Prologo Mentre posava con attenzione un piede

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Prologo Mentre posava con attenzione un piede
Prologo
Mentre posava con attenzione un piede davanti all’altro sulle
pietre del ripido sentiero che si snodava tra la roccia e il torrente gonfiato dal disgelo, Delfina si chiese se le fate e gli elfi la
stessero osservando,
Aveva quattordici anni, un’espressione grave e attenta a
dispetto della giovane età, era alta e slanciata, e aveva gambe e
braccia lunghe e magre: forse troppo lunghe e magre per i suoi
gusti, anche se la governante continuava a ripeterle che stava
bene così. I capelli castani erano raccolti in trecce, e gli occhi
marroni brillavano del senso di smarrimento e al tempo stesso di
libertà che provava in quel momento. I seni e i fianchi erano
appena accennati e i servi, con sua grande collera, ancora non
smettevano di apostrofarla in modo scherzoso e bamboleggiante.
La governante non le avrebbe mai permesso di uscire da sola
dal castello, che era poi costituito da un torrione di legno circondato da una palizzata che s’inerpicava sul pendio. La costruzione risaliva all’epoca delle incursioni dei Mori, baluardo della
cristianità nella terra delle due Dore. Il marchese di Monferrato
aveva donato quel feudo al padre di Delfina come compenso per
aver combattuto al suo fianco contro gli odiati comuni di Asti e
Vercelli.
Ormai, nell’anno del Signore 1204, ser Ivaldo era passato a
miglior vita e Delfina trascorreva la maggior parte del tempo
filando in solitudine nella torre del castello. Ma non aveva nessuna intenzione di trascorrere così anche le prime giornate di
primavera.
Sedette accanto all’acqua che saltava sulle pietre e sulle
balze per riprendere fiato, dissetarsi e bagnarsi le mani, il collo
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RICCARDO BORGOGNO
e la fronte. Le trecce per un attimo toccarono l’acqua: subito la
fanciulla indispettita le sollevò e le trattenne. Si rialzò e, guardò
attraverso l’aria tersa, le imponenti cime sormontate da chiazze
bianche, alla cui base troneggiava la corona verde scuro di roveri, larici e faggi. Laggiù dimorava Azaria.
Invece delle fate e degli elfi, Delfina riuscì a scorgere in lontananza solo un carro. Avanzava lentamente trainato da un bue
e un villano vi camminava accanto, mentre un altro vi era sistemato sopra. La fanciulla conosceva tutti i contadini che lavoravano nelle terre di suo padre, anche perché non erano molti.
Delfina si rialzò e riprese a camminare. Mano a mano il sentiero si allargava ed ella poté persino correre, sollevando la larga
veste di cotone. Si guardò intorno, vide che il carro era scomparso, lasciò il sentiero e si diresse con decisione verso il bosco
immergendosi nella penombra fresca e rugiadosa.
Ora i suoi piedi affondavano nell’erba alta, sentiva la rugiada sotto le scarpette di feltro e spesso si trovò a dover scostare i
rami bassi e i cespugli per farsi strada. Finalmente arrivò davanti alla piccola casa. La parte inferiore dell’unica parete circolare era di pietra, mentre la parte superiore era costituita da zolle
erbose tenute insieme da fango seccato.
Nello spiazzo davanti alla capanna era scavata una piccola
fossa in cui giacevano ammucchiati rami carbonizzati e cenere
grigia. Un filo di fumo saliva dalla brace che ancora rosseggiava tra i rami e la cenere.
Delfina chiamò: “Azaria! Azaria!” Non ricevendo risposta
avanzò, scostò la tenda che nascondeva l’ingresso ed entrò nella
capanna. Per varcare l’uscio dovette chinarsi leggermente, e
dentro, venne subito assalita da un’ondata di profumi. L’accolse
una voce gracchiante: “Un regalo! Un regalo per la strega! Un
regalo!”
“I miei omaggi, maestà!” rispose ridendo Delfina. Il corvo di
casa sbatté le ali nerissime e saltellò sul suo trespolo.
All’interno si trovavano i tronchi ben tagliati e legati insieme che reggevano la casa. Il pavimento era di pietra, ma coper-
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to da uno spesso strato di erba e foglie che lo rendevano morbido e caldo. La maggior parte dell’unico vano era occupato da un
giaciglio, posato direttamente sul pavimento, da una cassa di
legno su cui erano ammucchiati alcuni panni, e da una serie di
oggetti che non sarebbe stato facile trovare in un qualunque
posto diverso da quello. Dove, infatti, ci si sarebbe potuti imbattere in una scimmia impagliata, in un teschio umano, o nella statua di un mostruoso essere umano dotato di una fluente barba,
di corte corna e di un paio di mammelle sul petto?
