la vera arte, ovvero quella dei musei, l’arte applicata, l’arte terapeutica e pedagogica, le arti della strada, ovvero le arti dell’appropriazione, della narrazione e della trasformazione dello spazio urbano, dallo street style
ai writers, dal parkuor all’estremismo dei black bloc. In sintesi la dilagante modalità dell’architettura-installazione, espressa soprattutto
dalla tematica dell’involucro, della pelle, del rivestimento, magari facendola risalire a Gottfried Semper, dimostra interamente il suo carattere non metaforicamente, ma sostanzialmente superficiale, dal momento che essa segna l’abbandono della complessità testuale del costruire a favore di un suo aspetto marginale.
Quest’ordine di riflessioni, centrate sull’identità delle arti, presenta
un insuperabile limite accademico, un limite troppo pronunciato perché riesca ad essere superato per costruire un discorso più efficace.
Invece risulta più utile, anche se non del tutto risolutivo, il modello logico della comunicazione. Osservato da questo angolo visuale, che
comporta la centralità dell’immagine nella sua ambigua consistenza
tra assenza e presenza, il rapporto tra l’arte e l’architettura entra nel
grande tema emerso nella seconda metà del Novecento con la pop
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art, una forma d’arte che sembra aver sconfitto definitivamente ogni
concezione estetica basata sull’idea che un’opera d’arte è un fenomeno ermetico, esclusivo, in sostanza iniziatico ed elitario. Qualcosa che
vive tra Sigmund Freud e la Scuola di Francoforte e che presenta
l’esperienza estetica come una pratica della crisi sostenuta da quella
linea analitica di cui ha scritto Filiberto Menna. Il dentro come luogo
introspettivo, come ambiente appartato nel quale l’arte si configura
come la manifestazione più alta dello spirito, è stato sostituito dal fuori come estroversione, come espansione dell’io in una gratificante e
spesso euforica esplorazione del mondo. Un mondo fisico opposto a
quello psichico. Incorporando la triade costituita da Marcel Duchamp,
Andy Warhol e Guy Débord, la comunicazione ha totalmente ridefinito il rapporto delle arti con se stesse e con il loro farsi sistema, ponendo in primo piano tre fenomeni: la trasmissione di informazioni; la produzione di emozioni sotto il segno dell’intrattenimento; l’introduzione
subliminale di modelli culturali alti tradotti in slogan mediatici, modelli
utili alla costruzione di grandi mitologie collettive aventi come finalità
l’illusione dell’immortalità, della felicità, della bellezza, dell’unicità. Anche dal punto di vista della comunicazione non ha alcun senso distinguere ancora i ruoli delle varie arti, dal momento che esse si ritrovano immerse in un tessuto uniforme di emissioni segnico-semantiche
le quali presentano il carattere di una genetica interscambiabilità come effetto di una sostanziale equivalenza. C’è inoltre da credere che,
se è vero che l’arte è anche comunicazione non può essere costretta
solo in quel ruolo, cosa che aumenterebbe quella entropia di cui si è
già detto prima.
Uno sguardo forse più appropriato al problema è quello del consumo. Più che una esigenza logico-critica che cerchi le distinzioni specifiche, più che la comunicazione come, può essere infatti il consumo
una chiave giusta per comprendere cosa significhi, al di là delle apparenze, il rapporto tra l’arte e l’architettura. Rifiutando ogni orientamento moralistico o facilmente politico occorre rendersi conto fino in fondo che il consumo è una forma di conoscenza del mondo. Si potrebbe definire il consumo come la forma di conoscenza primaria di ciò
che individualmente non si sa, non si può o non si vuole produrre in
proprio. In questo senso il consumo, nella sua progressione crescente, è l’unico strumento a disposizione non della massa in sé, ma di
ogni individuo, o meglio persona inserita nella massa, di esperire la
struttura nascosta e i valori intrinseci del mondo in cui si vive. Va da
sé che, come ogni forma di conoscenza, anche questa presenta le
sue contraddizioni, i suoi meccanismi di difesa, le sue false piste, i
suoi equivoci. La città del consumo si propone per questo come la città che si conosce solo attraverso il consumo, ma ciò non significa che
uno shopping-mall o l’Ikea non debbano essere decodificati con lo
stesso lavoro paziente e spesso seminato di errori un lavoro intrinse-
camente oppositivo con il quale si affrontava la città medievale o una
città barocca. All’interno dell’idea di consumo come conoscenza - una
conoscenza che ovviamente consuma costantemente se stessa - l’arte si pone come un luogo negato, non tanto un rassicurante non luogo quanto un luogo inaccessibile, uno spazio proibito contraddetto in
ognuno dei suoi aspetti. Nell’epoca del consumo - che si avvale e che
vive di alcuni contrasti fondanti come quelli tra vero-falso, materialeimmateriale, vicino-lontano dove il vicino indica ciò di cui è facile appropriarsi - l’arte non può non assumere anch’essa il consumo di sé
come regola. L’arte comunica oggi la sua esistenza e in questo comunicarla si consuma. Per questo, più breve è il processo della sua implosione - Damien Hirsch, Maurizio Cattelan, Jeff Koons - più elevato
appare il suo valore.
L’architettura si situa anch’essa in questa orbita ma, al contrario
delle altre arti, che possono essere effimere, in essa il consumo si pone solo come plusvalore ideale affidato all’immagine. Dal momento
che non può fisicamente consumarsi, né spostare il suo consumarsi
all’altro da sé, l’architettura si è dotata di parti o di frammenti caduchi
che possono corrispondere ai tempi ciclici e ravvicinati del consumo.
Considerato dal punto di vista del consumo il rapporto tra l’arte e l’architettura si dissolve naturalmente in un trascorrere reciproco dei vari codici, in un’appartenenza reciproca dei vari linguaggi priva, però, di
una vera necessità. Come in ogni costruzione filosofico-politico e logico-ideologica anche il consumo pone la questione di come si possa
agire e non solo pensare la consapevolezza della sua esistenza ed,
eventualmente, del suo superamento. Molti accettano oggi la logica
del consumo con un atteggiamento realistico, che appare però intriso
di un pronunciato determinismo e al contempo di un sotterraneo senso di rinuncia. Quando si accetta che la città contemporanea non abbia più una trama, termine che implica l’esistenza di una struttura, fortemente correlata nelle sue parti, di spazi e di edifici, facendo propria
la dissoluzione individualista-speculativa della città, non si è più semplicemente realisti, ma dominati dal realismo. Frank O. Gehry non si
è limitato ad accettare la funk city di Los Angeles ma, adottando una
sorta di strategia zen, approfitta di quell’energia negativa per reinvertarla completamente nelle sua stessa forme, ma con un significato del
tutto rovesciato. La scomparsa di un vero spazio pubblico è un autentico dramma per tutti e non si può accettarla sostenendo che è lo spazio mediatico o lo spazio recintato dello shopping mall ciò che ha sostituito quel tessuto di ambienti e di relazioni umane che ha nutrito le
città fino a cinquant’anni fa. Fino a cinquant’anni fa era possibile stabilire spazi di dominio reali nelle città concreta; oggi questa possibilità non si dà più se non nello spazio virtuale perché lo spazio fisico è
stato del tutto privatizzato dal consumo e ciò che il consumo lascia come scarto è spazio insicuro se non pericoloso.
è estremamente arduo comprendere se e come il consumo incrementi la libertà delle persone o la neghi: probabilmente il consumo lascia libere le persone di avere consapevolezza della sua esistenza,
preparandosi a metabolizzare, come è avvenuto con l’11 settembre di
New York e con il G8 di Genova nel 2001, immani tragedie ed eventuali rivolte. Resta il fatto che il consumo non occupa tutti gli spazi, lasciando qualche interstizio nel quale è possibile seminare indizi ed
embrioni di qualcosa non tanto di alternativo, quanto di sapientemente correttivo.
Una di queste correzioni riguarda proprio l’arte e l’architettura. L’arte non è solo comunicazione, è soprattutto mistero, irriducibilità a tutto, è espressione sorprendente, mai in accordo con il proprio tempo.
L’arte non può in alcun modo servire, e neanche l’architettura, se
non nella sua derivata prima, la sua essenza funzionale. Comprendere fino in fondo la natura inattuale, irregolare ed eversiva dell’arte, la
sua incostituzionalità nativa, in fondo la sua superiore estraneità è
l’unica chiave per capire in termini chiari la distanza non tanto del rapporto tra arte e architettura, ma del ruolo dell’arte e dell’architetto nella costruzione del futuro.
In una visione veramente innovativa della società e della città non
si può non condividere l’idea che si debba riconquistare un sapere urbano degno di questo nome, un’arte della città, come trasformazione
alchemica di una conoscenza, che è solo dell’architettura e dell’urbanistica, in qualcosa che cambi costantemente questa stessa conoscenza. Una conoscenza che riguarda l’unico compito dell’architettura, che è quello di costruire un abitare solido, sicuro e in grado di evolvere nel tempo, per tutti, un abitare che può essere bello e capace di
conservare memorie solo dopo aver garantito le necessarie prestazioni funzionali. Prestazioni nelle quali si nasconde, nonostante gli aspetti utilitari in esse presenti, un valore spirituale.
Questa conoscenza ha a che fare con tracciati, o trame; con tessuti; con distanze, con masse e con spazi, soprattutto con ciò che non
si vede, e non solo con ciò che si vede. Non tanto, quindi, relazioni,
processi, fenomeni ma questioni più solide di perimetri, lotti, confini,
misure, metriche, tipologie. Sulla strada dell’architettura-installazione
si potrà procedere ancora per poco: è molto meglio far sì che sia l’architettura a recuperare e rilanciare la quantità di arte che essa possiede - e che non è insignificante - collocandosi rispetto alle altre arti secondo le possibilità che essa avrà di proporsi come affermazione piena della libertà di conoscere e di essere consapevoli nell’ambito potenzialmente totalizzante del consumo, forse l’unica libertà oggi concessa. L’arte è sempre stata rara, così l’architettura. La democrazia
borghese, che ha più di duecento anni, ha cercato in ogni modo di democratizzare l’arte, ma - Walter Benjamin lo sapeva - ne ha democratizzato solo l’accesso, anche questo più apparente che reale.
Si è più democratici e più liberi non consumando ulteriormente la visibilità dell’arte mentre essa rimane, come le è dovuto, quasi imprendibile nel suo mondo per pochi, ma creando altra arte e cioè altra difficoltà comunicativa, altro mistero, altra eversione.
Franco Purini e Laura Thermes, Interno dello Studio Rossi, Roma, 1999
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Franco Purini e Laura Thermes,
Interno dello Studio Rossi, Roma, 1999
Franco Purini, progetto per una parete, Verona, 2000.
Redatto in occasione della mostra ‘Superfici delle città’
nell’ambito delle Giornate Internazionali dell’Arredo
‘Abitare il Tempo’ con Luigi Paglialunga
Franco Purini, collaboratore Kimberley Frederick, Progetto della nuova Galleria AAM di Milano,1991
Antonino Terranova
Arte, architettura, paesaggi metropolitani
La Città senza arte né parte come materiale poetico
Architettura, la regina delle arti, è molto stressata negli ultimi tempi, a causa della stravagante metamorfica diaspora delle principesse
e delle ancelle, una sorta di follia complessiva in cui nessuna è rimasta identica a prima, e non soltanto nelle configurazioni, ma anche negli statuti e nelle finalità primarie medesime. La bellezza sembra l’ultimo dei problemi, e per riaffermarsi come criterio deve ogni volta, come l’araba fenice, rinascere dopo la combustione, ogni volta diversa,
spesso somigliando alla bruttezza.
Nel tutto differente, che cosa chiamo allora ad una comunanza che
prometto problematica?
La nozione evolutiva di spazialità, i sistemi di relazioni tra gli oggetti, le cavità ed i comportamenti degli umani che vanno in continuità-discontinuità dagli spazi pubblici delle città consolidate alla public art che
li attraversa sporadica. L’esigenza, se volete volontaristica, è che tra il
deserto del reale virtualizzato di matrix e Zizek, gli abitanti desertificati delle banlieue di Rosetta, e le nuove desertificazioni planetarie della
sete e della fame, qualcosa di umano - magari post-human - tenga.
1. L’allargamento del GRA - il Grande Raccordo Anulare di Roma,
vedi Gomorra numero nove, ottobre 2005 - e i già abusivi che si lamentano dei disagi evidenti per le loro case in aree già ‘di rispetto’.
Corsia con cartelloni a portale delle uscite dal GRA. Snodo a quadrifoglio incompleto. Tessutalità e impianti geometrico-prospettici di Roma tra villa borghese e gianicolo e presenza dei monumenti (turistici),
a contrapposizione con la non-struttura ad infrastrutture ed enclaves
del periurbano. La nuova Ikea, la seconda sul GRA, ovvero la scatola e l’architetto. Ancora Ikea, la scatola degli elementi componenti di
un arredo di assemblaggio.
Il favoloso Giedion, la copertina con Kandinsky accanto a vedute di
grattacieli in prospettive vertiginose dal basso - altra copertina, quella
italiana, con uno snodo a quadrifoglio sovrimpresso ad una villa barocca francese. L’anno scorso a Marienbad? La cattura dell’infinito, e
poi? Immagine turistico kitsch schematica del GRA come un cerchio
con le località amene nei dintorni ... a corona.
Ouroborous, il simbolico serpente che si mangia la coda eternamente, anche come successione escheriana di lucertoloni.
Fatto centro in Roma, ‘tutte le strade portano a Roma’, con cartaginesi e celti a sud e nord ... e invece fatto centro sulla manica dalle parti di Euralille, con misure isocrone che allungano l’Italia e restringono
la Francia e la Germania ... tutta un’altra storia, del reale e dell’Immaginario.
Tor Vergata, lo snodo del GRA, il percorso autostradale, l’enclave e
il campus universitario con viabilità veloce interna dotata di rondò,
schema distributivo del campus universitario. Papa e danzatrici a Tor
Vergata, la grande Croce, i Papa boys sotto il sole nel prato ... un altro Immaginario. Il Grande Evento nell’Enclave.
Pubblicità ikea, la scritta gialla in campo blu, e il pallone aerostatico con la manina rossastra sopra la scatola. Ancora Pubblicità ikea,
componenti per assemblaggi, ed un edificio contemporaneo costruito
secondo assemblaggio.
La piazza Navona scavata nel tessuto spugnoso e però formalizzato e però piranesiano di Roma città storica. La spugna di Steven Holl,
il poroso o la schiuma come approcci contemporanei ad una tessutalità tridimensionaale degli edifici, definita ma anche aleatoria. 2001
odissea nello spazio ed Easy Rider (libertà e paura) e La guerra dei
Mondi ... ed edificio per assemblaggio postmodern di componenti preformati estetizzanti secondo iconografia citazionista ... ovvero gli ‘oggetti singolari’ negli spazi rarefatti fantascientifici e conglomerati della
metropoli, il paesaggio ‘ammobiliato’.
George Perec, lo scrittore di Specie di spazi (copertina) e del meravigliosamente schiumoso building di La vita istruzioni per l’uso ... (e
l’arrivo di una centometrista che si chiama Perec, e ti appare in google immagini, ovvero ancora icone ed aleatorietà). Il movie Being John
Malkovich ... dove c’è un inter-piano virtuale-segreto dove si abita sur-
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realmente interstizialmente, e lo schema di pianta del condominio di
Perec. Pura quantità dove si svolge la Vita anche folle degli abitanti.
Steven Holl ad Amsterdam, Steven Holl allo MIT ... e i sassi di un
museo, parallelepipedi e schiume e frammenti. Steven Holl, il fuso reticolato sospeso ... e lo split screen per un manifesto di Romeo e Giulietta. Peter Greenaway Artworks, I misteri del giardino di Compton
House, e suo confronto con Renzo Piano e con le traiettorie multimediali di Diller&Scofidio.
Euralille, assonometria del nuovo centro e veduta dello scarpone,
insomma Koolhaas e Nouvel e Portzamparc (‘la terza città’). Euralille
assonometria a volo d’uccello e ... l’esplosione delle Twin towers tra
arabi e marines, ovvero oggetti variamente sfranti nei paesaggi della
metropoli dis-soluta.
Rem Koolhaas a ‘scolpire il cielo’ ed ‘abitare lo spazio’ sul modello
del Proun costruttivista in estremo oriente e noi - Moretti - film e girotondi - a pane e nutella. Ritratti svariati di Peter Greenaway su split
page e noi ... sempre a sognare sconvolti pane e nutella.
2. ‘Il Touring, l’unico Club con tutta l’Italia dentro’, illustra la Campagna associativa 2006 con una pagina intera a colori, si tratta di un
paesaggio tutto verde dolcemente ondulato sui cui prati rasati si delineano uno specchio d’acqua ed una strada dolcemente adagiata sulle curve di livello assolutamente non intrusiva, accompagnata da punteggiature di alberature non invasive.
Sul colle più alto si appoggia una architettura tipicamente extraurbana, sul fondo, a sinistra, fa capolino la cupola di Santa Maria del
Fiore, sul piano medio, a destra, si staglia il Colosseo, sul primo piano giganteggia il Ratto delle Sabine del Giambologna. C’è una sola
automobile, al centro ma sufficientemente lontana. Quella del bravo
turista? In basso a destra, come un saluto, la firma è (però, oppure infatti?) ‘L’Italia che vorrei’. Ricorda, quella iconografia, i primi Seminari di Camerino, dove ricordo di aver usato - per argomentare - la pub-
blicità del Mulino Bianco che spalmava di superfici verdi esplicitamente sintetiche gli spazi aperti di varie città storiche, come in un allagamento di benessere da beauty Farm pervasiva.
Quel Paesaggio è evidentemente un Paesaggio Specializzato (che
possiamo sognare come Totale, ma in vacanza), un Paesaggio Turistico naturalistico benculturalistico ambientalistico storicistico separato artificiosamente da altri Paesaggi Specializzati e rigorosamente separati dal trend della Metropoli Diffusa Contemporanea, tra cui possiamo esemplificare i Paesaggi dello Shopping, a timbro pubblicitario,
o piuttosto i Paesaggi del Terziario a timbro efficientista, o ancora i però molteplici Paesaggi Residenziali.
3. Dal punto di vista dei rapporti con l’Arte si può dire che quella illustrazione pubblicitaria è puro Kitsch, ormai legittimato. Ma anche,
reciprocamente, che la ridondanza estetistica dell’illustrazione, depurata di ogni in-estetismo (parola abusata nel reparto bellezza e lifting
...), propone un Modello che è appunto purificato paranoicamente,
storicistico-passatista, insomma retrogrado e illusorio come e più di
quello della Modella Anoressica Vintage delle pagine di moda.
In-estetica, o an-estetica si presenta intanto l’arte contemporanea,
anzi sempre più slegata perfino dalle iconografie e dalle morfologie
naturalistico-veriste o illustrative, arte dopo la filosofia che non parla
né di bellezza né di bruttezza ma di segni e (crisi dei) significati.
Alla segmentazione dei Paesaggi corrisponde un altro fenomeno,
in parte contraddittorio, cioè la mescola sciatta che si sparge un po’
dovunque come in un patto scellerato pubblico-privato, veloce-lento,
ricco-povero, liscio-striato.
Ed un terzo, che potrei definire come una quasi deliberata, programmatica ‘fuga dall’architettura’, o meglio tana libera tutti da quell’architettura colta paludata come ‘pratica alta’ autoriferita, che fa letteratura sulla letteratura, e insieme non accede mai ai livelli più vivi
dell’immaginario né delle elite né delle moltitudini.
4. Credo che il senso della trasformazione l’abbia colto Pier Vittorio Tondelli quando formulò un titolo come Un weekend postmoderno
e una definizione della via Emilia e della costiera adriatica come ‘cosmogonia estiva e ferragostana della libido nazionalpopolare ... Nashville patriottica e poliglotta ...’. Identificando ‘la trasposizione del
paesaggio padano nel mito americano: la padania è terra di cento città e si configura come un unicum che la fa somigliare a Los Angeles;
la pianura confina con Rimini e coi cento chilometri dell’estiva Las Vegas italiana, e la fantasia può farla diventare una prateria ‘tra la via
Emilia e il West’, sulle parole di una canzone di Guccini’ (Alessandro
Tamburrini). L’Italia in miniatura ... come grande Parco Tematico, altrimenti?
5. ‘A partire da paesaggi sporchi’. Era il titolo di una mia relazione
per il Ministero nuovo dei Beni e delle Attività Culturali ... che non deve aver avuto ancora molto successo, come del resto il concetto di
terza-naturalità come paradigma forte dei nuovi territori metropolitani.
Paradossalmente forse ha ragione chi sospetta l’eccessiva simbiosi
ricercata oggi tra architettura e arte e pubblicità e spettacolo ... in una
festa mobile ... un po’ de-responsabilizzata ... perché?
Perché in realtà non ce la fa a dare figura complessiva all’eterogeneo, un eterogeneo così radicale da voler uscire da tutte le forme consuete di messa in scena, di messa in cornice (comprese le pratiche
retoriche dello ‘scorniciamento’) mediante azioni, comportamenti, performazioni, attraversamenti tutt’altro che formalizzanti e sempre più
smaterializzanti addirittura, fino al punto da far sospettare che intendano spostare dall’antica forma urbana alla surmodernità del virtuale
l’asse delle attenzioni comunicative ed espressive.
6. Allora il rapporto tra non-arti e non-architettura (né architettura né
ambiente né scultura ... essere tra, infraspazi, in between, ecc.) forse
deve ri-basarsi su una presa di conoscenza - magari a sua volta artistica, forse è proprio ciò che tentano in fondo gli eredi delle derive situazioniste ad esempio, e gli autori attori della public art - di come a
partire dalla broda primordiale della metropoli possano andare in
emersione vari modi dell’espressione, tra cui i più sfuggenti sembrano quelli relativi al grande Immaginario collettivo o popolare delle icone e dei simboli (spesso degradati, o rigenerati come l’araba fenice in
figure nuove, difficili da identificare da parte dell’architettura disciplinata) e quelli relativi al piccolo quotidiano domestico commerciale infrastrutturale (di nuovo, ma diversamente sfuggente per il carattere delle pratiche basse utilizzanti volentieri materie spurie, costrutti anticompositivi miscele multi-culturali tipi edilizi trans-tipologici).
Insomma: solo ‘attraversamenti’ seri e giocosi di tale broda disordinata informe spesso scorbutica potrà re-impostare i rapporti arte-architettura sulle giuste dimensioni scalari e concettuali.
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Giuseppe Arcidiacono
Le geometriche concordanze tra arte e architettura
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Negli anni ’30, presso la galleria milanese del Milione si raccoglie il
gruppo degli astrattisti, composto da Fontana, Radice e Rho (apprezzati da Sartoris che ne indica l’opera come esempio di sensibilità della civiltà meccanica1), e poi Melotti, Licini, Reggiani; e Prampolini, il
quale, per i suoi trascorsi futuristi, testimonia la continuità con le ricerche di Balla sulla struttura funzionale della forma. Il gruppo precisava
così la sua poetica: La geometria, che è sempre stata la più alta aspirazione umana, è la chiave della nostra modernità. Con le sue leggi
inflessibili e infinite essa esclude ogni arbitrio della fantasia. è il comune denominatore di tutta la civiltà moderna, è l’asse della nostra attività. è così che noi intendiamo procedere con ordine al di sopra di
ogni realtà visiva, apparente e ricreativa.2
Per il gruppo del Milione la modernità coincide con l’astrazione geometrica, impostando la pittura - scriveva Reggiani nel ’34 - senza le
carte false della sentimentalità: contro ogni espressionismo, contro
ogni interpretazione ‘romantica’ della Natura, o meglio contro ogni interpretazione della Natura. Infatti la polemica degli astrattisti è rivolta
al tentativo novecentista di riportare l’arte moderna nel campo della
realtà visiva: di riportarla cioè all’interno di quella costruzione
visiva/prospettica - propria degli antichi - che alla mimesi della Natura affidava il valore di restituzione ‘scientifica’ della realtà.
Gli antichi nella geometria sapevano e potevano rileggere tutte le
forme della natura: per questo la geometria può farsi ‘descrittiva’ e il
fuoco della prospettiva coincidere con l’occhio dell’osservatore; per
questo in ogni forma d’architettura traspare - come afferma Brunelleschi - un fantasma di membri et d’ossa; per questo l’edificio è ‘organismo’ architettonico. Se la geometria ‘discende’ dalla Natura, in architettura la gola d’una cornice può esprimere la coincidenza del profilo
architettonico con quello umano; così la colonna può interpretare col
dorico o lo jonico rispettivamente il maschile e il femminile; così una
basilica del Cataneo reca inscritta la figura del Cristo in croce e insieme Pantocratore.
Perfino una città geometrica e ideale - quella di Francesco di Giorgio - finisce col disvelare sotto il suo tracciato un giovane guerriero:
che tiene in capo il castello, in cuore la cattedrale, in pancia la piazza
col mercato, ai gomiti ed ai piedi le puntute fortificazioni.
Nella continuità naturale tra corpo umano, corpo dell’architettura,
corpo della città; la geometria - e con essa l’architettura che se ne giova per la costruzione dello spazio - si presenta e si rappresenta per
gli antichi solo attraverso la Natura. In una parola, Piero della Francesca fa l’opposto di Cézanne: se Cézanne modernamente dipinge le
arance come sfere, Piero al suo tempo poteva dipingere le sfere soltanto come arance.
Nella famosa lettera del 1904, Cézanne scrive che bisogna trattare
la natura secondo il cilindro, la sfera, il cono; al contrario, per Piero il
cono deve essere trattato secondo natura: e diventa il corpo stesso
della Vergine. Nella Pala di Brera, come nota R. Longhi, non è la concavità dell’aula bramantesca, prima del Bramante3 a produrre l’emiciclo degli astanti, ma è il disporsi delle membrature umane a produrre
la disposizione di quelle architettoniche. Avveniva così anche nel Polittico della Misericordia, dove la nicchia era il manto stesso della Madonna: l’architettura e la geometria erano rinvenibili solo dentro un fatto di Natura, solo come Natura. Per questo motivo l’uovo può levitare
al centro della Pala di Brera: perché miracolosamente, ma appeso a
un filo, è figura geometrica e uovo al tempo stesso: è spazio reale, naturale, che genera altro spazio, architettonico e prospettico.
Invece se Cézanne, o Casorati, o i cubisti, dipingono un uovo, lo
fanno perché affascinati dalla geometria, dal puro volume: essi hanno
trovato nella geometria la chiave della modernità, l’inizio di un mondo
nuovo (e Inizio del mondo si titola appunto una scultura del 1920 di
Brancusi che presenta una purissima forma ovata). Ora questa per
l’uovo - sia pure primigenio - rischia di diventare una vera ossessione
per i Moderni: Le Corbusier e Ozenfant, alla ricerca di geometrie ‘puriste’ e in polemica contro tutte le decorazioni - che apparentano l’ar-
chitettura alla pasticceria - dalle colonne dell’Esprit Nouveau tuonano:
l’uovo di Pasqua del dolciere è un crimine contro natura! - come se
fosse possibile abbellire un uovo!;4 così la Natura cacciata dalla porta
ritorna dalla finestra. Ma ritorna, appunto ‘inquadrata’ nelle forme di
una pura geometria (come in Matinée Alphabetique di Savinio, 1929).
A questa chiave di lettura, a questa ‘chiave della modernità’ non
sfugge nessuno, nemmeno i novecentisti: il Ritratto di famiglia dipinto
da Funi nel 1918 è - come la Natura morta dipinta nel ’19 da Le Corbusier - un ordinato assemblaggio di volumi, solidi nello spazio, geometrie. Così, non è un caso che l’Esprit Nouveau ospiti - come ha osservato P. Nicolin - numerosi collaboratori italiani al momento di passaggio al culto degli eterni valori, e che Morandi o Carrà risultino molto interessati alle tesi puriste.5 Le foto dei silos che Le Corbusier ritoccava, cancellando gli inutili ornamenti degli architetti/pasticceri, diventano epifanie di archetipi geometrici, di quelle forme ideali - ‘metafisiche’ appunto - che Carrà evoca in Dopo il tramonto (1927).
La geometria, che supera le distanze tra arte e architettura, rimane
anche il punto di incontro, e di scontro, fra astrattisti e novecentisti:
che si professano - con Prampolini da un lato e Carrà dall’altro - entrambi eredi del Futurismo.
Per questo, Sironi e Funi possono eleggersi firmatari nel 1920 di un
nuovo Manifesto Futurista - e non già ‘novecentista’ - che recita: Il futurismo ha insegnato tutte le libertà, tutti i coraggi, (...) ricerche di
scomposizione e di deformazione delle forme, compenetrazioni di piani, simultaneità di forme e sensazioni, ricerche di dinamismo plastico.
(...) Esaurite ora queste analisi, che hanno permesso una più completa comprensione delle forme, si sente il bisogno di una più larga e sintetica visione plastica. (...) Noi futuristi entriamo dunque in un periodo
di costruzionismo. Ora, però, non si va verso una nuova costruzione
plastica, ma si cerca invece appoggio nel ritorno puro e semplice alle
già troppo note costruzioni degli antichi. Invece - concludono - Bisogna andare avanti ad ogni costo.6
Come? Attraverso le geometrie di Cézanne. Questo non lo afferma
un modernista, o un futurista pentito, ma la ‘musa’ del movimento Novecento: la Sarfatti scrive nel ’20: Cézanne fu un classico che ritorna
oggi, in capo a tutte le strade della pittura moderna.7 Infatti i Giocatori di Cézanne tornano in capo ad Achille Funi nei ritratti del Padre e di
Tosi, come a Van Doesburg nei Giocatori di carte del 1916 o nella Trasfigurazione astratta dei giocatori di carte del 1917. A codeste trasfigurazioni Van Doesburg sembra prenderci gusto: l’anno successivo
‘dissolve’ la moglie Hélene dentro un insieme di piani geometrici (la
sequenza di ritratti denominata Composizione in dissonanza, 1918); e
continua, applicando questo principio di astrazione all’architettura (Villa De Ligt, 1919) e ad ogni cosa. Perché dopo Cézanne non si può fare a meno di vedere la realtà attraverso la geometria, di scomporla e
ricomporla avendo la geometria come mezzo, e talvolta come fine.
Se il Moderno presuppone un universo ordinato dalla geometria, dalla matematica, dalla fisica: è perché il suo riferimento - fino alla scoperta della relatività - è ancora il mondo di Newton dove tutto è determinato: dove la natura è un automa che possiamo controllare in tutti i suoi
movimenti, passo dopo passo, almeno in linea di principio8. Ne segue
per il Moderno un attardarsi in territori del sapere circoscritti da razionalismi ‘di garanzia’, con ricadute in tutte le arti, agite da un medesimo
esprit di geometria, che le riconduce ad un unico principio e rende sempre più sottili i passaggi dalla pittura alla scultura all’architettura.
Se i quadri diventano tridimensionali negli allestimenti ‘totali’ di Ivan
Funi a Berlino (1922), l’architettura può farsi scultura ‘in progress’ nella Casa Mertz del 1923, o si trasforma in quella violenta esplosione di
colori e linee di forza che suscitano l’indispettita reazione di Persico
verso la terremotata fantasia9 di un insospettabile Terragni, allestitore
della sala O alla mostra della rivoluzione fascista del ’32.
Come raccontano queste opere, qualcosa sembra vacillare nelle
geometriche certezze del Moderno. Un altro colpo lo da El Lisitskij eliminando la fondamentale nozione di sotto e sopra, di linea di terra e
attacco a cielo, per organizzare nella mostra di Berlino del 1923 uno
spazio composto da 6 superfici di eguale valore formale, annullando
in sostanza la nozione di pavimento e soffitto. Con questo espediente, la simmetria del moderno si ribalta rispetto a quella del mondo antico: non più corrispondenza fra destra e sinistra su un ideale asse
verticale, ma corrispondenza tra sopra e sotto rispetto a un asse di
simmetria orizzontale (esperienza che ognuno di noi può fare, quando inverte il verso della diapositiva del padiglione barcellonese di
Mies). Sartoris evidenzia il possibile polisenso dello spazio; e nella
terza edizione dell’Introduzione all’architettura (1949), presenta un
ambiente moderno di Jean Gorin che - come il famoso quadro di Kandinskij - si può leggere da tutti i versi: esempio di ideazione multipla e
di plastica architettonica nello spazio/tempo.10
Questo gioco di continue sperimentazioni introduce l’architettura a
quella salutare crisi delle certezze che da tempo si manifestava in arti quali la letteratura, la pittura, la scultura: l’una sondando - con
Proust e Joyce - le derive del Tempo; le altre esplorando - già a partire da Medardo Rosso e dall’ultimo Monet - i caos dell’informale.
Si spiega così la contraddizione che permette all’astrattista Fontana di collocare un monumentale gruppo figurativo nella rigorosa geometria architettonica di Albini e Gardella per il Palazzo dell’Acqua e
della Luce all’EUR (1937-’42): perché l’apparente naturalismo di Fontana si fa strumento per andare oltre lo stesso astrattismo dei 7 Savi
(1937) di Melotti, per sconfinare - come Giacometti - verso territori inquieti che preludono all’informale della Cattedrale (1947) di Pollock
dove non c’è più geometria, ma un ordinato disordine della materia.
L’uovo primigenio di Piero, dopo essere rimasto appeso al filo dell’astrazione, si rompe con l’ironica successione stabilita da Bueno11
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nei dipinti del ’55 e ’56; l’uovo di Piero si buttera di buchi tattili con
Fontana; esplode mostrando visceri di materia nei cosmogonici Rotanti fusi a metà degli anni 60 da Pomodoro. Di questo lungo percorso delle forme, a noi contemporanei, resta una successione di ripetizioni e tradimenti, che possiamo chiamare ‘tradizione’ oppure ‘invenzione’, mentre ci arrampichiamo su accumuli di detriti.
Se in una costellazione del cielo gli antichi possono vedere i gemelli Castore e Polluce, i moderni vi scorgono un’aggregazione di figure
geometriche. In realtà, le costellazioni restano le costellazioni; e non
sono né gli uni, né le altre. Entrambi sono, agli occhi di noi contemporanei, modi differenti di misurare la distanza dagli oggetti, dalle cose,
dalle realtà che vogliamo conoscere.
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Voglio dire con questo che per noi contemporanei gli strumenti del
Moderno, le sue geometrie, le sue astrazioni, sono egualmente distanti quanto quelli del Classico.
L’invenzione della fisica del non-equilibrio e dei sistemi instabili associati all’idea di caos, ci costringe a ripensare i concetti di Spazio e
di Tempo. Sappiamo che la materia è composta da atomi e molecole,
il più delle volte disposti in maniera complicata e ‘disordinata’: nel caso di un cristallo perfetto, possiamo rinvenire una perfetta struttura
geometrica; al contrario, fenomeni complessi come le scariche elettriche o la formazione di un canyon, sono di difficile comprensione.
Un contributo alla rappresentazione di questi fenomeni si è avuto
con il frattale: un concetto-modello proposto nel ’75 da Mandelbrot.
Il frattale è un oggetto con una complessa struttura sottilmente ramificata come un corallo. Ingrandendo gradualmente una parte della
struttura, vengono alla luce dettagli che si ripetono identici a tutte le
scale d’ ingrandimento. Un frattale appare quindi identico (...) con lato
di un metro, un millimetro o di un micrometro (un milionesimo di metro). Mandelbrot ha osservato che molti oggetti naturali, apparentemente disordinati, godono di questa proprietà;12 ma l’arte contemporanea (come mostra la Quadrat-Spirale incisa nel ’54 da Stankoswki) già
da tempo si interroga su figure geometriche che possiedono queste
proprietà, più simili alla spirale del DNA che alle geometrie euclidee.
Questi frattali potremmo intenderli, dunque, come le strutture ordinate del Caos; poiché - come ha dimostrato, già nel ’28, il matematico Ramsey - il disordine completo non esiste, e qualunque insieme di
enti sufficientemente grande finisce col contenere una configurazione
regolare. Il frattale, quindi, ci permette di affrontare fenomeni complessi perché rappresenta il loro disordine: non come un anti-ordine,
ma come un ordine ‘differente’.
Il frattale, con la sua struttura seriale geometrica e ramificata, simile a un fiocco di neve o ad un corallo, può configurarsi come la nuova geometria della Natura.13 Tutto questo ripropone alcuni problemi
fondamentali; ed ha ricadute inevitabili, se non immediate, che dal
campo dell’arte tendono a trasmigrare in quello dell’architettura. Lontano dalle leggi deterministiche della fisica classica, il Caos associato
al Tempo crea nuove forme di coerenza, nuove instabili geometrie,
nuove figure con le quali la natura realizza le strutture più delicate e
più complesse.14 L’architettura comincia ad occuparsi di queste strutture delicate e complesse, cercando di misurare la distanza tra ordine e disordine.
Tuttavia, la ricerca di nuovi paesaggi, plasticamente configurati dalle libere geometrie del frattale non ci autorizza a praticare l’amnesia
del Moderno, semmai ci impone di osservarlo da nuovi punti di vista.
La serialità, organica e geometrica al tempo stesso, della prefabbricazione; la connessione di processi che vanno ‘dal cucchiaio alla città’,
ci permettono di trovare anche nel Moderno quei caratteri di autosomiglianza che si descrivono nelle corrispondenze del frattale alla piccola
e alla grande scala. In questo modo, possiamo ancora interrogare il
Moderno; sapendo, tuttavia, che ogni domanda ci tornerà indietro come un’eco: misurando un’assenza, restituendoci la nostra distanza dalle cose. Questa distanza vale per il Moderno e per l’Antico, e ci permette di sovrapporli, di misurare arbitrariamente la città di Le Corbusier con
le geometrie di Villard. In sostanza, per noi, è possibile, anzi essenziale, affacciarci su questo vuoto, per riempirlo dei nostri sogni.
Le Corbusier ci ha insegnato come anche l’architettura moderna
possa scaturire dalla Natura e alla Natura ritornare, senza tradire il
suo esprit de geometrie. Noi oggi, attraverso i frattali possiamo praticare un’antica sapienza, ed una nuova alleanza con la Natura: perché
quella loro caratteristica di autosomiglianza, la perfetta identicità della parte con il tutto, sembra metterci sotto il naso la corrispondenza
tra Architettura e Natura, tra microcosmo e macrocosmo, che si profetizzava ai tempi di Piero. Luogo dove una conchiglia lecorbuseriana
può specchiarsi nel capitello di Vignola.
Certo nel frattempo le cose sono cambiate: l’universo non è statico
e nemmeno tanto equilibrato: è diventato un multi-verso, agitato dalla
turbolenza: Sì, la turbolenza è sparsa quasi dappertutto - scrive il filosofo Serres - nell’inerte e nel vivente, nel naturale e nel tecnico, nell’infinitesimale e nel cosmologico, e, forse, il mio corpo ordine, il mio
corpo disordine, vita e morte, non è dopotutto anch’esso, se non una
turbolenza temporanea che concatena turbolenze più piccole.15
Questa turbolenza, rinunciando all’utopia moderna di una totale geometrica - comprensione del mondo, può riconquistare una dimensione stratificata, in cui le cose coincidono e non coincidono, si sovrappongono con la precisione e l’incoerenza del sogno, o meglio del
risveglio. è il risveglio quella condizione astuta dove sostiamo in bilico tra passato e presente, tra presente e futuro, tra ordine e caos: una
condizione di incerto equilibrio che - come architetti - dobbiamo imparare a praticare.
1.
2.
3.
4.
5.
6.
Alberto Sartoris, Introduzione alla architettura moderna, Hoepli, Milano, 1943; pag.
13.
Dichiarazione di poetica riportata da E. Crispolti nella introduzione a La pittura del
XX secolo di W. Hofmann - Cappelli, S. Casciano, 1963, pag. 43.
Roberto Longhi, Piero della Francesca, Valori Plastici, Roma, 1927; ristampato in ‘Da
Cimabue a Morandi’, Mondadori, Milano, 1973, pag. 450.
