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www.invisibledog.com [email protected] MUSA KUSA ED IL PREZZO DEL TRADIMENTO Ai tempi d’oro del suo lungo regno a capo dell’External Security Service libico (Jihaz al Aman al Kharigi) durante i suoi incontri con i colleghi stranieri, Musa Kusa si mostrava arrogante e saccente. Gli piaceva fare il cattedratico e amava farsi indicare con il titolo di “professore”. Quando parlava, lo faceva solo in arabo benché conoscesse bene l’italiano e l’inglese. Era l’alterigia del potente che si riteneva intoccabile. Diventava rancoroso soprattutto quando si parlava di Israele e degli oppositori di Muammar Gheddafi. Musa Kusa era un uomo che sapeva, un detentore di tanti segreti che si era guadagnato la considerazione del suo capo sul campo, sporcandosi le mani di sangue. La caduta Negli ultimi tempi anni del regime qualcosa era però cambiato. Il rais sembrava non stimarlo più di tanto e talvolta mostrava insofferenza nei suoi riguardi. Alcuni sostenevano che erano insorti dei contrasti con alcuni dei figli. Musa Kusa aveva una pseudo funzione di “tutore” di due figli di Gheddafi, Seif al Islam (in competizione con il fratello Mutassim nella lotta alla successione del padre) e Khamis, e forse per questo si era trovato, suo malgrado, implicato in una faida familiare. Mutassim infatti, nel 2006, era stato nominato a capo del neo costituito organismo di coordinamento dell'intelligence, il Comitato per la Sicurezza Nazionale. Uno schiaffo non soltanto morale al vecchio amico del padre da parte di Mutassim se erano vere le voci a Tripoli di un diverbio sfociato in aggressione. Un affronto per un personaggio come Kusa che aveva accettato con l’umiltà e il servilismo che si devono ad un potente. Questo era uno spaccato della sua personalità: forte con i deboli, debole con i forti. A scalfire la posizione di Musa Kusa avevano inciso anche altre circostanze: Gheddafi doveva riabilitare l’immagine del proprio Paese verso il mondo occidentale. Un personaggio come Kusa, legato all’eliminazione dei dissidenti all’estero e alle torture e persecuzioni degli oppositori del regime, non serviva più al dittatore libico, anzi costituiva un intralcio. E' per questo motivo che il 5 marzo 2009 Musa Kusa veniva nominato Ministro degli Esteri ed estromesso dalla guida dell’External Security Service. Nonostante il tentativo disperato di Kusa di accreditarsi come capo dell'ESS – almeno ufficialmente l'organismo era inglobato in quello che allora si chiamava il Comitato Popolare Generale per le relazioni esterne – la nomina di Abu Zied Durda ai servizi esterni sgombrava il campo da qualsiasi dubbio. Durda era un personaggio di assoluto prestigio all’interno della gerarchia gheddafiana, sodale del dittatore fin dal colpo di Stato del 1969 e con una lunghissima esperienza in incarichi politici a livello centrale o periferico (Governatore di Misurata, sottosegretario al Ministero degli Affari Esteri, Ministro delle Municipalità, Ministro dell’Economia, Ministro dell’Agricoltura, sindaco di Jabal al Gharbi, Primo Ministro, Vice Presidente del Parlamento, ambasciatore all’ONU e in Canada, Segretario per le ferrovie e successivamente per le Infrastrutture). Durante il periodo dell’embargo americano sulla Libia e fino al 2003 (quando i rapporti bilaterali con Washington vennero normalizzati) Durda, benché ambasciatore all’Onu, era inserito nella black list del Dipartimento del Tesoro Usa. Anche se il suo successore non aveva esperienza specifica nel campo intelligence, Musa Kusa non poteva certo competere con lui al cospetto di Gheddafi. Peraltro, la scelta di Durda era mirata proprio a mettere a capo di quella struttura un uomo mai implicato nei lavori sporchi del regime. Anche se Musa Kusa aveva un fratello, Issa, che lavorava nella segreteria del raìs, sapeva che il suo regno era al tramonto. Un'ulteriore conferma arriva quando accompagna Muammar Gheddafi nella sua prima visita ufficiale in Italia nell’estate del 2009. Gli viene riservato un ruolo di secondo piano nella delegazione. Musa Kusa sa che la sua kabila di appartenenza, la Ghemanda, è piccola e non gli garantisce il necessario