Completavano questa tetra rassegna una fila di vasi di coccio in cui - Delfina lo sapeva - erano contenute erbe, fiori, semi,
radici e funghi suddivisi secondo il tipo. Erano proprio quei vasi
la fonte degli odori e dei profumi tanto intensi e pungenti che
l’avevano accolta, e Delfina non capiva come Azaria potesse
vivere in mezzo a essi. La risposta risiedeva evidentemente nel
fatto che la padrona di quella casa trascorreva la maggior parte
del tempo all’aria aperta.
Delfina si accovacciò e accostò il naso a uno dei vasi.
“Dulcamara!” disse sicura. Passò a un secondo vaso.
“Giusquiamo!” sentenziò.
Posò anche quello, annusò il terzo vaso e disse: “Elleboro!”
Ma non fece in tempo ad annusare il quarto vaso.
“Come hai osato invadere la mia dimora, piccola bambina
viziata?” una voce improvvisa la fece voltare di scatto.
Sulla soglia ora vi era una donna che teneva scostata la tenda
con la sinistra e, con la destra, sorreggeva un sacco.
“Ti prego di perdonarmi, Azaria, signora della magia e della
notte!” mormorò Delfina. Aveva assunto un tono piagnucoloso
e guardava di sottecchi la nuova arrivata. Era sempre accovacciata accanto ai vasi.
“Perdonarti?!” la voce della nuova arrivata era tonante.
“Non lo so se il tuo affronto può essere perdonato! Stanotte
interrogherò le stelle, e se il loro responso sarà negativo...” La
donna tacque e fissò la fanciulla con aria severa, poi disse:
“Credo proprio che dovrò mangiarti!”
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“Oh no!” gridò Delfina. Entrambe scoppiarono a ridere.
Risero a lungo, prima di potersi fermare per riprendere fiato.
“Cos’hai nel sacco?” chiese Delfina.
“Me lo domandi? Neonati che stanotte ho rapito dalla culla!”
rispose la nuova arrivata, e le due donne risero di nuovo. Senza
aspettare il permesso, Delfina aprì il sacco e annusò le piante
che Azaria aveva raccolto durante la notte.
“Ah! Ecco le prove della tua stregoneria! Tutte piante velenose!”
“Ma allora vuoi davvero che ti mangi!” scherzò Azaria.
“Aiuto!” gridò Delfina lasciando cadere il sacco per correre
fuori dalla casa. Azaria la inseguì e, poco dopo, si buttarono
entrambe ansimando all’ombra di una quercia.
Azaria aveva un’età indefinibile, ma la sua folta chioma
rossa indicava che l’inesorabile marcia della vecchiaia non era
ancora cominciata. Nemmeno un nastro o un fermaglio mettevano ordine alla criniera che le ricadeva selvaggia sulle spalle.
Le piccole e sottili rughe sulla pelle bruna tradivano una vita
passata al sole e al vento, gli occhi erano grandi e verdi, le membra robuste, abituate a sopportare la fatica.
Il corpo era insaccato in una tonaca verde stretta in vita da
una corda, i piedi nudi affondavano nell’erba. Unico tocco di
raffinata eleganza l’anello, che scintillava a un dito della mano
destra.
“Hai visto che ormai anch’io so distinguere le radici, le foglie
e le erbe? Forse ormai riuscirei anch’io a guarire i malati.”
“Davvero? E come cureresti la febbre?”
“Uhm... lasciami pensare.” La fanciulla levò gli occhi alla
volta verde del bosco e li chiuse.
“Pensaci pure, ma prima che il malato muoia,” ammonì
Azaria.
“Ci sono!” Delfina aprì gli occhi e gridò come davanti a un
folto pubblico: “Salice rosso! La corteccia del salice rosso è
astringente, antifebbrile e antireumatica!”
“E con la congestione polmonare?”
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“L’erba polmonaria! Con la decozione nel vino si ottiene una
bevanda che vince la congestione polmonare, allevia l’asma e
agisce come espettorante.”
Azaria sorrise senza parlare.
“Allora, Azaria, cosa ne dici?”
“Sì, Delfina, hai imparato bene.”