In Le Corbusier, a cura di Francesco Tentori e Rosario De Simone, Laterza, Bari,
1987; pag. 21.
Pierluigi Nicolin, Prefazione a Verso una architettura’ di Le Corbusier, Longanesi, Milano, 1973; pag. VII.
Sironi, Funi, Russolo, Dudreville, Contro tutti i ritorni in pittura. Manifesto futurista. 11
gennaio 1920, in ‘Il Novecento italiano’ a cura di Elena Pontiggia - Abscondita, Milano, 2003; pagg. 18-22.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
Margherita Sarfatti, Considerazioni sulla pittura, ‘Il Convegno’ n.3/1920, in ‘Il Novecento italiano’ a cura di Elena Pontiggia, Abscondita, Milano, 2003; pag. 24.
Ilya Prigogine, La fin des certitudes, Jacob, Paris, 1996; ed. it. ‘La fine delle certezze. Il tempo, il caos e le leggi della natura’, Bollati Boringhieri, Torino, 1997; pag. 19.
Questo lapidario giudizio di Edoardo Persico è riportato da Giorgio Ciucci, L’autorappresentazione del fascismo, in ‘Rassegna’ n.10/1982, Electa, Milano; pag. 49.
Alberto Sartoris, Introduzione alla architettura moderna, op. cit. terza edizione 1949;
pag. 175.
Per es. Uovo sospeso (1955), Autoritratto (1955-56), Esecuzione (1956).
Leonard M. Sander, L’accrescimento dei frattali , in ‘Le Scienze’ n.67/1992; pag. 49.
Pier Luigi Capucci, Modelli del mondo, in ‘Domus’ n. 781/1996; pag. 98.
Ilya Prigogine, La fin des certitudes, op. cit.; pag. 29.
Michel Serres, Genèse, Grasset, Paris, 1985; ed. it. ‘Genesi’ a cura di Gaspare Polizzi, Il Melangolo, Genova, 1988; pag. 198.
53
Le geometrie di Piero, 1996
Disegni e collages sono dell’autore
La Misericordia e l’Architettura, 1996
La Geometrica Conversazione di Brera, 1996
Da Vignola a Le Corbusier, 1997
Versus Villard, 1998
La natura dei solidi, 1998
54
Francesco di Giorgio a Grammichele, 1997
La Musa dell’architettura, 1993
Figure siderali, 1997
L’architetto (ritratto di Giorgio Peguiron), 1995
Francisco José Gentil Berger
Architetti italiani in Portogallo. Antonio Canevari (1681 - 1764)
L’architetto romano Antonio Canevari lavorò in Italia per D. João re
del Portogallo che nel 1725 lo contattò per progettare la sede dell’Accademia degli Arcadi, ‘Il Bosco Parrasio’, per la cui realizzazione il
monarca comprò un terreno alle pendici del Gianicolo a Trastevere.
Due anni dopo Canevari fu chiamato in Portogallo per partecipare
alle feste di matrimonio dei figli di D. João V con i figli del re di Spagna. è certo che partì da Roma nel luglio del 1727, perché fu in quel
mese che Nicola Salvi, suo discepolo, prese in consegna il suo atelier
e le sue opere in corso, come quelle dell’altare della chiesa di Sant’Eustachio a Roma.
Il matrimonio della principessa D. Maria Bárbara con l’Infante D.
Fernando principe delle Asturie fu celebrato per procura a Lisbona,
l’11 gennaio 1728. Le celebrazioni culminarono con una gran macchina pirotecnica concepita dallo stesso architetto Canevari.1
Per evidenziare la grande considerazione che il nostro re aveva per
questo architetto italiano basta ricordare che lo scambio dei principi
promessi sposi fu fatto al Caia, ossia al confine tra l’Alentejo e l’Andalusia un anno dopo, il 19 gennaio 1729 e che Canevari fece parte degli invitati che assistettero, e che si spostarono da Lisbona al Caia con
la corte, viaggiando in un cocchio della casa reale con Nicola Moribello, suo servo o collaboratore .
è certo che il suo arrivo in Portogallo fu nel 1727, per collaborare alle
grandi opere che il monarca voleva portare a termine. Tra queste, sono
da ricordare l’ampliamento del Palazzo Reale da Ribeira (nel Terreiro
do Paço oggi Praça do Comércio), l’acquedotto delle Águas Livres, la
consacrazione del monumento di Mafra e l’ampliamento del rispettivo
convento da 200 a 300 monaci, questo per nominare le più grandiose
e nelle quali Canevari ha avuto una partecipazione nei sei anni che rimase in Portogallo.
Chiesa di Sant’Eustachio a Roma
Chiesa di Sant’Eustachio a Roma
La macchina pirotecnica concepita
da Canevari
55
Sebbene la sua partecipazione a Mafra non sia fino ad oggi bene
documentata, alcuni elementi interiori, come per esempio il gruppo
scultoreo sopra l’altare-maggiore, hanno delle somiglianze con quello
che Canevari concepì nella chiesa di Sant’Eustachio.
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L’amore di D. João V per tutto ciò che riguardava Roma e lo Stato
pontificio è noto, e fu per ragioni di Stato e contro la sua volontà che
non fece un viaggio in Italia nei primi anni del suo regno, viaggio che
era stato precedentemente programmato.
Per colmare questa avversità e per il fascino che l’arte di quel paese gli procurava, stabilì un forte e permanente scambio artistico con
l’Italia. Fece realizzare dei modelli in legno di tutti i monumenti italiani
più importanti ed ebbe vicino a sé, durante tutto il suo regno, uno o
più architetti italiani, come altri artisti contattati in questo Paese.
Il primo, nel 1707, fu Carlo Fontana, seguito da Carlo Gimach che
si stabilì in Portogallo, Filippo Juvara, Carlo Battista Garvo, Antonio
Canevari, Nicola Salvi, Giovanni Carlo Bibiena, Giovanni Servandoni,
terminando con Luigi Vanvitelli, che fu a Lisbona nel 1748 per costruire la cappella di San Giovanni Battista.
Canevari durante la sua permanenza in Portogallo visse sempre a
Lisbona, come dimostrano gli archivi della Chiesa degli Italiani o Nossa Senhora do Loreto, dove Canevari figura come inquilino nella Rua
larga de São Roque, oggi Rua do Alecrim, presente in questa chiesa
durante la Pasqua negli anni dal 1728 al 1732.
Di seguito ricorderemo le partecipazioni di Canevari ad opere e progetti, durante gli anni della sua permanenza in Portagallo e presso la
corte di D. João V. Poche, purtroppo, hanno resistito agli anni e al cataclisma tellurico che Lisbona ha sofferto nel 1755.
Lisbona. Palazzo reale
La Paço Real
Appena arrivato e durante l’anno 1728, Canevari lavorò all’ampliamento e alla rimodulazione del Paço da Ribeira, Palazzo residenza
della famiglia reale. Realizzò le camere dei principi che decorò riccamente, costruì la nuova camera della regina, la scala monumentale e
la torre dell’orologio.
La torre di Canevari sopravvisse al terremoto del 1755 e fu demolita in occasione della costruzione della Praça do Commercio, esattamente sopra il palazzo in rovina.
L’Acquedotto delle Águas Livres
Nel 1728 Canevari fu chiamato per dare un parere sulla possibilità
di portare a Lisbona l’acqua che abbondava nella zona di Caneças, in
particolare nella sorgente detta della Água Livre.
Allorché nel 1730 si iniziò la costruzione dell’acquedotto delle
Águas Livres sotto la sua direzione, Canevari aveva già dimostrato
esperienza nei lavori idraulici in Portogallo, perché aveva eseguito
l’acquedotto del Tojal per il Patriarca di Lisbona D. Tomás de Almeida.
Lo stesso migliorò la conduzione dell’acqua al Palazzo Reale.
Di fatto, nell’ampliamento del Paço da Ribeira aveva provveduto alla conduzione dell’acqua da un pozzo esistente nelle Cruzes da Sé,
vicino alla Sé di Lisbona, fino all’interno del Palazzo reale mediante
un incanalamento sotterraneo, con otto uscite diverse.
Nel 1730 D. João V nominò Canevari architetto dell’acquedotto, e
nel contratto d’aggiudicazione del lavoro si stabilisce che i maestri
muratori si impegnano a costruire l’acquedotto secondo le direttive
dell’architetto Canevari dalla sorgente fino a Lisbona.
Il luogo da dove parte l’acquedotto rimane vicino a Caneças accanto al ruscello di Carenque, e dall’epoca dei Cesari, i romani avevano
iniziato un acquedotto e creato un lago artificiale che rifornì l’Olissipo
Romana. Tracce della diga che tratteneva l’acqua sono ancora visibili nel luogo.
Leonardo Turriano, architetto milanese al servizio di Filippo III nel
1620, affermava che esistevano quattro strade per fare arrivare l’acqua della Fontana di Água Livre a Lisbona.
Il primo tracciato (che fu scelto un secolo dopo) - affermava il Turriano - attraversa tredici valli e cinque mine in una lunghezza di cinque miglia e mezza; costerà un milione, e ritirando gli archi di Noudel
e d’Alcântara, passando l’acqua a pressione, costerà 700 mila.
Il quarto - corrispondente al ripristino dell’acquedotto antico dei Romani - può essere più alto dieci palmi di quello della strada, può portare l’acqua ad entrambe le parti della città, a São Roque e sopra la
porta di Santo André, come una volta, perché fornisce abbastanza acqua per loro.
Nel Settecento erano ancora visibili le rovine di quell’acquedotto
che riforniva la parte bassa della città accanto al fiume. Quel tracciato, che probabilmente Canevari aveva intenzione di seguire, non aveva bisogno degli archi monumentali che si resero - invece - necessari nel tracciato prescelto, e che doveva attraversare la profonda valle
dell’Alcântara.
A causa della soluzione seguita, che Canevari non condivideva,
l’altezza degli archi dell’acquedotto - per sorpassare la valle d’Alcântara - raggiunse i sessantatré metri sopra il suolo. Gli archi più alti,
quelli che arrivano alla valle dell’Alcântara, sono 14, hanno una lunghezza di 941 metri, misurando il più grande 63 metri d’altezza e 32,5
metri di luce.
La detta Fontana della Água Livre, fu la principale fonte del siste-
L’Acquedotto delle Águas Livres
ma e la prima ad essere utilizzata e portata all’acquedotto nel 1730 da
Canevari, entrando in questo alla quota di 172 m sopra il mare. Questa sorgente dista 14.255 metri della Mãe de água del Rato, finale dell’acquedotto a Lisbona a quota 94 m.
Le altre fonti che più tardi sono state incanalate fino all’acquedotto
a monte, hanno aumentato la sua lunghezza di circa cinque chilometri. Questa parte del lavoro fu costruita molto più tardi.
Canevari sapeva dell’esistenza dell’acquedotto del tempo dei Romani, che sorgeva nello stesso luogo e che era rifornito da un lago artificiale di grandi dimensioni. Questo lago esisteva ancora al tempo di
Francesco di Olanda che disegnò nella sua opera ‘Della Fabrica che
si Rovina alla città di Lisbona’ (1571), l’acquedotto che entrava a Lisbona a oriente dell’Alcântara, a Palhavã, finendo vicino al fiume Tejo accanto all’antica ‘Mouraria’. Di quell’acquedotto esistevano ancora pezzi visibili nel Settecento che ne comprovavano l’esistenza e il
funzionamento per secoli.
Ci sembra che Canevari abbia voluto seguire il tracciato dei suoi
antenati, come aveva fatto a Tojal seguendo il percorso di un acquedotto costruito precedentemente.
Seguendo il tracciato antico, non sarebbero evidentemente stati
necessari gli archi monumentali per attraversare la valle dell’Alcântara, che il tracciato di Manuel da Maia costringeva.
Manuel da Maia ingegnere militare di grande esperienza, certamente invidioso del protagonismo di Canevari, volle mettere in discussione la direzione dei lavori nella sorgente delle Águas Livres. Per farlo aveva provveduto al rilevamento topografico del tracciato previsto,
per tutta l’estensione dei quattordici chilometri che l’acquedotto sviluppa. Canevari non aveva preso questa precauzione.
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In una riunione convocata per discutere il tracciato dell’acquedotto,
l’architetto ammise che non aveva ancora rilevato topograficamente
tutto il suo percorso, perché non lo riteneva imprescindibile in quel
momento. La differenza di quota altimetrica (78 m) tra le fontane e
Mãe d’Água del Rato, dove finiva l’acquedotto, era sufficiente per permettere varianti del tracciato, ma i maestri muratori erano intenzionati ad attaccare il progetto. Per questa ragione fu affidata la direzione
dei lavori a Manuel da Maia, che poco dopo l’avrebbe lasciata.
Così si spiega, secondo me, l’abbandono dei lavori da parte di Canevari, per cui è rimasta, per i suoi detrattori, la frase ingiusta di Francesco Milizia quando afferma: ‘Ebbe l’incombenza di fare un acquedotto, che riuscì così disgraziatamente, che l’acqua non volle mai
scorrervi. Il povero Canevari perciò se ne andò via dal Portogallo con
la coda tra le gambe ...’. Sentenza molto ingiusta e malevola.
Però, in Portogallo, la sua memoria non è stata macchiata da quel
fatto, viceversa è stata esaltata dai versi del pittore e accademico
Vieira Lusitano che lo chiama ‘Insigne Architetto’.
Il Palazzo del Patriarca
Il piccolo complesso urbano del Palazzo del Patriarca di Lisbona D.
Tomás de Almeida, a Santo Antão do Tojal, che oggi è un’istituzione
per ragazzi poveri chiamata ‘Casa do Gaiato’, è l’opera di Canevari
meglio conservata arrivata ai nostri giorni.
La piccola località, a pochi chilometri da Lisbona, si sviluppa a partire da questo nucleo monumentale, costituito da un palazzo, una
chiesa e una fontana al centro della facciata di un padiglione, che circonda una piazza su tre lati e alla quale si accede da un viale murato. In questo padiglione è stato ospitato D. João V il giorno della consacrazione delle campane per la chiesa di Mafra, solennemente be-
nedette dal Cardinale Patriarca alla presenza del monarca, prima di
essere trasportate alla loro destinazione finale.
L’acqua che rifornisce la fontana è portata da un acquedotto di dimensioni considerevoli, concepito da Canevari, che percorre
un’estensione di circa due chilometri dalla località de Pintéus. Questo
piccolo nucleo urbano è un complesso di proporzioni equilibrate e di
grande armonia, in cui gli elementi si congiungono per formare un
gioiello barocco.
L’antica casa seicentesca è stata allargata e sviluppata a U con un
portone sormontato da stemma da dove si arriva al patio interno.
La fontana monumentale è addossata al padiglione nuovo, senza
quella sontuosità che il suo discepolo Giovani Salvi adottò nella fontana di Trevi a Roma, pochi anni dopo.
Nella chiesa, dedicata alla Madonna, rimane soltanto un nartece rivestito di ‘azulejos’, maioliche azzurre e bianche, caratteristiche della
prima metà del Settecento.
La Torre dell’orologio dell’Università di Coimbra
Un’opera che deve essere attribuita a Canevari è la torre dell’orologio dell’Università di Coimbra, nota agli studenti come la torre della
Capra (nome dato alla campana che li richiamava per i compiti accademici). Questa torre e il punto più alto di Coimbra e il simbolo della
città.
Fu nel corso del mese di ottobre del 1728 che fu inviato a Corte un
documento in cui si presentava il progetto per l’edificazione di questa
torre, in sostituzione di un’altra esistente in un luogo diverso, ma che
era molto rovinata. Non approvando questo progetto fu chiesto ad un
architetto di corte, Canevari o Ludovice, di elaborarne uno migliore,
che poi fu consegnato all’Università per l’esecuzione.
è ovvio che tanto l’uno quanto l’altro potrebbero essere gli autori di
quel progetto. Tuttavia vi sono diverse ragioni, dal mio punto di vista,
che ci portano a credere che sia un’opera di Canevari.
In quell’anno Canevari era sempre in contatto con la famiglia reale,
poiché erano in corso lavori nel palazzo reale; mentre Ludovice era il
responsabile dei lavori di Mafra che procedevano con grande intensità per permettere la consacrazione della Chiesa nell’anno 1730, lontano quindi da Lisbona.
In quello stesso anno, Canevari era stato incaricato di progettare e
edificare proprio un’altra torre, quella dell’orologio del palazzo reale.
L’analisi dell’architettura della torre e dei suoi elementi decorativi
presentano un dettaglio ‘borrominiano’ che si addice di più ad un italiano che ad un tedesco. Il coronamento della torre è simile a quello
dell’Oratorio di San Filippo Neri a Roma, opera di Borromini.
Le ghirlande che arredano la sommità dei pilastri e le volute ioniche, sotto il cornicione, sono elementi decorativi molto graditi da Canevari, che li ha utilizzati in molte opere, tanto in Italia quanto in Por-
Il Palazzo del Patriarca
La chiesa
togallo. Questi elementi sono per me una vera firma.
Le immagini illustrano le mie affermazioni, da come appaiono in sequenza i pilastri ionici con la particolarità che vi è sempre una ghirlanda tra i centri delle volute.
Dettaglio che ritroviamo a Sant’Eustachio, nella chiesa delle Stimmate di San Francesco a Roma, nel disegno della macchina pirotecnica del Terreiro do Paço, nel portone del palazzo del Tojal e, anche,
nella torre dell’orologio del Paço da Ribeira.
L’altro possibile autore, Ludovice, non ha usato questo elemento
decorativo in nessuna delle sue opere conosciute.
Attribuzione del Palazzo di Correio-mór a Loures
Ayres de Carvalho, autore portoghese, nella sua opera ‘D. João V
e l’Arte del suo tempo’ ha attribuito a Canevari il Palazzo del Correiomór a Loures, a circa dieci chilometri da Lisbona, casa signorile di
grandi proporzioni, totalmente restaurata negli anni ’70.
L’acquedotto
La fontana monumentale
Avendo io stesso diretto il restauro del palazzo durante sette anni,
’68-’73, e studiato in profondità la sua storia, non ho trovato nessun
indizio documentale o, dall’analisi architettonica, nessun elemento decorativo, sia all’esterno che all’interno, caratteristico del lessico formale di Canevari, o che somigli a uno qualsiasi dei suoi lavori, sia in Portogallo che in Italia. Per questo motivo non sottoscrivo questa attribuzione.
L’architettura di questo palazzo è spoglia e sobria, non ha niente a
che vedere con il ‘Barrochetto’ italiano e, piuttosto, si ascrive alla designazione di Kubler di ‘Architettura Piana’ e d’apparenza rurale.
Nella mia opinione, il progetto di questo palazzo è di Manuel da Costa Negreiros, dove documentalmente ha lavorato uno dei suoi fratelli. Negreiros ha lavorato a Mafra, non molto lontano da qui, e fu uno
dei maestri muratori che lavorò con Canevari nell’acquedotto delle
Àguas Livres e che forse molte cose apprese da lui.
1. Frei José da Natividade, Fasto de Himeneu, História panegírica dos desposórios dos
La Torre dell’orologio dell’Università di Coimbra
Azulejos
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Príncipes do Brazil ,1752, Livro I, pag.78. ‘…voltaram logo particularmente ao Palácio,
para se lograrem dos muitos e bem executados fogos de artifício que houve aquela
noite no Terreiro do Paço, para onde entraram pela escada do Forte, e se lograram daquele entretenimento de uma janela, da segunda casa próxima desse mesmo Forte, e
ali se lhes mandou refresco de água, doce, e chocolate. Foi de muito divertimento, e
60
Palazzo di Correio-mór a Loures
singularmente aplaudido um deles do ar, assim pelo muito tempo que durou, como pela suavidade, e rara invenção. Era ela do excelente Arquitecto, António Canavaro, e
figurava com bela ideia uma rocha, povoada pela superfície superior por um espesso
bosque.’
Giovanni Battista Cocco
Arte e Architettura, la fabbrica dell’identità
L’avenir de l’Art n’est pas artistique, mais urbain.
Henri Lefevre, Le droit à la ville, 1968
Se si assume l’identità come problema della città contemporanea,
è possibile sostenere che il rapporto tra Arte e Architettura sia la risposta urbana ad un’apparente assenza d’identità?
Come sostiene François Chaslin,1 nel panorama architettonico europeo degli ultimi decenni gli scenari ricchi d’immagini e atteggiamenti
artistici hanno reso vago il confine tra queste due forme di linguaggio.
Non molti anni fa in Francia il processo di umanizzazione dello spazio ha liberato la città e l’architettura dal raggelante senso di tecnicismo, rendendo più sensualisti ed espressivi diversi interventi di trasformazione nelle Villes Nouvelles. Queste città, nate come risposta
alla decentralizzazione delle attività e della residenzialità della metropoli, grazie all’estensione alla scala urbana della legge dell’1%, iniziano ad accogliere diversi interventi di natura artistica che permetteranno, attraverso l’apporto del bello, di allontanare l’avvilente senso di
periferico. Nel 1980 l’urbanista Michel Jaouen chiama Dani Karavan
a Cergy-Pontoise, prima ville nouvelle di Parigi. L’artista immagina per
Cergy un lungo asse di 3 km: un gesto geografico dal sapore fondativo che dalla ‘piazza delle colonne’, progettata da Ricardo Boffil, raggiunge l’isola artificiale (futura sede di un osservatorio astronomico),
negando l’esistenza di un confine tra paesaggio e arte.
Negli stessi anni a Lione il recupero urbano del quartiere Etats-Unis
di Tony Garnier, unica realizzazione del grande piano Projet de tracé
de l’avenue entre Guillotière et Vénissieux (simbolo della modernità
urbana degli anni Venti del Novecento), travalica il valore artistico delle sedici pitture che ingentiliscono le facciate cieche delle barre, trasformando il quartiere in un museo en plain aire, capace di rimandare ad un’esperienza estetica obbligatoria creata per un pubblico istantaneo, dinamico e distratto.
In entrambi i progetti l’Arte interviene nella città come gesto ‘a rime-
dio’ di una condizione data, attribuendo una più o meno marcata connotazione di tipo estetico allo spazio urbano, capace di far evolvere i
caratteri identitari preesistenti.
D’altronde questo grande puzzle difettoso, che chiamiamo identità,
c’è sempre in ogni cosa, come in ognuno di noi.
Quattro domande al professor Alain Charre2
L’Arte può essere considerata in alcuni casi un linguaggio a servizio dell’Architettura?
L’arte è un linguaggio autonomo e in quanto tale non è a servizio di
nulla; il suo valore è quello di essere a servizio di se stessa o forse a
servizio dell’artista.
L’arte, che per sua natura è rivoluzionaria, non è architettura e l’architettura, che per sua natura è conservatrice, non è arte: d’altronde
l’arte non è in grado di produrre un progetto urbano, ma può partecipare alla sua creazione.
Penso che l’artista e l’architetto non abbiano molte cosa da dirsi,
anche se partecipano entrambi alla cultura urbana che, come elemento comune all’urbanistica, all’arte e all’architettura, deve riflettersi negli scenari politici e sociali della città.
L’arte quindi ha partecipato alla creazione della città di Cergy-Pontoise? Che significato possiamo assegnare all’opera di Dani Karavan?
Gli urbanisti di Cergy-Pontoise hanno ricercato un elemento monumentale che permettesse alla città di esistere in rapporto a ciò che le
stava intorno. Questo ha dato agli abitanti la possibilità di sentirsi depositari di un nuovo evento e alla città una maggiore visibilità esterna.
Ma l’arte ha la capacità di creare questi simboli, mentre non è in grado di inventare l’architettura. I problemi sociali infatti permangono: la
maggior parte degli abitanti sono economicamente impossibilitati a
partire da Cergy-Pontoise e di conseguenza la città è per loro il luogo
del quotidiano e della festa.
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Quando tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del Novecento si è
passati da un’urbanistica tecnocratica ad un’urbanistica della cultura
e dell’intelligenza attraverso la costituzione della Maîtrise d’oeuvre urbaine, si è ritenuto che l’arte nella città dovesse intervenire per significare, mentre l’urbanista, rivendicando la capacità di creazione e di
autonomia urbana rispetto all’architetto, spostava l’attenzione verso
l’opera urbana: un concorso di creatività, di intelligenza plastica destinata a durare nel tempo.
L’opera di Karavan per Cergy-Pontoise mostra la stessa apertura
del Salk Institute di Louis Kahn. Il percorso, in modo simbolico-figurativo, rimanda al cammino di un popolo verso il proprio destino: una dimensione artistica e spirituale che è trascritta nell’opera stessa e nel
suo senso di infinito. è questa la principale differenza che distingue
l’opera di Karavan da quella degli artisti della Land Art.
Negli stessi anni a Lione sedici pitture murali trasformano la percezione dello spazio urbano nel quartiere di Tony Garnier. Che giudizio
dà a questo intervento?
Non mi sento di apprezzare questo intervento perché gli si è dato
nel tempo uno statuto surrealista. Gli autori sono stati miei allievi
quando insegnavo all’Ecole des Beaux Arts di Lione: li giudico degli
studenti dissidenti che hanno avuto la capacità di convincere la popolazione, il sindaco e il prefetto alla realizzazione di queste pitture, in
un’epoca in cui questo genere di opere avevano assunto un’importanza notevole. Ma non siamo tanto nell’arte quanto nella decorazione.
Bisogna essere molto modesti nei confronti di questa operazione
perché si è arrivati a far credere che le pitture abbiano colto l’opera di
Tony Garnier; ma quello di cui parliamo non è un museo pensato da
Tony Garnier, ma piuttosto un museo urbano nel quartiere di Tony
Garnier: un’opera postuma che, secondo me, non sarebbe mai stata
realizzata dal suo autore. Ciò che rende interessante questo quartiere non sono le pitture ma l’architettura urbana, lo spazio pubblico tra
gli edifici, la ripetizione del modulo edilizio ...
Vede, l’arte, perché sia tale, non deve essere mai consensuale: gli
abitanti di Cergy-Pontoise si domandano ancora che cosa sia questo
grande asse e perché sia lì.
Quale è il futuro del rapporto tra Arte e Architettura?
Le rispondo con un’altra domanda: siamo nell’arte o nell’architettura? Perché del rapporto tra ‘Arte e Architettura’ se ne parla da più di
25 anni e se ci fosse stata una soluzione l’avremmo conosciuta. Io ritengo che oggi l’arte sia il divenire dell’architettura e l’architettura il divenire dell’arte.
Grazie professore
1. François Chaslin, L’arte Architettata, in Casabella n. 594, 1992.
2. Questa breve intervista è una sintesi del lungo colloquio che lo scrivente ha avuto a
Parigi con il prof. Alain Charre, historien de l’Art e de l’Urbanisme, in occasione dell’approfondimento del tema di studio del XV Seminario di Architettura e Cultura Urbana di
Camerino.
Arte e spazio pubblico.
Da sinistra verso destra: Les deux plateaux (Parigi); Place des terreaux (Lione); Place du Centre Pompidou (Parigi); La Défense (Parigi)
Lione. Quartier des Etats-Unis. Museo Tony Garnier
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Lione. Quartier des Etats-Unis. Museo Tony Garnier,
primo dipinto
Parigi extra-muros. Piazza delle colonne di Ricardo Boffil e Dani Karavan
da cui ha inizio l’Asse Maggiore di Cergy-Pontoise
Parigi extra-muros. Asse Maggiore della ville nouvelle
di Cergy-Pontoise
Parigi extra-muros. Asse Maggiore di Cergy-Pontoise: passaggio sull’isola artificiale
Gianni Contessi
Fernand Lèger pittore per architetti
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L’altra fonte sono le battaglie di materiali della prima guerra
mondiale. Esse hanno prodotto l’uomo forgiato col martello.
Ernst Jünger
‘Pittore per architetti’ potrebbe essere definito Fernand Léger, quasi come l’italiano Mario Sironi, e la cosa non dovrebbe stupire. Dopo
tutto, fra il 1897 e il 1899, l’artista francese aveva fatto un primo apprendistato presso lo studio di un architetto di Caen e, successivamente, dal 1900, data del suo arrivo a Parigi, fino al 1902, aveva lavorato come disegnatore in uno studio di progettazione. In seguito lo
ritroveremo fra gli amici più assidui di Le Corbusier e, addirittura, fra i
partecipanti al CIAM del 1933, quello reso famoso dalla crociera mediterranea, da Marsiglia ad Atene, a bordo del Patris. Con Le Corbusier, poi, farà anche altri viaggi, non escluso quello negli Stati Uniti del
1935, di cui l’architetto darà conto in Quando le cattedrali erano bianche (‘Quand les cathédrales étaient blanches’, 1937).
Costruttore di forme architettoniche l’uno, di forme pittoriche l’altro,
pur senza dimenticare che lo stesso Le Corbusier è stato anche, e
non occasionalmente, pittore. Non è mancata, inoltre, una collaborazione con Robert Mallet-Stevens, che sta al modernismo architettonico come Juan Gris e Henri Laurens stanno rispettivamente a quelli
pittorico e plastico.
Vi è più di un motivo d’interesse storiografico nell’opportunità di collegare, al di là dell’amicizia, la figura di Léger e quella di Le Corbusier.
A volte si ha la sensazione che il vero interprete pittorico del mondo
lecorbusieriano non sia appunto il Le Corbusier pittore, ma proprio il
pittore Fernand Léger. C’è persino da domandarsi perché mai Le Corbusier abbia potuto progettare e realizzare lo studio del suo socio, il
pittore Amédée Ozenfant, e non quello del suo amico Fernand Léger,
a lui vicino ben oltre l’esperienza purista.
Era il tempo di Après le cubisme, quello che va dal 1918 al 1925,
anno, quest’ultimo, di pubblicazione del volume La Peinture moderne,
costituito dalla raccolta degli interventi sul purismo apparsi nella rivista ‘L’Ésprit nouveau’, che i due sodali avevano fondato per sostenere le ragioni del loro particolare modernismo. Ma, nello stesso 1925,
Jeanneret ormai appellatosi Le Corbusier realizzerà il suo paradigmatico Padiglione per l’Esposizione parigina delle Arti decorative. Dentro
al Padiglione: sedie Thonet, poltrone di pelle, una Composition (1924)
di Léger e due nature morte rispettivamente di Gris e Ozenfant.
Sono, quelli, anni certamente drammatici e malinconici, per ciò che
dalla guerra mondiale è stato cancellato, ma pure anni di ottimismo e
di esaltazione di quella modernità di mezzi e di forma che, dopo aver
prodotto sanguinose ‘tempeste d’acciaio’, avrebbe ora potuto meglio
definire la civilisation machiniste, produttrice di benessere. Del resto,
nel 1923, lo stesso Jeanneret, alias Le Corbusier-Saugnier, aveva dato alle stampe la silloge dei suoi interventi sul progetto, intitolandola
Vers une architecture. E sarà, questo, un testo cruciale del XX secolo.
Naturalmente, Léger non è Le Corbusier e il suo entusiasmo per il
modernismo è più estrinseco, rivolto alla scena e all’iconografia e non
alla sostanza delle cose. Non ha il pittore, e non può avere malgrado
la sua fede comunista, obiettivi ‘integrali’, non deve riformare la società, non deve procedere a qualche tipo di standardizzazione, non deve
affrontare la questione delle abitazioni e non deve ridisegnare l’assetto delle città, per quanto non insensibile alle questioni sociali. Diversamente dal suo amico architetto, ha partecipato alla guerra mondiale,
che lo ha segnato profondamente e non solo nella coscienza, com’è
accaduto ai tanti letterati e artisti della generazione dell’Ottanta.
Per Fernand Léger come anche per un altro protagonista più giovane della cultura novecentesca - Ernst Jünger - la guerra è stata addirittura l’elemento catalizzatore di una poetica, di un percorso intellettuale, di una filosofia della vita e della storia. E, malgrado la sua sostanziale illetterarietà, proprio il ruvido e brusco Fernand Léger finirà
con l’essere, attraverso la sua opera, dipinta e scritta, uno dei maggiori e più icastici interpreti dell’‘Ésprit Nouveau’, del modernismo no-
vecentesco. Il mondo degli oggetti e della tipizzazione, quello della
tecnica e delle forme astratte, che variamente troviamo descritto o
analizzato nei libri di Jünger, e pensiamo soprattutto a Nelle tempeste
d’acciaio (In Stahlgewittern, 1920), e L’operaio (Der Arbeiter, 1932), è
molto simile a quello che, con ben altri accenti e in nome di tutt’altra
ideologia (nazionalista di destra il tedesco, comunista il francese), si
trova al centro della pittura di Léger.
Singolare esempio di avanguardista contenuto, alle prese con il
mondo contemporaneo, di cui è stato osservatore curioso e moderatamente entusiasta, Fernand Léger è tuttavia l’erede di una tradizione, in cui l’iconografia pubblicitaria novecentesca incontra quella della plastica medievale e incrocia, poi, la perspicuità di David e l’à plat
volumetrico del Doganiere Rousseau con la sintassi cubista.
Quanto, fra l’altro, la pittura di Le Corbusier deve a quella di Léger?
E quanto, infine, accomuna i due nel voler ridurre così i luoghi dell’abitare come la rappresentazione delle forme della vita moderna ai termini minimi della Forma?
Se Le Corbusier ha accompagnato la sua instancabile militanza
progettuale con una non meno instancabile attività letteraria, che ha
sancito il carattere di testimonianza e l’annuncio del linguaggio moderno dell’architettura, qualcosa di simile ha fatto Léger, anche se con
minore originalità stilistica e con molto minore forza programmatica.
Se Le Corbusier ha teorizzato il modernismo, proiettando se stesso
quasi ossessivamente nella concretezza del progettare e del costruire, Léger ha avvertito costantemente la necessità di chiarire il suo
punto di vista su quanto andava facendo e su quanto andava osservando, lungo un arco di tempo che va, più o meno, dal 1913 al 1955,
anno della morte.
Con chiarezza e pacatezza il maestro francese individua i fattori determinanti della ‘vita plastica d’oggi’ (1923), traducendoli immediatamente in una pittura che fonda figurazione e astrazione, eliminando la
dimensione del racconto. Critico severo del Rinascimento e ostile al
‘bel soggetto’, Léger indica gli ambienti popolari, ‘con i loro aspetti rudi e aspri, tragici e comici, sempre ipertrofici’ come ‘quelli indicati per
noi artisti’. ‘Per parte mia’ conclude ‘li frequento il più possibile e mi ci
trovo bene’.
La prosaicità della scena moderna, secondo Léger, è riuscita poi a
corroborare (al pari delle sedie Thonet) le intenzioni minimaliste del
Padiglione dell’‘Ésprit Nouveau’ di Le Corbusier (1925), ma è anche
riuscita a conferire un tocco di novità appena un po’ dirompente agli
arredi eleganti e aggiornati (grazie al garbo di Mallet-Stevens) di
Georges e Marie-Laure de Noailles, grandi registi della migliore e più
intelligente mondanità parigina, nonché mecenati un po’ nevrotici e
sfortunati dei nuovi protagonisti della vita artistica: Cocteau, Dalí, Buñuel, Max Ernst, Man Ray, Auric, Poulenc ...
Poco portato tanto alle teorizzazioni astratte, quanto alla perentorietà dei manifesti, il probo Léger è intervenuto con intelligenza su alcune questioni decisive. Ecco, del pittore va apprezzata proprio la lucidità con la quale coglie i temi con i quali deve confrontarsi l’artista
dei tempi nuovi, capace di promuovere un’arte collettiva e sociale, per
esempio, in collaborazione con gli architetti.
Nel famoso testo intitolato Il muro, l’architetto, il pittore, Léger, oltre
a criticare severamente gli equivoci derivanti dalla teoria dell’imitazione e l’assunzione dell’arte rinascimentale quale unico parametro di
giudizio del bello, a fronte della ‘bellezza’ più spontanea e irregolare
dei primitivi, affronta propriamente la questione della collaborazione
dei pittori con gli architetti, quella dell’impiego del colore nell’architettura, quando sostiene le ragioni di un’arte sociale o addirittura popolare, rievocando l’età delle chiese romaniche e gotiche.
Se il libro dell’architetto svizzero assume l’età europea delle cattedrali come momento aurorale ed esaltante di un’intera civiltà da trasporre nel nuovo mondo americano, che nei grattacieli ritrova le sue
cattedrali, il testo del pittore francese intende quei monumenti quasi
come li intendeva il Victor Hugo di Notre-Dame de Paris, perché il pittore non esprime rimpianto per il passato, ma entusiasmo per il presente. Sono gli Stati Uniti il banco di prova, il luogo della verifica di
ogni cognizione primonovecentesca della modernità.
Al modello americano non rivolge la propria attenzione Ernst Jünger; la rivolgono, invece, Léger e Le Corbusier, così come, tanti anni
prima, l’aveva rivolta Adolf Loos.
Ancora nel 1931, Léger definisce New York ‘il più colossale spettacolo del mondo’. Nel settembre 1938 si reca negli States per la terza
volta e rientra in Europa nel marzo del 1939. Nel 1940 ritorna a New
York, ma questa volta come rifugiato: la guerra è scoppiata e la Francia è stata occupata dalle truppe del III Reich, fra i cui ufficiali vi è lo
stesso capitano Ernst Jünger. Léger rimpatrierà solo nel 1945 e, nello stesso anno, aderirà al partito comunista.
Molto più tardi, nel 1955, anno della morte, è nella Praga del socialismo reale per le Spartachiadi, e apprezza i movimenti coreografici
dei giovani in tuta, forse con uno spirito non estraneo a quello che alla fine dell’Ottocento aveva portato Adolf Loos a fare l’elogio del lavoratore americano, ovvero dell’‘uomo in tuta’. Quella stessa tuta che,
come artisti dell’avanguardia tecnologica, avrebbero indossato Moholy-Nagy e Rodtchenko.
In precedenza abbiamo definito Fernand Léger ‘pittore per architetti’. E tale egli è stato lungo tutta la vita, sin da quando, ed è già stato
ricordato, faceva pratica come disegnatore in uno studio di progettazione.
Architettonica, costruttiva è tutta la concezione pittorica légeriana.
Volumetricamente solide, ritagliate, dai contorni netti, sono le sue fi-
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gure, rese in modi dietro ai quali si possono scorgere i modelli di
Poussin, David, Cézanne, Rousseau.
Di Picasso, di Gris e magari anche di Severini, che dire? Più che
modelli sono stati compagni di strada e Léger ha occupato la scena
da protagonista e non da epigono. Inoltre, e non è cosa da poco, egli
ha saputo confrontarsi non episodicamente con il mondo dello spettacolo e anche, originalmente, con quello del cinema.
Ha scritto con asciuttezza, affrontando pochi temi, intervenendo ripetutamente su argomenti affini, ma senza ossessioni missionarie.
Sulle ceneri del cubismo ha elaborato un linguaggio realista moderno,
che ha mediato fra lo stesso cubismo e l’astrazione, fra mondo organico e mondo meccanico, quasi inverando le intuizioni espresse da
Ernst Jünger ne L’operaio: la celebre distinzione fra città e campagna
Fernand Léger, Les constructeurs (1950), Biot, Museée Léger
sussiste oggi soltanto nello spazio romantico; non ha più valore, così
com’è caduta la distinzione fra mondo organico e mondo meccanico.
Léger, a suo modo, è stato persino un po’ novecentista (ma è termine ‘italiano’, poco adatto alla situazione francese), come, più accentuatamente, lo è stato Picasso. Ma di quest’ultimo ha scansato i
mediterraneismi, del resto a lui, normanno, estranei. Semmai, sotto
mentite spoglie, Léger è stato un classicista.
La questione del realismo è al centro del pensiero di Léger: fra il
1935 e il 1946 vi dedica più di uno scritto e il tema è quello anche
quando sembrerebbe, dal titolo, parlar d’altro. è un’arte popolare
quella che sta a cuore a Léger che, pur non essendo un ingenuo, è
portato alla semplicità, all’essenziale, a una pittura in cui il meno è il
più. L’artista ha conosciuto il popolo - come dichiara nel 1946 - durante la Prima guerra mondiale, quando è stato arruolato nel corpo del
Genio. Il corpo del fare e del saper fare, del lavorare, del costruire,
dell’agire con metodo. è l’operaio, l’uomo del popolo, inquadrato non
nella fabbrica, come più tardi quello di Jünger, ma nell’esercito. Del resto, ai regimi totalitari di massa novecenteschi sono state care le ‘armate del lavoro’.