supporto tribale in caso di disgrazia politica. La fuga Il declino del suo potere e constatata la bassa considerazione del dittatore, per Kusa il passo verso la fuga ed il tradimento è pressoché inevitabile. Sa che la sua nomina al dicastero degli Esteri è probabilmente una fase intermedia prima della sua definitiva defenestrazione. E’ l’unico riguardo che gli riserva il dittatore. Questa volta percepisce che non può contare sulla sua buona stella come quando era stato condannato, nel novembre 1998, a 7 anni di carcere per non meglio definite “inadempienze” (forse amministrative, leggi appropriazione di soldi) per poi essere graziato e riabilitato dal dittatore che forse a quel tempo aveva ancora bisogno di un fedele, benché disonesto, esecutore di epurazioni. Quando scoppia la rivolta armata contro il regime il 15 febbraio 2011, Musa Kusa capisce subito che è meglio abbandonare la barca del regime. Lo fa prima di tanti altri. Per lui tradire non è mai stato un problema etico. Né lo è giocare su più tavoli il proprio destino. Con cura cerca la soluzione ai suoi problemi. Degli italiani non si fida. L’amicizia tra Muammar Gheddafi e Silvio Berlusconi rende l’ipotesi di asilo in Italia impraticabile. Non è chiaro se abbia provato anche con francesi, ma pare abbia ricevuto un rifiuto. I francesi hanno ancora un conto in sospeso con Abdallah Senussi, sodale di Musa Kusa, per l’attentato contro un aereo dell’UTA, saltato in aria in Niger durante un volo da Brazzaville a Parigi il 19 settembre 1989 (morti 156 passeggeri e 14 membri dell’equipaggio). Per Senussi era stato emesso a suo tempo un mandato di cattura internazionale. Musa Kusa sa invece che con gli americani e gli inglesi ha una linea di credito aperta. Ha negoziato il risarcimento per le vittime dell’attentato al volo PAN AM 103, scoppiato in volo per una bomba il 21 dicembre 1988 (morti 243 passeggeri e 16 membri dell’equipaggio), l’abbandono da parte libica del programma per le armi di distruzione di massa nel 2003, ha collaborato nella liberazione di due ostaggi austriaci in Mali nel 2008 e ha giocato un ruolo nel rilascio delle infermiere bulgare a Benghazi. Inoltre, a seguito della svolta “filooccidentale” del dittatore, aveva cooperato con molti Servizi stranieri nella lotta al terrorismo islamico. La normalizzazione dei rapporti libici con gli Stati Uniti ed il Regno Unito avevano portato rappresentanti della CIA e del MI6 a Tripoli fin dal 2004. La Libia di Gheddafi era del resto fortemente presente nell’assistenza di intelligence ai Servizi dei Paesi della fascia sub-sahariana. E il Direttore dell’ESS conosceva tutto di quella parte di mondo essendo stato implicato in tutti i negoziati sviluppatisi negli ultimi 20 anni. Non è un caso che Musa Kusa, negli anni precedenti la rivolta, fosse spesso invitato a Langley, in Virginia, quartier generale della CIA. L'oblio Al momento dello scoppio della guerra civile in Libia Musa Kusa sa che il suo bagaglio di conoscenze potrebbe essergli estremamente utile. Conosce il dispositivo militare, i rifugi del dittatore e le sue idiosincrasie, le strutture di sicurezza. E' in definitiva portatore di una dote che può essere mercanteggiata in cambio di un lasciapassare per la sua vita futura. E come spesso accade, in questo mercimonio il suo passato fatto di morti ammazzati, torture e persecuzioni viene dimenticato. Cade nell'oblio il fervente membro dei Comitati Rivoluzionari che grazie alle sue idee estreme era riuscito ad entrare nelle simpatie di Gheddafi. Uno dei fondatori, nel 1985, della Mathaba ( noto anche come “Centro” per la lotta all’imperialismo, al sionismo, al razzismo ed al fascismo”) attraverso la quale la Libia finanziava il terrorismo internazionale e che è stato guidato da Musa Kusa fino al 1994, quando era stato nominato a Direttore dell’ESS. Il direttore della Mathaba Kusa era responsabile anche delle attività estere e cioè del sostegno al terrorismo e dell'eliminazione degli oppositori. Il compito di Musa Kusa era quello di sguinzagliare i propri sicari in giro per il mondo per fare fuori chi si opponeva al raìs. Lui stesso era rimasto implicato in un attentato in Gran