La fanciulla gustò quelle parole come fossero un dolcissimo
elisir di miele. Ma improvvisamente Azaria assunse un’aria di
rimprovero e sbottò: “È molto che non vieni più dalla vecchia
strega. Credevo che ormai fossi troppo abituata alle comodità
del castello per inoltrarti nel bosco.” Delfina si rabbuiò.
“Ho capito, è successo qualcosa. Cos’è successo?”
Delfina la guardò con gli occhi lucidi di lacrime. Si tirò su e
si inginocchiò. Ora sovrastava Azaria, semisdraiata nell’erba
alta e morbida.
“Dovrò sposare ser Fulgenzio di Pinerolo, che discende da
un ramo della Casata dei Savoia. Mia madre mi ha già promessa. Il matrimonio avverrà tra un anno. Il nostro castello entrerà
a far parte del suo feudo.”
“E tu cosa ne pensi?”
“Ho visto quell’uomo e non mi piace, è rozzo e volgare.”
“L’hai detto a tua madre?”
“Odio mia madre. È crudele ed egoista. Per convenienza non
tiene conto dei miei sentimenti. Per lei io non esisto.”
Delfina tacque, fissò Azaria e, fermamente decisa a ottenere
ciò che voleva, disse: “Azaria, voglio che tu mi porti nel regno
delle fate e degli elfi.”
Azaria sorrise, si rialzò a sua volta dall’erba e fece per
rispondere, ma Delfina continuò decisa e rabbiosa: “D’ora in
poi voglio vivere con le fate e gli elfi. Non voglio più vedere né
mia madre né alcun altro. Cioè, voglio vedere te, ma tu conosci
la strada del regno fatato, e quindi ci vedremo ancora. Non mi
importa più nulla di questo mondo e di questa vita.”
La donna del bosco afferrò entrambe le mani della fanciulla
e disse con voce bassa e calma.
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RICCARDO BORGOGNO
“Delfina...”
“E poi voglio...” riprese la fanciulla.
“No, ora taci e ascoltami. Non posso portarti nel regno delle
fate e degli elfi, poiché non esiste.”
“Non esiste?!” Delfina spalancò gli occhi, stupita e addolorata. “Ma tu me ne hai sempre parlato! Me l’hai anche mostrato! Io l’ho visto! Esiste e io voglio andarci!”
“No, mia principessa. Quando eri piccola ti ho raccontato
molte fiabe sulle fate e sugli elfi, e piano piano ti sei convinta
della loro esistenza e che addirittura li hai visti. Ma ora non sei
più una bambina e devi capire la differenza tra le fiabe e la
realtà!”
“No! Non voglio!” gridava ora Delfina. “Tu devi portarmi
adesso dalle fate e dagli elfi, così mia madre non mi troverà più
e capirà quanto male mi ha fatto.”
“No, Delfina, io non ti porterò dalle fate e dagli elfi. Tu
dovrai rimanere in questo mondo, perché qui è il tuo destino.”
“Allora sei egoista e crudele, come mia madre!”
Ma ormai Delfina capiva che la battaglia era irrimediabilmente perduta e, a questo punto, i singhiozzi scoppiarono impetuosi. La donna l’abbracciò e aspettò che il temporale si affievolisse. Allora la scostò da sé, sempre tenendole le mani, e, fissandola, riprese dolcemente a parlarle.
“Tua madre è stata saggia. Una donna sola non può reggere
il castello. Ella non può farlo e non puoi farlo nemmeno tu.
Crudele non è lei, ma il mondo. Tua madre ha fatto quanto è
meglio per entrambe in un mondo come questo.”
“Ma io... io non voglio!”
“Delfina, sta succedendo qualcosa contro cui non esistono
rimedi magici.” La donna del bosco continuò con tono calmo e
dolce: “La tua fanciullezza sta finendo e tu devi fare non ciò che
ti piace ma quello che è possibile. Io so come far nascere un
bambino o guarire la rogna. Ma non posso fermare il tempo né
cambiare il mondo. Non saprebbe farlo nemmeno il mago
Merlino. Non esiste magia tanto potente.”
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I raggi del tramonto giocavano sul volto di Azaria, che s’interruppe e fissò la sua giovane amica. “E poi è meglio anche per
te. Una donna non sposata non può vivere in questo mondo,”
concluse.
“Tu vivi senza essere sposata. Sai tante cose, fai quello che
vuoi e non hai bisogno di nessuno,” la interruppe Delfina quasi
gridando, con il volto ancora rigato dalle lacrime. Azaria rise,
ma di un riso malinconico.