Grande apoteosi di tutto questo, cui si aggiunge il costante, profondo interesse per il mondo della progettazione, sarà la vasta composizione del 1950 intitolata Les Constructeurs. Un’opera non priva di una
sua sottile e persino spiritosa retorica, ma lontana dal ‘realismo socialista’ (i costruttori valgono quanto gli acrobati che compaiono ne La
grande parade del 1954). La vasta tela, appena un po’ illustrativa,
esalta, con il valore dell’architettura, gli artefici oscuri della sua gloria.
Oltre Guernica (1937) e il molto meno ispirato Massacro in Corea dello stesso Picasso (1951), quello di Léger sarà il tentativo di far rivivere, dopo la tragedia delle guerre, il linguaggio di un moderno e antieroico éthos civile, che esalta la dignità del lavoro dei deboli, non più
vittime, ma protagonisti di una nuova società.
Giovanni Corbellini
Bello?*
In conclusione a una recente intervista televisiva, Renzo Piano affermava che ‘la bellezza è una bellissima idea’. Una ennesima conferma, dall’alto di una fonte particolarmente autorevole e dal basso di un
contesto quanto mai popolare, che di quello, proprio di bellezza tratta
l’architettura. Tuttavia, la tautologia usata da Piano mostra quanto
problematica sia la questione, a partire dalla stessa definizione di cosa sia bello e degli strumenti per raggiungerlo. Problematicità connessa alla soggettività del tema (il termine ‘estetica’ è legato alla sensazione), tanto mutevole ed evanescente da aver indotto la produzione
di una serie ininterrotta di teorie, proposte, ricerche, ciascuna tesa a
stabilire uno standard definitivo, ma inesorabilmente destinata a essere negata da concezioni nuove, da rimozioni di confini, persino da rinascite di modi precedenti. Nell’attuale panorama frammentato di ipotesi molteplici e contrastanti, la nozione di bellezza ha visto ampliare
a dismisura la propria influenza (estendendosi da poche elevate occasioni a ogni più minuto oggetto d’uso, fino a investire interi stili di vita) e allo stesso tempo diluire inevitabilmente le possibilità di essere
realmente raggiunta. Una condizione che impedisce di trasgredire
senza imitare superata in campo artistico dall’azione rivoluzionaria di
Marcel Duchamp: la sua idea di elevare a opera d’arte gli oggetti
d’uso, ma anche la polvere depositata sul Grande vetro, sposta da
questo momento in avanti lo sguardo dalla qualità dell’oggetto in sé al
processo, dal bello all’intelligente, in altre parole dal formale al concettuale.
A sentire Renzo Piano e la gran parte dei colleghi si direbbe che
questo non abbia avuto conseguenze sull’architettura. Eppure i novant’anni abbondanti dalla Ruota di bicicletta (1913) non sono passati senza lasciare traccia. Lo slogan Less Aesthetics More Ethics, titolo
della Biennale veneziana curata da Massimiliano Fuksas nel 2001,
per quanto largamente disatteso (grossomodo ne emergeva che l’etica dell’architetto sta nell’estetica ...), riassume una storia ormai secolare di reazioni al formalismo, riallacciandosi alla componente fondati-
va del moderno. Un approccio certo favorito dal peculiare intreccio
della nostra disciplina con l’economia e la società, già registrato da Vitruvio e successivamente radicalizzatosi con la rivoluzione industriale.
Come è noto, il tentativo operato dai funzionalisti di riassumere la
venustas vitruviana nella firmitas e soprattutto nell’utilitas, di produrre
‘buona forma’ attraverso il controllo sui modi d’uso e di produzione, si
è rivelato un’illusione positivista, evidenziata dalle dinamiche mutevoli e indeterminate di quelle stesse componenti industriali dalle quali
traeva ispirazione. Contraddizioni dalle quali non sfuggono nemmeno
la successiva reazione postmoderna, i vari contestualismi, i periodici
ripiegamenti all’interno dell’autonomia disciplinare. Al di là di ogni giudizio sul loro essere ‘a tempo’, le pretese di ricostruire un quadro estetico più stabile e condiviso - e le conseguenti contrapposizioni reciproche di linguaggi - alimentano, in definitiva, quegli stessi processi di
consumo delle immagini che intendevano combattere. Ne consegue
che di ‘bellezza’ certamente si parla, ma più difficilmente se ne scrive
in modo esplicito. Il termine ha quindi subìto una evidente svalutazione (finendo sulle copertine di manuali per la decorazione fai da te)
mentre, da parte di ricerche più avanzate, è stato sottoposto a una deformazione di senso, accostandolo paradossalmente ad aspetti estremi e problematici (Rem Koolhaas parla infatti di Bellezza terrificante
del ventesimo secolo ...).
Dall’altra parte si sono invece moltiplicati i contributi che hanno cercato di fondare teorie e metodologie architettoniche progressivamente slegate dalla dimensione formale, la cui adesione alla concretezza
delle realtà contemporanee avviene inaspettatamente attraverso strumenti elaborati all’interno delle più stravaganti ricerche artistiche (per
alcune tracce bibliografiche rimando alle mie ‘parole chiave’, www.architettura.it/parole). Provando a seguire l’influenza duchampiana nell’architettura recente, ritroviamo l’aleatorietà e l’automatismo dei Trois
stoppages étalon (1913-14) in molte proposte di Koolhaas e Tschumi,
sicuramente tra i primi ad abbandonare l’idea di progetto come asset-
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to pacificato per abbracciare una visione apertamente conflittuale.
Riconosciamo l’ironia della Fontaine (1917) e le sue procedure di
inversione in molti progetti olandesi, soprattutto da parte di NL Architects, di Mvrdv, di Maxwan. Assistiamo all’utilizzo di ready-made nell’opera di Anne Lacaton e Jeanne Philippe Vassal, ancora di NL Architects, del Rural Studio, di Hrvoje Njiric ... Si tratta di progetti e realizzazioni che si confrontano spesso con situazioni limite, estendendo le
capacità di intervento dell’architettura su terreni inesplorati, un po’ come la relatività o la meccanica quantistica hanno ampliato le possibilità di capire i fenomeni fisici e di intervenire su di essi. Teorie, queste
ultime, che hanno incluso i raggiungimenti precedenti come casi particolari. Allo stesso modo, i nuovi approcci progettuali non escludono
il sapere compositivo, specifico degli architetti e necessario nelle scel-
te conformative, ma ne relativizzano l’operatività, delegando ad altri
strumenti strategici la costruzione della possibilità stessa di controllare la forma di oggetti e spazi, soprattutto quando questa è minacciata dai fatti della vita alla base della loro realizzazione. Le architetture
che ne derivano, evitando di cercare l’armonica ed equilibrata appropriatezza dell’ideale vitruviano, trovano la loro peculiare ‘bellezza’ nell’intelligenza dinamica, aperta e sorprendente di originali processi
ideativi e nella capacità di interagire con gli instabili contesti della contemporaneità.
Marcel Duchamp, Fontana, 1917
NL Architects, De Wild Pleck, Delft 1999-2000
NL Architects, De Wild Pleck, Delft 1999-2000
NL Architects, De Wild Pleck, Delft 1999-2000
* Il presente articolo è una sintesi di Parole chiave: bello?, in ‘arch’it’,
www. architettura.it/parole, 27 giugno 2005.
Lorenzo Dall’Olio
Architettura e arti visive. Territori e prospettive di un dialogo
Solo dieci anni fa l’ipotesi che potesse esistere un terreno comune
di scambio tra arti visive e architettura era vista ancora con timore e
sospetto, come se il solo contatto di un ambito espressivo con l’altro
potesse in qualche modo indebolire o, addirittura, nuocere alle già
precarie condizioni strutturali delle singole discipline e dell’architettura in particolare. Non vi erano contributi critici specifici che affrontassero questo tema in maniera diretta e sufficientemente ampia e mancava un aggiornamento dei numerosi e importantissimi studi che avevano messo in luce i rapporti esistenti tra le avanguardie artistiche e
il movimento moderno nei primi decenni del ’900.
Ancora oggi non è stata fatta una seria riflessione sulla natura di tali rapporti e, soprattutto, sui possibili riflessi di carattere teorico e metodologico sulla nostra disciplina.
Due sono, al momento, le posizioni critiche più frequenti, diametralmente opposte: da un lato, vi è chi ritiene che l’architettura - come
d’altronde le altre arti - abbia ormai superato i propri confini disciplinari, perdendo molto della sua specificità e confondendosi con altre manifestazioni dell’espressività umana. Germano Celant, curatore della
recente mostra di Genova sul tema, parte dall’idea che nel suo passaggio dal funzionalismo al formalismo puro l’architettura diventa arte, perché passa dal dover essere al piacere di essere. Dall’altro vi è
chi ritiene pericoloso, per le sorti della disciplina, anche solo ipotizzare l’esistenza di tali rapporti e pensa che l’architettura che ‘si fa arte’
produca una degenerazione dei principi fondativi del lavoro dell’architetto e delle sue finalità.
Sono due posizioni a mio avviso improduttive, perché eliminano,
con modalità diverse, lo spazio dialettico del confronto; la prima, sovrapponendo per un eccesso di omologazione ambiti operativi diversi, tende ad annullare le differenze e a confondere metodologie e, appunto, finalità; la seconda, negando qualsiasi area di interferenza,
tende a non vedere i numerosissimi segnali di contaminazione, più o
meno espliciti, tra arte e architettura.
Il punto di partenza del mio piccolo contributo di dieci anni fa, che
ancora oggi ritengo valido, si fonda sull’idea che, per comprendere
molti dei fenomeni e delle tendenze architettoniche oggi in atto, sia
sempre più indispensabile allentare le maglie strette dell’autonomia
disciplinare, soprattutto se l’interesse è rivolto a quelli che potremmo
definire i ‘materiali espressivi’ che entrano in gioco nella fase ideativa
dell’opera.1
D’altronde, l’idea di perlustrare territori di confine, di spostarsi cioè
per un momento dal proprio ‘centro’ e cambiare il punto di vista, veniva già teorizzata da Manfredo Tafuri, che nel noto libro La sfera e il labirinto del 1980 scriveva: ‘Fin troppo spesso scandagliando ciò che è
ai margini di un problema dato, vengono offerte le chiavi più produttive per aggredire quello stesso problema’.
Venendo a oggi e al tema più generale posto dal Seminario di Camerino, a proposito del ruolo dell’architettura nella costruzione dei
nuovi paesaggi urbani, va registrato un importante dato di partenza:
anche se non ovunque e non sempre con conseguenze positive, sempre più spesso l’architettura è chiamata a diventare un simbolo per le
città che la ospitano. Dopo anni di relativa ‘invisibilità’, l’oggetto architettonico sta riconquistando la scena, potenziando la propria immagine e re-inventadosi come monumento attorno al quale costruire identità e riconoscibilità. A tal fine l’architettura si confronta inevitabilmente con una serie di altre forme della visualità a cui contendere la scena: dal design alla moda, dalla pubblicità alla fotografia, dalle istallazioni alle performances, ambiti espressivi che proprio con la città
spesso interagiscono direttamente.
è un fenomeno, questo, complesso e contraddittorio, anche perché
viene alimentato da istanze non solo interne, ma anche eteronome e
non sempre sane. Rem Koolhaas, ad esempio, afferma che oggi l’architettura, sospinta com’è dai potenti motori dell’economia e dalle logiche del profitto, spesso perde molto della sua ‘aura di bontà’.
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Quale tipo di monumentalità è, allora, quella contemporanea e quale ruolo ha l’architettura all’interno dei paesaggi urbani contemporanei?
Il monumento contemporaneo spesso non dialoga più con la città,
che a sua volta non è più un corpo omogeneo; si impone ad essa, si
fa spazio, conquista la scena, non più utilizzando la città come supporto, ma cercando di emergere dall’eterogeneità confusa che la caratterizza. Nella realtà urbana delle città asiatiche, ad esempio, architetture totalmente autoreferenziali si contendono un territorio ormai
snaturato e privo di identità; ogni architettura grida contro quella vicina, tentando di soverchiarla, senza che l’insieme - come ha scritto Vittorio Gregotti - raggiunga la grandezza del combattimento, ma solo
quella sgangherata della competizione pubblicitaria.
Insomma, il rapporto architettura-città è oggi in crisi, vi è un’incompatibilità tra la parte e il tutto che è frutto della sempre più marcata difficoltà dell’architetto ad interpretare la complessità di contesti disomogenei, caotici, disgregati, ma anche, in parte, della mancanza di interesse per questo tipo di dialettica, che è letta come illusoria e fuori dalla portata dell’architettura.
Paradossalmente, però, questo segno di debolezza diventa, nei casi migliori, un connotato di forza. Le architetture non presentano più,
con modestia, un punto di vista relativo e parziale sul mondo, ma cercano di rappresentare il mondo stesso. Non sono più una parte del
tutto, ma ci propongono un tutto compiuto, finito, autosufficiente.
Quelli che vediamo sorgere sempre più spesso nelle nostre città
sono: o edifici intesi come piccole città, contenitori dal forte potere attrattivo, mondi labirintici costruiti attorno a percorsi e stratificazioni
spaziali che tentano di riprodurre la complessità della metropoli e che
già da fuori promettono esperienze estetiche e sensorie di grande intensità; o edifici come grandi oggetti d’uso, ingigantiti in modo che
l’uomo possa abitarci e navigarci dentro come in un ‘viaggio allucinante’. Di fronte a edifici non edifici, a città o cucchiai che diventano manufatti da abitare, l’uomo perde la misura, vive in un mondo fuori scala, in cui non è più un fruitore, né tanto meno un semplice utilizzatore, ma diventa uno spettatore, meglio se stupefatto.
Infine, l’opera d’architettura che aspira ad imporsi come un monumento sceglie spesso, paradossalmente, nuovi linguaggi, mai uditi,
meglio se non perfettamente comprensibili. Per incrementare la sua
aura e il suo fascino, l’architettura gioca sulla sempre minore intelligibilità delle sue procedure. I mezzi, gli strumenti e i materiali dell’espressività contemporanea sono sempre più dominati dalla tecnologia e dall’informatica, le cui logiche intrinseche spesso invadono il
campo dei significati oltre che quello dei significanti. La tecnologia e
la tecnica costruttiva, che nella prima modernità spesso puntavano a
manifestarsi, a esplicitare i processi costitutivi e costruttivi, oggi si celano o diventano ambigui, per colpire, incuriosire, stupire. L’architettura in questo senso si avvicina moltissimo al design dell’oggetto tecnologico che, da un lato, ha un’interfaccia friendly e accattivante e, dall’altro, un sub-strato assolutamente impenetrabile.
Oggi nel vedere molte architetture ‘straordinarie’ si rimane sinceramente stupefatti, tanto stupefatti da riuscire a chiedersi soltanto come
si ottengano certi risultati, mai perché vengano ricercati. Il problema
allora è fare in modo che questa sensazione di straniamento ridiventi
coscienza e che una semplice strategia estetica ridiventi una ricerca,
magari con una vita più lunga della gestazione di un’opera.
T. Ando, Tempio dell’Acqua, Tsuna-gun, Hyogo, 1989-1991
R. Serra, My curves are not mad, 1987
1. Le prime riflessioni sul tema sono state raccolte nel libro L. Dall’Olio, Arte e Architettura. Nuove corrispondenze, Torino, 1997.
S. Holl, Spatial Retaining Bars, Phoenix (Arizona), 1989
Sol LeWitt, Incomplete Open Cubes, 1975
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F. O. Gehry, Museo Frederick R. Weismann, Minneapolis, 1993
V. Krinski, Tempio dell’incontro tra i popoli, 1919
R. Koolhaas, Casa da Musica, Porto, 2004
A. Giacometti, Cubo, 1936
Inês Dantas Bernardes
Il ruolo dell’architetto nella trasformazione del paesaggio contemporaneo
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Quali sono i collanti che possiamo cercare oggi per il paesaggio e
per il territorio? Intendiamo per collanti solo gli oggetti fisici o anche
altre logiche non necessariamente costruite?
Questi collanti devono essere per forza tangibili? In quali altri spazi si possono cercare?
Attraverso le immagini ogni individuo rappresenta il territorio in cui
abita e nel quale si muove, come possiamo quindi avvalerci della capacità dell’architettura e dell’arte di creare immagini?
Nel 1968, gli architetti americani Charles e Ray Eames, hanno condensato in immagini la conoscenza delle diverse scale dell’universo
nel film ‘Powers of Ten’, prodotto per la Commision on Collegge Physics. Il film inizia con la scena di un picnic di una coppia sul lago Michigan a Chicago, poi la camera comincia a fare una serie di zoom
outs fino ad arrivare all’universo per poi ritornare al picnic ed alla mano dell’uomo che dorme, per entrare fin dentro le cellule. Gli Eames
trasferivano in immagini la coscienza del salto di scala, facendo nascere nello spettattore l’utopia dell’infinitamente complesso. Nell’ incrocio delle diverse scale sta la conoscenza del mondo reale che però sfugge all’occhio e al cervello nudi.
In una lettera a Vittorio Gregotti, aggiunta al film, gli Eames scrivevano che ‘a quel tempo il mondo iniziava a imparare quello che gli architetti sempre avevano saputo, cioè che tutto è architettura’.1 Con
questo pezzo filmato, che è un incrocio fra progetto artistico, scientifico e tecnologico, gli Eames mettevano l’architettura dentro una piattaforma interdisciplinare.
Mediatizzare ciò che è reale e non visibile, è stato il compito degli
Eames, creando nello spettatore delle immagini di un mondo che si
era allargato. Gli Eames hanno fatto vedere il territorio nel senso documentale facendo una trasmissione scientifica della cultura del mondo. Per mezzo del film, gli Eames trasmettevano la cultura come l’ha
definita Edgar Morin nel 1973 ‘sistema generativo di alta complessità
senza il quale questa complessità crolla per dare luogo a un livello or-
ganizzativo più basso. In questo modo la cultura deve essere trasmessa, insegnata, imparata cioè riprodotta in ogni nuovo individuo
durante il suo periodo di apprendimento, learning per potersi perpetuare, perpentuando così l’alta complessità sociale’.2
Mediatizzare il reale è il primo passo per poi andare avanti e far vedere non solo quello che esiste, ma anche come le cose possono essere. è questa la capacità disciplinare dell’architettura, dell’arte e della ricerca innovativa.
Si progettano nel paesaggio vettori non sempre visibili, non sempre
cartografabili, alcuni reali, altri del dominio dell’immaginazione. è attraverso la conoscenza del mondo che ci circonda e delle proposte
per esso, nel tempo, che si forma una cultura e un immaginario urbansitico, territoriale al quale tutti possono ricorrere.
Attraverso l’immaginario del territorio che ogni individuo porta con
sé, si può cominciare a costituire un nuovo collante per un paesaggio,
che oggi si è allargato e ridefinito in un modo inimmaginabile all’occhio nudo.
è mia convinzione che gli architetti devono essere implicati nel processo di comunicazione, di creare immagini di cambiamenti o consapevolezza della cultura, portando l’architettura oltre l’architettura, per
così osservare il mondo, capirlo, ridefinirlo come gli Eameas hanno
saputo fare, e poi ... ritornare alla disciplina.
L’arte e le materialità alternative come il video, la fotografia, le immagini digitali, danno una forma alla metafora e spingono l’architettura ad un livello che la trascende e va verso altre discipline.
Queste sono le possibilità, oltre la costruzione effettiva di edifici e
pezzi di città, che noi architetti, possiamo uttilizzare come trasformazione e collante del paesaggio.
1. Colomina, Beatriz, in Prototypo#007 Seminário de Arquitectura Prototypo 01, n. 7,
Agosto 2002, Publicação Stereomatrix.
2. Morin, Edgar, O Paradigma Perdido: A natureza humana, 6a Ed., Publicações EuropaAmérica, Portugal, 2000 (Ed. Orig. 1973).
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Fotogrammi del film Powers of Ten, versione prodotta per l´IBM, 1977, Copyright Eames Office
Gabriele De Giorgi
Oltre la forma
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Mi servirò di una metafora per tentare di dare una risposta al quesito se esista un’arte per la ‘città senz’arte’ di cui hanno parlato Umberto Cao, Massimo Ilardi e Tonino Terranova (ndr. vedi in questo
stesso volume U. Cao, A. Terranova).
Nello spettacolo teatrale ‘Otto’, del gruppo Kinkaleri di Prato, in programma alla rassegna dei Cantieri Koreja, in tutte le scene gli attori
cadono, si afflosciano a terra, così, senza una causa precisa. Si
schiantano di botto, e nel cadere coinvolgono oggetti, scene, microfoni, nel più assoluto silenzio, senza parole. Il solo rumore è quello del
tonfo sordo e duro dei corpi, del fischio stridulo dei microfoni rovesciati, dei liquidi che fuoriescono dalle bottiglie e dai flaconi. La disposizione degli oggetti subisce una dislocazione improvvisa. I corpi degli attori cadono scomposti. Dopo il primo esilarante impatto che ogni caduta ben fatta provoca nello spettatore, ci si comincia a porre domande, a interpretare, a fare ipotesi. è evidente che nel rapporto tra l’arte
teatrale e il cadere, tra l’attore e lo spazio scenico travolto dalla caduta, c’è un’intenzione precisa.
Il libretto in vendita al botteghino contiene, nel saggio del critico
d’arte Sergio Risaliti, illuminanti spiegazioni e implicazioni più ampie.
Un filo trasversale percorre la storia dell’arte intorno al tema della
perdita della stabilità, del venir meno delle condizioni di equilibrio. Il
bilico, la caduta, il senso catastrofico della gravità riguardano il corpo
umano, gli edifici, la città.
L’interesse per la caduta attraversa tutta la storia dell’arte da parte
di artisti attenti a quella alterazione speciale, fisica e psichica prodotta dalla negazione della tensione dell’atto del cadere. ‘Un corpo che
cade - scrive Risaliti - o appena caduto, assume una posizione incerta, informe, è privo di grazia, si appiattisce innaturalmente e si disarticola fino a essere sfigurato’.
Un elenco possibile di cadute significative nel mondo dell’arte potrebbe farsi partendo dal mito, fino al cinema: Lucifero, San Paolo, Fe-
tonte, Bellerofonte, Icaro, Dante, Chaplin, Buster Keaton e così via.
Un corpo che cade o appena caduto assume una configurazione indefinita, anormale, è privo di armonia, si deforma innaturalmente e si
disarticola fino ad essere irriconoscibile. Lasciati i paradisi perduti,
quelli della Perfezione, come nella caduta di Lucifero, il corpo angelico prova la sensazione di una realtà fatta di pesantezza, non più di
leggerezza e rarefazione, ma vicina alla terra, imperfetta, instabile e
fragile.
Come sostiene Paul Virilio, la catastrofe nella realtà e nell’arte, come crollo, è forza di ‘dissipazione’ e ‘defigurazione’ della forma, da qui
l’interesse dell’artista.
Il crollo è il ‘collasso meraviglioso’ dell’architettura, ‘choc’, ‘precipitazione’ degli edifici e delle città, accumulo di rovine e frammenti, da
cui ri-costruire con altra visione, introiettandone la precarietà, la fragilità, l’aleatorietà.
Il corteggiamento della perdita di senso della verticalità inaugura
l’epoca dell’architettura contemporanea con il declino di una tradizione e dei suoi modelli, l’inizio di una visione diversa del mondo. Un
mondo in cui s’insinuano molti elementi prima trascurati come dissonanze, oggetti sconosciuti, piani inclinati e sconnessi, morfologie indecifrabili e inorganiche.
Strettamente partecipe della categoria della caduta è l’accartocciamento, la piega. Ricordiamo il ‘folding’ di Eisenman, il saggio ‘La piega’ di Deleuze, ma anche le pieghe barocche delle sculture di Bernini
che dissolvono il senso del corpo, oppure le pieghe della scultura e architettura contemporanea, di Gaudì, di Gio Pomodoro, dell’arte povera, dell’universo popolare dei fantocci, del teatro di figura, dell’arte pop.
Si può pensare ad una interpretazione della città per pieghe. Le immagini della basilica di San Pietro o della Sapienza del Borromini possono allora mutare le proprie impaginazioni con slittamenti librati tra
gravità e nuove linee centrifughe; Santa Maria del Fiore si può con-
trarre ed espandere in configurazioni sovrapposte: l’Empire State
Building o il Chrysler Building e Times Square possono ondeggiare e
deformarsi; le insegne notturne di Las Vegas collassare e accartocciarsi; il microcosmo dei marciapiedi di Roma (giornali gettati per terra, lattine, scatole di sigarette, ecc.), che pullula di situazioni di sciupamento e calpestio, può caricarsi di intenzioni e di valori plastico-figurativi.
Sono immagini riassuntive di alcune categorie concettuali. Hanno
valore propositivo. Tra la percezione reale di queste architetture e l’interpretazione che ne facciamo, lo spiega molto bene Deleuze nel libro
‘La Piega’ che ho citato prima, esiste lo scarto di un’azione critica, di
un’azione ideale, per la quale l’arte è in grado di vedere nel corpo della città, la causa di quanto accade nel mondo. Ma non esistono due
mondi, due espressioni o due ‘esprimenti’ del mondo - come li chiama
Deleuze - realmente distinti: uno come appare, l’altro come è rappresentato dalla realtà proposta dall’artista. Esiste l’autonomia reciproca
delle due espressioni che sono realmente distinte, e tuttavia inseparabili. In virtù di questa continua oscillazione l’opera dell’artista di venta
progetto di scomposizioni e ricomposizioni dell’universo urbano, ri-configurato per piegature, ondulazioni, contrasti, transfert, deformazioni.
Sono figure che, elaborate come vestiti spaziali fluttuanti indossabili dal corpo finito e rigido della città, appartengono alla condizione
oscillante di contraddittorie forze gravitazionali e forze centrifughe, a
quell’andirivieni tra le opposte identità di ciò che appare e ciò che è.
In queste interpretazioni non dobbiamo cercare tuttavia riferimenti
Ma forse l’avevamo dimenticato. Di pieghe è fatta la città mediterranea (ricordiamo la ‘tortuosità’ del bel saggio di Giancarlo De Carlo
scritto per Domus poco prima della sua scomparsa).
Oggi possiamo recuperarne lo spirito, ripensarne criticamente le
connotazioni per un nuovo progetto, che troviamo già ad esempio negli Smithson per il progetto di Berlino, in Scharoun nella Filarmonica
sempre a Berlino, in Eisenman ancora a Berlino nel progetto della
Max Reinhardt Haus, in Oldenburg nell’installazione Mistos a Barcellona, in Anselmi a Fiumicino, in Hadid a Roma, in Herzog e De Meuron nel Forum di Barcellona, in Van Berkel nel Ponte Parodi a Genova, ed altri ancora.
Nella città contemporanea del disordine e del caos non è più tempo di spazi rigidi, scatolari, chiusi e perfetti, di strutture compiute. Solo interiorizzando e rielaborando i termini della condizione urbana: lo
squilibrio, il bilico, la caduta, le pieghe, le fratture, potremo agire sui
tessuti, sui contesti, rimettendo in discussione continuamente il senso
del progetto, ri-modellando lo spazio metropolitano. Spazio finalmente coerente con la vita degli uomini.
Giorgio De Chirico, Caduta di Fetonte
Gustavo Dorè, Navarrese e Alichino
Auguste Rodin, L’uomo che cade
alle ricerche delle avanguardie del ’900, non vi si trova lo spazio-tempo dei cubisti, né la velocità e le energie dinamiche dei futuristi, né la
dimensione utopica degli anni ’60, né le ricostruzioni su nuove valenze dei decostruttivisti. Vi si trova invece il senso degli apporti del caos,
delle derive, del mutamento imprevedibile, dell’incidentalità, un tentativo di ri-nominazione da cui probabilmente ripartire.
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Charlie Chaplin, Scena di pattinaggio
Lorenzo Bernini, Tomba Raggi in S. Maria
Sopra Minerva
Gio Pomodoro, Scultura
Gabriele De Giorgi, Il Chrysler Building
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Gabriele De Giorgi, Las Vegas
Giovan Battista Nolli, Pianta di Roma
Gabriele De Giorgi, Campanile di Giotto
Gabriele De Giorgi, Marciapiedi di Roma
Alison e Peter Smithson, progetto per Berlino
Claes Oldemburg, Installazione Mistos a Barcellona
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Peter Eisenman, Max Reinhardt House a Berlino
Herzog & de Meuron, Forum a Barcellona
Alessandro Anselmi, Municipio di Fiumicino
Zaha Hadid, Museo d’arte contemporanea a Roma
Mario Docci
Il colore e la città
Contributo alla rinascita dell’Arte del colore
Premessa
Il ruolo del colore negli edifici e nelle città storiche presenta una serie di problematiche molto complesse, che negli ultimi trent’anni sono
state messe a fuoco da studi e ricerche svolti indagando da vari punti di vista, con esiti di notevole qualità. Purtroppo, a fronte di questi ottimi contributi scientifici, la prassi quotidiana dell’impiego del colore, in
molte città, non sembra aver raggiunto i medesimi livelli; non sono rari, infatti, interventi errati che in alcuni casi costituiscono dei veri e propri orrori. Molti di questi errori sono frutto della scarsa conoscenza del
ruolo del colore nell’edilizia storica, anche in alcune opere affidate a
seri professionisti, non sono infrequenti errori che alterano la figurazione del singolo immobile, riflettendosi negativamente sull’immagine
della città. Quello del colore, infatti, è, sostanzialmente, un problema
di restauro e come tale deve essere affrontato; occorrono pertanto
una serie di studi preliminari che conducano alla conoscenza profonda dell’opera e del suo intorno, fino alla ricostruzione del clima culturale e storico che l’ha generata, senza trascurare le tecniche costruttive e i materiali impiegati nella sua realizzazione.
Recentemente gli interventi sono spesso preceduti da ricerche documentarie molto serie ed approfondite che tuttavia indirizzano, troppo frequentemente, verso un’interpretazione ‘letterale’ dei documenti
rinvenuti, ammesso che ciò sia possibile senza un’ulteriore azione interpretativa e, quindi, soggettiva, da parte del progettista. Viceversa la
‘lettura’ delle informazioni raccolte, siano esse rinvenute in archivio o
dedotte direttamente dalla fabbrica, ha sempre bisogno di molta attenzione e sensibilità, soprattutto per quanto concerne la storia dell’edificio e il suo rapporto, consolidatosi nel tempo, con l’ambiente e
gli edifici circostanti. Non sono rari, infatti, i casi d’interventi che, grazie ad accurate ricerche storiche e magari anche a seguito di un’attenta analisi stratigrafica, giungono a ripristinare il colore originario, riportando l’edificio indietro nel tempo e provocando, al contempo, una
forte dissonanza con le costruzioni adiacenti che conservano il colore
attuale. A questo proposito si vedano i casi di piazza del Pantheon,
piazza Navona e piazza Capizzucchi, dove il ripristino di alcuni fabbricati ha prodotto un contrasto inaccettabile, modificando un ambiente
storicizzato che aveva raggiunto, nel corso dei secoli, un suo equilibrio, seppure diverso da quello originario.
Come osserva a questo proposito Gaetano Miarelli Mariani ‘l’azione di restauro - o di manutenzione conservativa, che sono operazioni
della stessa natura - non può prescindere dallo ‘stato attuale’ del manufatto oggetto dell’intervento e dalle sue relazioni con l’intorno; su
questa naturale condizione, che deve per quanto possibile essere
conservata, si possono innestare, e di fatto si innestano, ‘tendenze’ di
soluzioni che derivano dalle conoscenze, dal gusto, dai modi di percepire il colore’.1
Sovente poi, i risultati scandenti sono dovuti alla scarsa conoscenza del progettista e delle maestranze sull’utilizzo dei materiali storici
desunti dalle fonti d’archivio. A Roma vi sono molti casi del famoso color cielo, utilizzato in epoca barocca che, al momento della realizzazione, si trasforma in uno scialbo color grigio, ben lontano da quello
descritto negli archivi. Al riguardo si vedano i casi di S. Maria in Campo Marzio e della Chiesa della Maddalena.
Sempre a proposito del colore originario risultano esemplari, ancora una volta, le parole di Gaetano Miarelli Mariani: ‘Incide su questa
tendenza anche la presenza tutt’altro che trascurabile, dell’indirizzo
che ritiene che sia compito del restauro, la riproposizione di un non
ben definito ‘stato originario’ delle opere. In sostanza è un pernicioso
ritorno alla logica del ripristino che, con il suo carattere decisamente
artificioso, nega alle fabbriche del passato qualsiasi mutamento filologico e quindi la possibilità di una loro concreta esistenza. La ‘mala
pianta del ripristino’, per usare le parole di Cesare Brandi, è stata condannata senza appello dalla cultura storica da oltre un secolo per i risultati nefasti che ha determinato’.2
Va anche ricordato che questo non è solo un problema del nostro
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tempo; interventi pittorici che non tenevano conto della cultura architettonica e, soprattutto, della storia dei singoli edifici, erano già diffusi
nel secolo XIX, come testimoniano alcuni studiosi dell’epoca. Si possono citare, a questo proposito i vivaci scritti dell’architetto Francesco
Gasparoni (Fusignano 1801- Roma 1865) ed in particolare quelli apparsi sulla rivista ‘Le Fabbriche / de’ nostri tempi/ per ciò che è disegno, ordine e misura / in riguardo all’ornamento pubblico’ pubblicata
dal 5 gennaio 1850 fino al 17 giugno 1852. In questi articoli Gasparoni, mette in risalto la tendenza degli architetti romani del tempo ad alterare le fabbriche, soprattutto imbiancando i rivestimenti in materiale
lapideo e laterizio, ed usando, sugli intonaci, colori impropri che non
si accordavano con le altre parti in pietra. Ciò mette in evidenza un altro fatto di estremo interesse: nel XIX secolo molti edifici romani hanno subìto notevoli alterazioni che non hanno tenuto conto della natura e della storia di ciascuno. A fronte di questo ci si deve quindi domandare se, ed in quale misura, sia ancora lecito, oggi, riportare questi edifici ad un aspetto originario, troppo spesso solo presunto. In
questo senso sembrano emblematici i casi di S. Maria in Aquiro e di
S. Maria in Porta Paradisi, recentemente restaurate con l’asportazione di parti intonacate che, seppure non originarie, erano parte integrante dell’immagine, ormai consolidata, di questi edifici.
Il colore, la materia e gli ordini architettonici
Le ricerche degli ultimi trent’anni hanno evidenziato la stretta correlazione tra la grammatica e la sintassi dell’architettura e le coloriture
delle facciate. Gli ordini architettonici che, com’è noto, sono un sistema di elementi architettonici correlati tra loro da regole e rapporti proporzionali, scandiscono sovente le facciate degli edifici storici. Le regole e i rapporti proporzionali, pur consentendo alcuni gradi di libertà,
non possono essere stravolti, alterati o distorti, da coloriture che non
Roma, piazza della Rotonda: in primo piano
un ripristino del colore originale; si noti il forte contrasto
con gli altri edifici in color mattone
siano poste in relazione con la logica interna a ciascun tipo di ordine.
Gli storici distinguono due diversi modi di intendere gli ordini architettonici. Secondo Arnaldo Bruschi nel primo modo ‘gli ordini sono
idealmente intesi come membrature strutturalmente attive che costituiscono l’intelaiatura ‘portante’ a confronto della parete adiacente che a
sua volta è intesa (anche se in contraddizione con la realtà fisica) come in certa misura passiva, ‘portata’ o di semplice chiusura o tamponatura dei ‘vuoti’ tra gli ordini. Ne consegue una distinzione, rilevata
dalla diversità di materiali e colori, tra ordini e pareti. L’origine di questo modo di pensare gli ordini sulla facciata è, come ben si sa, brunelleschiana (e ‘gotica’)’. 3 Vedremo più avanti come questo tipo di ordine
si realizza in area romana. Il secondo modo di concepire l’ordine, sempre seguendo le parole di Bruschi, è ‘idealmente più nobile perché più
costoso, più solido, più duraturo - nel quale ordini e parete muraria appaiono come un’unica, omogenea struttura continua: tutta costituita,
almeno in apparenza da ‘ossa’. (…) A Roma questo modo di pensare
la facciata con ordini si esprime, pure precocemente, ancora vivente
l’Alberti, in facciate totalmente di travertino (con eventuali inserzioni di
marmo) dal tempo di Pio II (inizio della Loggia delle Benedizioni in San
Pietro sull’esempio di Pienza) e di Paolo II (continuazione Loggia delle Benedizioni, facciata porticata di San Marco) diffondendosi dal tempo di Sisto V’. 4 A questo proposito si veda il caso del Palazzo della
Cancelleria e della Chiesa di Sant’Agostino e si osservino gli schemi
relativi all’ordine e al suo rapporto con i prospetti.
Nel primo modo di concepire l’ordine, gli elementi verticali e quelli
orizzontali sono addossati ad una parete che ne costituisce lo sfondo.
è ovvio che fra ordine, generalmente in risalto rispetto alla parete e
quest’ultima, vi sia una notevole differenza, non solo concettuale ma
anche formale. Gli architetti, nelle diverse epoche storiche, hanno generalmente sottolineato questa differenza, utilizzando un diverso colo-
Roma, piazza Navona: si osservi l’edificio sul fondo
recentemente pitturato con un colore ocra intenso che
annulla gli spartiti architettonici ponendosi in contrasto
con tutti gli altri
Roma, Chiesa di S. Maria in Campo Marzio: il presunto
color cielo della chiesa è in contrasto con il colore
dell’edificio adiacente
re per l’ordine, in modo da far risaltare quest’ultimo rispetto alla parete.
Diverse combinazioni fra colore, ordine architettonico e materiali
presenti sulla facciata hanno infine prodotto tutta quella serie di ‘varianti’ che giornalmente osserviamo nelle nostre città. Con riferimento
al colore, particolarmente evidente risulta la differenza fra le facciate
fiorentine, costituite da un ordine realizzato in pietra scura con le pareti di fondo tinteggiate di bianco e quelle romane, nelle quali l’ordine
è generalmente in travertino, ma a volte anche in peperino, mentre la
parete di fondo è realizzata in cortina di mattoni o con intonaco. A questo proposito si vedano i casi del museo dei Conservatori in Campidoglio e di Palazzo Braschi. Riguardo poi ai materiali, se spesso i fondi a cortina erano sostituiti da intonaci colorati o, in alcuni casi, trattati a finta cortina, talvolta anche gli stessi ordini non erano completamente in pietra, ma questa veniva simulata, in tutto o in parte, attraverso l’uso di intonaci opportunamente scialbati.
Nella casistica romana troviamo, infatti, ordini realizzati interamente in travertino, o, viceversa, completamente in stucco ma, soprattutto, esempi di ordini realizzati in travertino solo nelle parti basse, mentre le parti superiori, in alcuni casi con l’esclusione dei capitelli, anch’essi in pietra, presentano finiture ‘povere’, in stucco ed intonaco.
Questo tipo di esecuzione era utilizzata dagli architetti, nei palazzi
borghesi romani, dalla fine del Cinquecento e via via con maggiore
diffusione fino a tutto l’Ottocento, al fine di contenere i costi di costruzione; la parte più esposta alle intemperie, generalmente quella basamentale, era realizzata in travertino o in peperino, mentre la parte sovrastante era eseguita con una finitura a stucco che simulava la pietra, come si può osservare nel Palazzo Crescenzi recentemente restaurato, o addirittura con un intonaco e una tinteggiatura che alludeva, ma solo cromaticamente, alla pietra o alla cortina. In quest’ottica
e senza voler generalizzare poiché, come si è detto, ogni opera pre-
senta caratteristiche peculiari che vanno attentamente studiate, si
comprende come risultino sovente del tutto incongrui alcuni interventi che tendono ad impiegare differenti colori nelle varie parti di uno
stesso ordine. In ciò seguendo una differenza di materiali che, nella
maggioranza dei casi, era dovuta a problemi di tipo economico piuttosto che ad una espressa volontà, pure in alcuni casi accertata, tesa
ad ottenere ‘un insieme fortemente variato e policromo’.5 Come si può
osservare nel fronte dell’ex palazzo della Zecca, o nel caso di portali
e paramenti murari e di un palazzo a Corso Vittorio, alcuni errori grossolani sono dovuti proprio alla mancanza di conoscenza degli ordini e
delle loro infinite varianti ed articolazioni.