Bretagna nel 1985. E chi meglio di lui poteva prendere il posto del Capo dei Servizi per continuare lungo questo excursus ad honorem? Gli inglesi tutto questo lo dimenticano. Non rammentano di averlo espulso dal proprio Paese nel giugno del 1980 perché dall'interno della sede diplomatica libica aveva complottato per eliminare due esuli libici e intrapreso contatti con l'IRA in Irlanda del Nord. In quella circostanza Musa Kusa aveva rivendicato al Times il diritto all'uso della violenza contro gli oppositori. Cancellato anche il ricordo di Yvonne Fletcher, una poliziotta inglese uccisa da un colpo di fuoco sparato dall'ambasciata libica a Londra contro una folla di manifestanti anti-Gheddafi. E in qualità di responsabile estero della Mathaba, Kusa aveva titolo in questi tipo di reazioni. Del resto Londra non si era posta il problema di negoziare con Musa Kusa la liberazione per motivi umanitari di Ali Mohamed Megrahi, l'uomo dei Servizi libici condannato per l'attentato di Lockerbie. Malato di cancro e dato prossimo alla morte, Megrahi è rientrato a Tripoli il 20 agosto del 2009 ed è stato accolto da eroe. Il suo trapasso “imminente” è arrivato soltanto tre anni più tardi. E sempre per Lockerbie era stato Kusa a trattare con gli americani il risarcimento alle vittime. Gli Stati Uniti non si erano chiesti che ruolo avesse svolto lo stesso Musa Kusa in quell'attentato. Sta di fatto che il 28 marzo 2011 Kusa fugge, passa il confine con la Tunisia e fa una sosta a Djerba. Il 30 marzo prende un volo per l’Inghilterra dove vivono i suoi nipoti. Il regime cerca inizialmente di mascherare la sua defezione con una missione diplomatica, ma la verità alle fine emerge. Il 5 aprile gli americani decidono di scongelare i suoi conti finanziari e dandogli quindi la possibilità di appropriarsi di tutti i soldi accumulati all’estero (e nessuno si domanda mai come) che gli permettono di vivere agiatamente. Anche l’Unione Europea, nella persona dell’Alto rappresentante per la politica estera, l’inglese Catherine Ashton, dichiara che sul personaggio, in quanto disertore, non verranno applicate alcun tipo di sanzioni. Funzionari del governo inglese affermano che Musa Kusa è libero di andare e venire dall’Inghilterra quando vuole. Al momento della sua fuga la moglie, Naima Mohammed al Zarroug, viene arrestata in Tripoli. Stessa sorte tocca ai suoi 4 figli (i maschi Sager e Jamal e le femmine Belkis e al Kansa ) dei quali non si hanno notizie. Dopo qualche giorno passato da ospite in qualche casa sicura del MI6 (dove avrà avuto il tempo di vuotare il sacco ), Musa Kusa riparte per Doha, in Qatar, dove risiede tuttora. Prima in un hotel di lusso, adesso sembra in un appartamento. E’ abbastanza giovane (è nato a Tajura nella periferia di Tripoli il 15.12.1947) ed avrà tutto il tempo per godersi la vecchiaia con il prezzo del suo tradimento. Abdel Salam Mohammed Musa Kusa, mandante o forse anche esecutore di delitti, cacciatore di oppositori all’estero per eliminarli o torturali, finanziatore del terrorismo internazionale in qualunque parte del mondo, personaggio connivente con tutte le efferatezze del regime per oltre 40 anni, non esiste più. Il ricordo rimarrà vivo forse solo nella memoria di quelle famiglie che hanno avuto morti in casa in seguito a dei suoi ordini. Sul banco degli imputati dove oggi siedono tutti gli attori protagonisti della dittatura di Gheddafi che stanno affrontando un processo che li vedrà condannati, molti anche alla pena capitale, la sedia di Musa Kusa è vuota. E anche la nuova dirigenza emersa dalla guerra civile, per un'inspiegabile dimenticanza (o forse per qualche accordo leonino nel mondo grigio dello spionaggio), si è dimenticata di chiedere l'estrazione di Kusa come fatto per altri alti papaveri del regime. Nessuno a Tripoli ha sollevato il suo caso dinanzi alla Corte Criminale Internazionale. Il silenzio e l’oblio sono il prezzo pagato al tradimento. L’ITALIA ED IL CASO SNOWDEN Per capire bene dove stanno le responsabilità delle intercettazioni verso vari Paesi, anche amici, bisogna partire non solo da chi le fa, ma anche da chi, a diverso titolo, concorre a questa attività. Esiste