“Delfina carissima! Non guardare me! Io sono una strega, lo
sanno tutti! Tu non puoi fare come me! Tu non sei come me!”
“Non sono come te? Ma tu mi hai insegnato tante cose! Io
ora sarei capace di fare tante cose!”
“È vero, hai imparato molto e riesci a fare tante cose che faccio io, ma la questione è un’altra.” Azaria tacque, abbassò gli
occhi, sospirò, poi volse lo sguardo intorno. Infine tornò a fissare la fanciulla.
“Faccio quello che voglio, dici tu. Sarei libera, tu credi.
Forse è vero. Ma ho pagato un prezzo, per questo.”
“Vuoi dire... il diavolo...” mormorò Delfina sgranando gli
occhi.
“No, non è quello il prezzo. Non ho venduto l’anima al diavolo. Non ho mai avuto la ventura di conoscere questo signore,
nessuno ci ha mai presentati. No, il prezzo è un altro. Io ho
amato, e ho sofferto per questo.”
“Hai amato... un uomo?” Delfina non aveva mai pensato che
la donna del bosco in tutta la sua vita potesse essere mai stata
innamorata.
“Sì, un uomo, molto tempo fa. Ci amavamo molto, ma egli
voleva che... che dimenticassi tutto questo,” e indicò la capanna, “che lasciassi il bosco, che andassi a vivere con lui, che
badassi ai nostri bambini. In cambio, avrei vissuto in una casa
comoda, avrei mangiato tutti i giorni, avrei avuto una serva ai
miei ordini,” fece una pausa “Sarei stata una donna rispettabile.
Una signora,” terminò sospirando.
“E tu... hai rifiutato?”
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“Ecco, questo è il prezzo che ho pagato. Il prezzo da pagare
è la solitudine, l’incertezza, la paura. Spesso ho sofferto la fame,
spesso sono fuggita. Credi che non senta i mormorii alle mie
spalle quando vado al borgo? Tutti vengono da me quando
hanno bisogno ma, quando passo per la strada, chiamano i bambini e li chiudono in casa.”
“Ma io...”
“Non voglio dire che per te sarebbe così. Cerca di capirmi.
Voglio solo dirti che ogni cosa porta con sé il suo contrario.
Credimi, tua madre ha progettato per te la vita migliore che tu
potessi avere in questo mondo e in questo tempo.”
“Ma tutto quello che mi hai sempre detto?”
“Tu non dimenticherai mai quello che ti ho insegnato. Ma
resterà un capitolo nel libro della tua vita.”
Azaria prese Delfina per mano e la accompagnò su per il
sentiero scosceso, accanto al torrente. Camminando mano nella
mano, Delfina rivide l’anello che la donna del bosco portava al
dito. Su di esso era inciso uno stemma nobiliare di cui non
aveva mai conosciuto la provenienza, né aveva mai osato chiederla. Ma ora la curiosità risvegliata dal racconto dell’amica la
spinse a indagare.
“Azaria, è forse stato l’uomo da te amato che ti donò questo
anello?”
“No. L’uomo di cui ti ho parlato mi ha sì fatto dei doni, ma
si tratta di doni che non si vedono e non si toccano.”
“E allora da dove proviene questo anello? E cosa significa
questo stemma?”
“Ohi, ohi, amica cara! Oggi hai saputo qualche segreto della
donna del bosco. Ma non chiedere altro. Non è possibile sapere
tutto.”
Immerse nei loro discorsi non si erano accorte di essere
giunte in vista del castello. Allora Delfina si incamminò da sola
e, quando si voltò un’ultima volta, la donna del bosco non vi era
più.
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* * *
Janicot si guardò intorno e sorrise. Aveva trovato il posto che
cercava. La folla si snodava e ondeggiava tra i carri e i banchi
della fiera come un gigantesco serpente multicolore che vocia,
ride e impreca. Donne grasse dal volto rubizzo e ragazze magre
dalle lunghe trecce si mescolavano a uomini alti, bassi, tozzi o
robusti. La maggior parte erano contadini con le brache di
cuoio, e i piedi infilati in pesanti zoccoli, ma vi erano anche
mercanti, più eleganti e puliti, e qualche armigero chiuso nella
sua cotta di maglia di ferro.
Era uno dei primi giorni di primavera, ma il sole non riusciva ancora a riscaldare l’aria né a prosciugare le fangose pozzanghere lasciate dal temporale di alcuni giorni prima, di cui
però parevano non curarsi i passanti, che le pestavano con indifferenza passando da un banco all’altro.