Sono infatti proprio questi ultimi tipi di facciate, realizzate con diversi materiali, a porre i problemi più complessi nell’uso delle tinteggiature che, oltre ad essere impiegate nelle pareti di fondo, erano estese
anche all’ordine, in modo da renderne l’aspetto il più possibile omogeneo. Questo risultato era raggiunto con una tinteggiatura a finto travertino stesa sulle parti realizzate in stucco e con una scialbatura applicata sulle parti in travertino, al fine di accompagnare la tonalità della pietra al sovrastante intonaco.
Purtroppo in questi casi non sempre è facile riuscire a stabilire con
certezza quale e come fosse distribuito il colore originario. Molto
spesso, infatti, la parte basamentale, dilavata dalla piogge, non ha
conservato lo scialbo di finitura e solo un’analisi molto accurata, eseguita in diverse parti dell’ordine, può, in qualche caso, confermare o
meno se le parti in pietra e quelle ad intonaco fossero state in origine,
o anche in epoche successive, scialbate per uniformarle.
Purtroppo spesso, in mancanza di informazioni in tal senso, o forse anche per una esplicita volontà - legata a ragioni di gusto? - si sceglie la strada ‘più semplice’, di tinteggiare cioè le parti intonacate lasciando al naturale le parti in pietra.
Roma, Palazzo della Cancelleria: ordini e parete
interamente in travertino
Roma, Chiesa di S. Maria in Campo Marzio: il color
cielo della chiesa restaurata di recente è già degradato
S. Maria alla Maddalena: le due parti laterali della
chiesa sono state tinteggiate in color cielo, realizzando
un immagine diversa da quella abituale
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Un caso esemplare è costituito da un recente intervento realizzato
sull’edificio del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca (MIUR)
a viale Trastevere, la cui facciata ottocentesca è stata completamente alterata da un rozzo ‘restauro’, che non ha tenuto in alcun conto la
logica progettuale e formale della facciata.
La parte basamentale e le paraste dell’ordine gigante fino alla metà sono in travertino, la tinteggiatura ha ricoperto con un unico colore
tutto ciò che non è in pietra creando una frattura nella parasta e un
contrasto nella finestra del primo piano che è in travertino nella parte
bassa, mentre per tutto il resto è tinteggiata. Chi ha progettato questo
maldestro intervento non ha nemmeno compreso il ruolo della parete
di fondo, in cortina di mattoni. Sarebbe forse stato sufficiente trattare
la parte dell’ordine realizzata a stucco con una scialbatura color travertino ed accompagnare gli sfondi con un color mattone.
Va anche ricordato, come abbiamo accennato all’inizio, che vi sono
edifici nei quali la pietra, sia essa vera o simulata, è stata utilizzata sull’intero fronte, che presenta, o dovrebbe pertanto presentare, un unico
colore per tutte le sue superfici, eventualmente attentamente modulato per evitare spiacevoli appiattimenti. A questo proposito Giuseppe
Zander, fornisce queste considerazioni: ‘In generale si può forse dire
soltanto che l’unica tinta, quando correttamente scelta - e non voglio
dire ‘indovinata’ - mette in evidenza i valori della plastica secondaria,
fortemente connessi con quelli della plastica primaria, cioè dei volumi
generali dell’opera architettonica. Il monocromo è anche più facile. Ma
qui non si tratta di scegliere la via più facile (…) Qui s’apre il discorso
della ricerca storica, interviene qui l’esercizio dello spirito critico’. 6 L’effetto monocromo è evidente in Sant’Agnese a piazza Navona.
Un caso a parte, certamente problematico, è infine costituito dal recente, discusso, restauro della facciata di Palazzo Farnese. Senza
voler entrare nel merito del dibattito, né in quello più prettamente tec-
Roma, Palazzo Senatorio: ordine gigante in travertino e
pareti di fondo in cortina
nico delle scelte progettuali, supportate in questo caso da attenti e circostanziati studi storici e da approfondite analisi dirette, si può solo
osservare come il restauro abbia di fatto modificato l’immagine consolidata del monumento, rimettendo in discussione anche alcune acquisizioni critiche che sembravano consolidate. Probabilmente, come
altri hanno acutamente osservato, il restauro, pur ‘raffinato ed accorto’ avrebbe avuto bisogno di ‘un lavoro ulteriore di velatura e sottile
uniformazione architettonica’,7 in modo da attutire il forte contrasto,
ora evidentissimo, tra la parte basamentale (dove è stato completamente rimosso l’ultimo strato dell’intonaco, risalente agli anni Settanta, lasciando in vista lo strato sottostante, in gran parte reintegrato, in
una sorta di ‘‘non finito’ di nuova esecuzione’)8 e i due ordini sovrastanti, dove dopo la pulitura sono venuti alla luce singolari decorazioni della cortina laterizia.
Come si può comprendere da queste sintetiche osservazioni, quello del colore è, quindi, un problema prevalentemente storico-critico e,
soprattutto, estetico; solo con la padronanza completa di tutte queste
componenti si possono affrontare i diversi problemi tecnici. In altre parole, per realizzare un restauro corretto occorrono soprattutto profonde conoscenze storiche, una buona sensibilità architettonica e una
notevole capacità estetica unite con le fondamentali nozioni tecniche
e di cantiere che, come vedremo, rivestono comunque un’importanza
fondamentale nelle scelte finali.
Intonaci e coloriture - dettagli tecnici sulla conservazione
Parallelamente all’analisi architettonico-formale degli edifici ed ai
problemi di restituzione cromatica ad esso correlati, è importante
quindi soffermarsi su alcuni aspetti tecnici strettamente connessi alla
materia pittorica ed alle modalità di realizzazione delle opere. Sono
proprio alcuni di questi aspetti che vorrei analizzare ponendo l’atten-
Roma, Palazzo Braschi: tipico palazzo del XVIII sec.
con gli spartiti in travertino e la parete di fondo in
cortina di laterizio
Roma, ex Palazzo della Zecca: fronte in travertino,
cornicione in stucco
zione sull’influenza che le scelte applicative ed operative hanno sul risultato estetico finale.
Partirei pertanto dagli intonaci, la conservazione dei quali, nel restauro di edifici monumentali, è un concetto largamente condiviso, ma
scarsamente attuato. è opinione comune infatti che gli intonaci costituiscano una sorta di ‘superficie di sacrificio’, tanto che i fenomeni di
deterioramento in esso presenti vengono quasi sempre addotti a pretesto per sostituirli con nuovi.
L’operazione di ripristino degli intonaci, eseguita sull’intera superficie, non è tuttavia un’operazione di restauro e non va confusa con essa. Con un intervento simile si perdono le porzioni residue dell’intonaco esistente, si annulla il passaggio del tempo e si apportano quasi
sempre dei cambiamenti sostanziali nella finitura muraria.
La scarsa attenzione e considerazione che viene riservata agli intonaci di supporto è causata non solo dalla limitata conoscenza dei
materiali e delle tecniche antiche di realizzazione degli stessi, ma soprattutto dal volerli considerare solo come substrato e non già parte
integrante della decorazione su di essi approntata.
L’intonaco non costituisce, infatti, semplicemente il ‘supporto’ della
coloritura, ma diviene parte di essa, modificandone, attraverso i materiali compositivi (più o meno assorbenti) e la finitura superficiale ( più
o meno scabra) la compattezza della stesura pittorica, la capacità di
assorbimento e rifrazione della luce, le caratteristiche di percezione
del colore stesso da parte di chi lo osserva ed, in definitiva, il tono generale della coloritura.
Il colore, che di per sé è già materia, assume pertanto le sue caratteristiche in quanto posto sopra un’altra materia, con la quale interagisce e dalla quale riceve l’apporto di ulteriori qualità specifiche.
L’attenzione di un architetto, culturalmente orientato alla salvaguardia di quanto conservato della cromia originale non può, pertanto, che
fondarsi sulla conservazione degli intonaci originari, laddove ancora
esistenti, o comunque antichi.
Sia pure in contrasto con leggi economiche che spingono verso
tempi di lavorazione sempre più ridotti e a costi sempre più concorrenziali, l’ipotesi di demolire porzioni esistenti, solo perché minacciate da fenomeni di distacco, non risulta pertanto deontologicamente
percorribile.
A tale scopo esistono, al contrario, efficaci tecniche di restauro
adottate per il recupero di intonaci dipinti che possono essere utilizzate per il recupero di intonaci antichi presenti sulle facciate storiche. Tali interventi consistono, come noto, nell’utilizzo di malte idrauliche fatte penetrare tra gli strati dell’intonaco per colmarne i distacchi e risarcirne le mancanze di continuità.
Attuato il recupero degli intonaci, la fase di integrazione di quelli
mancanti richiede, nell’intervento di restauro, altrettanta puntualità,
dovrebbe pertanto riguardare esclusivamente le parti mancanti ed essere eseguito utilizzando materiali e tecniche di lavorazione il più possibile simili e compatibili con l’originale (nelle fabbriche romane prevalentemente calce, sabbia e pozzolana).
Un intervento corretto dovrebbe infatti, innanzi tutto, avvalersi della
giusta malta di finitura, calibrata nella granulometria degli inerti e nel
tipo di trattamento superficiale, per adeguarsi all’originale. Tale tipo di
malta non è sempre identificabile con un prodotto premiscelato che,
se da una parte garantisce una costanza di requisiti e rispondenze a
norme di qualità, dall’altra presenta al suo interno additivi (non sempre correttamente indicati, ma talmente efficaci da far aderire perfettamente la malta, anche senza bagnare adeguatamente il supporto
sottostante) e granulometrie standardizzate. Tali prodotti, infatti, rendono le superfici estremamente omogenee, conferendo all’insieme un
aspetto nuovo ed assai lontano da quello offerto dalla superficie origi-
Roma, San Agnese in Agone: il paramento murario tutto
in travertino pur con una pesante pulizia, mantiene
inalterato il suo effetto monocromo voluto da Borromini
Roma, palazzo in Corso Vittorio: ripristino fantasioso
del colore con la totale assenza di controllo della
sintassi dell’Ordine
L’intonaco non è solo il ‘supporto’ ma entra a fare parte
della finitura pittorica
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naria. Inoltre essi sono spesso pubblicizzati per la facilità di applicazione, tuttavia il loro utilizzo da parte di mano d’opera non specializzata, che ignora le regole dell’arte, fa sì che si incorra facilmente in errori di dosaggio. I difetti di applicazione producono poi inevitabilmente un precoce degrado di questo tipo di malte.
Tecnicamente il problema del recupero del colore originario si presenta ancora più spinoso.
Innanzi tutto è assai difficile stabilire il colore originario di un edificio e questo non solo perché molto spesso è stato completamente rimosso e, pertanto, rimangono in situ solo le coloriture successive ma
soprattutto perché l’esatta definizione del colore richiede la sinergia di
molte e diversificate competenze.
Le indagini stratigrafiche, con lettura delle sezioni al microscopio,
mostrano, ad esempio, un colore talmente ravvicinato che siamo in
grado di apprezzare tutti i pigmenti presenti in quel punto della mescola. Il problema, tuttavia, è che tale scomposizione, oltre ad essere
estremamente puntuale e quindi esemplificativa del solo punto di prelievo, rende difficile percepire il colore reale senza incorrere in grossolani errori: la scomposizione del colore che si ottiene è paragonabile, infatti, con quanto si realizza nella reintegrazione pittorica con la
tecnica della ‘selezione cromatica’. Con questa tecnica i colori si ottengono sovrapponendo tratti realizzati con colori puri in proporzioni
variabili; pertanto, paradossalmente, con i medesimi colori si possono
realizzare tonalità molto differenti tra loro. Nella stratigrafia è come vedere un colore scomposto nei suoi colori puri senza poter valutare il
rapporto tra di essi e, quindi, senza poter percepire l’effetto ottico finale: si tratta pertanto di un falso colore.
Anche le stratigrafie meccaniche, eseguite con scalette cromatiche
a bisturi, risultano altrettanto insidiose, perché mettono in rilievo la
parte più esposta del colore, quella che può aver subito, con l’esposizione ai raggi solari e all’inquinamento atmosferico, alterazioni cromatiche anche rilevanti (molto frequenti sono i viraggi verso il bruno e/o
il grigio). Una corretta interpretazione del colore richiede, pertanto, un
approccio pluridisciplinare che partendo da un’ispezione dell’intera
superficie con indagini visive e meccaniche a bisturi, supportata dall’analisi storica e documentaria, tragga, con il supporto delle indagini
chimico- fisiche dei materiali, i risultati finali.
Potendo individuare la cromia originaria, un intervento di restauro
dovrebbe essere teso a conservare la stessa, salvaguardando anche
i segni del tempo su di essa intervenuti, e raccordando ad essa le parti di intonaco reintegrate con i metodi sopra descritti.
L’intervento si prefigura, in questo caso, come un riequilibrio cromatico che ha come assunto principale quello di non essere eseguito in
maniera uniforme ma, tenendo conto delle differenti superfici, attuando un raccordo tra le stesse, attraverso il ricorso a velature successive e differenziate.
Nel riequilibrio cromatico entrano in gioco conoscenze tecniche e
capacità manuali che devono tener conto, per poter mantenere
un’omogeneità di tono generale, delle caratteristiche materiche (granulometria, capacità di assorbimento ecc.) delle varie porzioni di intonaco: senza queste premesse sarebbe come pensare di ottenere due
stoffe della stessa tinta ponendo nel medesimo bagno di colore due
filati con caratteristiche molto diverse, quali il cotone e la seta. Il primo risulterà sempre più opaco al confronto con la lucentezza del secondo e la saturazione del colore sarà ben diversa.
Tutto ciò nulla ha a che vedere con quanto viene normalmente eseguito durante la tinteggiatura. Quando l’intonaco di supporto è completamente ripristinato, bisogna infatti convincersi che ogni tinta proposta è un intervento che, pur nel rispetto delle tecniche e delle tradizioni artigianali, viene eseguito ex novo ed esula dall’intervento di restauro. In questo caso la sensibilità del restauratore può essere utile
per apportare alla coloritura degli aspetti estetici meno freddi e piatti,
dal momento che la presentazione cromatica di un edifico storico rimane senza dubbio una fase molto delicata e determinante.
I colori più frequentemente utilizzati, anche in epoche passate, sono quelli che hanno come legante il grassello di calce. Contrariamente a quanto detto per le malte, la difficoltà di reperire del grassello di
calce correttamente invecchiato per almeno due anni (quello in commercio ha un invecchiamento inferiore ai 30 giorni) e senza impurità
(presenza di sostanze alcaline che alterano i coloranti variandone la
tonalità ed in alcuni casi la resistenza nel tempo) rende preferibile l’utilizzo di un prodotto preconfezionato, fornito da industrie che si sono
fatte carico di ripercorrere le antiche fasi di lavorazioni per produrre
dei grasselli idonei alla pittura e confezionare, con essi, tinte con caratteristiche tecniche certe e garantite nel tempo.
Prescindendo dal colore prescelto, la finitura pittorica di un edificio
monumentale dovrebbe, comunque, rispettare delle modalità di applicazione e di resa cromatica finale. Se è vero che le industrie forniscono un importante contributo, con la produzione di colori a calce, è anche vero che queste stesse tinte, applicate senza i dovuti accorgimenti, danno luogo a risultati spesso poco soddisfacenti.
Per evitare che il tono generale risulti spento e piatto ed ottenere un
effetto di profondità del colore bisogna pertanto prima applicare una
tinta a calce che funga da base (dal tono più chiaro e freddo) e su di
essa una velatura (generalmente più calda).
Tale velatura ha una duplice funzione: completa cromaticamente il
colore di base, interagendo per trasparenza con esso e opera sulla
percezione di profondità della tinta rendendola vibrante.
Questo è il motivo per il quale attribuisco una fondamentale importanza alla velatura che viene invece spesso considerata come una finitura o, peggio ancora, come una sorta di patina di invecchiamento,
perché, come ho appena detto, nella pittura a calce la velatura entra
a far parte del tono del colore e del risultato percettivo di esso.
L’equivoco di fondo è comunque insito nella parola ‘velatura’. Non
è possibile eseguire una velatura con un colore a calce, perché la calce è, per sua natura, coprente e non può dar luogo ad una finitura trasparente. Né è da perseguire la pratica di maestranze poco esperte
che utilizzano per le velature il colore a calce diluendolo abbondantemente con acqua. Tale tinta potrebbe essere parzialmente trasparente, ma non garantirebbe più l’idonea resistenza.
La velatura dovrebbe quindi essere eseguita con acqua di calce,
pigmenti costituiti da terre naturali, di qualità tali da garantire una stabilità all’azione caustica della calce e della luce (non ossidi) e un
quantitativo, pari al 2% circa, di una resina acrilica non pellicolante.
Le tecniche di applicazione della velatura variano invece in base all’effetto che si vuole ottenere e al tipo di superficie da trattare: con lo
straccio si ottengono buoni risultati nelle superfici disomogenee o dove le campiture sono circoscritte; il fratazzo in spugna dà invece otti-
mi risultati anche nelle campiture più ampie, perché si ottiene un effetto più sfumato; la spugna naturale, infine, produce dei disegni più
puntuali ed è pertanto adatta alla patinatura di superfici che devono
imitare la pietra.
Per non incorrere in disomogenee applicazioni della velatura, tralasciando le tecniche per facilitare lo stemperamento dei colori e l’ottimale miscelazione della soluzione per evitare che i pigmenti in sospensione si depositino sul fondo, la cautela più importante è quella
di cercare di provvedere alla fase di velatura nel medesimo giorno sull’intera facciata poiché, oltre alla temperatura, ha grande influenza sul
risultato finale la quantità di umidità presente nell’aria, che può variare, anche sensibilmente, da giornata a giornata. Entrambi i fattori infatti (temperatura e umidità relativa) modificano i tempi di asciugatura
della velatura, variandone la resa cromatica finale.
Per concludere si può forse osservare come negli ultimi anni sia gli
studi teorici che la pratica operativa, attuata con mano d’opera specializzata, abbiano raggiunto importanti traguardi nel restauro di edifici monumentali, tuttavia, solo la sinergia tra queste due realtà, troppo
spesso separate, può consentire di raggiungere risultati pregevoli.
1. Gaetano Miarelli Mariani, Coloriture urbane: omologazione fra uniformità e dissonanze, in ‘ANA°KH’, 10, Giugno 1995, p. 14.
2. Ibidem, p. 12.
3. Arnaldo Bruschi, Problemi di materiali e di colori della facciate con ordini architettonici
nella Roma Rinascimentale e Barocca, in ‘Bollettino d’Arte’, 47, 1988, p. 118.
4. Ibidem, p. 119.
5. Ibidem, p. 122.
6. Giuseppe Zander, La Coloritura degli edifici e l’ordine architettonico, in ‘Bollettino d’Arte’, suppl. al n. 35-36, 1986, pp. 25-29.
7. Giovanni Carbonara, Il restauro di palazzo Farnese, in ‘AR’, 30, Luglio-Agosto 2000,
p. 35.
8. Alessandro Pergoli Campanelli, Restauro di palazzo Farnese. Intervista all’arch. Laura Cherubini, in Ibidem, p. 38.
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Giovanni Fiamingo
+ o -? L’arte del negativo
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Gli aspetti spettacolari che l’architettura sempre più spesso manifesta, appaiono in linea con certa tradizione performativa inaugurata
dalle Avanguardie del Movimento Moderno e possono darci la rassicurante certezza di un legame ancora forte e saldo fra Arte e Architettura, fra le Arti plastiche e l’Arte del costruire.
Tuttavia, è quando si comincia ad osservare il ‘vuoto di cultura progettuale che ha caratterizzato la crescita incoerente di molte città nella seconda metà del secolo appena trascorso e che ha rappresentato un grave punto di debolezza per i paesaggi insediativi in trasformazione, dominati direttamente ed esclusivamente dalle contingenze sociali, politiche ed economiche’ (Marucci) che questa certezza comincia doverosamente a vacillare o, quantomeno, a ridimensionarsi.
è a questo punto che, anche ad una superficiale analisi, emerge
una inquietante analogia fra molte delle scultoree e apollinee proposizioni del dibattito contemporaneo e le spietate procedure imprenditoriali che determinano i paesaggi delle nostre periferie. In entrambi i
casi, tutto è limpido, solare, luminoso, trasparente, certo. Da un tale
osservatorio, infatti, le ammiccanti e patinate pagine di molta pubblicistica di settore possono essere pretestuosamente affiancate alle algide e ‘candide’ contabilità di costi e benefici che sottendono le diffuse operazioni immobiliari: in esse rientra solo ciò che il mercato ha già
deciso di accettare.
In entrambi i casi, tanto candore sembra riassumere metaforicamente un più generale fenomeno di rimozione dell’ombra e del negativo; di aperta rinuncia ai valori tipici dell’area culturale mediterranea
che è certamente piena di luce ma, proprio per questo, destinata ad
essere densa anche di ombre.
In altre parole, appare evidente che le logiche di marketing, di tipo
‘fotografico’ da un lato e ‘matematico-analitiche’ dall’altro, implicano
l’inevitabile perdita di un elemento costitutivo e fondamentale dell’Architettura: il suo negativo/complementare. Tale elemento costitutivo,
da intendere come un vero e proprio ‘rovescio’ dell’oggetto architetto-
nico, è da sempre compagno fedele dell’invenzione architettonica.
Nel tempo ha assunto diverse sembianze, rendendo possibile il dialogo greco fra le affilate cornici dei templi e l’orizzonte; ma anche la successiva introduzione e misura del vuoto della prospettiva rinascimentale; così come la moderna ‘continuità’ spaziale e relativa indistinzione fra interno ed esterno.
In tempi più recenti, la sua specularità tende a manifestarsi sempre
più decisamente come ‘negativo’ che, lungi dal definire un’immagine
forte e originaria del fatto architettonico, si affianca con complicità alla pericolosa crescita per ‘accumulazione’, positiva, dei nostri agglomerati urbani, lasciando presagire una definitiva vittoria del ‘+’.
Quanto detto permette, comunque, di individuare problemi precisi
all’interno del complesso rapporto fra Arte, Architettura e i nostri odierni paesaggi insediativi. In primo luogo, come possano questi ultimi,
nel predominio di una simile ‘abbacinante condizione’, riassumere e
rappresentare un universo che si profila sempre più complesso e relazionale, multiverso e ‘instabile’, oscuro ed enigmatico? In secondo
luogo, come si possano conciliare oggi le mirabolanti ed inarrestabili
fluttuazioni dei capitali con le diffuse esigenze identitarie, senza ricorrere alla chirurgica asportazione di ciò che produce ‘diversità’? Infine,
cosa può fare l’Arte contro l’inevitabile assenza dell’Architettura testimoniata dalle nostre periferie?
Ripartire dall’origine
Per quanto ci riguarda, abbiamo già sostenuto logiche inclusive rispetto alle dialettiche dello schieramento. Anche questo intervento si
colloca in un ambito concettuale in cui la dualità ‘+’ e ‘-’ permette di individuare un breve itinerario di ricerca.
In questo luogo del limite, fra scavo e costruzione, dove appare
possibile l’incontro privilegiato fra le Arti, cercheremo di esplorare
l’anima negativa dell’Architettura.
Del resto, rispetto alla perentoria assegnazione della poetica del ‘+’
all’architettura (arte del collocare) e di quella del ‘-’ alla scultura (arte
del sottrarre), occorre ricordare che la prima ha sempre espresso
questa doppia natura segnica.1
Riteniamo, infatti, che interrogandosi sull’origine del rapporto fra Arte e Architettura si è obbligati a volgersi verso un ambito concettuale
antecedente gli archetipi tradizionalmente indicati come tali (la capanna e la caverna). Tale momento, dove le polarità ‘+ e –’ si incontrano
e coesistono come luoghi complementari, indicando al contempo l’indissolubile legame che da sempre unisce l’architettura alle arti plastiche, è l’erezione della pietra totemica: il menhir.
Pensare tale erezione simultaneamente alla produzione del suo
luogo complementare, di quella cava che si inscrive a pieno titolo nei
nostri paesaggi culturali, trasformandoli ma anche producendoli, permette l’affrancamento da certa interpretazione freudiana che, sostanzialmente, ancora sminuisce il complesso ed attuale portato di un gesto così essenziale e fecondo.
In ogni caso, per quello che qui ci interessa, questo originario e profondo legame fra lo spazio architettonico e il suo negativo/complementare rende possibile parlare (per l’architettura) di una plastica del
negativo o del sottrarre che va oltre il semplice e rischioso gemellaggio con una delle tre arti figurative.
Ma se l’architettura nell’evoluzione storica ha in un certo senso
espulso progressivamente i propri valori ‘scultorei’ per propugnare
una plastica solitaria ed additiva, che sembra non avere bisogno di altro da sé (comprese le Arti, dunque), ciò non può significare la naturale ed univoca convergenza verso una logica d’impronta purista. Né,
tanto meno, può implicare il poter immaginare tali oggetti platonicamente, privi cioè dell’ombra necessaria a svelare un rinnovato e sapiente gioco architettonico dei ‘volumi sotto la luce’. Ciò sembra indicare, invece, che dobbiamo estendere il nostro sguardo oltre l’immediata questione del rapporto architettura/scultura, cui tutto ciò apparentemente riconduce, svincolandoci dalla dimensione del singolo fatto architettonico; e che dobbiamo guardare ‘altrove’, probabilmente in
altri territori operativi, e cercare pur trasformati e trasfigurati i valori del
‘negativo’ che sembrano essere apparentemente rigettati.
Le radici moderne del ‘negativo’
Significativamente, è proprio l’Arte Moderna che inaugura la propria
stagione all’insegna del ‘negativo’ con una pretestuosa e tumultuosa
negazione del passato.
Per poi cominciare immediatamente a ‘mischiare le carte’: basti
pensare alla scultura d’assemblaggio di matrice cubista e futurista e
all’architettura della riduzione segnica delle poetiche neoplastiche,
puriste, e persino funzionaliste. Dai contraddittori territori dell’espressività dadaista (‘Dada è tutto ciò che non è Dada’), allo sviluppo progressivo delle ragioni minimaliste della sottrazione, del ‘meno’ che è il
‘più’, solo per citare alcuni esempi. In particolare, poi, ci appare centrale ed ancora attuale nel determinare il potente campo gravitazionale di una plastica del negativo l’intuizione espressa nel 1910 da Boccioni, nel Manifesto tecnico della pittura futurista: ‘per dipingere una figura non bisogna farla; bisogna farne l’atmosfera’.
Declinazioni attuali del ‘negativo’
Tali declinazioni investono lo spazio ‘oltre’ la dimensione del fatto
architettonico, proiettandosi verso il paesaggio urbano e antropico in
generale, all’interno del quale provocano paralleli e reali processi di
trasformazione che, come ci proponiamo in queste brevi note, bisogna ‘riavvicinare’ e affiancare nuovamente all’oggetto architettonico.
A seguire, proponiamo un provvisorio e certamente non esaustivo
abaco di possibili declinazioni del tema:
La sottrazione
Esprime la sua antitesi rispetto al collocare, al porre, all’aggiungere, dandosi in particolare come la più convincente strategia del negativo, capace di produrre valori compositivi.2 La ‘sottrazione’ può essere intesa anche come complemento, come azione propedeutica che
inevitabilmente conduce all’altro, al suo opposto: nel caso specifico,
alla costruzione.
Sottrarre e collocare possono divenire, allora, metafora di un rapporto più complesso fra scavo e costruzione. Il verbo sottrarre è legato, infatti, per la comune radice latina, ad una serie di azioni strategicamente utili nel dibattito architettonico recente, come estrarre o scavare, levare, astrarre.3
La demolizione
Questa azione risulta progressivamente sempre più riconoscibile
come strumento di trasformazione dello spazio. Il suo valore simbolico ed iconico, capace di coloriture ecologiste, si presta bene come
contromisura a certi eccessi speculativi delle trasformazioni del territorio.4
L’assenza
L’oggetto può chiaramente essere delineato dalla propria immagine
negativa. Più che costruirne la presenza, a volte è più efficace evocarne l’assenza tramite la solidificazione dell’aria, dello spazio adiacente
il profilo dell’oggetto stesso. Con diretto riferimento alla già citata poetica boccioniana e oscillando fra ‘traccia’ e ‘impronta’, ricordiamo la
ricca vivacità del tema, che lega le preistoriche ‘mani in negativo’ impresse in alcune importanti grotte del paleolitico alle lecorbuseriane
tracce fossili in negativo, fino alla recente splendida Fontana monumentale di Labaro, di Angeletti e Remiddi.
Lo scavo
In tempi recenti, sono state le tematiche legate alla sostenibilità che
ci hanno ricordato con fermezza che il ‘-’ sta inscritto nel codice genetico della costruzione, come la necessità dello ‘scavo’ che origina
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gli elementi del fare architettonico. Questa ineluttabilità dell’estrazione da un luogo è per gli architetti un problema da porre tanto sul piano reale che su quello concettuale.
Nel bene o nel male, la cava originata si inscriverà sempre nel paesaggio, trasformandolo. Ne consegue che, per costruire lo spazio,
dobbiamo sempre scavare altrove; spesso noi apprezziamo semplicemente il positivo della costruzione dimenticandoci dell’importanza di
tale luogo complementare.
L’erosione
Oggi i valori del ‘negativo’ vengono espressi anche dai processi
erosivi che assediano il territorio. Erodere è anche sottrarre, produrre
differenza. Questa non si verifica soltanto per asportazione di materia, producendo un’assenza; può essere generata anche da un’apposizione, da un’occupazione inappropriata e dannosa dello spazio e
delle sue caratteristiche. Conseguentemente, anche i fattori erosivi
possono assumere svariate sembianze, nella forma duale di inquinamento fisico e culturale.
La differenza
Il concetto possiede una connotazione algebrica. Tuttavia, la differenza, anche quando ridotta alla sola posizione, implica sempre il riconoscimento dell’altro. In ogni caso, individua una variazione che costituisce il cuore profondo della conoscenza, ciò che produce unità e
individualità. Il suo ruolo è, dunque, fondamentale: nel metodo scientifico teorizzato da Cartesio in ‘Discorso sul metodo’, la sperimentale
riproduzione dei fenomeni osservati dal vero falliva al suo apparire.
Le risorse di questo concetto sono molteplici: secondo il senso comune, individua in primo luogo una variazione, introducendo il concetto di diversità, dunque di molteplicità. Se oggi possiamo ben dire che
tale variazione permette l’orientamento nell’infinità dei fenomeni simili,
anticamente veniva guardata con sospetto. In questo senso, più che al
mai visto o udito, deve essere associata a ciò che è estraneo alla comune esperienza, all’inusitato, al ripugnante e persino al mostruoso.
La differenza può essere ‘totale’o ‘parziale’. Nel primo caso i significati rimandano a logiche additive e moltiplicative: due oggetti completamente diversi innescano un processo di accumulazione di informazioni, generano contrasto, opposizione e conflittualità, anche questi motivo e occasione di conoscenza. Nel secondo caso, si distinguono diverse declinazioni, e si entra nel mondo dei significati negativi.
La differenza parziale implica l’individuazione della variazione: attraverso un processo di sovrapposizione e rimozione dell’identico s’introduce nuovamente la sottrazione.
Il rovescio
Il ‘-’ implica anche un’inversione di segno che può essere tradotta
nel capovolgimento/rovesciamento di alcuni paradigmi della composizione architettonica. In generale è sempre la Natura a risultare impressa sulle linee architettoniche degli edifici, secondo le leggi della
mimesis. Tale consuetudine può essere, in alcune condizioni, ‘rovesciata’: imprimendo e ri-cavando la spazialità ricercata nel vivo spessore della terra, a partire da un oggetto già ‘dato’. Producendone spazialmente il luogo di origine.
Vogliamo concludere questo breve itinerario sul negativo con le domande poste in apertura di queste note. Riteniamo l’argomento, infatti, ancora tutto da esplorare, tuttavia, ci sembra ancora aperta la questione di ‘come’ oggi ci si possa e debba interrogare sulle leggi e sulle modalità di costruzione dello spazio, nella consapevolezza di questa dualità, di questa doppia natura del fatto architettonico, che comporta la simultanea compresenza di logiche additive e sottrattive, di
costruzione ed erosione.
1. Si veda G. Fiamingo, ‘Archetipo, punto e a capo’, in Architetturacittà n.7-8/2003 Paesaggi d’architettura mediterranea, pp. 44-47, Agorà Edizioni.
2. Si ricorda sul tema: A. Terranova, (a cura di), Il progetto della sottrazione, Università
degli Studi di Roma ‘La Sapienza’, Dipartimento di Architettura e Analisi della Città,
Groma Quaderni n. 3, Roma, Fratelli Palombi 1997.
3. Estrarre o scavare, levare, astrarre hanno comune radice latina nel verbo traho-is-traxi-tractum-traere, che significa ‘tirar fuori’. Traho-is-traxi-tractum-ere: tirar fuori. Ex-traho-is-traxi-tractum-ere: estrarre scavando, cavar fuori. De-traho-is-traxi-tractum-ere:
detrarre, tirar giù, tirar via, strappare, levare, diminuire. Abs-traho-is-traxi-tractum-ere:
togliere allontanando, astrarre. Infatti, è proprio l’adozione dei prefissi ex, de, abs a generare differenze sostanziali: ex- amplifica il significato di tirar fuori scavando da una
massa originaria, esprimendo il senso del cavare, dell’estrarre una forma dalla materia informe. De- esprime, per effetto di quel cavare, il senso di riduzione della materia
originaria, cioè di una sottrazione. Abs- punta l’accento sull’allontanamento, cioè sulla
distanza che il distacco interpone tra la massa originaria e il pezzo cavato: una distanza fisica e mentale, cioè un’autonomia, che è l’astrazione.
4. Vedi la ricerca ‘Calabria da rigenerare. Rottamare il degrado’ nata da una convenzione fra la Regione Calabria, Assessorato ai Lavori Pubblici e il Dipartimento di Architettura e Analisi della Città Mediterranea della Facoltà di Architettura di Reggio Calabria,
2000/2001, Dir. Scientifico ing. P. Lo Sardo, Resp. Scientifico arch. R. Nicolini. La ricerca è in corso di pubblicazione sui Quaderni di Dipartimento. Si segnala, inoltre, A.
Criconia (a cura di), Figure della demolizione, Milano-Genova, Costa & Nolan 1998 e
L. Marabello, La demolizione come strumento di indagine delle trasformazioni della
consistenza e della durata del corpo architettonico, tesi di dottorato in Progettazione
Architettonica e Urbana XV ciclo, svolta presso l’Università degli Studi di Reggio Calabria, Tutor: prof.ssa L. Thermes.
89
G. Fiamingo, Elementi architettonici, 2003
Pitture rupestri preistoriche con negativi di mani
G. Fiamingo, Volumi sotto la luce, 2005
G. Fiamingo, Erosione, 2004: i fenomeni erosivi,
rappresentati dall’immagine della cava, incidono
profondamente il Paesaggio; essi ci abituano e, piano
piano, conducono verso un mondo rovesciato.
Fenomeno ottico del rovesciamento dell’immagine
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Plastico funicolare rovesciato di Gaudì
Elementi in negativo impressi sull’Unità
di abitazione lecorbuseriana
G. Fiamingo, Central Glass Design Competition 2001
G. Fiamingo. Ricollocazione del Portale Branciforte
a Scordia, 1998 - 2° premio
91
G. Fiamingo, Oggetti Complementari, 2003
G. Fiamingo, Architetture Rovesciate nel centro storico di Favara, 2003
G. Fiamingo, Progetto di ristrutturazione urbana
e paesaggistica di piazza Duomo a Mascali, 2004
2a fase
Paolo Giardiello
Allestire, mostrare, comunicare
Arte e architettura/oggetto e spazio
92
Per definire le discipline denominate in ambito accademico ‘allestimento’ e ‘museografia’ e volendo distinguere eventuali specificità, non
è superfluo ricordare che l’allestimento è, per sua natura, la risposta
ad una domanda di comunicazione di un contenuto (comunicare deriva dal latino communicare, un verbo collegato alla parola communis,
vale a dire comune; communicare indica pertanto l’azione di mettere
in comune, rendere comune).
Come campo progettuale esso si confronta con l’innovazione dei
mezzi offerti dalle tecnologie più avanzate proponendo un nuovo ‘abito’ all’esigenza di informazione, comunicazione e divulgazione di contenuti. L’allestimento è certamente la prassi progettuale maggiormente connessa alle sollecitazioni del mondo dell’arte e della multimedialità, ma è altresì quella che necessita di non perdere il suo valore tradizionale: di costruire intorno all’evento esposto o al messaggio da comunicare un’emozione fruitiva complessa e completa, di realizzare
nello spazio e con lo spazio il luogo dove coinvolgere l’attenzione del
fruitore.
La museografia non si deve considerare, rispetto agli allestimenti
temporanei, solo il progetto di un’esposizione permanente, essa è
piuttosto un’operazione progettuale che, a partire dall’oggetto e dal
suo modo di entrare in contatto con il fruitore, giunge a ridefinire il
senso stesso del luogo e degli spazi in cui si colloca, spazi che, a loro volta, possono essere preesistenti o nascere insieme all’allestimento museografico. Secondo tale accezione progettare un museo, o
anche solo un allestimento museografico, non solo significa concepire lo spazio dove sistemare ed esporre, ma anche dare ad esso una
‘forma significante’ ed un ruolo fondamentale nel processo di comunicazione e coinvolgimento dell’utente. Il termine museo, utilizzato per
indicare quell’edificio in cui sono raccolti e conservati oggetti e opere
varie di interesse storico, artistico o scientifico, che vengono esposti
al pubblico per scopi di studio e di cultura, nasce dal sostantivo greco
mouseion, derivante da mousa, la dea ispiratrice dell’arte.
In seguito tale termine verrà usato per indicare una raccolta di antichità e opere d’arte, dove però i criteri di selezione e di ordinamento
variano nel tempo dalla semplice collezione, dove gli oggetti sono raggruppati per l’effetto che possono produrre sul visitatore, fino ai casi
in cui la raccolta si pone come ‘itinerario conoscitivo razionale’ impostato su criteri determinati.
La problematica insita nella collocazione di un’opera d’arte in un
luogo definito può essere condensata in una sola immagine sintetica:
Autoritratto a sette dita di Chagall. Tale quadro rappresenta una condizione del tutto particolare che è insita nella creazione di un’opera.
Esso raffigura l’artista nel momento di elaborazione di un dipinto e in
esso sono indicati in maniera precisa tre luoghi: il primo, che si vede
dalla finestra, è il luogo dove l’artista è in quel preciso momento; il secondo, disegnato come un fumetto in alto a destra, è ciò che pensa
l’artista, è cioè il luogo che l’artista ricorda e che è alla base dell’ispirazione del quadro che sta producendo; il terzo è il paesaggio che
prende forma sulla tela grazie all’abilità dell’artista.