infatti, nel campo delle intercettazioni, un accordo che lega 5 paesi: Stati Uniti, Inghilterra, Canada, Nuova Zelanda e Australia. Tutte le informazioni di interesse raccolte in questo ambito sono rese note agli appartenenti al sodalizio. Chiaramente, quello che avviene nel quadro europeo interessa maggiormente USA e Inghilterra mentre, magari, quello che passa attraverso il contesto asiatico è di maggiore interesse per neozelandesi ed australiani. Durante la guerra in Iraq esistevano già queste compartimentazioni: nell’ambito dell’alleanza militare internazionale c’era un terminale informatico dedicato alle intercettazioni a cui potevano accedere soltanto i Paesi membri dell'accordo già citato. Agli altri si faceva sapere, in modo più vago e qualora necessario, qualche notizia di interesse specifico (e questo con buona pace di quell’urgenza di sapere che molte volte un campo di battaglia impone). Un club esclusivo Ma torniamo al cuore del problema: perché questo sodalizio di matrice anglofona? Perché il settore delle intercettazioni è il più delicato di tutti e sarebbe complicato rendere partecipi tanti altri Servizi a causa di quanto può potenzialmente emergere durante questa attività. Da un lato, infatti, quando si comunica una notizia derivante da una intercettazione si rende nota la propria capacità tecnica - in altre parole, anche se non esplicitato, con l'informazione si svela come vi si accede - e questo implica il disvelare la propria capacità di penetrazione all’interno di un Paese o di un sistema. Quindi, per evitare di incorrere in problemi di lesa maestà, di rischiare di urtare altrui suscettibilità, di dare informazioni a Paesi il cui il grado di affidabilità andrebbe comunque valutato alla luce della notizia fornita, questo ristretto club di Servizi di ispirazione anglosassone ha da sempre il privilegio di sapere tutto e subito. Gli altri Servizi, magari, possono eventualmente essere messi al corrente in un momento successivo, ovviamente solo se ritenuto opportuno e con i dovuti accorgimenti per non fare trapelare le modalità di acquisizione. Questa premessa è necessaria per far capire che se c’è una colpa per le intercettazioni in Europa, questa va divisa in parti uguali tra Stati Uniti e Regno Unito. Non solo perché nell’ambito del citato sodalizio sono questi i due attori operativi principali, ma anche perché, oltre alle intercettazioni satellitari, sono su territorio inglese le più grosse centrali di ascolto di cui si servono gli americani per prendere di mira l’Europa. Ma non c’è solo il problema delle intercettazioni, ma anche quello, ancora più delicato, della decrittazione. Quando una notizia è in chiaro basta intercettarla e offrirla alla conoscenza del club. Quando una notizia viaggia nell’aria o su internet in modo cifrato (e, quindi, si presume si tratti di informazioni sensibili e l’originatore cerca di proteggerne il contenuto) c’è la necessità di decrittarla. E mantenere il segreto su questo aspetto tecnico è fondamentale. Sono quindi numerosi i segreti che attengono al sistema delle intercettazioni ed è per questo cruciale mantenere alto il livello di segretezza. Un Paese che accede a delle notizie o se le tiene per sé oppure, in alternativa, le condivide soltanto con gli amici più fidati con cui, ovviamente, partecipa anche alla fase tecnica di acquisizione. Si intercettano comunicazioni radio e qualunque cosa circoli nell’etere. Si intercettano i telefoni e le comunicazioni che viaggiano via filo o attraverso i ponti radio. Si intercetta, come ampiamente riportato dalla stampa, anche il traffico internet. E come si intercetta, contestualmente si decritta. Tutto ciò avviene tutti i giorni nel mondo. E nel gioco delle parti si può essere contemporaneamente attore o vittima di questo sistema. Non ci sono amici o nemici, ma interessi di circostanza che rendono l’amico un nemico o viceversa. Snowden e l'Italia Ma veniamo al caso italiano. Dalle rivelazioni di Edward Snowden emerge chiaramente come anche l’Italia, assieme ad altri, sia stata oggetto di intercettazioni. Alcuni Paesi si sono ribellati, hanno risposto indignati alle rivelazioni del tecnico della NSA, altri, come