Ora i tre paesaggi sono diversi, l’artista non ricorda e non vuole rappresentare il luogo dove risiede, ma qualcosa impresso nella sua memoria e che intende raccontare ad altri, solo che, nel momento in cui
prende forma, l’opera non è più uguale al ricordo. La memoria non è,
infatti, una riproduzione fedele, uno scatto fotografico del ricordo, è
già una deformazione, è un’interpretazione tesa a comunicare, più
che la conformazione oggettiva del luogo ricordato, il suo senso, il suo
significato, il contenuto che è alla base della ragione per cui ancora
l’artista lo conserva dentro di sé. Questa puntualizzazione di Chagall,
su ciò che accade all’artista nel momento della creazione dell’opera
diviene, per noi che leggiamo l’opera, ancora più critica se pensiamo
che tutto ciò è contenuto in un quadro, che a sua volta è un’opera
d’arte che non racconta di nessuno dei tre luoghi, ma della situazione
mentale e psicologica dell’artista e che, probabilmente, è posto, in
senso fisico, in un luogo, forse un museo, forse una galleria, che non
è in nessuno dei tre luoghi rappresentati. Questo rimanda alla condizione di chi deve definire il progetto di allestimento. Chi espone deve
trovare l’adeguata collocazione a tale calembour di memorie, permettendo sia la comprensione dell’opera, che la partecipazione attiva del
fruitore il quale, a sua volta, sovrapponendo le sue memorie e i suoi
ricordi a quelli evocati dall’artista, compirà l’intero percorso insito nell’opera d’arte e da essa suggerito. Il fruitore, infatti, contribuisce con
la sua conoscenza, la sua cultura e le sue emozioni a dare un senso
compiuto all’opera ed in particolare al suo adeguato inserimento in un
particolare contesto ambientale.
Tra i molteplici principi progettuali che sottendono l’allestimento se
ne vogliono mettere in risalto per brevità solo i seguenti: il rapporto tra
assenza e presenza e la dialettica tra singolarità e molteplicità.
è importante infatti riferirsi alle aspettative del fruitore e utilizzarle
allo scopo di attrarrne l’attenzione.
Marc Chagall, Autoritratto con sette dita, 1912
Presenza sottointende la collocazione inattesa di opere in contesti
che normalmente non sono addetti a tale scopo e che vengono trasformati ed alterati nel loro senso primario dalla nuova apparizione,
mentre assenza indica la mancanza da luoghi considerati, dal senso
comune, ‘canonici’, dove cioè tradizionalmente ci si aspetta di trovare
l’inserimento di un’istallazione artistica. Sapere utilizzare sapientemente lo stupore dell’inatteso e la delusione della mancanza dell’atteso non è una modalità legata solo all’effimero, al temporaneo.
è prassi ormai diffusa disporre le opere nello spazio museale prescindendo dalla loro collocazione usuale - dalle pareti, dalle nicchie,
dagli espositori - e ricorrendo invece ad una modalità che potremmo
definire ‘dell’incontro’, dove cioè il momento del contatto tra il fruitore
e l’opera sia pari a quello di un inatteso, quanto magico, incontro dettato dal caso. Gli oggetti ‘vanno verso’ il visitatore, conquistano lo spazio dell’architettura che li contiene, e si dispongono a costruire un tempo preciso di relazione e di scambio con l’uomo che incontreranno.
Rispetto al tema della singolarità e molteplicità, la solitudine di
un’opera, ovvero l’affollamento di più opere, contribuiscono in ugual
modo alla comprensione dei manufatti artistici. Può, infatti, essere necessario il posizionamento di una sola opera in un intero ambiente per
far sì che essa, una volta costruito il sistema con il quale approcciarla, sistema mai libero ma sempre mirato e misurato dall’allestimento,
possa raccontare silenziosamente ogni dettaglio della sua storia.
All’opposto, invece, proprio la modalità di avvicinamento e di fruizione dell’opera può essere determinato anche dalle relazioni che essa può costruire, in una sala, insieme con altre opere.
Dalla ‘solitudine’ dell’opera, ovvero dalla relazione di questa con altre opere esposte, derivano due ulteriori principi che è importante sottolineare. Il primo, riguarda il rapporto tra l’oggetto esposto e il fondo,
cioè tra la sua grana, la sua materia, il suo colore e la natura cromatica e materia dello sfondo su cui si staglia; il secondo è quello dell’ordine e del disordine, della collocazione quindi non valutata in se stessa ma rispetto al senso del luogo in cui sono inseriti i manufatti.
Queste indicazioni progettuali circa le modalità allestitive dello spazio nascono ovviamente dall’osservazione di casi realizzati, sono cioè
frutto dell’analisi di opere di grande valore, il tentativo di oggettivarle
affinché possano diventare anche strumento operativo nella fase progettuale rischia di ridurne il loro stesso significato. Non sono principi
unici, né tantomeno ripetibili secondo schemi regolari e precisi, sono
piuttosto suggestioni, stimoli che insieme alle regole della costruzione
di spazi destinati all’esposizione possono elevare il mero intervento
funzionale corretto e rispettoso delle normative in un vero e proprio
‘progetto’. Un progetto complesso che parte dalle opere e dallo spazio
architettonico e che diviene capace di incidere e di costruire un evento fruitivo destinato all’uomo, che incide sulla sua sensibilità, la sua
memoria, e lo stimola a confrontarsi con il mondo e gli altri uomini.
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Ernesto Maria Giuffrè
Lo scenario dei grandi segni e l’insieme dei piccoli segni
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L’intervento nasce dalla riflessione che la dimensione di un elemento posto all’interno di una scena urbana come anche domestica, sia
dunque esso un oggetto, un edificio, finanche uno spazio esterno, non
sia solo funzione della sua grandezza fisica, ma dipenda dalla sua capacità di interagire con gli altri soggetti che lì si trovano. Proprio da
questo dinamico movimento interattivo si viene a determinare la modalità con cui esso viene ad essere percepito dalle persone.
Molteplici ed eterogenei sono perciò i fattori in gioco: è un problema di colori, forme, significati, superfici, come anche di vista, scala,
come pure di funzione ed uso.
Stabilire la dimensione dell’oggetto si traduce perciò nel definirne il
sistema delle qualità che determinano il suo significato.
Fondamentale non è dunque la quantità di spazio da esso occupato, ma la sua capacità di stabilire connessioni con gli elementi che ivi
si trovano.
Si potrebbe perciò parlare di un problema di misura delle relazioni.
Da qui la necessità di stabilire e mettere a sistema una serie di indicatori in grado di quantificare, qualificare e connettere tra loro le differenti caratteristiche che definiscono l’identità di un artefatto.
Attraverso questa esso infatti si rapporta con l’ambiente circostante e con le persone con cui viene in contatto, attraverso un continuo
e reciproco scambio di informazioni.
L’elemento si muove perciò all’interno di uno spazio in continuo movimento, fatto di luoghi, persone e culture.
La dimensione, intesa in questo senso, non è perciò un dato unico
ed immutabile. L’oggetto infatti si confronta continuamente con scenari sempre mutevoli e differenti stabilendo di volta in volta nuove ed inedite relazioni.
Tutto ciò avviene, inoltre, contemporaneamente su più livelli, facendo sì che l’elemento pur essendo sempre formalmente uguale, venga
però ad assumere nel medesimo momento molteplici valenze.
Così un oggetto di arredo urbano, quale un lampione per l’illuminazione stradale (fig. 1), partecipa contemporaneamente al disegno dello skyline della città e alla costruzione e caratterizzazione del suo spazio interno, l’interno urbano.
Ugualmente anche la variazione di scala di un oggetto, il suo ingrandimento o rimpicciolimento, fanno sì che esso si ponga sulla scena con modalità differenti.
Ad esempio due vasi per le piante di forma identica, posti nello
stesso posto, ma di non uguale dimensione, scala, si possono configurare come due elementi diversi: l’uno come contenitore l’altro come
segnale per identificare un luogo (fig. 2).
è la relazione tra i segni a stabilire il senso di una azione, e dunque
il significato di un atto progettuale.
Indipendentemente dal fatto che essi siano grandi o piccoli, come
può essere nell’apparente spazio ad una dimensione di una locandina teatrale (fig. 3) o di una copertina di un libro (fig. 4), in cui i rapporti tra i segni grafici, le scritte ed i colori, hanno lo scopo, nello stesso
tempo, di attirare lo spettatore od il lettore e trasmettere, con l’immagine complessiva che essi vengono a formare, lo spirito dello spettacolo o del testo.
Progettare vuol dire disegnare le modalità con le quali il nuovo elemento si relazionerà, sia con le persone, sia con gli altri elementi che
compongono i luoghi in cui esso si verrà a trovare.
Si potrebbe perciò argomentare che fare design vuol dire progettare un sistema di lettura capace di farci comprendere i tratti fondamentali della realtà che ci circonda (fig. 5).
Solo così può essere poi possibile disegnare nuovi prodotti che in
essa si inseriscano e stabiliscano inedite relazioni, portando al fine ad
un suo arricchimento.
4. Copertina libro Chiasmo di G. Marzaioli, Pietro Chegai
Editore, grafica: E. M. Giuffrè
1. Lampione Profilo, design: arch. E. M. Giuffrè,
arch. A. M. Lucarelli, prod. Fonderieviterbesi, 2005
5. Edda blu, autore: E. M. Giuffrè
2. Due vasi per fiori o due oggetti differenti?
3. Locandina spettacolo teatrale Riflesso
di R. De Novellis, grafica: E. M. Giuffrè
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Bassam Lahoud
Body Architecture
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Quando si pensa all’architettura, si pensa ad un’arte abitata, con un
corpo umano che si muove al suo interno e l’architettura che si adatta ad esso.
Nella mia ricerca uso la fotografia come arte, specificamente la fotografia del corpo umano. Il contesto architettonico, nel caso che presento, è antico con forme tondeggianti che si adattano alla forma del
corpo.
Questo contesto architettonico contribuisce ad esaltare un effetto di
intimità alla figura ed allo spazio interno.
I miei modelli, anch’essi architetti, si sono sentiti parte integrante di
questa architettura, fino a diventare un unicum con essa. Si stabilisce
in tal modo una relazione dinamica tra le forme del corpo e quelle dell’architettura che ci fa sentire lo spazio attraverso la luce. L’architettura assume la forma del corpo e diventa spazio umano.
Sono al tempo stesso architetto e fotografo, quindi, quando fotografo il corpo umano, penso alla sua architettura e quando penso all’architettura dello spazio, la penso in funzione della presenza umana, sia
statica che in movimento.
Questo è il mio modo di vivere l’architettura: anche in assenza della figura umana al suo interno, essa è comunque parte integrante dello spazio, e si percepisce nel volume e nella luce: in contrasto con il
volume (chiaro-scuro) o, viceversa, che sparisce in esso (luce diffusa).
Le immagini che seguono sono state riprese nella mia antica casa
costituita da volte, muri di grande spessore e piccole aperture che restituiscono fasci di luce concentrata.
Come architetto e come fotografo, vivo di questa filosofia:
c’è l’architetto nelle mie fotografie
c’è il fotografo nella mia architettura
tutt’uno nella ricerca della luce …
La luce è un elemento essenziale nei due casi. Il corpo si muove
nello spazio e la luce mostra la sua forma architettonica.
Si tratta sempre dell’architettura del corpo e, allo stesso tempo, del
corpo dell’architettura.
La fotografia si avvale della luce naturale o artificiale, per esaltare
simultaneamente l’architettura e la figura umana.
Il fotografo si avvale delle diverse condizioni di illuminamento per
mostrare al tempo stesso la sensualità del corpo e dello spazio.
Il corpo umano e l’architettura hanno entrambi una forma scultorea.
L’architetto si immagina dentro lo spazio che costruisce e si muove
al suo interno come per dargli vita.
Il fotografo si muove nello spazio e lo fa vivere col suo sguardo.
In entrambi i casi si ha bisogno di sensibilità visiva, in tal modo il fotografo e l’architetto diventano uno e così pure la presenza umana e
l’architettura.
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Marcello Maltese
Arte e comunità
La ricostruzione di Gibellina
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Il terremoto ha spaccato la testa delle persone - mi racconta un
amico del Belice: ... c’era vera miseria, la gente - i contadini - non aveva di che campare. Il sisma ha aperto le case e ha mostrato tutto questo, ha reso evidente la realtà. Con i primi soldi della ricostruzione iniziarono a costruire la casa, dopo un po’ fecero quattro conti, lasciarono la casa incompleta e comprarono il trattore, che in una giornata gli
sbrigava il lavoro che prima compivano in settimane ... fu una vera rivoluzione.
Dopo il sisma, perduta ogni cosa, molti andarono via: Australia, Stati Uniti, Nord Italia (i paesi del Belice avevano un tasso d’emigrazione
‘fisiologico’, incoraggiato dopo il sisma anche dall’atteggiamento delle istituzioni). Almeno duemila gibellinesi emigrarono in seguito al terremoto, il resto della popolazione, 4.000 persone circa, fu ‘deportata’
in due baraccopoli distinte, Madonna delle Grazie e Rampinseri.
Sei paesi completamente distrutti, 1.150 vittime (molti per mancanza di pronto intervento), 98.000 senza casa, 100.000 con case cadenti. Due anni dopo, nonostante le promesse, la gente di Gibellina era
ancora nelle baracche, ad ammalarsi e perire per il freddo e l’umidità.
Leonardo Sciascia, Carlo Levi, Renato Guttuso, insieme a Zavattini, Caruso, Treccani, Cagli, Damiani, Zavoli scrissero in un appello: ...
sentiamo come uomini e come siciliani il dovere di rivolgere all’opinione pubblica mondiale e, per essa, agli uomini che la rappresentano,
l’invito per una riunione a Gibellina nella notte tra il 14 ed il 15 gennaio, nel secondo anniversario del terremoto; perché vedano, perché si
rendano conto ... In un paese e con una classe di potere sensibile solo alla retorica, abbiamo bisogno di questa solidarietà, forse retorica,
affinché lo Stato Italiano, il Governo, siano chiamati a discolparsi di
fronte al mondo civile. Perché ci sono tanti modi di conculcare la libertà, di opprimere, destituire l’uomo dal diritto e dalla dignità: uno di questi modi è quello che lo Stato Italiano e il Governo della Repubblica attuano nella Valle del Belice ...
A quell’appello risposero solo intellettuali ed artisti.
La veglia tra le macerie del vecchio abitato fu uno dei momenti più
importanti per la rinascita della comunità gibellinese e per il Belice.
Le popolazioni dei paesi colpiti, guidate principalmente dai sindaci
di Gibellina e Santa Ninfa, si opposero con tutte le loro forze a quella
situazione, si recarono in massa a Palermo e a Roma finché non iniziarono ad ottenere quel che gli spettava, tanto che nel 1988 un giornalista potè scrivere: La gente del Belice ha dato vita al più grande
movimento unitario di lotta che il mezzogiorno abbia mai avuto.
La prima scelta importante fu quella di collocare il paese in un sito
completamente nuovo, a 15 km di distanza e dall’altro lato del colle,
decisione non facile perché c’era inizialmente l’ipotesi di unificare gli
insediamenti di Gibellina, Poggioreale, Salaparuta, nell’idea che una
municipalità più numerosa avrebbe goduto di maggior potere contrattuale nei riguardi del governo centrale. Il sindaco di Gibellina eletto
dopo il sisma (il giorno del terremoto dovevano tenersi le elezioni municipali, sospese e rinviate di 17 mesi) riuscì, dopo lunghi ed intensi
dibattiti in consiglio comunale, a far ricostruire il paese in una posizione strategica nei confronti delle reti infrastrutturali, a lato della stazione ferroviaria di Salemi, di fronte all’autostrada A29 che collega Palermo a Mazzara del Vallo. Gibellina è stata la terra della nostra servitù,
sia questa la terra della nostra libertà. Posiamo qui tutto il nostro passato, perché questo sia un giorno di vita, furono le parole pronunciate il giorno dell’occupazione dei terreni di Salinella.
L’altra idea guida era quella di fare di Gibellina un laboratorio artistico all’aria aperta. L’arte avrebbe dovuto aiutare a creare in quel luogo ancora privo di storia per la comunità, un nuovo patrimonio culturale condiviso, una memoria visiva dei luoghi, i segni distintivi del tessuto urbano - come scrive Marcello Fabbri - sul quale si collocassero
nuovi ricordi, per una collettività alla quale memoria e identità erano
state rase al suolo, fisicamente e psicologicamente.
Nino Soldano, famoso gallerista siciliano, donò immediatamente alla città 200 opere d’arte, che oggi costituiscono il nucleo del Museo
Civico ed una collezione di gran valore. Sulla scia di questa donazione, tantissimi artisti iniziarono a donare dipinti e sculture. In breve
tempo il Museo Civico si riempì di un numero di opere il cui valore sarebbe stato sufficiente a ricostruire nuovamente il paese.
Le case, inizialmente edificate sul modello statale della casa popolare unifamiliare (cellula identica ripetuta in lunghissime schiere, allineate al reticolo delle strade carrabili e pedonali), furono poi più liberamente interpretate dai proprietari, anche se sempre all’interno delle
schiere. Siamo già a cavallo del 1980, quando furono collocate le prime sculture.
Esiste un diffuso e scontato giudizio negativo sulla mancanza a Gibellina di un vero sistema urbano/relazionale. Cito le parole di un architetto che lavorò a Gibellina, Marcella Aprile: ... i nuovi monumenti
e le case tendono entrambi a conquistare ed affermare perentoriamente in sé la totalità e per ciò stesso non possono fare tra di essi sistema. La contaminazione, chiara e visibile, investe solo il linguaggio
e l’immagine, ma non mette in discussione, anzi conferma, la solitaria
e variopinta moltitudine di oggetti su un fondo uniforme di velluto grigio (‘Quattro generazioni di case a Gibellina’, in Labirinti, anno II, numero 2).
Sarebbe però stato impossibile il contrario, per una città di nuova
fondazione in cui significati e relazioni si svilupperanno lentamente,
com’è giusto che sia. Credo, nonostante sembri una cosa difficile da
accogliere, che l’insieme delle opere di cui il paese si è dotato costituiscano di per sé buona parte del patrimonio storico e culturale di
quella comunità, perché in esse si identificano e rappresentano la solidarietà e la caparbietà che hanno ricostruito dal nulla le fondamenta
di un’intera comunità sradicata. La storia che lega Gibellina alle sue
opere d’arte (donazioni, acquisizioni, attrezzature) è per sempre vincolata alla storia delle persone che l’hanno ricostruita.
Commentava Pietro Consagra che non solo i gibellinesi sono in
qualche modo perplessi, lo sono soprattutto quelli che pensano che
una città in Sicilia non può permettersi tanto lusso da adornarsi con
grandi opere di artisti notissimi: ... Gibellina è riuscita dove nessun’altra città ha saputo mirare, ha ottenuto attenzione come una provocazione mentre in verità l’intento è stato quello di fare fronte a una necessità individuale e irresistibile: legarsi alla creatività continua dell’arte che esprime fiducia ... vivere la sensazione spirituale che proviene
dall’ornamento come aiuto a stare al mondo.
Due fazioni si scontrano da tempo sull’argomento: da una parte i
detrattori dell’esperienza gibellinese, sommariamente liquidata nel
‘Sacco del Belice’, e dall’altra gli esaltatori della stessa, altrettanto categoricamente giustificata come rivincita incompiuta dell’arte, e del
suo valore trascendente e salvifico. Alcuni luoghi comuni sono utilizzati come punti di partenza delle critiche: il disagio degli abitanti tra tante opere d’arte e altrettanta disoccupazione, il crollo della chiesa madre, prima ancora della sua inaugurazione. Negli anni seguenti sui
quotidiani apparvero titoli scandalistici su presunti saccheggi o sprechi
di denaro pubblico durante la ricostruzione. Questa interessò molti insediamenti, ognuno con caratteristiche e danni differenti; è probabile
che vi furono operazioni di ‘rapaci finanzieri’, coperte anche da qualcuno e aiutate da spostamenti di intere popolazioni, certamente estranee a tali speculazioni. La verità fu ristabilita quando si occupò della
vicenda, in qualità di commissario governativo, Antonio Di Pietro.
Diceva Damiano Damiani: ... Gibellina è soprattutto un luogo dove
la popolazione intera, aiutata dalla mediazione e dalla volontà del Sindaco, ha imparato il significato di parole come impegno civile e partecipazione decisionale ... Elettrificazione, fognature, scuole, ospedale
sono basilari, ma non meno basilare è l’apertura delle porte culturali
... L’Italia è paese di terremoti. In certi casi la ricostruzione è stata
onesta e positiva. Ma credo che raramente si sia raggiunta la completezza del ricostruire, nel pieno significato morale e materiale della parola, com’è stato fatto dalle popolazioni di Gibellina ... (D. Damiani, ‘La
Sicilia della speranza’, in Labirinti, Anno I, numero 1, febbraio 1988).
Le leggi che, grazie all’ostinazione della gente del Belice e di qualche amministratore, il Governo dovette varare, furono quelle di cui negli anni seguenti si servirono le popolazioni di altre regioni italiane colpite da sismi gravissimi.
Il 16 luglio del 2005 moriva Pietro Consagra, sicuramente colui che
maggior lascito in opere d’arte ha concesso alla nuova città. Mazarese di nascita, ha chiesto prima di morire di essere sepolto a Gibellina.
Alla cerimonia funebre era presente tutta la cittadinanza, uomini, donne, bambini, una moltitudine silenziosa che ha colpito e sorpreso anche i familiari dell’artista. Una persona presente alla cerimonia mi ha
detto che quel pomeriggio, guardando le centinaia di persone che affluivano alla piazza del Municipio portando un fiore in mano, ha sentito che quello era un momento speciale, che Gibellina era realmente
una città, una civitas ricostruita, che stava celebrando uno dei suoi
eroi e se stessa. In questi casi si tende a idealizzare l’evento, ma di
certo i gibellinesi guarderanno e percepiranno già diversamente le
opere di un uomo che 37 anni fa tornò in Sicilia per un’idea, per aiutarli in un compito difficilissimo e che alla fine ha scelto di essere seppellito in mezzo a loro.
Non so se sia semplicemente questo il compito assegnato all’arte,
sostenerci e tenerci vigili durante il lungo e periglioso viaggio che è la
nostra storia, né se possa in fin dei conti avere un fine più alto. La storia recente di Gibellina mi sembra però un’inoppugnabile testimonianza di ciò, e insieme anche della compassione di alcuni uomini (quindi
di tutti) per se stessi e per i propri simili.
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Vedute di Gibellina
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Mario Manganaro
Petit Tour
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Premessa
Questo è un giro abbreviato, sintetico, piccolo in tutti i sensi, perchè
l’obiettivo di esplorazione finisce per spostarsi dall’esterno all’interno,
come se l’eco della realtà esterna possa essere raccolto in una conca sonora protetta e circoscritta (fig. 1).
Il luogo che si visita è Gibellina, di cui negli ultimi temi si è sentito
parlare con un’attenzione più marcata. Le critiche sono certamente
utili per dare la misura appropriata alle cose, però a volte raggiungono punte puramente polemiche, tanto da ingenerare confusione. Mi ricordo che una piazza veniva considerata priva di spazi di sosta. Mi risultò strano che il giornalista non avesse visto quante possibilità di socializzazione offrisse quello spazio. Avevo pensato di misurare quante decine di metri lineari di panchine fossero state sistemate ai lati fra
un pilastro e l’altro, ma poi lasciai perdere.
Sembrava tuttavia che da un pò di tempo fosse uno sport di moda
parlare male della ricostruzione della valle del Belice e chi non era
d’accordo diventava tout court un complice della mafia.
In quei giorni avevo anche letto della scomparsa del maestro Consagra a Milano e della sua volontà di essere sepolto a Gibellina. Un
quotidiano nazionale portava uno scarno trafiletto che indicava il giorno in cui sarebbe arrivata la salma al cimitero della città. Non sapevo
altro, ma quel giorno feci in modo di essere presente.
Gibellina, mercoledì 20 luglio 2005
Appoggiato ad un pilastro dell’ala lunga del portico, vedevo affluire
gente da tutte le parti. Entravano nella piazza senza fretta, come fanno le persone che sono del luogo. C’erano visi cotti dal sole, i più anziani, ma soprattutto facce di gente giovane, ragazze e ragazzi. Coloro che si vedevano arrivare con andatura più frettolosa erano quelli
provenienti da fuori città, i familiari e altra gente importante, forse da
Palermo o da altri posti più lontani.
La piazza ancora aveva al centro uno spicchio di sole e un gruppo
si assiepava all’angolo delle due ali del portico attorno ad un vecchio
magro, severo ed elegante, in un vestito color cannella e con un panama bianco.
Quando l’ultimo raggio di sole fu nascosto dalla quinta degli uffici
del municipio, tutta la platea occupata dalle sedie di plastica bianca
con i fori radiali nella spalliera si riempì di persone.
La gente che ancora affluiva s’incanalò nel corridoio tra le sedie ed
i portici. Poi cominciò la cerimonia funebre di commiato in onore dello scultore Pietro Consagra, che aveva espresso la volontà di essere
sepolto nel cimitero di Gibellina, pur essendo nato a Mazara del Vallo. Una lunga fila di ragazzi delle scuole elementari e medie passò in
silenzio posando un fiore sulla bara. Un ensamble da camera con musicisti venuti da Palermo suonò brevi arie dalle musiche di scena di
un’opera di Eliot, musicata da D’Amico, fu recitata l’orazione funebre
da parte di un critico musicale, la figlia commossa ringraziò i presenti e lesse un telegramma del presidente della repubblica, parlò il sindaco giovane e brillante e concluse la parte oratoria un impacciato
onorevole rappresentante della Regione. Prima aveva parlato in un silenzio assoluto il vecchio magro, che avevo visto all’inizio con il panama bianco.
Le sue parole dal tono basso e profondo tracciarono sinteticamente l’esperienza artistica e sociale di Consagra in rapporto alla nascita
faticosa di Gibellina, vissuta all’insegna del concetto di arte totale.
Disse delle riunioni con la gente all’interno delle baraccopoli e delle discussioni con gli artisti che presentavano le loro opere. Parlava lentamente e a voce bassa, ma le sue parole risuonavano chiare nell’aria
della sera, come fossero scolpite sulla pietra.
Mi sembrò di essere in una città della Magna Grecia tanti secoli fa
e che il popolo commemorasse il suo eroe eponimo.
Capii in quel momento di Gibellina più di quanto avessi mai appreso dai libri o visto e disegnato intensamente nei periodi trascorsi sul
posto. Certo contribuì la presenza delle persone, così ampia e parte-
cipe attorno alla salma dell’artista, che ritornava nella sua patria, accolto come un eroe, ma anche l’atmosfera rievocata dalle voci poco
prima ascoltate, che pronunziavano la parola Belìce, nel modo giusto
e naturale. Per chi, come me, è stato per anni convinto dell’accentazione sulla prima sillaba per averla sentita pronunziare in questo barbaro modo ripetutamente (non so per quale diffusione insistita dei
mass-media), la parola Belice acquistò un suono più limpido e musicale e un carattere amichevole e cordiale.
La cerimonia si avviava verso la conclusione, quando il sestetto di
musicisti attaccò con i fiati le note dell’overture dell’Opera da tre soldi
di Weill, allora mi allontanai in silenzio con i miei amici dal luogo della cerimonia per raggiungere il parcheggio e far ritorno a casa (dovevamo arrivare all’altro capo dell’isola).
Mentre uscivo dalla grande piazza, pensai alla mattina quando eravamo andati a visitare la camera ardente, posta nella sala al piano terra all’interno del lato corto dei portici. C’era poca gente e la bara era
collocata al centro del grande salone tra due guardie d’onore. Sulle
pareti laterali erano sistemati su piedistalli alcuni plastici e dei pannelli con numerose foto della costruzione della città con la presenza del
maestro, che figurava in varie occasioni insieme ai cittadini.
Camerino. L’interno del teatro comunale
Roma. Verso largo S. Susanna
Vagavo nel portico guardando l’architettura e la gente che entrava,
preso da una commozione che mi aveva colpito all’improvviso e che
riuscivo a stento a nascondere. Cercai il taccuino e, con le spalle appoggiate al muro esterno della sala, disegnai ciò che vedevo tra il portico, la piazza e l’orizzonte. Ricordo che le mani erano ferme, ma che
sentivo come un nodo alla gola; tuttavia la tensione accumulata svanì a poco a poco con il lavoro paziente sul taccuino, nel tracciamento
dell’ombra, che il sole delineava sulla torre civica e sulla sfera emergente dalla chiesa madre.
Non so che cosa riesce a trasmettere ora quel disegno, eseguito in
quell’atmosfera sotto i portici, ma a me, quando lo rivedo, ritorna in
mente la commozione di quella giornata.
Nel pomeriggio durante la cerimonia funebre non pensai neppure a
prendere la penna e tentare di eseguire uno schizzo; ero troppo coinvolto da uno spettacolo inaspettato. La grande piazza, che avevo
sempre visto il più delle volte deserta, si era popolata quasi magicamente di persone vere e commosse in un tramonto estivo dai colori
splendidi e luminosi.
Avevo assistito ad un rito, più che ad un evento, che dava la cifra
della qualità urbana (o del senso della polis) di una comunità.
Tusa. Scultura nella fiumara d’arte
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Gibellina. Dentro il cretto
Gibellina. La porta del Belice
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Gibellina. All’entrata della piazza
Gibellina. Dal portico della piazza
Gibellina. Il Meeting dietro il palazzo Di Lorenzo
Cesarina Siddi
Arte e Paesaggio ... 5 [s]punti di riflessione
I’m building this work for later.
I’m interested in making a work of art that
will represent all the civilization to this point.
Michael Heizer
Dagli anni Sessanta e all’interno del dibattito sulla rimessa in
discussione dei musei e delle gallerie, molti artisti hanno subìto il
fascino della terra, dell’acqua, del vento e del fuoco, tanto da trasformarli in partners attivi del processo di produzione artistica che ha iniziato a contare quanto, se non più, degli stessi oggetti prodotti.
Arte del Paesaggio, Arte nel Paesaggio
Gli artisti che iniziano a lavorare nella natura non si riferiscono
necessariamente al paesaggio.
La cultura modernista diffonde un progressivo disinteresse per il
paesaggio, contrastato ad un certo punto dalla nascita della Land Art.
Michael Heizer (fig. 1), Robert Smithson (fig. 2), Richard Long, tre
figure chiave della Land Art, eppure tre rapporti profondamente differenti con il paesaggio; anzi, per Heizer un dichiarato disinteresse.
Artisti e/o Paesaggisti
Gli artisti che iscrivono le loro opere nei paesaggi arrivano talvolta
ad integrarle come componente essenziale. I paesaggisti d’altro canto
ereditano spesso una sintassi visuale che appartiene alla storia dell’arte, e se ne servono nel loro lavoro con una consapevolezza molto
variabile.
Nel XX secolo i più grandi paesaggisti hanno avuto rapporti strettissimi con le arti plastiche: Garret Eckbo con l’opera di Kandinsky,
Moholy-Nagy o Lissitzky; Roberto Burle Marx con quella di Mirò, Arp
o Picasso.
Il paesaggismo contemporaneo sposta invece l’attenzione dall’immagine allo spazio e considera fonte d’ispirazione fertilissima la produzione scultorea degli anni Sessanta.
Una cosa fondamentale accomuna però artisti e paesaggisti: ci
insegnano come guardare i paesaggi.
Per vedere un paesaggio, abbiamo bisogno di un certo distacco, di
una distanza che non è solamente fisica, ma anche intellettuale.
Un paesaggio è qualcosa che si attraversa - che si può comprendere in due sensi, à traverse, o au traverse1 (Gilles A. Tiberghien).
À traverse, percorrendolo, si provano le sue dimensioni in rapporto
al nostro passo, ma anche al nostro occhio e alla sua complessa
organizzazione. Questa traversata è fisica quanto mentale ...
Au traverse, si passa nel paesaggio, è ciò che fanno i paesaggisti.
Nel ‘leggere’ il paesaggio, essi ne svelano la struttura interna, ne
fanno l’archeologia, e a partire da questa storia geomorfologica, delle
sue sedimentazioni temporali, lavorano sui suoi aspetti in funzione
delle necessità sociali, economiche o ecologiche.
Il paesaggista lavora a favore del luogo, l’artista invece lo utilizza
per mostrare e valorizzare il carattere artefattuale dei suoi oggetti.
Il lavoro di Nancy Holt (fig. 3), da questo punto di vista, è assai
significativo. Si ritrova nelle sue realizzazioni un vocabolario plastico
(curve, tubi, sfere) al quale l’artista sottomette il sito sul quale interviene - con un approccio archeologico e poetico della sua storia, coerentemente con le sue preoccupazioni artistiche personali (gioco con la
percezione, legami con il cosmo ...).
Mary Miss (fig. 4) invece può rappresentare altrettanto significativamente l’approccio paesaggistico: Ciò che mi interessa, è l’accumulazione e l’effetto di esperienze fisiche e visuali che voi avete allorché
percorrete il sito. Se questo non agisse a questo livello psicologico,
emozionale e spaziale, se questo permettesse solo una vista su questo terreno umido, questo non mi interesserebbe.2
105
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Il rapporto col sito
Gli earthworks, l’arte ambientale o ecologica, si riallacciano all’arte
dei giardini ed essendo più sensibili alla natura, in un certo senso
fanno provare delle emozioni vicine al sublime o al pittoresco.
Robert Irwin, si è interrogato su ciò che potrebbe essere un’arte
‘fenomenica’ o ‘condizionante’, un’arte concepita in rapporto al suo
ambiente, che intrattiene con lui un certo numero di ‘relazioni determinate’ e ha proposto una modalità di classificazione delle opere in rapporto al sito secondo quattro categorie:
n dominante il sito (Henry Moore)
n adattata al sito, alla sua scala, al suo contesto (Mark Di Suvero, Richard Serra) realizzate in atelier
n specifica al sito (Richard Serra)
n condizionata/determinata dal sito (Mel Chin)
Ovviamente queste categorie in sé appaiono estremamente riduttive, ed è frequente il caso in cui l’opera ha una relazione col sito che,
più o meno, integra tutti questi rapporti a titoli diversi, con uno di essi
che costituisce un asse predominante che mette insieme in qualche
modo tutti gli altri:
n dominante adattato (Isamu Noguchi, fig. 5)
n specifico (Herbert Bayer, fig. 6)
n specifico (dominante) (Nancy Holt)
n dominante adattato specifico determinato (Mary Miss)
Taglia e scala
Il problema della scala è al centro della rappresentazione dello spazio. Le speculazioni sulla taglia e sulla scala modificano tutto il nostro
approccio al mondo.
Un artista come Walter De Maria gioca con la questione quando,
con il Lighting field - un campo di quattrocento parafulmini installato
nel 1977 su un piano semi-arido nel Nuovo Messico - confonde le
convenzioni che presiedono alle unità di misura e consegna lo spettatore ad una singolare esperienza sulla temporalità.
La scala è da capire in Smithson in correlazione alla dialettica
sito/non sito, giacché essa è proprio fondata sul passaggio dalla galleria espositiva al sito, dalle carte, disegni, foto, film a ciò che essi rappresentano e significano.
Passaggio da uno o da più spazi a un altro o più altri, che corrisponde al passaggio da un ‘ordine’ a un altro ‘ordine’ nel senso pascaliano del termine. Di modo che, come scrive Smithson: ‘essere dentro la
scala della Spiral Jetty, è essere al suo esterno’.
L’ecologia del paesaggio come metafora artistica
Il fatto di prestare un’attenzione particolare alla natura, di idealizzarla eventualmente o di cercare di proteggerne certe forme non è
sufficiente per parlare di arte ecologica; ancora bisogna che il soggetto dell’opera sia direttamente legato all’ecologia.
In molti lavori si può parlare di ecologia nelle intenzioni, cioè nel
senso dato al gesto o piuttosto nella presa di coscienza che si ritiene
di suscitare.
Un’opera come metafora, capace di cambiare la percezione delle
persone rispetto all’ambiente che le circonda, è per esempio Beach
Pollution di Hans Haacke (fig. 7) del 1970, un enorme cumulo di rottami e di spazzatura domestica raccolta su duecento metri di una
spiaggia spagnola, fotografata dall’artista.
Intervenire sull’ecologia del paesaggio presuppone però una pratica ecologica, anche se è distolta da fini artistici. E questo è ciò che
fanno Helen e Newton Harrison, che dagli inizi degli anni Settanta
lavorano su dei progetti legati strettamente all’ambiente, all’equilibrio
e alle perturbazioni degli ecosistemi.
L’esempio più complesso e completo potrebbe essere Revival Field
1, Pig’s eye Landfill, Saint Paul, Minnesota di Mel Chin (fig. 8), del
1990-1991. Quest’opera d’arte nasce come applicazione della conoscenza scientifica sulle piante capaci di assorbire il metallo pesante
per eliminare le tossine dai suoli contaminati. è quindi un’opera d’arte concettuale di cui uno dei risultati fondamentali è stato però anche
la messa a punto di una tecnologia. Ecco quindi che questa esperienza artistica ha un plusvalore che, superando l’aspetto formale, coinvolge l’azione fisica prodotta sul paesaggio.
1. Tiberghien Gilles A., Nature, Art, Paysage, éd. Actes Sud/École nationale supérieure
du Paysage / Centre du Paysage, 2001.
2. A proposito di Greenwood Pond Double Site.
1. Michael Heizer, City, deserto del Nevada, 1970 - non conclusa
2. Robert Smithson, Sixth Mirror Disolacement,
Yucatan, Messico, 1969
3. Nancy Holt, Up and under, Nokia, Finlandia, 1998
5. Isamu Noguchi, Le jardin de Pierres Japonais
dell’UNESCO, Parigi, 1956-1958
6. Herbert Bayer, Earth mound, Aspen, Colorado, 1955
7. Hans Haake, Beach pollution, Carboneras, Spagna,
1970
8. Mel Chin, Primo revival field, Pig’s eye landfill,
Saint Paul, Minnesota,1990-1991
4. Mary Miss, Greenwood pond double site,
Des Moines, Iowa, 1989-199
107
Marco Romano
Contesto e Modernità
Progetti per il polo urbano della Fiera di Milano
108
Ho esposto nei miei due libri1 - e ora sul sito www.esteticadellacitta.it
- la teoria dell’estetica urbana, che consente di progettare una città intera - o una sua parte, secondo criteri consolidati e sperimentati il cui
corpus costituisce il fondamento concettuale e pratico di chi intenda
esercitare il mestiere di urbanista, fondamento che - sia detto tra parentesi - le Facoltà di Architettura oggi non sono in grado di insegnare.
In questa sede voglio sottolineare soltanto un argomento. Perché
un manufatto - una statua o un quadro - possa venire considerato una
compiuta espressione artistica è sufficiente da un lato che sia stato
creato con l’esplicito intento di farne un’opera d’arte e dall’altro che
venga percepito come tale da almeno il suo committente: sicché la
sperimentazione delle avanguardie artistiche di un secolo fa era legittimata dall’intenzione di creare opere d’arte che, seppure tali spesso
non ritenute dal pubblico, incontravano l’apprezzamento di molti intenditori. Ma la città europea è un’opera d’arte formata dalla civitas intera con una serie di decisioni collettive e con un linguaggio consolidato che tutti i cittadini conoscono per averlo imparato fin da bambini
con la consuetudine della loro città; un’opera d’arte offerta a quegli
stessi cittadini della civitas e ai cittadini delle altre città europee che
tutti hanno in comune quel medesimo linguaggio, costituito da temi
collettivi (palazzo municipale, chiesa principale, teatro, giardino pubblico e molti altri) e da strade piazze tematizzate (strada principale e
monumentale, strada trionfale e passeggiata, piazza principale e
piazza del mercato, e altre ancora) che troviamo in tutte le città europee a prescindere dalla loro dimensione.
La pretesa delle avanguardie artistiche degli anni Venti del Novecento di voler rinnovare anche il disegno della città, scardinando i
principi che l’avevano retta da secoli, cancellando la rue corridor - di
fatto strade larghe dai venti ai cinquanta metri! - per mettere i fabbricati di traverso, e di porre alla berlina le culte de l’axe, che aveva arricchito le nostre città di prospettive monumentali, ha prodotto dalla
metà del secolo scorso quartieri moderni disastrosi, privi di senso, che
costituiscono quel dramma delle periferie del quale tanto ci lamentiamo e che tanti danni sociali sta provocando, ma che gli urbanisti non
vogliono affrontare, da un lato perché ciò implicherebbe una severa e
devastante autocritica - perdendo così ogni titolo per protestare contro leggi urbanistiche che non consentono o non offrono al Comune i
necessari mezzi per realizzare piani regolatori i cui esiti sono poi città orrende e invivibili - e dall’altro perché dovrebbero ricominciare a
studiare e imparare gli strumenti tecnici del loro mestiere.
Come sosteneva Max Planck, le nuove teorie scientifiche ‘non si impongono tanto per la loro verità, quanto perché muoiono i sostenitori
delle vecchie’, e se questo può venire sostenuto nel campo delle teorie scientifiche, la cui verità sembra dimostrabile in modo evidente e
indiscutibile, figurarsi in quel nostro campo dell’urbanistica dove alle rigorose argomentazioni che correvano nei Congressi degli specialisti
nella seconda metà dell’Ottocento - cui dobbiamo le soddisfacenti periferie anteriori al 1950 - si sono sostituiti profluvi di invenzioni lessicali che invece di produrre una bella città (l’ovvio obiettivo di urbanisti
che hanno studiato in Facoltà di Architettura dove avrebbero dovuto
impararne le regole) nella quale i cittadini possano radicare il sentimento della propria identità, hanno dato luogo a un immane disastro.
Regola costante di questo deserto concettuale è l’impiego di categorie a priori cui ricondurre le posizioni e i punti di vista più vari, estendendo ai campi più disparati la pertinenza delle medesime assiologie.
Così mi sono sentito dire spesso che, progettare la città secondo canoni consolidati dalla millenaria tradizione europea, sarebbe stato come non riconoscere che oggi abbiamo sulle strade le automobili invece delle carrozze; ed è curioso che questo stesso argomento venisse
evocato agli inizi del Novecento, in una polemica tra Stübben e Brinckmann (devo pur dire, ben altri contendenti e di ben altro spessore
culturale di quelli contemporanei) dove il secondo rilevava che la modernità della margarina non avrebbe necessariamente reso obsoleto
il burro.
1.2. A ovest di corso Sempione - qui sottolineata - la via Scarampo, proveniente
da nord ovest, può proseguire attraverso l’area della Fiera avendo come fondale
la chiesa di Santa Maria delle Grazie
3. Il quadro dei boulevard, delle passeggiate e dei viali alberati che costituiscono
la struttura estetica di Milano
In realtà questo argomento costituisce l’immotivata estensione al
disegno della città dell’asserzione di Viollet-le-Duc - fondata sull’analisi delle cattedrali gotiche - che ogni epoca storica produce una propria architettura derivante dall’irrompere di nuovi materiali, asserzione
che ha legittimato la nascita del Movimento Moderno, ma che nessuno ha mai dimostrato sia estendibile alla città.
Voglio qui mostrare come invece il ricorso alle regole consolidate
della progettazione urbana sia il solo in grado di risolvere i problemi
compositivi posti dalle città contemporanee, ma invece di mostrare
progetti studiati da me, illustrerò il caso dei progetti per il cosiddetto
polo urbano della Fiera di Milano.
La Fiera di Milano ha di recente deciso si spostarsi in una nuova sede fuori città - progettata da Massimiliano Fuksas - e, per recuperare
le risorse necessarie per costruirla, ha contemporaneamente deciso
di vendere come terreno edificabile l’immensa area che occupava all’interno della città.
Invece di vendere l’area al migliore offerente Luigi Roth, presidente della Fiera, ha chiesto che le offerte economiche fossero accompagnate da un progetto urbanistico, preannunciando che la scelta sarebbe stata condizionata in primo luogo dalla qualità del progetto presentato e solo in un secondo tempo, esclusi alcuni progetti sulla base di
un giudizio esclusivamente tecnico, sarebbero state aperte le buste
contenenti le offerte finanziarie dei progetti rimasti in gara, e l’area ceduta al migliore offerente. Proposito della Fiera era di offrire alla città
progetti di altissimo livello, dal momento che le cordate di imprenditori interessate all’operazione - cordate di respiro globale a causa della
sua entità - avrebbero fatto ricorso ai nomi più famosi del panorama
architettonico internazionale. Nominati undici esperti delle più varie discipline - critici di architettura, io stesso in quanto urbanista, sociologi, economisti e quant’altro - e raccolti i loro pareri, la direzione della
Fiera ha poi effettuato l’assegnazione: dell’esame che ho compiuto di
questi progetti voglio qui raccontare.
Il Comune di Milano aveva stabilito le volumetrie massime e chiesto che metà dell’area fosse destinata a un giardino pubblico, senza
tuttavia specificare in che cosa dovesse consistere, o forse dandone
per scontate le caratteristiche assunte da quattro secoli nella tradizione europea: che sia di forma regolare, sia circondato da strade pubbliche che ne sottolineinino l’equivalente accessibilità a tutti i cittadini
della città, e sia possibilmente chiuso da una cancellata come quegli
altri che già a Milano esistono.
La Fiera stessa aveva poi suggerito che si tenesse in conto la giacitura delle strade esistenti e la morfologia della città, indicazioni alle
quali io stesso avevo aggiunto alcune raccomandazioni di buon senso, ma non cogenti per i progettisti.
Milano è il frutto di una sapiente pianificazione del tardo Ottocento
(il piano Beruto) e del primo Novecento (il piano Pavia Masera) il cui
109
110
criterio fondamentale era stato quello di disegnare una serie di tre
boulevard concentrici, il primo dei quali sulla sede dismessa delle fortificazioni militari spagnole e i due successivi un poco più esterne, il
primo con la larghezza di 30 metri e i due successivi con la larghezza rispettivamente di 40 e di 50 metri, una sequenza di boulevard assimilabile a quella di Parigi o di Berlino.
Questo schema a cerchi concentrici era stato poi arricchito da alcune passeggiate radiali, soprattutto quella conclusa con viale Argonne,
lunga 2200 metri e larga 90 metri (come gli Champs Elysées, a loro
volta lunghi 3200 metri) e dall’altra parte della città corso Sempione,
anch’esso largo 90 metri, tema che ritma la conclusione, con il Cimiero Maggiore, della lunga e straordinaria sequenza che inizia a piazzale Loreto e attraverso corso Buenos Ayres, porta Venezia con i suoi
caselli, la passeggiata sui bastioni, il giardino pubblico di via Palestro,
la strada monumentale (corso Venezia), la piazza monumentale del
Novecento (piazza san Babila), la strada principale della città (corso
Vittorio Emanuele), piazza del Duomo (che è anche piazza monumentale, nazionale e di mercato), via Dante (strada principale, monumentale e trionfale in ragione della veduta assiale del castello), dopo
il castello il parco e appunto corso Sempione, taglia trionfalmente l’intera città. Era stato poi completato dai viali alberati che fuori le mura
collegavano un tempo le città tra loro e che con la successiva espansione ottocentesca erano stati inglobati e convenientemente allargati
nella città, diventata così un reticolo di strade a vario titolo tematizzate che evitavano alle parti più lontane dal centro di soffrire di quell’emarginazione simbolica alla quale soccombono i nuovi quartieri
progettati dopo il 1950, dove nessuna strada tematizzata testimonia
attraverso la sua visibile grandiosità la loro appartenenza alla città e
neppure li lega al centro cittadino con le efficaci sequenze di un tempo, e che per questo potrebbero appartenere a qualsiasi altra città,
luoghi per principio di una irrimediabile emarginazione simbolica.
Ecco allora il nuovo progetto della Fiera diventare l’occasione per
ricucire ed esaltare questa rete simbolica della città ottocentesca.
Sull’area della Fiera convergono tutte le autostrade cha arrivano a
Milano da nord, e se la tagliassimo in mezzo avremmo come veduta
finale la facciata di Santa Maria delle Grazie, uno dei più ragguardevoli monumenti della città in ragione dell’architettura del Bramante e
del Cenacolo vinciano che vi si trova (figg. 1, 2).
Sembra poi ragionevole completare i boulevard occidentali, riprendendo la sequenza che tocca piazza Piemonte - una ragguardevole
piazza ottocentesca abbellita da due edifici gemelli a cupola, simili a
quelli di piazza del Popolo a Roma - e che prosegue poi attraverso
una piazza tematizzata dal monumento a Giuseppe Verdi e che termina nella piazza monumentale, ad architettura coordinata, a suo tempo realizzata di fronte all’ingresso principale della Fiera.
Meno importante, ma comunque meritevole di venire presa in con-
4.5.6. Primo progetto
siderazione, la sequenza dei boulevard trasversali, in ragione soprattutto del loro essere disposti tra due fermate chiave della metropolitana e delle ferrovie nord (fig. 3).
A queste indicazioni ho aggiunto il suggerimento di ricorrere anche
ad altri temi della tradizione europea, per esempio una bella strada
principale con i suoi negozi, una piazza e, perché no, un grattacielo,
tema collettivo moderno, del quale Milano ha già i due esempi clamorosi del Pirelli e della Torre Velasca, cui avrebbe potuto dignitosamente affiancarsene uno nuovo, ad annunciare le sequenze cittadine.
Pare poi ragionevole tenere conto del fatto che Milano si è accresciuta con isolati affacciati lungo le strade e che quindi non pare né
necessario, né opportuno, ricorrere a tipologie aperte che possono
venire impiegate in qualsiasi altra situazione, anche in aperta campagna o in un’altra città, senza tenere conto della specifica morfologia
dei quartieri milanesi contermini. I progetti presentati mostrano in generale la più radicale insipienza del fatto urbano.
Il primo progetto è firmato da David Chipperfield, Dominique Perrault, Foreign Office Architects, Skidmore Owens & Merril, Michele de
Lucchi, SANAA, MVRDV, Auckett+Garretti, LAND: come si vede il
giardino pubblico è poi un terreno a L non circondato da strade e neppure da una cancellata, bensì da un canale leggermente sopraelevato che la prospettiva mostra poi di misera vista; la visuale di Santa
Maria delle Grazie è stata ignorata (senza che i fabbricati messi di traverso per intercettarla presentino una logica di qualche superiore ordine formale); il boulevard occidentale viene interrotto senza alcuna
giustificazione; i boulevard diagonali non sono raccordati; i grattacieli
sono più di uno e la loro forma pare troppo eccentrica per costituire
un condiviso tema collettivo della bellezza cittadina; la giacitura degli
edifici - segnatamente quelli a ventaglio - non rispettano il preesistente ordinamento degli isolati; non esiste una vera piazza e neppure una
vera strada (figg. 4, 5, 6).
7.8.9. Secondo progetto
Il secondo progetto è firmato da Michel Desvigne, Jean-Pierre Buffi, Pierlugi Nicolin, Italo Rota, Antonio Citterio, Anna Giorgi, Ermanno
Ranzani: il progetto è dominato da una successione di laghetti che
dovrebbero formare un giardino che, seppure non propriamente definibile come un giardino pubblico con le sue caratteristiche consolidate, è comunque in sé concluso e affacciato su due spazi pubblici - ancorché troppo poco distinto dalla sfera privata delle case - e soprattutto riprende a suo modo la giacitura dei boulevard occidentali; la visuale di Santa Maria delle Grazie è tuttavia anche in questo progetto interrotta senza che ne sia chiaro il motivo, così come è ignorata la diagonale tra le stazioni; un gruppo di grattacieli verso nord ovest appare in contrasto con il principio che debba venire previsto un solo grattacielo; il modello degli isolati tradizionali è percepito infine come un
111
suggerimento dal quale poi ci si allontana, disponendo le case con un
modulo quadrato che tuttavia - in apparenza per non apparire troppo
antiquato - non osa ricostituire una strada (figg. 7, 8, 9).
112
10.11. Terzo progetto
12. Quarto progetto. I grattacieli del progetto milanese ...
Il terzo progetto è firmato da Norman Foster, Frank O. Gehry, Rafael Moneo, Cino Zucchi, Richard Burdett e URB.A.M: qui la visuale
di Santa Maria delle Grazie è salvaguardata - sia pure con una certa
timidezza, come a vergognarsene - mentre il boulevard occidentale è
senza motivo interrotto da un grattacielo; il giardino pubblico è ovviamente accessibile, ma è collocato all’interno degli edifici residenziali
ed è quindi un giardino condominiale e non un vero e proprio giardino pubblico con le caratteristiche che lo rendono tale; ai piedi degli
edifici un lungo nastro di negozi simula una strada principale che tuttavia non ha riscontro nell’esperienza europea - dove le strade principali hanno sempre due fronti di botteghe - se non nelle stazioni balneari: e difatti le prospettive evocano candidamente l’acqua di un laghetto sul quale si specchia un paesaggio estivo, piuttosto che l’ambiente urbano di Milano o di un’altra città europea; un largo e informe
spiazzo assume il nome di plaza, con il quale gli architetti americani
hanno in tutto il mondo nobilitato questo genere di piazzali ai piedi dei
loro grattacieli, ma che non hanno nulla a che vedere con una vera
piazza europea, uno spazio chiuso dalle case; il filo degli isolati sulle
strade esistenti è stato qui rispettato, anche se poi i varchi tra le fronti hanno un aspetto sinuoso che dona all’insieme delle case la figura
di un gigantesco polipo; i grattacieli a loro volta sono troppi, quasi come se ciascuno dei progettisti di maggior prestigio avesse partecipato alla cordata per progettarne uno (figg. 10, 11).
Il quarto progetto è firmato da Zaha Hadid, Arata Isozaki, Daniel Libeskind e Pierpaolo Maggiora: neppure qui ci si è presi cura della vi-
13. ... e quelli di Shangai
suale di Santa Maria delle Grazie, di nuovo interrotta senza alcun
plausibile motivo; neppure qui si è tenuto in conto la giacitura tradizionale degli isolati milanesi; neppure qui esiste una piazza, seppure
questo nome venga attribuito allo sterminato piazzale a sud del cerchio del museo; neppure qui si è tenuto conto del boulevard occidentale; neppure qui il verde costituisce un vero giardino pubblico, ma è
soltanto il giardino condominiale tra le case.
Ma qui il punto stravagante del progetto è la presenza di simultanea di tre grattacieli - uno per ciascuno dei tre nomi celebri che lo hanno sottoscritto: ora, un solo grattacielo può costituire in Europa, come
ho già detto, un tema collettivo del quale la città sarà fiera, ma una
selva di grattacieli non evocano qui da noi una bella città, ma piuttosto l’affastellarsi dei grattacieli nell’Estremo Oriente, dove nessuno ha
mai preteso che le città fossero belle e dove questi eccentrici mastodonti sono lì a dimostrare la propensione ad accettare volentieri la
cargo cult dell’Occidente, a prender per buoni certi progetti che scaturiscono dai cassetti degli architetti, come un tempo le perline e le
sveglie dalle stive delle navi, che i selvaggi appendevano al collo come ora infoltiscono il nuovo centro di Shangai (figg. 12, 13).
Soltanto Renzo Piano ha interpretato bene il tema presentando un
progetto nel quale il giardino pubblico occupa la metà dell’area, è contornato da strade, ed è recintabile; la visuale di Santa Maria delle Grazie è salvaguardata e sottolineata almeno da un filare di alberi; la sequenza dei boulevard occidentali è ben mantenuta; abbiamo poi una
parte dell’edilizia, quella non residenziale, affacciata su una vera e
propria strada principale con i suoi negozi da entrambi i lati e le case,
seppure non allineate lungo la strada vi fanno ragionevolmente capo;
la strada è poi ritmata da una piccola piazza triangolare racchiusa tra
le case; infine il grattacielo, ergendosi solitario, ben si presta a costituire un nuovo tema collettivo della città (figg. 14, 15, 16).
14.15.16. Il progetto di Renzo Piano
I dirigenti della Fiera, scartati i due primi progetti prima ancora di
prenderne in considerazione l’offerta economica, protetti dal giudizio
positivo dei consulenti dell’architettura, hanno scelto il progetto di Zaha Hadid, Arata Isozaki e Daniel Libeskind, la cui offerta superava di
cento milioni quella dei promotori di Renzo Piano. Ma il progetto di
Piano ha destato subito il generale consenso, dimostrando che il linguaggio consolidato della città europea è tuttora il più appropriato per
progettare nuovi quartieri, e che quanti sostengono che il millenario
mestiere di progettare le città con quel linguaggio sia un atteggiamento arcaico e che occorra qualcosa di nuovo, devono pur arrendersi all’evidenza non soltanto del confronto tra questi progetti, ma anche del
fatto che il progetto migliore, così apparentemente tradizionale, è tuttavia firmato da un architetto del quale nessuno oserebbe contestare
la modernità.
1. L’estetica della città europea, Torino, Einaudi, 1993, 2005; Costruire le città, Milano,
Skira, 2005.
113
Mili Romano
Altri sguardi dall’arte pubblica
114
Dicembre 2005, isola di Ortigia.
All’imbrunire il cielo sopra piazza del Duomo è tela azzurra sulla
quale stormi di storni tracciano e cancellano senza sosta disegni. Lo
guardo e ripenso alla Lectio magistralis di Remo Bodei al festival di filosofia di Modena del 2004, nella quale ci ricordava che dall’epoca
moderna la politica che governa le città, e le scienze che la ridisegnano smettono di scrutare il cielo per riprodurre l’armonia e l’ordine del
cosmo e si aprono all’umano e al caos. Guardo le danze degli storni
e ripenso al saggio Gli storni e l’urbanista (Meltemi 2001) nel quale
Enzo Scandurra parte da quelle tecniche di volo per divagare su promesse e limiti del nostro planning, che sembra tutto prevedere in funzionalità e estetica, ma che al momento del suo utilizzo non mette in
conto l’imprevisto, e così manca sempre qualcosa.
Se prendessimo ad esempio le strategie che gli storni mettono in
atto, mutando e rinnovando le regole del volo ogni volta, istante dopo
istante, conservando e innovando contemporaneamente i loro sistemi
di difesa, mantenendo però ciascuno la propria individualità e specificità, troveremmo un’indicazione di metodi (plurali, differenti a seconda delle finalità) pronti ad aprirsi a nuove sinergie in un dialogo fra arte e architettura, urbanistica e altre discipline; metodi all’estero già più
consolidati e di lunga pratica, ma in Italia per nulla acquisiti, se non in
ambito privato, e soggetti a improvvisi smottamenti e cancellazioni.
Un piccolo avanzamento in questa direzione è una legge recente
della Regione Emilia Romagna, la Legge 16/02 Norme per il recupero degli edifici storico-artistici e la promozione della qualità architettonica e paesaggistica del territorio, che vorrebbe, almeno nei suoi presupposti di base, stimolare una collaborazione interdisciplinare su
progettualità e finalità (monitoraggio del territorio, recupero di aree dismesse, nuova architettura) di volta in volta diverse. Dalla Legge 16
viene anche una sollecitazione a un utilizzo differente dell’intervento
artistico, spesso puramente decorativo, e a una sperimentazione di
metodi non univoci e preconfezionati, per una collaborazione capace
di sacrificare il segno forte individuale delle singole discipline, e un po’
della propria specificità, in nome del risultato finale collettivo. Essa
vorrebbe far recepire nel campo dell’urbanistica, del restauro e della
riqualificazione territoriale, l’utilizzo dell’intervento artistico già in fase
progettuale, sollecitando così un lavoro il più possibile di collaborazione in team interdisciplinare. Con l’obiettivo di modificare la consuetudine che vede l’arte come mero arredo urbano, monumento o make
up, cerca di sollecitare la pratica di un intervento che sia site-specific,
che nasca da uno studio attento e completo dello spazio nel quale interviene, con la finalità di far affiorare dinamiche e problematiche connesse all’area stessa, di evidenziare e rafforzare l’identità del luogo e
di chi lo fruisce o fruirà. Con l’obiettivo di promuovere l’arte contemporanea con una nuova architettura, la legge vorrebbe sollecitare il
più possibile le energie della ricerca per il superamento di una edilizia
di scadente qualità.
Un video con gli ‘appunti visivi’ è stato, nel corso del mio intervento al convegno, supporto sostanziale, seppur parziale, ai percorsi di riferimento stranieri e italiani: dalle esperienze anglosassoni di arte relazionale e ‘comunitaria’, al ‘modello’ spagnolo di Barcellona nel suo
graduale transitare da città d’arte a città ‘di cultura’.
Al site specific, segno forte della public art degli anni ’80, dagli anni ’90 in poi si affianca il public specific, la specificità del pubblico, che
viene ad avere sempre più un ruolo di produttore di senso per il progetto nelle sue diverse fasi.
Studio, ricerca e work in progress, il progetto artistico diventa occasione per una pratica ricognitiva, (interrogarsi sul luogo e riproporlo
come interrogativo dice l’artista Daniel Buren), strumento prezioso di
ritorno al luogo ‘antropologico ed esistenziale’, e a tal fine può attribuirsi nuove possibilità, e così alle discipline con le quali collabora, attraverso un nuovo sguardo e può divenire strumento di indagine, di
sollecitazioni di movimenti all’interno della società e dello spazio nel
quale si interviene e di progetti, che di questo lavoro nella durata sia-
no il risultato, innescando così un miglioramento duraturo e più autentico della qualità urbana, architettonica, paesaggistica e sociale, trasformandosi in pratica culturale.
Gli ‘appunti’ si soffermavano sulle ‘tracce’ di arte contemporanea
disseminate per Amsterdam, dai quartieri del centro storico all’area di
riqualificazione nella quale gli MVRDV hanno realizzato un edificio di
residenze per anziani, all’isola Java, con il Lloyd Hotel, realizzato
sempre dagli MVRDV con la collaborazione di molti artisti (tra i quali
l’Atelier Van Lieshout). Seguivano poi gli esempi italiani: gli Stalker
(collettivo di artisti, architetti, urbanisti) con ‘Immaginare Corviale’; il
gruppo A12 con, tra l’altro, il progetto ‘Quartieri Milano’; la struttura architettonica ‘raccoglisogni’ di Emilio Fantin realizzata per e con gli abitanti di Gallarate; gli interventi di Alberto Garutti per ‘Arte all’Arte’ o, a
Bolzano, nel quartiere Don Bosco, che cercano sempre di stabilire
rapporti emotivi ed ‘affettivi’ con i luoghi e con la gente, soggetto attivo nella progettazione e nella realizzazione; un possibile nuovo utilizzo dell’ arte per gli ospedali negli interventi di Michelangelo Pistoletto
o Ettore Spalletti; Cuore di Pietra il progetto con il quale io stessa,
coinvolgendo la comunità locale e molti altri artisti, intendo accompa-
R. Serra, Placa de la Palmera, Barcellona
D. Buren, Palais Royal, Parigi
gnare il processo di ristrutturazione e riqualificazione urbana del centro di Pianoro; Alessandra Andrini che, per il giardino della futura sede della Galleria d’Arte Moderna di Bologna, ha progettato una porta
girevole di vetro e acciaio, segnale, nel ‘bosco delle robinie’, di uno
spazio e tempo ‘altri’, e che ha anche realizzato il bell’‘antimonumento’ a Marco Pantani che sull’autostrada A14 rimanda con immediata
naturalezza i viaggiatori all’immaginario infantile di chi ha collezionato le biglie con la figurina dei campioni sportivi.
Dal ‘monumento invisibile’ descritto da Musil in ‘Pagine postume
pubblicate in vita’ (La cosa più strana dei monumenti è che non si notano affatto, nulla al mondo è più invisibile, hanno qualcosa che li rende impermeabili e l’attenzione vi scorre sopra), Eva Marisaldi progetta AA.VV., un catafalco/vetrina con tre pareti in lavagna che si può
‘moderatamente vandalizzare’, al cui interno si può ogni anno programmare un’esposizione diversa, dicendoci con ironia che il più delle volte, là dove l’arte non è strumento di partecipazione condivisa, né
mezzo di poetico, profondo e progressivo cambiamento culturale, il
luogo, intessuto di abitudini e comportamenti ‘divorerà’ il ‘monumento’ con l’indifferenza e il vandalismo.
K. Daan, Homomonument, Amsterdam
115
A.Garutti, Quartiere Don Bosco, Bolzano
116
Piazza del giocatore di scacchi, Amsterdam
Alessandra Andrini, ‘Il bosco delle robinie’
Progetto per il parco della nuova Galleria d’Arte Moderna, 2005
Alessandra Andrini, ‘Biglia A14 km 50’, 2005 - Courtesy MercatoneUno
Stefania Suma
Altri musei
Guardando allo scenario artistico contemporaneo e al rapporto che
l’opera d’arte instaura con l’istituzione museo emerge in maniera immediata una contraddizione molto forte. Da una parte assistiamo alla
concitatissima realizzazione di architetture museali sempre più iperaggettivate e ipertrofiche, in grado con la potenza comunicativa della propria immagine e con la varietà di funzioni nuove ospitate al loro
interno di sedurre un pubblico numeroso ed eterogeneo, il quale si reca a visitare queste machine a exposer perché attratto dal loro packaging, piuttosto che dalle collezioni esposte al loro interno. Sono
questi i musei che, oltre a dominare la scena urbana con la loro presenza spettacolare, garantiscono grazie alla propria immagine, riconoscibile e seducente, sicuro successo di pubblico a prescindere dalle opere esposte e che Giancarlo De Carlo ha definito come musei
dell’iperconsumo, locuzione che ha anche dato il titolo a un importante convegno internazionale curato da Franco Purini, tenuto presso la
Triennale di Milano nell’ottobre del 2002, in occasione del quale architetti, curatori museali, critici d’arte ed esperti di comunicazione hanno
offerto una lettura polifonica delle più recenti tendenze in atto nel
grande sistema dell’arte. La condizione di ipermuseismo, che si manifesta per la prima volta nel 1977 con l’apertura al pubblico del Centre Pompidou, sofisticata architettura in vetro e acciaio colorato destinata ad accogliere migliaia di visitatori al giorno, negli anni ottanta trova un’ulteriore affermazione in architetture come la Neue Staatsgalerie di Stoccarda, progettata da James Stirling, e l’Abteiberg Museum
di Monchengladbach di Hans Hollein, accomunati dalla loro natura di
musei, la cui componente liminale si apre verso la città, innescando
un gioco di contaminazioni reciproche in base al quale l’architettura
espositiva da un lato si insinua nella città, dall’altro da quest’ultima si
lascia attraversare. Così lungo questi percorsi architettonici ambiguamente sospesi tra la dimensione caotica della città e l’atmosfera auratica del museo, gli utenti museali e i city’s users si incontrano e si
confondono. Un decennio più tardi l’ipertrofia museale trova le sue
espressioni più rappresentative in architetture come il Groninger Museum di Alessandro Mendini, il Guggenheim Museum di Bilbao di
Frank O. Gehry, il Kiasma Museum di Helsinki, progettato da Steven
Holl e ancora il Museo Ebraico di Berlino di Daniel Libeskind, architetture che si inseriscono nella scena urbana come fossero enormi dispositivi scultorei. E ancora uno sviluppo ulteriore nella direzione dell’iperconsumo è rappresentato dai cosiddetti musei-logo che assegnano a un marchio il ruolo di porsi come fattore identitario di un’architettura, come avviene con il MoMA QNS di New York di Michael
Maltzan e il Guggenheim-Hermitage Museum di Las Vegas di Rem
Koolhaas.
Dalla parte dell’arte invece assistiamo al proliferare di espressioni
artistiche che sconfinano, debordano, mettono in discussione i territori, trascendono i limiti spaziali imposti dalle istituzioni espositive per dirottare il proprio pubblico verso altri luoghi e nuovi scenari, alcuni anche difficili, respingenti, improbabili. Al di là delle ben note esperienze
che i rappresentanti della Land Art compiono all’interno di contesti naturali, ponendosi in totale contrapposizione con i condizionamenti
esercitati da musei e gallerie e tralasciando per ragioni di spazio anche i numerosi esempi di parchi sculture che ospitano installazioni di
Arte Ambientale, gli ambiti alternativi a quelli istituzionali sono molteplici. Si pensi ai numerosi e recenti episodi in cui l’arte viene esposta
all’interno di edifici religiosi, dove sembra permearsi di una rinnovata
sacralità, come testimoniano le installazioni di Daniel Buren nella
Chiesa dello Spasimo di Palermo, di Dan Flavin a Santa Maria in
Chiesa Rossa di Milano, e ancora la scultura che Anish Kapoor realizza per la Domkirche di Graz, per finire con la video-installazione
compiuta lo scorso anno da Bill Viola all’interno del Duomo di Milano.
Se l’alleanza tra luoghi sacri ed espressioni artistiche è antichissima,
va precisato però che gli interventi artistici all’interno di luoghi di culto
pongono oggi questioni differenti rispetto al passato in quanto non si
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tratta più di opere che cercano di instaurare con lo spazio sacro una
ideale continuità, ma anzi siamo di fronte a presenze autosignificanti
che dichiarano la propria alterità rispetto ai luoghi che le accolgono,
luoghi sentiti semplicemente come una delle alternative possibili a
musei gallerie, un’alternativa che si dimostra però in grado di assicurare all’opera l’inviolabilità della propria aura.
C’è poi il vastissimo repertorio di opere d’arte che si insediano all’interno degli spazi pubblici per misurarsi con le concitate dinamiche della città e per ribaltare completamente la percezione dei luoghi, come
avviene nel caso della mostra ‘Contemporanea’ del 1973, curata da
Achille Bonito Oliva e allestita da Piero Sartogo negli spazi del parcheggio sotterraneo multipiano di Villa Borghese a Roma, progettato da Luigi Moretti, o come più di recente avviene nelle stazioni della metropolitana di Napoli, che ospitando interventi di Michelangelo Pistoletto, Mimmo Paladino, Joseph Kosuth, Riccardo Dalisi e molti altri, da luoghi di
transito veloce e distratto, si sono trasformate in una sorta di museo obbligato, come lo ha definito il suo ideatore Achille Bonito Oliva.
E ancora un esempio di come l’arte contemporanea invada strade
e piazze con la molteplicità dei propri linguaggi è offerta dalla ormai
celebre manifestazione Luci di artista che dal 1998 si tiene ogni anno
a Torino durante il mese di dicembre e che costituisce una collezione
di installazioni luminose di grande fascino, come testimoniano il Tappeto volante di Daniel Buren o Il volo dei numeri di Mario Merz. E se
originariamente questa iniziativa artistica prevedeva che le opere dovessero essere collocate in punti nevralgici del centro storico della città, a partire dalle ultime edizioni invece il raggio di azione si è allargato in maniera tentacolare fino a raggiungere ambiti periferici, come nel
caso del Lucedotto di Richi Ferrero, collocato in prossimità di un casello autostradale.
E proprio sul tema arte contemporanea e periferia investigano alcune recenti ricerche artistiche e architettoniche, dalle quali emerge la
fiducia nelle capacità dell’arte contemporanea di riqualificare e rivitalizzare con la propria irradiante energia i terrain vague metropolitani.
È quanto abbiamo visto compiere a Genova da Germano Celant per
la mostra Arti e architettura, in occasione della quale oltre all’esposizione tenuta a Palazzo Ducale l’intera città è stata invasa da una se-
rie di installazioni dislocate in punti importanti del centro storico, ma
anche da una serie di billboards, ovvero cartelloni pubblicitari di 3x6
m, commissionati ad architetti, artisti e fotografi contemporanei, affissi su tutto il territorio urbano a voler esprimere così la natura ubiquitaria dell’arte.
E ancora un tentativo di irrorare i territori ai margini della città con
la presenza vitale e virale dell’arte è condotto nella periferia di Catania, nel quartiere Librino, progettato da Kenzo Tange. Quartiere che
doveva essere l’espressione della città moderna e che è diventato invece sinonimo di periferia degradata e afflitta da conflitti sociali violentissimi. All’interno di questo contesto così difficile Antonio Presti, già
ideatore della Fiumara d’Arte di Castel di Tusa, sta portando avanti un
progetto assai ambizioso orientato a trasformare questo quartiere di
80.000 abitanti, da luogo di disagio ed emarginazione in centro di
creazione e diffusione artistica, coinvolgendo gli studenti delle scuole
del quartiere nella realizzazione di un museo dell’immagine.
E un’altra periferia segnata da conflitti e il cui nome è diventato il
simbolo dell’emarginazione sociale è il Corviale, ingombrante edificio
su cui si sono fatti vari progetti, che vanno dalla sua demolizione al suo
recupero secondo nuove forme d’uso. Tra questi c’è quello del gruppo
ALTR_a, elaborato in occasione di un workshop organizzato dall’Accademia Nazionale di San Luca, dal Comune di Roma e la DARC, in occasione del quale alcuni giovani architetti er ano stati invitati a riflettere
sul rapporto arte contemporanea-museo-periferia. E la proposta di
ALTR_a prevede la nascita di cellule espositive all’interno delle unità
abitative non occupate, contemplando quindi la possibilità di convivenza della funzione abitativa con quella espositiva e confermando la tendenza in atto da parte dell’arte di diffondersi oltre ogni limite e di intercettare, al di là degli ambiti museali, tutti gli altri luoghi, anche i più inattesi e inimmaginabili, dove possa essere messa in scena.
Di fronte ai molteplici tentativi dell’arte contemporanea di superare
i confini museali viene allora da chiedersi se l’arte possa realmente
prescindere dal museo o se piuttosto quest’ultimo non rimanga comunque l’esito obbligato di qualsiasi processo creativo, ovvero il luogo dove, come diceva Pierre Restany, continua a compiersi il battesimo artistico dell’oggetto.
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Dan Flavin, installazione luminosa a Santa Maria
in Chiesa Rossa, Milano
Richi Ferrero, Lucedotto, instalalzione luminosa
per Luci di artista, Torino
Hanish Kapoor, Installazione nella Domcircke, Graz
Hanish Kapoor, Installazione nella Domcircke, Graz
Franco Purini, Billboards
per la mostra Arti e Architettura, Genova 2004
Una delle testate del Museo dell'immagine
nel quartiere di Librino, Catania
Mimmo Paladino, Montagna di sale,
Piazza del Plebiscito, Napoli
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Franco Cardullo
Architettura come ammonimento
Il significato simbolico dell’architettura
Il monumento è forse l’unico momento in cui correttamente e propriamente arte e architettura si sovrappongono e coincidono nelle intenzioni e negli obiettivi. Questo famosissimo passo di Adolf Loos è
molto eloquente: ‘La casa deve piacere a tutti. A differenza dell’opera
d’arte, che non ha bisogno di piacere a nessuno. L’opera d’arte è una
faccenda privata dell’artista. La casa no. L’opera d’arte vien messa al
mondo senza che ce ne sia bisogno. La casa invece soddisfa un bisogno. L’opera d’arte non è responsabile verso nessuno, la casa verso tutti. L’opera d’arte vuole strappare gli uomini dai loro comodi. La
casa è al servizio della comodità. L’opera d’arte è rivoluzionaria, la casa è conservatrice. L’opera d’arte indica all’umanità nuove vie e pensa all’avvenire. La casa pensa al presente. L’uomo ama tutto ciò che
serve alla comodità. E odia tutto ciò che lo molesta e vuol strapparlo
alla posizione che ha raggiunto e che si è assicurata ed è per questo
che ama la casa e odia l’arte. Dunque la casa non avrebbe niente a
che vedere con l’arte, e l’architettura non sarebbe da annoverare tra
le arti? Proprio così. Soltanto una piccolissima parte dell’architettura
appartiene all’arte: il sepolcro ed il monumento. Il resto, tutto ciò che
è al servizio di uno scopo, deve essere escluso dal regno dell’arte’.1
Dunque solo il sepolcro ed il monumento, come tipologie e forme
architettoniche, appartengono all’Arte, in quanto sono espressione di
una finalità simbolica fanno cioè riferimento a contenuti altri, o metaforici, o simbolici, o allegorici.
Loos parla di Sepolcro e Monumento, cosa definiamo e per cosa si
differenziano, se si differenziano, questi due termini? Monumento è
per la lingua italiana: ‘Opera di scultura o di architettura innalzata per
ricordare personaggi, o avvenimenti di grande rilievo. Anche sepolcro
di notevole imponenza. Dal latino, monumentum, dal verbo, monere,
‘ammonire’, spiega la funzione più antica del monumento come ‘monito’, ‘ammonizione’ da parte del potere, ‘ricordo’, per testimoniare la
sua forza e potenza (si pensi alle piramidi)’.2
Ancora, monumento, per una delle enciclopedie d’arte, è: ‘In un
senso generalissimo ogni avanzo di epoche trascorse che per interesse documentario o qualità artistiche si configura quale duratura presenza di uomini, eventi culture civiltà lontane nel tempo, indipendentemente dalla sua destinazione e dalla volontà originaria di affidare ad
esso un ricordo. L’idea di affermare e tramandare certe azioni umane
attraverso segni appariscenti e durevoli è universalmente diffusa. Volontà di affermare, esaltare, divulgare il nome ed il prestigio di personalità divine ed umane, o di istituzioni e di idee religiose o politiche,
anche e soprattuttto nel presente. I monumenti possono essere o funerari (per la morte, come contrassegno ed ornamento alla sepoltura), o onorari-celebrativi (per ricordare le opere di cittadini illustri, oggetto di onore e di stima, per rispetto del valore o del merito di qualcuno), o storico-commemorativi (per ricordare fatti o episodi, in forma solenne, per celebrare eventi, storie)’.3
Ed infine, per una delle enciclopedie di architettura, monumento è:
‘Struttura architettonica, generalmente di valore artistico, eretta per
onorare la memoria di un personaggio o di un avvenimento storico di
grande rilievo; per estensione, ogni testimonianza lasciata dalla civiltà del passato. Diffuso è anche un uso restrittivo ad opere caratterizzate da una particolare destinazione. Si individuano tre categorie: i
monumenti funebri, i monumenti onorari-celebrativi, i monumenti storico-celebrativi. Nel concetto di monumento è reperibile la coscienza
di una finalità civile che in epoca neoclassica è particolarmente sentita. La produzione di monumenti presenta alcune caratteristiche: grandiosità, enfasi descrittiva, accentuazione iperbolica delle forme da cui
deriva il monumentalismo’.4
Famosissimi maestri del novecento hanno trattato il tema del monumento come ricordo e come ammonimento, non solo nel senso legato alla morte cioè al sepolcro, descritto efficacemente da Adolf Loos, a cui ritorniamo per un altro pezzo notissimo: ‘... L’artista deve essere al servizio solo di se stesso, l’architettura della società ... Arte applicata è un termine orrendo e sbagliato. L’artista lavora per fare gli
121
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uomini più simili a Dio, l’artigiano no, lavora per la comodità. Costruire con gusto non è un merito ma solo un buon, normale, senso di civiltà, anche antica, che non ci tramandano il nome degli autori di innumerevoli case di civile buon gusto ... Se in un bosco troviamo un tumulo, lungo sei piedi e largo tre, disposto con la pala a forma di piramide, ci facciamo seri e qualcosa dice dentro di noi: qui è sepolto
qualcuno. Questa è Architettura ...’;5 ma anche nel senso politico di
giudizio, di condanna e di speranza verso ideali alti dell’uomo: la pace, la democrazia, la libertà, il progresso.
Sono monumenti con qualità e specificità spaziali, anche se a volte in forma di scultura, di elemento plastico da osservare dall’esterno
ed attorno a cui girare, ma con una forte identità architettonica e non
figurativa, tale da divenire a volte icona o paradigma di un linguaggio
o di un movimento architettonico; altre volte invece concependo degli
spazi da attraversare, dentro cui entrare, da abitare, che hanno anche
una funzione, se pur minima o ridotta: spazi per meditare, spazi per
riflettere, spazi per ricordare. Penso a Mies van der Rohe, a Tatlin che
era un’artista, ma ha progettato una torre architettonica, a Terragni, a
Peressutti, a Kahn, a Barragan, a Le Corbusier, Niemayer, ed infine
ad Eisenman. Sono monumenti notissimi realizzati con i materiali specifici dell’architettura: recinti, muri, pilastri, travi, solai, spazi e vuoti.
Il rinnovamento della città passa, certamente, dalla capacità di soddisfare bisogni nuovi, sempre mutevoli, ma anche dalla capacità di fissare valori, di rendere visibili ed eterni principi, regole, comportamenti, identità, storie vissute.