l’Italia, hanno minimizzato la circostanza. Qui però si lascia il campo dell’intelligence perché la questione è squisitamente politica. Alla luce delle rivelazioni il Primo Ministro pro-tempore, Enrico Letta, interpella i Servizi e chiede loro: vi risulta che il sistema delle comunicazioni governative e delle ambasciate sia stato oggetto di spionaggio e compromissione? Risposta negativa. Cosa potevano rispondere i Servizi: che le ambasciate erano intercettate e il sistema telefonico compromesso? Potevano forse offrire una risposta diversa visto che la protezione delle comunicazioni è competenza dell’AISE mentre il controspionaggio dell’AISI? Potevano i Servizi forse ammettere di non essere stati in grado di fronteggiare questo tipo di penetrazione di intelligence "amiche" e straniere verso il proprio Paese? Poteva il capo del DIS, fino a poco tempo prima Segretario Generale della Farnesina, ammettere che il sistema delle comunicazioni del Ministero degli Esteri faceva acqua da tutte le parti? Poteva l’AISE, competente per tutti i sistemi cifranti (apparecchiature, crittazione e decrittazione) delle varie istituzioni statali (ambasciate, ministeri, forze di polizia ecc.), ammettere il rischio di compromissione dei sistemi attualmente operativi? Poteva l’AISE, che provvede anche alla formazione ed indottrinamento del personale adibito ai sistemi cifranti, ammettere che forse qualche addetto ai lavori potesse avere avuto dei comportamenti tali da compromettere i sistemi? Ma tutte queste domande il Primo Ministro italiano non se le è poste. Lui voleva solo preservare i difficili equilibri del suo governo e, nel contempo, evitare frizioni con gli americani. Forte delle risposte dei Servizi, il Premier è andato in Parlamento dove ha riferito quello che i Servizi gli avevano appena detto. Niente di più, niente di meno. Chiaramente le cose non stanno come diceva l'allora Primo Ministro Letta perché le rivelazioni di Snowden erano molto articolate. Indicavano dei picchi di ascolto a cavallo delle crisi di governo, davano anche delle cifre sul numero di intercettazioni telefoniche fatte in un mese in Italia: 45 milioni. E anche per quanto riguarda le ambasciate fornivano dei dati precisi. La realtà Ma veniamo adesso alla realtà dei fatti. La prima verità è che a Roma staziona, all'interno dell'ambasciata degli Stati Uniti, un rappresentante della NSA. Il suo lavoro sono le intercettazioni ed il personaggio è in contatto con i Servizi italiani. La seconda verità è che sui tetti delle sedi diplomatiche degli Stati Uniti in Italia - su Via Veneto a Roma e sul Consolato di Milano - ci sono, benché mimetizzate, delle antenne adibite all’intercettazione. Le due circostanze confermano, qualora ve ne fosse il bisogno, l’interesse e la capacità di intercettazione da parte americana sul territorio italiano. Certo, gli americani non vanno a dire ai colleghi italiani che intercettano le loro comunicazioni, ma qui subentra la collaborazione a livello di intelligence tra i due Paesi. Le leggi sulle intercettazioni in Italia sono molto restrittive. Anche i Servizi, per poter esercitare il controllo di alcuni obiettivi operativi (comunicazioni telefoniche o altro), hanno bisogno di una autorizzazione della magistratura. Ne consegue che se il Servizio italiano ha difficoltà ad ottenere le dovute autorizzazioni ha solo due strade: o intercetta senza l’autorizzazione della magistratura (con i rischi che l’iniziativa comporta) o si avvale della cooperazione e dell’aiuto di chi si dedica a questa attività senza restrizioni di sorta. Ed è questo il caso della NSA. Questo è un'altro chiave di lettura delle risposte che i Servizi hanno dato ai quesiti del Primo Ministro. Potevano loro accusare gli americani quando fanno parte, magari su obiettivi operativi congiunti e con il loro beneplacito, di questa attività occulta? E siccome nel mondo dell'intelligence ognuno cura i propri interessi, gli americani, nell'ambito di questa discrezionalità operativa concessa loro, hanno fatto i propri comodi. Il rapporto che lega i Servizi italiani a quelli americani è talvolta anche di sudditanza. Le benemerenze che i vari vertici dei Servizi ottengono dai giudizi positivi degli americani arrivano generalmente sul canale politico e sono solitamente foriere di brillanti carriere. Il caso dell’attuale direttore dell’AISE, Alberto Manenti, è uno di questi. Non ci si deve quindi meravigliare delle risposte date al Primo Ministro dai vertici dei Servizi e dell’utilizzo acritico che questi ne ha fatto per superare indenne l'ennesima crisi governativa. Qualora occorressero ulteriori prove sulla volontà italiana di tenersi fuori dalle vicende di Edward Snowden basti pensare che l’individuo aveva richiesto l’asilo anche all’Italia e che gli è stato rifiutato. Il sotterfugio procedurale, come reso noto dall'allora Ministro degli Esteri Emma Bonino al Parlamento, era tutto sommato banale: una richiesta di asilo si può prendere in considerazione soltanto se il richiedente è fisicamente nel nostro Paese. E questo non era, guarda un po’, il caso in questione. LA CIA, LA GERMANIA ED IL RUOLO DI UN CAPO STAZIONE La crisi che si è determinata nei rapporti tra Germania e Stati Uniti dopo la scoperta che la CIA aveva una fonte all’interno del BND tedesco (Bundesnachrichtendienst, il Servizio di Intelligence Federale) ed un’altra all’interno del Ministero della Difesa, ripropone il presunto problema etico se sia lecito o meno che un Servizio considerato “amico” cerchi notizie e fonti all’interno di un Servizio o di un Paese alleato. Nel caso specifico due Paesi entrambi membri della NATO quindi con condivisioni di notizie, informazioni, iniziative politiche, strumenti militari e quanto altro occorra contro nemici comuni. Posta in questi termini, la risposta potrebbe essere che la CIA non doveva cercare notizie in casa di amici e che quindi quello che ha fatto è eticamente disdicevole, contrario ai principi di una collaborazione – proprio perché tra Paesi “amici” – basata sulla fiducia reciproca e sulla correttezza di comportamenti. La crisi tedesco-americana nasce nell’ottobre del 2013 quando le rivelazioni di Edward Snowden rendono pubblico il fatto che tanti Paesi europei erano stati oggetto di intercettazioni da parte della NSA americana. Tra le utenze intercettate vi era anche il telefono personale del cancelliere tedesco. Tuttavia, con la scoperta della rete di spie nelle istituzioni tedesche, la supposta devianza dell’attività informativa della CIA è diventata oggetto di un incidente diplomatico tra i due Paesi. Domande superflue La prima domanda da porsi potrebbe quindi essere: ha fatto male la CIA a reclutare delle fonti per carpire notizie dalla Germania? La risposta è che la CIA svolge il proprio lavoro, raccoglie notizie che possono interessare il proprio Paese e – nello svolgimento di questa attività – prescinde dal fatto che l’oggetto di una raccolta informativa sia una nazione considerata amica. Inoltre, nel caso specifico, la Germania è un Paese importante sia sul piano industriale che finanziario. Ci sono interessi commerciali bilaterali. Ha un ruolo primario nei rapporti con i Paesi dell’est europeo ed è un Paese guida dell’Unione Europea. Questo giustifica l’interesse della CIA? La risposta è sì. Ma allora dove sta l’errore? Solo nel fatto che, maldestramente, la sua rete di informatori è stata scoperta a causa della scarsa professionalità del Capo Stazione. La seconda domanda è: quando la CIA ha svolto questa attività di ricerca informativa contro la Germania, lo ha fatto celando la circostanza ovvero derogando dalle direttive del proprio Presidente? La risposta è che un Servizio informativo, come nel caso della CIA, riceve input (richieste informative) da parte del sistema politico e si adopera di conseguenza per soddisfare le esigenze del richiedente. Quando, nell'ottobre del 2013, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha dichiarato pubblicamente che non sapeva che il telefonino della cancelleria tedesca Angela Merkel fosse sotto intercettazione non diceva, sostanzialmente, cosa vera. Difficile credere che Obama, quando gli arrivavano sul tavolo informazioni sulla Germania, abbia evitato di domandarsi come facevano la NSA e la CIA a sapere tante cose sulle intenzioni e decisioni di Angela Merkel, sulle attività