Non ci può essere città storica senza traccia di monumenti moderni, cioè di storie moderne che come un palinsesto si affiancano a tutte le altre della storia passata. Così come non si potranno mai costi-
1.
2.
tuire nuovi paesaggi urbani, nuove città, o semplicemente sviluppare
nuove espansioni, o migliorare la qualità di periferie recenti di città,
senza pensare a monumenti come forme architettoniche di identità e
qualità degli spazi urbani.
Non si tratta di collocare in un giardinetto, o in un angolo di una
piazza, o su un largo marciapiede una opera d’arte, progettata o realizzata da un artista, o da un architetto per abbellire, come un valore
aggiunto, la città. No, è lo spazio urbano tutto, tessuto viario, slarghi,
piazze, architetture istituzionali, servizi e residenze, che determina
l’effetto-città e che accoglie il monumento come fondamentale parte
integrante, eccezione in sé ma omogeneo a questo complesso sistema, che assolve al compito di simboleggiare un ricordo, una persona,
una storia, un valore, a tutti gli abitanti di quel luogo.
Se il monumento viene realizzato ed ha un senso in regioni come
l’America, la Francia, la Germania dove la civiltà e la democrazia hanno un peso ed un valore evidente, a maggior ragione in aree geografiche come il sud d’Italia dove l’architettura può ancora dare un valore civile e quindi un contributo al progresso ed al rinnovamento dei
luoghi delle città meridionali.
1. Loos, Adolf, ‘Architettura’, 1910; in: Loos, Adolf, Parole nel vuoto, Milano, Adelfi, 1972,
pp. 241/256.
2. Gianni, Angelo, Dizionario italiano ragionato, Firenze, D’Anna, 1988, pag. 1.158.
3. Assunto, Rosario, voce ‘monumento’ in Enciclopedia Universale dell’Arte, vol.IX, Firenze, Sansoni, 1963, coll. 623/651 e 651/655.
4. AA.VV. Enciclopedia dell’Architettura, Milano, Garzanti, 2001, pag. 550.
5. Loos, Adolf, op. cit., pag. 255.
3.
Progetto: La discesa agli Inferi e la Risalita,
Piazza in ricordo delle vicende Siciliane del novecento,
con il pittore Luigi Ghersi, 1998.
1. Schizzo di studio dell’impianto planimetrico
dei due livelli: ipogeo il cunicolo della Caduta,
fuori terra la Piazza ed il Giardino della risalita.
2. Sezione di una delle sale del cunicolo
cui corrisponde una luce della storia nella Piazza.
3. Il Minotauro, lungo il cunicolo della Caduta.
4. Il Duo, nello snodo tra la Piazza ed il Giardino.
5.
6.
123
4.
Progetto di Concorso per le Cinque Piazze a Catania,
2005
5. Studi per il memoriale alle Vittime della Mafia
nella Piazza Michelangelo.
6. Il memoriale alle Vittime della Mafia al centro
della Piazza.
7. Prospettiva dell’interno del memoriale.
7.
Jorge Cruz Pinto
Fra l’architettura e la pittura
124
Divido la mia attività fra l’architettura, l’insegnamento dell’architettura e la pittura. Nel mio percorso personale l’architettura e la pittura
sono attività parallele che a volte si contaminano mutuamente; costituiscono esperienze e stimoli reciproci, sebbene non sempre cerchi ti
stabilire una relazione diretta fra queste due. Architettura e Pittura utilizzano, a livello del processo della concezione, dell’espressione, dell’esecuzione, il disegno, lo spazio, la geometria, la luce e il colore secondo le dimensioni della tela, del croquis o del modello tridimensionale, servendosi di schematismi e di codici analoghi.
Condivido la produzione architettonica con l’architetto Cristina Mantas, mia sposa, mentre la pittura è una attività solitaria a cui mi dedico da prima ancora di aver iniziato la carriera dell’architettura.
L’attitudine surreale
Il surrealismo mi ha svegliato una forma di accensione poetica nel
processo dell’immaginazione produttrice, ricorrendo all’uopo agli
aspetti simbolico-figurativi, comprendendo fondi latenti dell’immaginazione - i contenuti mitici, onirici, incoscienti e meta-razionali - che mi
hanno concesso una libera e sincronica associazione di poetica di immagini, di contesti e sensi differenziati, conducendomi al processo
creativo. Mi ha aperto al mistero, che a mio parere deve essere presente in tutte le opere di architettura. Queste strategie sono state successivamente trasferite all’architettura.
La serie di pitture con pendoli e fili a piombo in distinte posizioni
trattano di gravità e tettonica. La gravità è una legge che abbiamo cercato di superare utilizzando artifici tettonici che danno la sensazione
di apparente leggerezza o sospensione quanto più potente e pesante sembri l’oggetto che fluttua.
Sotto l’influenza dell’attitudine surreale trasferita all’architettura, ho
iniziato il progetto della Praça de touros de Cuba (1992), per una specie di ‘scrittura automatica’: ho disegnato tori, toreri, minotauri e labirinti in spirali, dalle quali nascono le proposte architettoniche.
Ho visitato diverse piazze in Portogallo e Spagna. Lì ho avuto, per
la prima volta, la coscienza dell’intervallo minimo che separa la vita
dalla morte, nel momento in cui ho visto il forte toro cadere in ginocchio, macchiando di sangue la sabbia dell’arena, come un’immagine
pittorica. Da allora, sono riuscito a capire per la prima volta la corrida,
a partire dal puro senso estetico.
Il ricorso poetico alla fantasia mitica e alla metafora - mediante la
tematica del Labirinto e del Minotauro, esplorata in parallelo attraverso la pittura - hanno portato a concepire l’edificio intenzionalmente segnato dalla spirale e dalla copertura in forma di luna crescente o di
corna di toro. La metafora mi ha consentito di immaginare l’oggetto attraverso un altro, estrapolato da un contesto completamente distinto,
per analogia formale.
Il luogo dell’impianto della piazza, sul piano del paesaggio dell’Alentejo in Cuba, ha determinato un’altra motivazione convergente
con i propositi poetici formali della spirale e della copertura a forma di
luna crescente o corna di toro, come una macro scultura che fluttua
sulla piazza, la cui presenza, in termini di land art, cerca di definire
un’icona che segna la grande pianura.
L’impianto ha obbedito a orientamenti simbolici-cosmologici; la forma circolare è segnata da otto (punti cardinali) assi radiali corrispondenti alle porte di accesso alla piazza; il bianco domina tutto il corpo
dell’edificio, tuttavia, il rosso sangue diventa un elemento fondamentale, associato alla festa, e copre tutto il perimetro del cilindro come
una fortificazione ad anello.
L’attitudine espressionista
L’incursione nella pittura espressionista astratta mi ha condotto ad
un’esteriorizzazione e ad una comunicazione dinamica delle emozioni, come un movimento dall’interno verso l’esterno che porta ad una
relazione empatica con l’immagine, nel senso di forme plastiche di carattere organico, antropomorfico e cristallomorfico, espresse nelle li-
nee dinamiche, sensuali, gestuali e con effetti spaziali di cromatismi e
di luce.
La trasposizione all’architettura mi ha concesso di sviluppare alcuni progetti cercando esplorazioni plastiche più libere, come è il caso
del Centro culturale de Vila Alva (1989) dedicato a diversi usi - sala da ballo e feste, palestra, cine-teatro ... In esso si esprime il concetto di spazio-limite: dalle apparenze dei distinti strati di rivestimento e
dei colori all’emergenza dei loro successivi contenitori dentro contenitori, fino alla latenza delle forze empatiche che si stabiliscono con
l’utente. Il contenitore esterno bianco si adatta alla forma residuale del
lotto, contenendo dentro di sé la forma organica rivestita di ceramica
azzurra come una pelle squamata che segna l’atrio delle scale sospese. Dentro, il salone è come una cavità uterina satinata e rossa, con
uno sviluppo a spirale definito dalle pieghe del balcone e del cornicione; in fondo alla scena si apre una grande finestra come un quadro
verso i tetti del villaggio.
Ancora sotto l’influenza espressionista è il Pavilhão Desportivo de
Cuba (Padiglione Sportivo di Cuba 1992-2003). Questo progetto parte da un’attitudine intenzionalmente espressionista cristallomorfica.
Espressione e ragione formano i concetti fondamentali del progetto.
Localizzato fra la pianura e i limiti del villaggio di Cuba, il padiglione
sportivo, con i suoi espressivi muri rotti e scaglionati, modella la luce
e abbraccia il grande scatolone bianco razionalizzato e perforato del
recinto dei giochi, che emerge dal complesso su di un portico. Nei muri rotti c’è un’estesa fessura orizzontale con più di 150 metri di lunghezza sulla fortificazione, di un azzurro violaceo che accentua la dimensione orizzontale e fluida del paesaggio rurale che inquadra, dall’interno.
L’attitudine concettuale
La preventiva formulazione di idee consente, da un lato, un distacco dal figurativo, richiamando una ragione concettuale che manipola
le operazioni mentali fondate su concetti filosofici astratti, su luce, materiali, tecniche e metodi pragmatici, come lo sono i quadri di specchi
e bucature, dove la tela si compone con squarci quadrati. In essi si
stringe la relazione con l’architettura mediante la creazione di distinti
spazi-limite in profondità fino al vuoto e allo spazio interno antistante
al quadro, materia e tessiture da dove l’osservatore penetra all’interno del quadro attraverso l’inclusione di specchi. Lo spazio apparente
resiede negli effetti epidermici dei cromatismi, delle tessiture, dei
tromp-l’oeil e degli specchi. Lo spazio emergente è la dimensione carnale della materia e delle forme rappresentate e lo spazio dell’osservatore ove questo si trova e, a partire dal quale, si riflette nel mondo
dell’apparenza. Lo spazio trascendente corrisponde al vuoto della bucatura quadrata. Lo spazio latente è il territorio degli schemi, dei tracciati geometrici invisibili e il campo dinamico dell’intercambio di forze,
connessioni e sguardi, è lo spazio interattivo fra soggetto e oggetto.
L’incursione della pittura di tendenza più concettuale in relazione all’osservatore mi ha consentito di fare trasposizioni verso l’architettura
prendendo spunti dai princìpi materiali, programmatico-funzionali, bioclimatici, tecnico-strutturali…
In tal senso ho creato delle para-architetture - pitture quasi o immaginariamente abitabili, di vuoto metafisico e che si trovano in un territorio di confine fra pittura, scultura e architettura. Queste opere esplorano intenzionalmente la relazione con lo spazio-limite, il tema della
soglia come confine di separazione, unione e trasposizione metafisica.
Nella Chiesa di Albergaria dos Fusos (1989), con Vitor Figueiredo, abbiamo esplorato il tema della metafisica della luce, attraverso
un meccanismo di occultazione prodotto nella sezione dell’edificio
che la fa entrare direttamente per riflesso. Nel piccolo tempio voltato
a pianta quadrata centrale, la cupola quadripartita è appoggiata su
quattro pilastri ed è mediata da una lanterna circolare che la fa fluttuare occultando l’origine della luce all’interno, come manifestazione simbolica di una Assenza Presente.
Un altro tema della pittura intenzionalmente trasferita all’architettura è il progetto della Cappella Mortuaria di Vila de Frades (1997),
con Yago Bonet e Cristina Mantas. Il rituale della passeggiata trascendente rappresenta il motivo principale, nella successione di spazi, attraverso il Requiem di Mozart, tradotto in bucature luminose. Nelle facciate longitudinali si riproduce il cammino del viaggio dell’anima,
a partire dalla trasposizione di due dipinti all’opera architettonica: labirinto e corridoio di luce. L’inizio del viaggio è segnato da un labirinto che culmina in un quadrato vuoto e buio che simbolizza la traiettoria della vita fino alla morte, secondo l’orientamento a ponente e, nella parete opposta, sorge un corridoio in tromp-l’oeil che culmina in una
bucatura luminosa costituita da una finestra situata ad oriente, che
simbolizza il mistero oltre la morte.
Fra le trasposizioni concettuali metaforiche c’è il progetto per la
Scuola da Ameijeira em Lagos (2000), la cui ispirazione scaturisce
dalle annotazioni musicali di Brian Eno nella partitura di Neroli, convertite in ritmi di bucature luminose nel corridoio curvo che contorna il
patio interno, intorno al quale si dispone l’edificio. Come è noto, sono
molteplici le relazioni fra la musica e l’architettura: dal comune lessico - composizione, scala, ritmo, armonia ... - al fatto che entrambe sono arti del limite, che conformano ambienti, come ha riconosciuto Eugenio Trias.
Infine, tornando alle para-architetture/pitture, immaginariamente
abitabili, dell’elogio al vuoto, esse esplorano intenzionalmente la relazione con lo spazio-limite come soglia di separazione, unione e trasposizione metafisica.
As Portas de Santiago (2002), nelle diverse versioni; i Portais I,
II e III (2003) e i polittici, costituiti da colori industriali ossidabili su te-
125
la cruda, rappresentano una composizione irregolare di uno spazio
architettonico. Il tema del limite è trattato anche nei trittici con i poliedri platonici pieni che si aprono, dalla materia più fenomenica costitui-
ta da polvere di marmo, ai poliedri più eterei, alla maniera di Leonardo da Vinci. Sono, questi, temi che continuo a indagare nel mio studio e che costituiscono spazi di vuoto e di assenza.
(Traduzione dal portoghese di Maria Cristina De Cicco)
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Igreja de Albergaria dos Fusos
Centro Cultural de Vila Alva
Pavilhäo gimnodesportivo de Cuba
Centro Cultural de Vila Alva. Interior
Pavilhäo gimnodesportivo de Cuba. Átrio
Capela Mortuária de Vila de Frades
Escola da Ameijeira, Lagos
Tríptico, Porta de Santiago I, técnica mista e espelho
sobre tela, 2001 (1.00 x 1.60 m)
Praça de Touros de Cuba
Tríptico, Porta de Santiago II, técnica mista e espelho
sobre tela, 2001 (1.00 x 1.60 m)
Tríptico, Icosaedro cheio vazio, técnica mista
sobre tela, 2003
Tríptico, Porta de Santiago III, técnica mista e espelho
sobre tela, 2001 (1.00 x 1.60 m)
127
Massimo Fagioli, Paola Rossi
Palazzetto bianco1
Breve nota a margine del progetto
128
Il ‘palazzetto bianco’ è frutto di uno strano connubio tra uno psichiatra e un architetto: Massimo Fagioli, noto psichiatra ed artista, autore
dell’immagine e Paola Rossi, architetto, qui volutamente nel ruolo di
interprete.
Il progetto fa parte di una ricerca collettiva culturalmente unica che
ha indagato sulle radici del processo creativo in architettura e delineato un itinerario ricco di suggestioni tra architettura e linguaggio. Gli oltre settanta progetti, realizzati da architetti italiani su idee e disegni di
Massimo Fagioli nel corso della ricerca, sono pubblicati sul catalogo
‘Il coraggio delle immagini’ e sono stati esposti in una mostra inaugurata da Oriol Bohigas a Barcellona nel 1994 e allestita successivamente in varie capitali da Tunisi a Praga, da Roma a Osaka e Tokio.
Il ‘palazzetto bianco’ , progettato nel 1990, vede la luce soltanto nel
2005, a causa di interminabili e complesse problematiche urbanistiche e giuridiche.
Il progetto prevede due prospetti sostanzialmente differenti: l’uno,
sul fronte strada, segnato esclusivamente dall’apertura delle finestre
e dall’entrata, corrisponde alla zona notte; l’altro, che affaccia sul pendio trattato a verde, costituito da una superficie completamente finestrata, solcata da terrazze continue lungo tutto il suo sviluppo longitudinale e progressivamente aggettanti dal basso verso l’alto, corrisponde alla zona giorno.
L’edificio si colloca in un ultimo tassello edificabile a completamento di un pezzo di città definito dal vecchio piano regolatore di Roma
‘zona edificabile a villini e palazzine’. In questo senso il progetto doveva necessariamente corrispondere all’impianto della tipologia a palazzina, che si impose a Roma nei primi decenni del 1900 e disegnò,
per sommatoria, tutti i quartieri della Roma moderna.
Mi piacerebbe che questa piccola opera di architettura residenziale prima o poi riuscisse a dimostrare che la qualità può essere diffusa
e non perseguita esclusivamente nelle grandi opere pubbliche, occasioni che, peraltro, i nostri amministratori gestiscono con la malcelata
convinzione che solo quegli architetti che sono riusciti ad emergere
come personaggi solitari possono realizzare l’architettura ‘di qualità’
... Siamo sempre alla solita separazione tra il Palazzo del Principe e
le ... baracche per ripararsi dal freddo e dalla pioggia!
L’ideazione e il progetto
I riconoscimenti, da parte di tutti, del valore e del pregio dell’edificio, evidentemente tendono a sottolineare l’artisticità dell’immagine di
Fagioli e riconoscere la validità dell’elaborazione-interpretazione dell’architetto.
In questo senso si potrebbe affermare che l’opera è riuscita in
quanto è riuscita l’operazione e la ricerca di separare il momento dell’ideazione da quello della progettazione, per poi ricomporli in un’immagine intera e definita nella quale potrebbe essere impossibile individuare i contributi dell’uno e dell’altra.
Resta da parte mia l’ammissione del ‘furto’ e la mia ‘autodenuncia’
è rivendicazione del diritto ad una libera ricerca di immagini ed ispirazioni al di fuori di ogni accademia e insieme liberazione da ogni senso di colpa ma, soprattutto, è il riconoscimento della bellezza delle immagini dell’altro!
1. ‘Palazzetto bianco’ ®
L’opera denominata ‘Palazzetto bianco’ è iscritta nel Registro Pubblico Generale delle
opere protette del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Le foto n. 1, 2, 3 sono dell’arch. Riccardo Morchella.
La foto n. 4 è di Andrea Calabresi
1.
Planimetria
129
2.
3.
4. Plastico
‘Palazzetto bianco’
di Massimo Fagioli e Paola Rossi
anno di progetto:
anno di realizzazione:
Credits
Committente
ideazione
progetto
località
1990/1991
2004/2005
privato
Massimo Fagioli
Paola Rossi
via di S. Fabiano,
Piccolomini, Roma
collaborazioni:
al progetto
F. Bliek
alle elaborazioni grafiche F. Bliek, L. Bocchini
fotografie
Claudio Palmisano
Andrea Calabresi
Riccardo Moschella
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Scheda tecnica
Superficie del lotto
area di sedime
superficie coperta f.t.
parcheggio interrato
area libera
di cui a verde
volume
Pianta - sezione
mq 895,14
mq 166,00
mq 825,99
mq 538,23
mq 729,14
mq 675,14
mc 2682,59
Pubblicato in
Il coraggio delle immagini, Catalogo della mostra,
Nuove Edizioni Romane (1994, reed 1995)
L’Arca n. 84, Redazionale, ‘Una nave metropolitana’,
Arca Edizioni (1994)
Controspazio n. 6, ‘Il palazzetto bianco’, Cangemi
Editore (1995)
Controspazio n. 2, ‘Il palazzetto bianco’, Cangemi
Editore (1996)
C. Piccioni in, L’architettura e la morte dell’arte, N.E.R.
(1996)
S. Facchini in, Immagine della linea, N.E.R. (1998)
Esposto in
Mostra collettiva di Architettura
Il coraggio delle immagini
con il patrocinio del Ministero degli Affari Esteri:
Barcellona
1994
Madrid
1994
Tunisi
1994
Malta
1995
Atene
1995
Praga
1995
Roma
1996
Napoli
1996
Firenze
1996
Mumbai
1997
New Delhi
1997
Singapore
1997
Tokio
1997
Osaka
1997
Kioto
1997
Moduloquattro Architetti Associati
Fabrizio Ciappina, Giuseppe Fugazzotto, Antonello Russo, Gaetano Scarcella
I musei dall’iperconsumo al racconto metropolitano1
La città dell’arte
Non più destinati alla fruizione esclusiva di un pubblico ristretto di
esperti, appassionati e addetti ai lavori, i musei d’arte contemporanea
si fanno oggi interpreti di quella ‘totalità artistica’ che pervade la società occidentale e che fa dell’arte stessa un bene di consumo.
Una serie di fattori perturbanti tendono a confutare l’opportunità di
ritrovare nell’edificio museale l’approdo naturale della ricerca artistica.
Sembra, infatti, che i processi artistici e l’arte stessa fuoriescano dai
consueti ambiti istituzionali per invadere ogni aspetto del mondo fisico e della vita individuale e sociale. In realtà, nonostante tale volontà
dell’arte e degli artisti, il museo si è confermato nella sua finalità tradizionale come esito obbligato di qualsiasi percorso creativo.
Si stabilisce, così, la premessa per la progettazione a Roma2 di un
museo inteso ancora come manufatto, capace altresì di interpretare
in termini innovativi le istanze della società contemporanea.
Segno identitario dei nuovi musei sembra essere l’instabilità insediativa. I Musei dell’Iperconsumo appaiono come presenze singolari
distribuite geograficamente secondo precise gerarchie, espressione
di rapporti di forza interni al circuito globale dell’arte. Essi rifiutano
spesso di intessere rapporti con il luogo che li ospita divenendo, in tal
senso, la rappresentazione più efficace del carattere erratico della
ricerca artistica. Allo stesso tempo però, tali edifici, creano altrettante
centralità, al punto che l’immagine di una intera città può essere racchiusa in un museo.
Facendosi interprete di questa condizione instabile, l’edificio progettato si sospende dal suolo irrompendo nel paesaggio romano come
nuova icona della contemporaneità. Nodo significativo di una rete globale di luoghi, il nuovo museo vuole essere tuttavia elemento di ridefinizione di un brano della periferia romana, per questo si è scelto di collocarlo all’esterno del sistema urbano consolidato, nell’area di Massimina,
in uno dei tipici paesaggi ibridi che contraddistingue la città contemporanea. Immerso in tale contesto il fuoriscala museale si fa misuratore di
differenze e argine di una incontrollata espansione urbana.
Il museo si configura oggi come un edificio ibrido il quale incorpora
un frammento consistente di centro commerciale.
All’interno della macchina progettata, arte e consumo, pur mantenendo una forte interdipendenza, vengono separati. Zolle artificiali
sostengono la struttura museale ospitando, al proprio interno, spazi
commerciali di grandi dimensioni. Le attività commerciali si pongono,
così, a sostegno strutturale e concettuale dello spazio espositivo. Una
torre telematica sancisce, poi, la centralità della comunicazione
mediatica. La sua superficie alloggia monitor giganti che diffondono
nella periferia romana i contenuti artistici del museo.
Il museo contemporaneo appare sostanzialmente dissociato.
Relativamente tradizionale nella sua struttura funzionale, esso concentra tutte le sue potenzialità innovative sul piano della forma facendosi opera d’arte esso stesso.
La riflessione progettuale è entrata nel merito di questa aporia. Un
grande open space sancisce la definitiva dissoluzione della struttura
distributiva del museo classico, rendendosi disponibile ad ospitare
una grande varietà di allestimenti e performance artistiche. Sospesi
nel vuoto, volumi cubici di 7,20 m di lato, ospitano padiglioni espositivi e laboratori per artisti.
Lo spazio espositivo ricorda l’interno di una fabbrica, i collegamenti verticali mutuano dai viadotti l’immagine di infrastrutture di trasporto: metafora della complessità urbana, l’organismo espositivo vuole
ricreare al proprio interno la pericolosità della città contemporanea.
1. Il progetto presentato è stato redatto in occasione di una consultazione ad inviti dedicata al tema dei Musei dell’Iperconsumo. Questa esperienza ha visto come organizzatori Franco Purini, Pippo Ciorra e Stefania Suma, per l’Accademia Nazionale di San
Luca, Mirella di Giovane, per il Comune di Roma (Assessorato alle Politiche per le
Periferie, lo sviluppo Locale, il Lavoro) e Margherita Guccione, per la DARC (Direzione
Generale per l’Architettura e l’Arte Contemporanea).
2. La consultazione richiedeva ai sette gruppi invitati una riflessione sulla struttura
museale della città di Roma e una possibile applicazione progettuale da individuare in
ambito periferico.
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Laura Thermes
Architettura, pittura e scultura in un esempio ravennate
134
Un edificio può senz’altro possedere aspetti plastici, anche consistenti, ma tali valori non sono esattamente quelli espressi da una scultura vera e propria. In quelle che Germano Celant ha chiamato archisculture intervengono infatti alcune circostanze che introducono in esse temi che non sono presenti nelle sculture propriamente dette.
Queste circostanze sono di tre tipi. Il primo discende dall’abitabilità
stessa dell’architettura. Questa essenziale componente dell’edificio,
da intendere in senso lato, ma senza la quale esso non avrebbe motivo di essere realizzato, produce una serie di esigenze funzionali che
si traducono in altrettanti segni, i quali entrano in una relazione complessa e spesso conflittuale con il dato puramente volumetrico del
manufatto. Sono, in modo particolare, le bucature che conferiscono a
una costruzione un carattere seriale dando vita a una superficie fittamente strutturata che si distende sul volume contraddicendone fino in
fondo l’unità concettuale ed estetica. Come se fosse tatuato il manufatto si ricopre necessariamente di una fitta trama di finestre, di fenditure, di brise-soleil, di tettoie, che sottraggono progressivamente chiarezza plastica all’insieme. Il secondo tipo di circostanza ostativa rispetto a una piena plasticità dell’architettura riguarda la dimensione
tettonica dell’edificio. La macchina statica che consente la firmitas si
esplica infatti in una successione di elementi portati, portanti e delle
loro connessioni, anche minute e visibili solo a distanza ravvicinata.
Questo sistema di parti costruttive e delle giunzioni che le uniscono entra in collisione, anche in questo caso, con la forma del manufatto intesa come un involucro virtualmente astratto, continuo e soprattutto monomaterico. Il terzo tipo di circostanze che si oppone alla
totale identificazione di un edificio con una scultura si riconosce nelle
logiche progettuali determinate dal contesto. Dovendo interagire con
un sistema di tracce - preesistenze, percorsi, accessi, dislivelli - l’edificio finisce necessariamente con il contaminare la sua potenziale plasticità autonoma, accettando quei segni che permettono ad esso di
relazionarsi con l’intorno. Sintetizzando quanto esposto finora, si può
sostenere che l’essere l’edificio - in ogni caso - un corpo, esso consente senz’altro di essere composito, vale a dire fatto di parti avverse, ma solo fino al punto in cui questa molteplicità di elementi, di tessiture e di materie permette di riconoscerlo ancora come qualcosa di
unitario e di omogeneo. Considerazioni analoghe a queste appena
enunciate possono essere fatte sulla presenza nell’edificio di valori
pittorici. In questo caso bucature, campiture materiche, eventuali
scritte e insegne trasformano le facciate del manufatto in altrettanti
quadri. Quadri in modo traslato, in verità, perché manca a tali segni
un’autentica intenzionalità pittorica, anche perché essi sono il tramite
di alcune funzioni e della loro comunicazione. In altre parole solo sul
piano della pura analogia si può pensare a una facciata come a una
tela. Un’analogia che è sicuramente importante, ma che non può in alcun modo superare i vincoli di un’allusività tematica e di parallelismo
metaforico, senza poter stabilire una vera somiglianza strutturale. Da
ciò che si è detto in questo paragrafo risulta che l’artisticità dell’architettura non può che essere un’artisticità ibrida, nella quale gli aspetti
plastici e pittorici sono attraversati, riequilibrati e contraddetti da fattori eminentemente costruttivi, nei quali gioca un ruolo determinante la
scala costruttiva di un edificio, sempre rilevante per grandezza e complessità se paragonata ad esempio a quella della scultura.
Nell’Edificio Kubo di Ravenna, un piccolo volume per uffici progettato con Franco Purini nel 1997 e ultimato nel 2005, le tematiche
esposte all’inizio di queste note sono trattate in modo diretto e con
una esplicita intenzionalità dimostrativa. In esso i valori plastici convivono con quelli architettonici riportandosi comunque alla natura del
fatto costruttivo, in un’attenta ricerca di una nuova formulazione della
specificità dell’azione edificatrice. In questo senso ciò che si è cercato di esprimere è la compresenza di una pluralità di dimensioni figurative nel tentativo di intercettare e di rappresentare i confini tra linguaggi contigui ma autonomi.
Schizzi preliminari
Il manufatto - detto anche la ‘Casa con la colonna’ - chiude una
nuova piazza progettata dall’architetto Carlo Maria Sadich. Questo invaso rettangolare è lo spazio centrale e più rappresentativo di un vasto intervento di densificazione urbana articolato in diversi edifici. Il
nuovo complesso, che instaura un dialogo attento con le preesistenze, è posto in contiguità con il quartiere Anic, costruito negli anni sessanta dagli architetti milanesi Marco Bacigalupo e Ugo Ratti. Giacitura e involucro dell’edificio erano prescritti. Il progetto ha recepito la già
prevista geometria dell’impianto sottoponendo però a una notevole
tensione topologica la pianta quadrata di metri 16,50 di lato e il suo
sviluppo cubico. La composizione si configura volumetricamente come la semplice sovrapposizione di quattro livelli suddivisi in un piano
terra destinato a negozio e in tre piani di uffici scanditi da finestre quadrate e da aperture a nastro. Il piano basamentale è tagliato da un
muro che contraddice l’assolutezza planimetrica del quadrato. Oltrepassata la mezzeria della pianta tale setto, forato da una serie di porte rettangolari la cui metrica, indipendente rispetto al ritmo delle bucature che strutturano la facciata crea un effetto scorrente, sale fino al
primo piano. La doppia altezza che ne risulta è materializzata da una
colonna - il primo elemento di un virtuale ordine gigante interrotto che si apre alla sommità in una sorta di capitello. Essa ha il valore di
verticalizzare una delle linee modulari della pavimentazione, costituendo nello stesso tempo un forte accento spaziale in sintonia con la
scala della piazza. Questo deciso segno plastico, posto a un angolo
del volume, oltre a esprimere una energica dissimmetria, produce una
sorta di incidente tettonico che perturba visivamente l’ordine costruttivo dell’edificio, introducendo in esso una nota di apparente instabilità.
L’ingannevole trauma statico, messo in scena dal protendersi dello
spigolo sul suo sostegno genera una potente ombra sul prospetto
confermando per contrasto, e insieme rafforzando, l’inevitabilità e la
centralità della categoria tettonica nell’architettura. Oltre ai valori plastici ai quali si è fatto riferimento l’Edificio Kubo, parzialmente rivestito in mattoni, possiede anche valori pittorici, identificati nell’alternanza tra intonaco e laterizio e nell’impaginato delle finestre, che determinano una composizione parietale dal sapore dinamico e in un certo senso aleatorio. Il traliccio lanciato verso il cielo, ideale prolungamento della grande colonna intonacata, ha un suo precedente iconico, fatta salva la differenza di scala dimensionale, nel braccio alzato
della Statua della Libertà di New York, figlia di una famosa, analoga
figura dipinta. La ‘Casa con la colonna’ rappresenta l’approfondimento di due progetti del 1987, il progetto per la Casa Proietti a Terni e
quello per Fermata d’Autobus di Poggioreale, in Sicilia, realizzata nel
1990, che proponevano due temi, entrambi immessi in un energico
contesto plastico-pittorico: l’infrazione tettonica e l’errore compositivo
premeditato.
L’ ‘Edificio Kubo’ è un’architettura nella quale la dialettica tra plasticità, pittoricità e segni specifici dell’architettura è particolarmente vivace. Esso costituisce una dimostrazione, che si spera convincente, della necessità che il rapporto tra l’arte e l’architettura si iscriva in una
considerazione dei limiti del genere artistico in cui si agisce. Limiti da
intendere non in senso negativo cercando conseguentemente di superarli attraverso una commistione sostanzialmente impropria di linguaggi, ma accettandoli come emblemi positivi di un lessico che solo
restando nei propri confini - esplorando beninteso altri idiomi e facendosene contaminare - può costantemente rigenerarsi trovando ogni
volta nuove finalità semantiche compatibili con la sua essenza originaria.
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Edificio per uffici Kubo a Ravenna
Progetto, 1997
Collaboratori
Progetto esecutivo, 1998
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Collaboratori
al progetto esecutivo
Realizzazione Impianti
Strutture
Costruttore
Direzione dei Lavori
Collaboratori DL
Consulenza scientifica
Committente
Localizzazione
Pubblicazioni
Franco Purini e Laura Thermes
Anne-Sophie Nottebaert, Simona De Giuli
Franco Purini e Laura Thermes
con arch. Carlo Maria Sadich
Walter Biancucci, Armando Casali, Roberta Barboni, Cristina di Vita
2001-2005 fa Tau Engineering s.r.l., ing. Sergio Lupaccini
ing. Michele Tiberi
Coop Village
Carlo Maria Sadich
Marco Turchetti, Ivan Larcher
Francesco Moschini (A.A.M. Architettura Arte Moderna)
Coop Village
Quartiere Anic - Ravenna
Casabella (solo progetto)
Paesaggio Urbano
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Luca Zevi
Memoria e quotidianità
Un progetto per ricordare
Concezione
Una fascia luminosa lunga 70 metri, recante i nome delle quasi
duemila vittime innocenti (non ancora tutte identificate), è disposta a
terra lungo il bordo dell’aiuola centrale del Parco dei Caduti del bombardamento del 19 luglio del 1943, nel popolare quartiere di S. Lorenzo a Roma. è l’opera realizzata a seguito di un concorso indetto dal
Comune di Roma in occasione del sessantesimo anniversario dell’evento più luttuoso registrato nella capitale italiana durante l’ultimo
conflitto mondiale.
Non monumento e neppure memoriale, piuttosto si tratta di una
presenza della memoria storica nella quotidianità.
Un approccio al tema della memoria - anti-monumentalismo e priorità del luogo sull’oggetto - che è parso particolarmente appropriato al
ricordo delle vittime del bombardamento di S. Lorenzo per almeno
due ragioni: la prima di ordine spaziale, in considerazione del fatto
che nel cuore del parco già oggi insiste un monumento ai caduti di tutte le guerre; la seconda di ordine morale, essendo i 1674 (o più) morti di S. Lorenzo caduti non in combattimento, ma a causa di un bombardamento indiscriminato su un quartiere della città, per giunta ad
opera delle forze che stavano consentendo la liberazione del nostro
paese dal giogo di una dittatura ventennale.
Per l’introduzione di una seconda presenza monumentale, che
avrebbe conferito al ricordo dell’evento un improprio sapore celebrativo, non vi era dunque ‘spazio figurativo’. Ma non vi era neppure ‘spazio etico’, non essendo la strage di S. Lorenzo altro che una tragedia
di ordinaria guerra, che ha lasciato sul campo vittime ‘casuali’, imprimendo una ferita indelebile ed inconsolabile non soltanto alle rispettive famiglie, ma all’intera comunità alla quale appartenevano.
E questa comunità, a sessant’anni di distanza, ha inteso giustamente ricordare, una per una, le vittime innocenti di quella lacerazione.
Da queste semplici considerazione è scaturita una proposta progettuale che evita di stabilire un rapporto di duplicazione e di competizio-
ne con il monumento preesistente, al quale propone al contrario un
dialogo nella complementarietà; evita di produrre una modificazione
del giardino attorno a se stessa, ponendosi al contrario come marchio
di un’assenza (le vittime del bombardamento); sottolinea un segno già
presente nell’area - una porzione del bordo della grande aiuola centrale - con una fascia di pura luce a terra, sulla quale sono incisi tutti
i nomi delle vittime.
Un progetto ‘al negativo’, perché la memoria attiva della strage sospinga in nostro cammino verso un orizzonte di pace.
Progetto
Un modulo scatolare in acciaio - aggregato in linea - percorre il bordo dell’aiuola centrale del parco, in corrispondenza degli ingressi dalla via Tiburtina e dalla via dei Peligni, per un tratto di circa 70 metri. è
per metà incassato nel terreno, a ridosso del ciglio di travertino esistente, con un’inclinazione di 45° sull’orizzontale.
Delle due facce emergenti dal terreno l’una, quella rivolta verso il
sentiero pedonale, è chiusa da una serie continua di cristalli acidati e
blindati sui quali sono impressi con il laser i nomi delle 1674 vittime
del bombardamento; sull’altra, retrostante e non visibile dai visitatori,
sono posizionati i portelli di ispezione.
All’interno di ciascun modulo sono fissati apparecchi al neon a tenuta stagna, che di notte irradiano luce uniforme alle soprastanti lastre di cristallo incise.
Sulle due testate triangolari della fascia è incisa la data della tragedia: 19 luglio 1943.
Coinvolgimento
Il progetto auspica un rapporto non di pura contemplazione, ma di
partecipazione attiva del quartiere a questo intervento mirato all’alimentazione ed alla valorizzazione della memoria storica collettiva. A
questo fine esso propone l’adozione della fascia luminosa nel giardi-
139
no da parte degli alunni della scuola prospiciente l’area (all’angolo fra
via dei Peligni e via Tiburtina Antica), che prendono in carico la manutenzione dell’opera, così come tanti loro coetanei hanno deciso di
‘proteggere’ monumenti, aree verdi ed altri manufatti rappresentativi
delle rispettive collettività.
140
Un’assunzione di responsabilità da parte delle nuove generazioni,
che rappresenta un impegno alla trasmissione della memoria storica,
senza il quale non è pensabile la formazione di individui consapevoli
ed impegnati a scongiurare il pericolo, sempre incombente, di errori
ed orrori del passato.