dei Servizi tedeschi e su quella del loro Ministero della Difesa. Peraltro, ad ogni notizia che arriva sul tavolo di un vertice politico viene sempre dato un grado di attendibilità e si specifica se l’origine è di natura tecnica (intercettazioni o altro) o humint (le fonti). Questa è una regola, un modus operandi che vale dappertutto, Stati Uniti, Germania e Italia compresi. Anche perché è sull'attendibilità della notizia che poi il politico prende le sue decisioni. In altre parole, la CIA riceve richieste informative, elabora operativamente la maniera per ottemperare a queste richieste (ed è qui l’unica autonomia di cui gode), trasmette al richiedente quanto raccolto al riguardo e fornisce a queste informazioni un grado di attendibilità (fornendo quindi un vago accenno al sistema di raccolta). Barack Obama quindi sapeva, almeno in quota parte, da dove arrivavano le sue informazioni. E questo a prescindere se John Brennan, nominato al vertice della CIA proprio da Obama, abbia informato il suo comandante in capo, come potrebbe avvenire nell’ambito di un rapporto fortemente fiduciario tra due persone, sulla fonte delle sue notizie. Anche se Angela Merkel ha posto la questione della relazione con gli Stati Uniti sul piano etico, nella vicenda in questione non è sicuramente quello il parametro di riferimento. Così come ha fatto cenno ad un inutile dispendio di energie nello sviluppare attività informativa verso un Paese amico. Non vi sono dubbi che nel mondo dell’intelligence, con tutto il terrorismo islamico e non attualmente in circolazione, vi siano priorità più importanti. Ma è altrettanto vero che la CIA, insieme ai Servizi russi e cinesi, è uno dei pochi organismi di intelligence di portata mondiale. Gli altri Servizi hanno dispositivi geograficamente più limitati, mentre la CIA ha uomini dappertutto. Non solo nei Paesi oggetto di interesse informativo primario, ma anche nei Paesi amici, Germania compresa. La CIA si può permettere il lusso anche di controllare e penetrare dal punto di vista di intelligence un Paese alleato. Ha i soldi, il personale e le capacità tecniche per farlo. Il Capo Stazione A questo punto occorre però effettuare una valutazione di merito sull’operato del Capo Stazione (per alcuni altri Servizi si usa il termine di “antenna” o “Capo Centro”) della CIA a Berlino, il personaggio che ha determinato la crisi tra Germania e Stati Uniti. La figura del Capo Stazione è una di quelle più ricorrenti fra i Servizi di intelligence. Quando le circostanze lo permettono (ed è quasi sempre), un Servizio distacca presso un altro Paese un proprio rappresentante. A volte si tratta di una rappresentanza incrociata: un rappresentante di ciascun Paese presso la struttura omologa nei rispettivi Paesi. Dove viene collocata questa persona? Generalmente nell’ambasciata del proprio Paese perché il più delle volte è la soluzione più pratica. Questa soluzione ha anche indubbi vantaggi: dà al rappresentante una copertura operativa (vale solo verso l’esterno dell’ambasciata perché all’interno della stessa tutti sanno chi è), permette all’interessato di frequentare il mondo diplomatico nelle varie occasioni sociali (e questo agevola contatti con altri stranieri o con colleghi omologhi), si garantisce il fatto che l’ufficio dove svolge la sua attività e dove sono raccolti documenti ed equipaggiamenti sia localizzato in un sistema di protezione che solo una rappresentanza diplomatica concede, ma soprattutto fornisce al personaggio una garanzia personale. Infatti, il Capo Stazione ha generalmente lo status diplomatico e, come nel caso specifico di Berlino, scoperta la sua attività di spionaggio, non rischia l’arresto ma solo la cacciata dal Paese. Un non addetto ai lavori potrebbe chiedersi, a ragione, se non esista una contraddizione tra il fatto di essere conosciuto dal Servizio del Paese in cui si viene ospitati e, nel contempo, svolgere attività informativa, presumibilmente occulta, contraria agli interessi di quel Paese. La figura del Capo Stazione ha generalmente questi requisiti e anche queste limitazioni; è sicuramente oggetto anche di controlli da parte del controspionaggio locale. Vige una