Alessandro Camiz
Modelli e atteggiamenti: figure antropomorfe per il significato delle città
Il principio che ha guidato l’azione critica del laboratorio si basa sull’assunto che il progetto di architettura costruisca le sue fondamentali relazioni di senso e di forma a partire dal contesto e, modificandolo,
proponga la costruzione di figure di cui è parte costitutiva ciò che non
viene progettato. La possibilità di costruire figure significanti in architettura si avvale quindi dello sconfinamento del limite della proprietà
acquisendo, esternamente ai confini del lotto, elementi capaci, una
volta composti insieme con quelli nuovi, di costruire una parte riconoscibile di città. Tale parte di città dove il contesto può assumere una
prevalenza figurale rispetto al progetto stesso riconosce ‘che tutte le
interpretazioni iconologiche della forma della città abbiano qualche
possibile punto di tangenza con quella antropomorfica’.2 In tali casi il
solo controllo della figura e della sintassi formale non sono sufficienti
a garantire la conformità estetica. Il rapporto con l’archeologia e la
storia divengono quindi il terreno privilegiato per sperimentare come i
luoghi collettivi siano ‘il segno di una connessione con un sentimento
antico’.3 Naturalmente il progetto contemporaneo in stretta relazione
con uno specifico contesto storico o archeologico, utilizzando il ‘frammento dai molti aspetti figurali e significanti’4 mette in atto una duplice
sfida compositiva: costruire ‘non solo forma ed identità, ma anche i
modi della crescita e della mutazione, i sistemi di relazione’.5 Questi
devono essere in grado di elevare il progetto a soggetto eloquente per
inserire elementi vitali nel contesto in termini materiali e simbolici contribuendo alla sua valorizzazione e conservazione. In questo senso il
laboratorio accoglie materiali provenienti da aree culturali diverse e da
ambiti disciplinari che vanno dal restauro, alla composizione, alla museografia, all’archeologia, al paesaggio e all’urbanistica. I termini del
confronto disciplinare risiedono nell’interpretazione del senso profondo di ciascuna proposta - in termini di figura - focalizzando soprattutto sul modo come ciascun progetto attribuisce ad un sito elementi di
relazione e significato. Quindi non intendiamo proporre la storia, ‘officina di modellazione e rimodellazione delle nostre strutture teoriche’6
come pretesto, ma piuttosto come contesto7 significante per una architettura soggetto. Tale soggetto tenderà a disvelarsi diversamente
dalla maggior parte degli oggetti architettonici caratterizzati dall’autismo relazionale. Come ‘gli edifici contemporanei ci appaiono tanto più
misteriosi poiché dissimulano volentieri i loro dispositivi di funzionamento’,8 così le architetture soggetto risulteranno evidenti. Tra le tecniche compositive, quella dell’impiego dei modelli architettonici,9 risulta sicuramente la più intrigante proprio per la sua naturale capacità di
veicolare significati.10 La scelta dei modelli in rapporto al contesto,11
l’utilizzo - in particolare - dei modelli antichi per il radicamento dell’architettura, la loro manipolazione formale mediante l’arte della deformazione12 richiede un’attenzione particolare agli atteggiamenti che il
progettista assume nei confronti del progetto, così come agli atteggiamenti che il progetto assume nei riguardi del contesto. Come a stabilire un parallelo tra progettista e progetto il cui obiettivo è quello di fondare i presupposti di un’architettura soggetto basata sulle ‘strutture
permanenti del significato’,13 da contrapporre con forza all’architettura
oggetto. Per ‘ritrovare anche una capacità comunicativa obiettiva ed
incisiva’14 occorre una architettura basata sulla ‘volontà del manufatto
di autodeterminarsi’.15 Una prima disamina degli atteggiamenti ha
condotto all’individuazione dei seguenti (da assumere come esemplificazione preliminare): conforme, difforme, conformativo, adattivo, mimetico, inautentico. La comparazione sistematica degli atteggiamenti
possibili nel progetto e nel progettista, ricorrendo peraltro anche agli
strumenti scientifici della psicologia comportamentale e dell’analisi
gestuale, sarà strumento utile all’individuazione di categorie analitiche
capaci di fornire alla progettazione elementi ulteriori per il controllo
compositivo dei modelli architettonici. In particolare la progettazione
in area archeologica offre una casistica particolare dove il contesto diventa prevalente ed è quindi assolutamente necessario un simile affinamento della teoria. Quindi l’atteggiamento che il progetto e le sue
figure fondamentali assumono nei confronti del contesto divengono
141
142
metafora analogica degli atteggiamenti che il progettista assume nei
confronti del progetto. La coppia comportamentale adattivo-conformativo è stata applicata in forma tassonomica ai progetti presentati e tra
questi sono risultati particolarmente significativi: Elisa Ruggeri, Conservazione, recupero funzionale e restauro del complesso ex Montecatini a Milazzo: centro studi di Botanica, tesi di laurea, relatore prof.
arch. Massimo Lo Curzio, correlatore arch. Antonio Bonifacio, Università degli studi ‘Mediterranea’ di Reggio Calabria, Facoltà di Architettura, A.A. 2003/2004. Giuseppina Bruno, Monica Bellantone, Il progetto dell’esistente una proposta per la tonnara di Palmi, tesi di laurea, relatore prof. arch. Laura Thermes, correlatori: Fabrizio Chiappino, Antonella Russo, Gaetano Scarcella, Università degli studi ‘Mediterranea’ di Reggio Calabria, Facoltà di Architettura, A.A. 2003/04.
Daniele Pomili (con Federico Basili, Luca Feliziani, Domenico Petrucci), Restauro di Porta Pia, Ancona, corso di Restauro architettonico, Università Politecnica delle Marche, corso di laurea in Ingegneria
edile-architettura. Livia De Andreis, Infrastrutture per l’arte contemporanea: le fondazioni, tra cultura e territorio, come nuova committenza, tesi di laurea in Progettazione architettonica e urbana, relatore
prof. Gianni Accasto, correlatrici, prof. Anna Giovannelli, arch. Margherita Guccione, Facoltà di Architettura ‘Ludovico Quaroni’, Università degli studi di Roma ‘La Sapienza’, A.A. 2004/05. Arch. Silvia
Ombellini, collaboratore arch. Simone Riccardi, Il centro storico di
Parma: identità, trasformazione e incongruo, arch. Dario Naddeo,
arch. Patrizia Rota, Comune di Parma, Settore Pianificazione territoriale. Mariella Tavoletti, Un ‘continuum’ per Ascoli Piceno: da ex tiro
a segno militare a facoltà di architettura, tesi di laurea in Architettura,
relatore Prof. Loris Macci, correlatore arch. Alessandra Abbondanza,
Università degli studi di Firenze, Dipartimento di Progettazione, A.A.
2001/2003. Bianca Irene Vicini, Federico Zamboni, Anamorfosi nello spazio architettonico. Progetto per una mediateca nell’area ex-Officine Minganti a Bologna, tesi di laurea in Architettura e Composizione
Architettonica, relatore Prof. Ing. Franco Zerbini, correlatori prof. Giorgio Praderio, arch. Barbara Benini, Università degli studi di Bologna
‘Alma Mater Studiorum’, Facoltà di Ingegneria, A.A. 2003/04. Nicodemo Dell’Aquila, Parco archeologico-area di studio: Crotone, tesi di
laurea in progettazione architettonica, relatore Prof. Gianfranco Moneta, Università degli studi di Roma ‘La Sapienza’, Facoltà di Architettura ‘Valle Giulia’, A.A. 2002/03. Laura Calcagni, Centro termale e
funzioni ricettive nel parco suburbano di Pianola e Monte di Scauri, tesi di laurea, relatore Prof. Francesco Cellini, correlatore prof. Paolo
Micalizzi Facoltà di Architettura, Università degli studi di Roma Tre.
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C. Sitte, L’arte di costruire le città. L’urbanistica secondo i suoi fondamenti artistici (titolo originale Der Städte-Bau nach seinen Künsterlischen Grundsätzen, Wien 1889)
traduzione di R. Della Torre, Milano 1981, p. 90.
E. Guidoni, L’arte di progettare le città. Italia e Mediterraneo dal medioevo al settecento, Roma 1992, p. 47.
W. Tocci, Una idea di città per Roma, in R. Panella, Piazze e nuovi luoghi di Roma,
il progetto della conferma e dell’ innovazione, Roma 1997, p. 7.
A. Terranova, Le pieghe dei mostri, in O. Carpenzano, Lo scambio del limite, Roma
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V. Gregotti, Dell’ordine, ‘Casabella, rivista internazionale di architettura’, n. 690, a.
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F. Purini, p. 113.
La anamorfosi di Bianca Irene Vicini e Federico Zamboni si propone
come esemplificazione di un’atteggiamento fortemente conformativo
Concetta Rinaldi
Il progetto contemporaneo
valorizzatore delle preesistenze
‘I nostri antenati resteranno sempre i nostri maestri’1 conclude in un
articolo Alvar Aalto negli anni venti, sintetizzando e sottolineando così la sua ammirazione e il suo rispetto nei confronti dell’ architettura
del passato. La complessa relazione tra l’opera architettonica contemporanea e la preesistenza - questione affrontata e dibattuta da
tempo - è emersa pienamente all’interno del laboratorio svolto che è
stato caratterizzato da un costante confronto vivace e costruttivo. Dai
lavori presentati, in gran parte tesi di laurea, è emersa la consapevolezza del forte condizionamento di ciò che è già presente sul ‘fare’ attuale, ma in molti studi è stata evidenziata anche la coscienza di
quanto questo non debba rappresentare un fattore negativo e inibitore, ma anzi possa diventare di stimolo ad una ricerca più attenta e raffinata. In questo senso alla base di molti dei progetti esposti si è riscontrato un atteggiamento di approvazione ma non di sottomissione,
con la presa di coscienza che l’architettura ‘è un mondo all’interno di
un mondo; questo è ciò che sempre sarà’2 e della complessità che da
ciò deriva. Nel complesso sono risultati chiari la volontà e il bisogno
di guardare al passato con una forma di leggerezza3 da intendersi alla maniera calviniana come associata alla determinazione e non alla
vaghezza. I lavori proposti hanno mostrato naturalmente diversi approcci nei confronti del passato, fenomeno legato anche alle varie
scuole di provenienza e di conseguenza ai differenti metodi d’impostazione. I più interessanti si sono rivelati quelli in cui la nuova architettura non diventa autocelebrativa, ma nel raccontare se stessa valorizza una preesistenza troppo spesso mortificata; quelli in cui cioè,
al di là che il risultato finale rappresenti un legame simbiotico o un netto distacco con il contesto, si crea un ponte tra due mondi che solo
così si arricchiscono e rafforzano a vicenda.
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La veduta zenitale del progetto della Ruggeri
rappresenta eloquentemente l’atteggiamento adattivo
1. A. AAlto, Luonnoksia, Helsinki 1972 (traduzione. italiana, Idee di architettura. Scritti
scelti 1921-1968, Bologna 1987, p. 10).
2. L. Kahn, Talks with students (conferenza tenuta alla Rice University, Houston 1969).
3. Cfr. I. Calvino, Lezioni americane.
ndr. Le annotazioni di A. Camiz e C. Rinaldi sono a margine del
Laboratorio ‘Rapporto tra architettura e sedimentazioni storiche/archeologiche’
Coordinatori: Alessandro Camiz, Paolo Giardiello, Marco Peticca, Concetta Rinaldi
Bruno e Bellantone ricorrono alla figura antropomorfa per la costruzione di una parte
significativa di città che assume un atteggiamento conformativo nei confronti del sito
costiero
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De Andreis inventa un paesaggio interno - luogo fondamentale di apparizione dell’arte contemporanea e conforma in maniera adattiva lo spazio distributivo della kunsthalle
La modificazione proposta da Pomili per il restauro della porta Pia di Ancona
ha un atteggiamento rispettosamente conformativo
Tiziano Cattaneo, Leo Giuseppe Oceano
Le vie d’acqua:
un connettore fra paesaggio naturale e paesaggio culturale
Due casi a confronto
Il sistema delle vie d’acqua, negli esiti di una ricerca congiunta sui
territori padani e siciliani, è una valida chiave di lettura dei paesaggi
contemporanei: sia l’organizzazione dei canali del territorio padano,
che l’apparato di fiumi e torrenti in Sicilia, riescono a ricucire apprezzabili relazioni fra forma del paesaggio ed organizzazione degli abitati. Si è trattato di vie e non di linee o corsi d’acqua perché in questa dicitura meglio si identifica il paesaggio come oggetto rivelato della ricerca; le vie legate ai corsi dei fiumi tendono infatti a stabilire due
traiettorie: una prima, longitudinale, di colonizzazione e una seconda,
trasversale, dove le tappe del rifornimento idrico diventano un elemento di metrica fondamentale per stabilire relazioni fra parti di territorio.
Il sistema dell’acqua nel territorio padano
(T. Cattaneo)
Il sistema delle acque, nel progetto del paesaggio nell’area padana, ritrova oggi un nuovo ruolo per il rinnovo del rapporto tra storia del
territorio e risorsa naturale. Il paesaggio viene descritto disomogeneo,
frammentato in continuo cambiamento, un territorio carico di tracce e
stratificazioni. Uno spazio apparentemente privo di identità dai caratteri morfologici indefiniti e linguaggi diversificati, che può riscoprire
l’acqua come elemento significativo di interpretazione e progetto per
riscrivere i suoi margini.
La problematica del disegno del paesaggio e dei sistemi d’acqua,
può essere ricondotta alla ricerca di qualità degli spazi e si propone di
affrontare il progetto attraverso la riconoscibilità delle differenze, dei
differenti linguaggi, dei materiali eterogenei atti alla composizione dell’immagine paesaggistica.
La qualità può essere perseguita attraverso la ricerca dell’identità
dei luoghi. Il progetto di trasformazione della città e del suo paesaggio si ritiene debba passare attraverso la conoscenza del passato, riscoprire i motivi primari di permanenza come tradizione nei confronti
dell’innovazione, per consentire di crescere in continuità rispetto al
passato.
Non si tratta di assumere le istanze del tempo da applicare in modo dogmatico, ma di leggere il passato in continuità con il presente,
proiettato nel futuro.
La memoria dell’acqua ed il disegno dell’altopiano ibleo
(L. G. Oceano)
Il territorio ibleo, nella parte sud-Orientale della Sicilia, è analogamente segnato dall’antica presenza di fiumi e torrenti (le cui Cave,
fuori città, sono tuttora un valido laboratorio biotico); questa presenza
ha determinato gli assetti delle trame urbane, accompagnando il diverso mutare degli habitat umani: il rupestre, l’incastellamento, ed il
recente sviluppo lungo le trame fluviali con il letto dei torrenti non più
attivi, evocati dalla simmetria dei fronti.
Dopo anni di disattenzione verso questi luoghi, oggi una più evoluta sensibilità ambientale trova nei corsi d’acqua una importante risorsa da tutelare; eppure questa nuova attenzione, individuabile nella
istintualità della manifestazione artistica (Fiumara d’Arte), ad oggi non
è stata pienamente assimilata dallo statuto disciplinare della progettazione architettonica.
Urge perciò l’esigenza di rintracciare dei codici capaci di implementare dentro il progetto del paesaggio, gli strumenti della composizione
architettonica, della bonifica ambientale e governare il complesso sistema di trasformazioni con più articolate politiche del territorio.
In questo ambito si collocano le recenti ricerche del Laboratorio di
Costruzione del Paesaggio e dell’Architettura dell’Università di Pavia e
del Laboratorio del Paesaggio Urbano e della Mobilità dell’Università di
Catania, impegnati nell’attività di analisi e progetto del rapporto costruito-infrastruttura-natura finalizzato allo sviluppo e alla valorizzazione del
territorio, il cui contributo è suffragato da questo breve scritto.
145
146
1. Carta storica di Pavia e del suo territorio, Archivio della Fototeca dei Musei Civici di Pavia. In questa mappa è rappresentata la fitta rete di canali, navigli, rogge, fossi, che strutturano la morfologia del paesaggio
e della città nella sua diretta connessione nell’affluenza del fiume Ticino.
2. Affresco di Bernardino Lanzani del 1522 nella Basilica di S. Teodoro. Vista da sud di Pavia in cui è evidente il rapporto della città con il fiume e nella parte di sinistra con il suo territorio.
3. Analisi degli elementi paesaggistici sulla sponda nord
del fiume Ticino nel comparto est della città di Pavia.
In evidenza l’area della darsena del Naviglio Pavese
nel tratto di confluenza con il fiume. Elaborazione del
Laboratorio di Costruzione del Paesaggio e dell’Architettura, Università di Pavia. Direttore scientifico Prof.
Angelo Bugatti.
3.
1.
2.
4.
5.
6.
147
7.
4. Esemplificazione progettuale di riqualificazione urbana e rinnovo del paesaggio dell’area della darsena del Naviglio Pavese. Elaborazione del Laboratorio di Costruzione
del Paesaggio e dell’Architettura, Università di Pavia. Direttore scientifico Prof. Angelo
Bugatti.
5. Anonimo, Veduta di Scicli (RG), sec. XVI. La città viene rappresentata come un sistema di abitazioni arroccate simmetricamente lungo le pareti delle cave, frutto del solco
dei torrenti.
6. Veduta dall’alto del centro di Scicli (RG). Nella veduta dal colle di S. Matteo, la trama
urbana tardobarocca si dissolve per restituire la dimensione orografica dell’abitato.
7. Leo Giuseppe Oceano, Laura Ranieri, progetto per la riqualificazione di via S. M. La
Nova in Scicli (RG), 2005.
8. Esemplificazione progettuale di riqualificazione urbana e rinnovo del paesaggio dell’area della darsena del Naviglio Pavese. Elaborazione del Seminario internazionale
Università di Pavia ‘Urban Renewal and town culture’, sept 2002. Direttore scientifico
Prof. Angelo Bugatti. Tutor: S. D’urso; C. Gervasini - Studenti: G. Qifeng, S. Marletta,
V. Saini, J.F. Nobre Neto, A. Owczarek.
8.
Paola Mazzotti*
Il nuovo paesaggio marchigiano del recupero post sisma:
un laboratorio in corso
148
Cercherò, seppure sinteticamente, di illustrare una particolare
esperienza in corso nella regione Marche a partire dal settembre 1997
quando l’appennino umbro-marchigiano fu colpito da una serie di
eventi sismici cui hanno fatto seguito attività istituzionali, tecniche,
amministrative, economiche e sociali che nel loro insieme possono, a
ragione, comporre un vero e proprio ‘laboratorio’ di area vasta.
Ritengo che tale laboratorio abbia prodotto quelli che mi permetto
di definire in senso lato nuovi ‘paesaggi’, attribuibili ad ambiti diversi
di intervento, ma tra loro fortemente correlati, e in particolare:
n nuovi paesaggi ‘tecnico-scientifici’, quali nuove metodologie
tecniche per gli interventi di riparazione dei danni e di miglioramento sismico;
n nuovi paesaggi ‘istituzionali’, quali nuove modalità di collaborazione tra enti e soggetti coinvolti nelle diverse operazioni post sisma (1);
n nuovi paesaggi ‘fisici’, quale esito percepibile del complesso di
interventi di rinnovo urbano e territoriale relativo ai centri e nuclei
urbani e rurali individuati come di particolare interesse maggiormente colpiti, nelle diverse declinazioni che la realtà ha comportato tramite l’adozione di uno specifico strumento, il programma di recupero post sisma: il recupero dei centri maggiormente danneggiati (2); la ricostruzione di quelli completamente disastrati (3); la ristrutturazione urbanistica e la riqualificazione urbana di interi quartieri (4); la straordinaria operazione, intesa nella sua complessità,
del restauro con miglioramento strutturale del patrimonio culturale
danneggiato che finora investe oltre 1000 fabbriche sulle oltre 2300
danneggiate e comprese in uno specifico piano (5, 6);
n nuovi paesaggi ‘culturali’, quali acquisizioni consolidate nella comunità marchigiana: dalla cultura della prevenzione devono muovere norme e politiche per la manutenzione permanente del patrimonio storico e monumentale; la consapevolezza che la riduzione
del rischio passa attraverso una pianificazione urbanistica ad essa
orientata; verso una nuova stagione normativa che veda il progres-
sivo affinamento delle metodologie ed il loro naturale confluire in
norme regionali per la tutela e la valorizzazione del patrimonio insieme alla revisione della legge regionale sulla sismica attenta alla
coniugazione della sicurezza con la conservazione.
In particolare, ritengo opportuno approfondire la sezione inerente i
nuovi paesaggi ‘tecnico-scientifici’. La regione Marche, avvalendosi
della consulenza del Comitato tecnico scientifico, ha caratterizzato le
proprie attività mettendo a punto un notevole ed innovativo corpus
metodologico nei vari settori (edilizia privata, opere pubbliche, beni culturali, programmazione urbanistica) composto da specifica strumentazione di carattere tecnico-scientifico-informatico a sostegno
delle attività dei tecnici regionali e comunali e dei professionisti incaricati della progettazione e direzione dei cantieri.
A partire dalle prime Linee di indirizzo sono state poi sviluppate
specifiche Direttive tecniche nelle quali sono stati affermati criteri e
principi-guida, tra i quali:
n la definizione dell’edificio quale unità strutturalmente intesa
cui associare le relative verifiche strutturali (statiche e dinamiche),
attribuendo livelli differenziati di danno e vulnerabilità, cui a loro volta associare livelli contributivi differenziati (DGR n. 2153/1998 e sue
modifiche ed integrazioni);
n l’assunzione del miglioramento sismico quale categoria cautelativa d’intervento;
n il trattamento differenziato da riservarsi al patrimonio culturale attraverso apposite analisi effettuate per macroelementi (parti
strutturali analizzate separatamente e poi ricomposte e relazionate,
il cui miglioramento può contribuire a quello dell’intero organismo
storico), avvalendosi di un’apposita metodologia efficacemente illustrata nella documentazione a corredo della DGR n. 78/1999 e del
successivo Codice di pratica (2000) curato dal Prof. F. Doglioni dell’Università di Venezia, quale guida di riferimento nel percorso pro-
n
gettuale scandito in diverse fasi: analisi storica, compresa la storia
sismica, rilievo geometrico ed architettonico, rilievo del quadro fessurativo e deformativo supportato da specifiche indagini diagnostiche, comprensione dei connessi meccanismi di danno e cinematismi attivati ed attivabili, proposte progettuali finalizzate a contrastare danni e cinematismi; il Codice (attualmente in corso di integrazione con esempi marchigiani tratti dagli oltre settecento cantieri ultimati) rimanda ad una specifica legenda e ad una Scheda tecnica
unificate a livello grafico ed informatico (DGR 161/2001); tali strumenti assumono criteri di leggibilità e reversibilità degli interventi
entro la logica dell’intervento minimo necessario, di coerenza con i
materiali e le tecniche proprie della tradizione costruttiva, quindi del
massimo rispetto della configurazione formale materica e strutturale della fabbrica;
l’approfondimento metodologico (per la prima volta nelle normative post sisma in Italia) relativo al recupero antisismico dell’edilizia storica aggregata di cui al documento (DGR n. 2976/1999)
dal titolo Criteri per la valutazione degli interventi unitari anch’esso
strutturato per passaggi successivi: dal rilievo geometrico al rilievo
‘critico’ (che dà conto delle cause dei dissesti, dei danni e delle vulnerabilità riscontrate) alle ipotesi progettuali;
le analisi geologiche e geofisiche (verifica del coefficiente di amplificazione sismica locale) assunte come presupposto di ogni attività ed elemento trasversale a tutti i settori investiti dalla ricostruzione;
n la predisposizione, in sintonia con i contenuti dell’innovativo art. 3
della legge n. 61/98, di appositi strumenti di natura programmatoria per il coordinamento degli interventi nei centri e nuclei
urbani e rurali (il 63% è costituito da insediamenti storici): il programma di recupero post sisma, afferente 95 insediamenti/parti di
essi di valore storico, paesaggistico, monumentale individua interventi pubblici e privati, relative modalità, priorità, tempi e risorse. Rimanda a strumenti attuativi laddove necessitino parziali ristrutturazioni urbanistiche o norme di maggior dettaglio regolamentare (piani particolareggiati di recupero).
Tale corposo ‘pacchetto’ tecnico-normativo ha poi comportato una
minuta attività di formazione, curata dalle strutture regionali in collaborazione con la Scuola di formazione per il personale regionale e gli
Ordini professionali.
Va infine richiamata la significativa attività di ricerca promossa dal
Comitato tecnico scientifico sui diversi ambiti di intervento investiti
dalle attività post sisma e coordinata dalle strutture regionali, ampiamente documentata in molteplici pubblicazioni.
n
* Dirigente Servizio Beni e Attività Culturali della Regione Marche
1. Nuovi paesaggi istituzionali - Strutture regionali e modalità di collaborazione
interistituzionali - Il centro operativo programmi di recupero e beni culturali è oggi
denominat ‘P. F. tutela dei beni culturali e programmi di recupero’
2. Planimetria tratta dal Programma di recupero del Centro storico di Camerino.
Progettisti capigruppo: ing. C. Speranza, archh. M. Santini, A. Martini, R. Mariotti,
F. Cervellini, S. Zozzolotto
149
150
3. Serravalle di Chienti (MC) attuazione del piano
di recupero della frazione di Collecurti
Prof. C. Blasi, D. Gori e Arch. C. Cornioli
Foto dei lavori in corso tratta dall’archivio regionale
5. Mercatello sul Metauro (PU) Chiesa di San Francesco
Scomposizione in macroelementi della fabbrica monumentale
4. Fabriano (AN) quartiere La Spina Serraloggia - Stralcio planimetrico del piano
di recupero redatto dall’Ufficio Tecnico Comunale
6. Esempi di fabbriche restaurate secondo la metodologia della Regione Marche
Foto tratte dall’archivio regionale
Camerino 2005
Premio di Architettura e Cultura Urbana
La partecipazione al Premio era riservata agli iscritti al XV Seminario
di Camerino e prevedeva:
n due Premi rispettivamente per Opere realizzate e Progetti
n il Premio Archeoclub d’Italia, assegnato ad un’opera (realizzata o
progetto) che comprendesse un intervento di risanamento e riabilitazione funzionale di un complesso edilizio o urbanistico, di interesse storico, destinato alla collettività
n quattro segnalazioni con rimborso spese
n cinque menzioni speciali.
Come negli anni precedenti, sono stati gli stessi iscritti a selezionare
i lavori ritenuti più meritevoli; una commissione qualificata, infine, ha
assegnato i premi fra i prescelti.
La commissione era composta da:
n Pier Luigi Missio (presidente), Consiglio Nazionale Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori
n Enzo Fusari, presidente dell’Ordine degli Architetti, Pianificatori,
Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Macerata
n Lucia Guidoni Martella, Archeoclub d’Italia
n Mariella Caminiti, Università di Messina
n Riccardo Mariani, Università di Ginevra
n Gianfranco Neri, Università Mediterranea di Reggio Calabria
n Massimo Pica Ciamarra, Università Federico II, Napoli.
Premio Opere Realizzate
Il centro commerciale, un grande interno contemporaneo
Daria Caruso, Francesco Fragale. Con Giuseppe Caruso
Premio Progetti e Ricerche
Tortorici e il suo torrente
Giuseppe Salvatore Vanadia
Premio Archeoclub d’Italia
Percorso Archeologico sotterraneo e sistemazione
dell’area di Porta Maggiore a Roma
Cristiano Lippa
Segnalazioni con rimborso spese
n Ripensare l’area portuale di Vibo Valentia
Salvatore Amaddeo e Daniele Vacca
n Dal Segno al Morfema. Dal Morfema allo spazio urbano
Lavoro di sintesi degli studenti dei corsi di Composizione
e di Morfologia urbana e Tipologie edilizie
Università Mediterranea di Reggio Calabria AA 2004/05
n Una nuova identità urbana per l’area Tre Mulini di Reggio Calabria
A. L. Coco, F. Fazio, L. La Giusa, S. Naccari, V. Penna, D. Potenza
n Centro Culturale per la pittura paesaggistica europea nel Lazio
Fabiano Micocci
Menzione speciale
n Arte - Cultura - Tempo libero. Architettura per la periferia
di S. Pier Niceto
Antonella Romagnolo
n Progetto di recupero della scala storica e nuovo padiglione
espositivo
Francesco Messina, Trieste Russitto (Bodàr architetti)
n Centro termale e funzioni ricettive nel parco suburbano di Pianola e
Monte di Scauri
Laura Calcagni
n Anfiteatro Romano di Ancona
Alessandro Beato, Leonardo Petetta
n Nuova sede Melfi-Pettoranello (IS)
Roberto Ianigro
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Daria Caruso, Francesco Fragale. Con Giuseppe Caruso
Un grande interno contemporaneo, il centro commerciale. Tremestieri, Messina
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Giuseppe Salvatore Vanadia
Tortorici e il suo torrente
Università Mediterranea di Reggio Calabria
Facoltà di Architettura
Tesi di Laurea in Architettura
Relatore prof. arch. Laura Thermes
Correlatore arch. Adriana Galbo
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La tesi, discussa nel luglio 2004, ha per oggetto lo studio e la riqualificazione delle zone ripariali del torrente
Zappulla ricadenti nel centro urbano del Comune di Tortorici (ME). Centro di origine medioevale dei monti Nebrodi, sorge a 450 m s.l.m. alla confluenza di tre corsi
d’acqua. Il nastro costituito dal fiume e dalle sue sponde
assumeva non solo la funzione di limite fisico all’espansione urbana, ma anche quella di filtro tra città e campagna, garantendo, quale elemento distanziatore, la preservazione dell’aura del centro urbano. Queste funzioni
non impedivano l’espressione delle vocazioni dell’area
quali la localizzazione di attività produttive legate allo
sfruttamento della forza delle acque o la coltivazione di
orti lungo le sue sponde.
Il sistema generato dal mutuo rapporto tra queste parti
generava una condizione di equilibrio in cui ogni luogo
esprimeva, attraverso un uso dettato dalla vocazione del
luogo stesso, le proprie potenzialità, preservando ed
esaltando, allo stesso tempo, l’identità dei luoghi.
Nel corso degli ultimi trenta anni, la realizzazione di infrastrutture ha mutato i flussi e i pesi degli assi viari creando nuove centralità e spostando i limiti del centro urbano oltre il corso d’acqua.
Il segno che ha determinato l’espansione del centro ha,
di fatto, cancellato tale porzione di territorio privandolo di
qualsiasi funzione.
Estinte, nel tempo, le attività di carattere produttivo ospitate dall’area e caduta la funzione separatrice rispetto
all’ambiente rurale, l’area è chiamata, oggi, ad assolvere a nuove ed importanti funzioni: elemento integratore
tra il centro storico e le espansioni ormai consolidate;
elemento equilibratore del nuovo sistema spaziale; distributore di flussi non più solo naturali ma urbani.
L’obiettivo era quello di restituire, attraverso il progetto di
architettura, alla cittadinanza un bene pubblico e, all’ambito di progetto, la dignità di luogo.
Il progetto ridisegna l’argine del torrente nel tratto compreso tra i due affluenti. L’asse longitudinale, costituito
dall’argine, accoglie un percorso pedonale che, senza
soluzione di continuità, raccorda le quote di progetto che
vanno da 450 a 473 m s.l.m., con il piano urbano.
Elementi trasversali scandiscono il percorso e, alternativamente, connettono l’esistente con il percorso di progetto o quest’ultimo con la sponda opposta del torrente,
a mezzo di ponti pedonali.
Le aree sottostanti al viadotto, trattate a terrazzamenti,
recuperano ulteriori spazi alla fruizione urbana. La piazza centrale si configura come area di contatto tra la parte a monte e la parte a valle e rientra a pieno titolo nel
progetto con una nuova pavimentazione il cui disegno
tenderà ad integrare il vecchio e il nuovo, valorizzando
elementi di pregio quali la chiese e il palazzo comunale
che su essa prospettano.
Oltrepassata la piazza il percorso si sdoppia procedendo parallelamente ma a quote differenti. Quello a quota
più alta e a diretto contatto con l’edilizia esistente, assume un carattere più urbano e si diversifica per le soluzioni formali adottate nell’altro percorso, più vicino al torrente e alla porzione di verde che lo separa dal corso
d’acqua.
È prevista la realizzazione di un’arena all’aperto in corrispondenza della parte absidale della chiesa, unitamente ad una nuova piccola piazza su cui prospettano la torre campanaria, l’abside della chiesa e la cortina edilizia
delle case più prossime al corso d’acqua.
Il duplice percorso si salda, più a monte, in un sistema
terrazzato che mette in comunicazione il piano inclinato,
trattato a verde con parti pavimentate.
Tutti i salti di quota sono superati con l’alternarsi di piani inclinati sistemati a cordonata, la cui pendenza non
supera l’8 % e piani orizzontali.
Il progetto attinge al tradizionale sistema del terrazzamento (tipico dei luoghi), locali saranno le pietre da utilizzare per le opere di pavimentazione e rivestimento.
Al di là degli aspetti funzionali del progetto, traducibili alla scala urbana in una maggiore flessibilità e fruibilità del
centro urbano, non meno importante è la funzione di
esaltare le valenze inespresse dei luoghi, restituendo loro consistenza, identità e visibilità.
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Cristiano Lippa
Percorso Archeologico sotterraneo e sistemazione dell’area di Porta Maggiore a Roma
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1. Rilievo delle preesistenze archeologiche. Se si eccettua il sistema mura-acquedotti e
il celebre mausoleo di Eurisace tutti i resti si trovano al di sotto del piano stradale a diverse quote, corrispondenti ai diversi periodi (repubblicano, imperiale, tardo antico)
della civiltà romana.
2. Vista della piazza allo stato attuale da dentro le mura.
3. Sistema lineare - piastra con sottrazioni in corrispondenza di preesistenze archeologiche.
4. Frammento di piastra con evidenziato l’orientamento delle fabbriche antiche e il passo
strutturale dell’acquedotto claudio.
5. Frammento di Forma Urbis severiana.
6. Vista a volo d’uccello della piastra inserita nel suo contesto.
7. I tre livelli di progetto: il suolo, la costruzione, lo scavo.
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Salvatore Amaddeo e Daniele Vacca
Ripensare l’area portuale di Vibo Valentia
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La ricerca progettuale riguarda l’area progettuale di Vibo Valentia, spazio in cui è possibile
rileggere la storia dei tracciati, dei segni, delle memorie, attraverso frammenti di città ancora riconoscibili all’interno del tessuto urbano. ‘Il degrado può essere inteso come modo attraverso il quale la città si fa rovina, divenendo teatro di una sua distruzione progressiva a
cui seguono l’abbandono e la conseguente desolazione del paesaggio urbano’.1
Partendo da queste considerazioni, il progetto prevede cambiamenti in grado di restituire
identità al luogo. In relazione ai tracciati intercettati si inseriscono quattro edifici atopici a base quadrata che segnano planimetricamente gli angoli di un rettangolo. L’interazione tra il
reticolo modulare derivante dal centro storico e i tracciati derivanti dagli assi visuali determina la relazione fra elementi progettati e territorio.. Infatti, laddove il tracciato attraversa il re-
ticolo questo si svuota, divenendoil luogo dell’attraversamento. La dimensione che si rapporta alla scala del paesaggio è fornita, invece, da un’altro sistema che si incastra al primo
e che trae origine dalla rilettura dei segni del paesaggio circostante. Il punto di intersezione
dei sistemi è marcato da due volumi edilizi contenenti rispettivamente la stazione marittima
ed attività direzionali - commerciali. I volumi sono collegati alla terra ferma mediante due
pontili coperti.
Il progetto ha l’ambizione di costituire l’elemento generatore di sviluppo per l’intera città.
1. M. Petrazan, G. Neri, Franco Purini, La città uguale, Il poligrafo, Padova. 2005, p. 320.
Lavoro di sintesi degli studenti dei corsi di Composizione e di Morfologia urbana e Tipologie edilizie
Il progetto dell’esistente e la città meridionale. Dal Segno al Morfema
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Lavoro di sintesi degli studenti dei corsi di Composizione e di Morfologia urbana e Tipologie edilizie
Il progetto dell’esistente e la città meridionale. Dal Morfema allo spazio urbano
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A. L. Coco, F. Fazio, L. La Giusa, S. Naccari, V. Penna, D. Potenza
Una nuova identità urbana per l’area Tre Mulini di Reggio Calabria
Università Mediterranea di Reggio Calabria. Laboratorio di Sintesi Finale.
Corso di progettazione architettonica e urbana, prof.ssa Laura Thermes.
Collaboratori: archh. F. Ciappina, A. Russo, G. Scarcella
Il progetto ha come obiettivo la riqualificazione dell’area di Tre Mulini caratterizzata dalla
presenza di alcune infrastrutture di rilievo, quali la Facoltà di Architettura ed il Palazzo della Regione. Entrambi i poli esercitano una forte attrazione che da un lato qualifica l’ambi-
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to territoriale considerato, dall’altro lo indebolisce evidenziandone la carenza di servizi e
di punti di aggregazione. Nell’intento di ricostruire l’immagine di questa parte di città gli interventi, risolti in maniera puntuale, prevedono la risistemazione dei fronti stradali, l’integrazione delle aree verdi, nonché la progettazione di spazi destinati ad attività collettive.
L’area assume così una nuova identità: da semplice luogo di transito diviene uno spazio
di scambio culturale acquistando valore sociale ed architettonico mediante la progettazione di un parco, una galleria espositiva, un internet café, una piazzetta, un coffee-shop e
luoghi di sosta.
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Fabiano Micocci
Centro Culturale per la pittura paesaggistica europea nel Lazio: museo, atélièr ed alloggi per artisti. Olevano Romano (Roma)
Università degli Studi di Roma Tre, 2002. Relatore prof. Luigi Franciosini
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In epoca romantica Olevano era meta di poeti e artisti, soprattutto tedeschi e rientrava nel
tour che si organizzava al Caffè Greco di Piazza di Spagna. Il primo nucleo urbano dovrebbe nascere intorno all’anno 800, quando, a causa delle continue lotte, la popolazione dei villaggi circostanti si riunisce su questa altura di 570 m. Nel 1212 viene costruito il
Palazzo Colonna da Oddone I, utilizzato per il soggiorno estivo e non per la vita quotidiana, a causa dell’inaccessibilità del sito alle carrozze. Passato successivamente sotto il dominio degli Orsini, del Frangipane e, nuovamente, dei Colonna, nel 1800 Olevano comincia ad espandersi al di fuori delle mura cittadine. È questo il periodo in cui la fama di Olevano si diffonde tra gli artisti di tutta Europa. Tuttora l’Accademia tedesca ha delle proprietà destinate a soggiorni di studio per studenti dell’Accademia di Belle Arti di Berlino. Nel
1993 nasce il “Centro Studi per la pittura paesaggistica europea nel Lazio”, in collaborazione con il Comune, per raccogliere opere e memorie. Il nuovo centro culturale recepisce questa iniziativa offrendo un nuovo spazio espositivo corredato da alloggi ed atélièr
per coloro che vogliono raccontare il paesaggio di Olevano.
Il sito individuato è il Monte S. Martino, posto a ridosso del nucleo medioevale e delle mura poligonali orientate verso sud. Il principio insediativo segue l’andamento del terreno definendo un nuovo limite del nucleo urbano, inteso come spazio di transizione e sintesi, ovvero un limite abitabile.
Segnare il terreno per renderlo adatto all’intervento è un gesto per definire un’appartenenza: le incisioni definiscono i primordiali principi dell’insediamento. La materia estratta, attraverso l’accumulazione, origina volumi che si aggiungono al terreno predisposto ad accoglierli. L’accumulazione si origina dal basso verso l’alto con un progressivo alleggerirsi
delle masse, fino alla quota del plateau a 470 m. Da questo accostamento tra la superficie dello scavo e i volumi aggiunti nasce uno spazio interstiziale, cuore del progetto, che
segna luoghi e percorrenze, orografia naturale e proiezione verso il paesaggio. L’applicazione di una regola costruttiva e distributiva permette la gestione delle strutture e il controllo del sistema, originando una varietà di scorci, paesaggi, interruzioni, incroci, penetrazioni.
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Antonella Romagnolo
Arte - Cultura - Tempo libero. Architettura per la periferia di S. Pier Niceto
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Francesco Messina, Trieste Russitto (Bodàr architetti)
Progetto di recupero della scala storica e nuovo padiglione espositivo
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Con Salvo Cannata, Antonino Messina, Vincenzo Morana, Carlo Parrinello,
Giuseppe Zimmitti
Committente: Comune di Melilli SR
Il progetto del padiglione espositivo rientra in una strategia di recupero coordinata dal Comune di Melilli, attraverso la fruizione di finanziamenti regionali atti ad istruire un itinerario turistico che rivitalizzi alcune aree storico archeologiche del territorio.
Gli interventi, dislocati in varie parti del Comune, riguardano la riqualificazione di tre importanti siti denominati: grotta mastru petru, necropoli di bemardina, scala della cava pirrera. Il progetto qui esposto è relativo all’intervento sulla scala della pirrera per la quale
l’ufficio tecnico comunale aveva previsto la manutenzione straordinaria del tracciato e la
realizzazione di un portale d’ingresso in cima ad un piccolo padiglione a metà percorso.
L’area indicata per il padiglione è situata in corrispondenza di un tornante della strada provinciale, unico punto attraverso il quale è possibile l’accesso diretto all’edificio. Pensato
come un oggetto di risignificazione del paesaggio collinare di Melilli, l’edificio si configura
come astratto volume che misura la morfologia del sito e raccoglie dentro i suoi spazi le
suggestive immagini del territorio catturando ed interpretando alcuni elementi caratterizzanti. La sua struttura compositiva cerca di evidenziare il rapporto con gli elementi geografici dell’area, determinando una natura formale che origina una straniante spazialità interna. È intenzionale la volontà di riproporre la morfogenesi delle vicine (quasi sottostanti) cave di pietra che, grazie ad un processo di sottrazione materica, ospitano importanti
episodi di linguaggio.
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Laura Calcagni
Centro termale e funzioni ricettive nel parco suburbano di Pianola e Monte di Scauri
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Alessandro Beato, Leonardo Petetta
Anfiteatro Romano di Ancona
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Roberto Ianigro
Nuova sede Melfi-Pettoranello (IS)
strutture: Iadanza eng. - direzione lavori: Ing. Rito Ullo - committenza: Melfi srl
impresa costruttrice: Melfi srl
cronologia: progettazione 2002-2003 - costruzione 2004-2005
data di ultimazione prevista: 31 dicembre 2005
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