regola non scritta che concede al personaggio una certa libertà di movimento e di attività (soprattutto se collocato in un Paese “amico”), ma entro certi limiti. Lo sa lui, lo sa il Paese che lo ospita e lo conosce. Questo perché, almeno ufficialmente, il Capo Stazione dovrebbe essere dedicato alla sola attività di collaborazione con il Servizio locale, ma entrambe le parti in causa sanno che ciò non avviene. Il Capo Stazione svolge la propria attività operativa, si muove in autonomia alla ricerca di informazioni che gli possano essere utili, ha contatti con i propri connazionali, con stranieri e (con molta prudenza) anche con gente locale. Il tutto, come detto, nei limiti che possono essere individuati nel grado di suscettibilità della controparte. Molte volte il Capo Stazione è solo lo specchietto per le allodole per i Servizi locali. Si dedica solamente alla parte ufficiale della collaborazione, mentre altri personaggi non conosciuti ai Servizi locali svolgono lo spionaggio propriamente detto. Questo è un caso ricorrente per alcuni Servizi ed una regola per quelli di spessore mondiale come la CIA. Generalmente nelle ambasciate americane non ci sono solo uomini della CIA (di cui alcuni noti alla controparte e altri “occulti”), ma anche rappresentanti di altre strutture intelligence: NSA (per le intercettazioni), talvolta FBI e DEA (se ci sono questioni legate al traffico di droga o altra criminalità organizzata), DIA (nell'ufficio dell’Addetto Militare), uomini dei Servizi di Forze Armata qualora qualche contingente americano stazioni nel Paese (ed è il caso della Germania). Infine ci sono anche persone collocate in strutture esterne all’ambasciata, come società aeree, ditte, imprenditori ecc. Viaggio di solo ritorno Nel caso del Capo Stazione CIA di Berlino quindi la colpa è doppia: essersi fatto scoprire, non avere utilizzato al meglio le risorse informative alternative alla sua persona. Questa considerazione postula un giudizio negativo sull’efficienza del personale della CIA? Non necessariamente, anche se si potrebbe fare una considerazione che non riguarda solo il Servizio americano, ma anche altri Servizi: nei posti “comodi” (intendendo per comodi quelli dove i rischi sono minori, la qualità della vita per il Capo Stazione e familiari è sicuramente gradevole, le incombenze sociali sono superiori alle incombenze operative) ci vanno generalmente i raccomandati. E questo a volte va a scapito della qualità professionale del designato. Il povero Capo Stazione di Berlino credeva di passare i suoi tre anni (questo è generalmente il periodo di assegnazione previsto) in assoluta tranquillità, sapeva di rischiare poco perché il BND non era particolarmente interessato al suo comportamento. Ma poi è venuta fuori la storia delle intercettazioni, le rivelazioni di Snowden, la questione del telefonino della Merkel e questo ha fatto salire l’attenzione dei Servizi locali sul suo operato. Ma lui non lo ha capito, lo ha capito tardi o non ha saputo utilizzare al meglio le sue qualità professionali. E questo gli ha fatto guadagnare un viaggio di solo ritorno a Langley. Rimane però il fastidio da parte di un Paese che si vede oggetto di penetrazione informativa da parte di un Paese alleato ed amico. Un fastidio che una come la Merkel che ha vissuto nella Germania dell’Est sotto le pressanti invadenze della famigerata Stasi (Ministerium fur Staaatssicherheit – Ministero per la Sicurezza dello Stato) conosce molto bene. Anche gli USA conoscono meglio di altri questo genere di fastidio a seguito del caso di Jonathan Pollard che forniva notizie al Mossad e che dal 1986 è tuttora confinato in una prigione americana. Ultimamente, dopo le rivelazioni di Snowden, è emerso come anche la CIA spiasse l’attività del governo israeliano. Sembra quindi adesso essere ritornata alla ribalta la possibilità che Pollard venga finalmente liberato. Un do ut des per azzerare i rispettivi risentimenti. Quindi, come si vede, tutti spiano tutti. Il problema non è etico visto che nel mondo dello spionaggio non vi sono amici o nemici, ma solo interessi. E chi meglio sa garantisce un miglior risultato ai propri interessi nazionali.