Janicot era alto e pallido, il volto glabro e affilato, i capelli
chiari elegantemente arricciati. Era un biondo strano il suo,
come se un pittore pazzo l’avesse ottenuto mescolando nella
tavolozza il giallo, il rosso e il grigio. Lo stesso pittore pareva
non essersi limitato a giocare con le tonalità della sua capigliatura schizzando anche di sfumature rosee la sua pelle pallida,
tirata sugli zigomi e sotto le orbite. Si sarebbe detto che Janicot
venisse dalle lontane e fredde regioni nordiche, tranne che per
l’aspetto poco robusto e muscoloso.
L’abito di fattura particolarissima gli conferiva un’aria
misteriosa perché sfuggiva a ogni classificazione. Sopra di esso
portava un ampio mantello di panno nero chiuso sulla spalla
destra da un legaccio composto da fili d’oro, che impediva di
scorgere alcunché. Dalle strette maniche che fuoriuscivano dal
mantello si distingueva solo il colore del tessuto rosso carminio.
Rosso era anche il berretto di cuoio, a cui era fissata una lunga
piuma di pavone. I polsini erano ricamati, alle mani portava un
paio di guanti di morbida maglia e ai piedi un paio di basse uose
dalla punta rialzata.
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Anche l’età era indefinibile. Sicuramente non superava i
trent’anni, ma il volto liscio, le labbra lievemente piegate in
basso ai lati e il portamento eretto potevano anche appartenere
a un fanciullo. Soprattutto gli occhi verdi sembravano esseri
viventi, piccoli animali agili e astuti accovacciati sul fondo delle
orbite ma pronti al balzo e alla rincorsa. Il suo sguardo guizzava a destra e a sinistra, come se l’uomo vestito di rosso non
volesse perdere nulla di ciò che avveniva intorno a lui.
Janicot si inoltrò nei meandri della fiera. Il primo banco su
cui posò gli occhi esponeva vasi e anfore di diverse forme e
misure. Dietro a esso l’artigiano e una cliente stavano animatamente contrattando; poi la donna mise alcune monete nella
mano del venditore, afferrò un’anfora e si allontanò mentre il
vasaio, con aria insoddisfatta, cominciava a contare le monete.
Un nobile, riconoscibile per il mantello ricamato e adorno di
frange e dal pesante medaglione al centro del petto, camminava
discutendo animatamente con un contadino, ciò che era possibile fare solo in occasioni come questa, prima di tornare ognuno
alla propria dimora e alle usanze del proprio rango.
Su un altro banco erano ammucchiati cavoli, carote e cipolle, mentre da un palo orizzontale fissato a due pali verticali pendevano quarti di maiale e di vitello. Su un carro scoperto erano
allineate botti di vino; una botte stava sull’erba, aperta: un uomo
immergeva nel liquido un mestolo di ferro che poi riversava nei
boccali di altri uomini che bevevano ridendo.
In uno spiazzo troneggiava una gogna di legno e ferro in cui
era imprigionato per la testa e le mani un uomo; in testa aveva
una massa biancastra da cui colavano rivoli bianchi che gli inondavano il viso sofferente. L’uomo aveva tentato di vendere
burro andato a male: la massa biancastra era l’oggetto del crimine, e il reo avrebbe finito di scontare la sua pena solo quando
il sole avesse sciolto per intero il burro posato sulla sua testa.
L’attenzione di Janicot fu attirata da un uomo a torso nudo
che impugnava in una mano una bottiglia e nell’altra una torcia
fiammeggiante. L’uomo ingollava un sorso dalla bottiglia, poi si
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IL BALLO DELLE STREGHE
portava la torcia alla bocca, e subito dopo sputava una lingua di
fuoco che suscitava le grida di ammirazione di un cerchio di
bambini. Più in là vi era un orso che, ritto sulle due zampe
posteriori, dondolava la testa massiccia con il muso chiuso in
una museruola di cuoio borchiato. Chi si fosse avvicinato avrebbe visto che, per evitare ogni rischio, l’animale era stato accecato.
Quando Janicot capì di essere arrivato nel luogo che faceva
per lui, gettò il mantello dietro le spalle, rivelando che davvero
era interamente vestito di rosso, tunica e brache. La giacca era
ricamata con fili neri che entravano e uscivano disegnandovi
nuvole, che forse erano mostri, ed era chiusa alla vita da una
fascia di seta arabescata.
Aprì la grossa sacca che era appesa alla sella del mulo e ne
trasse un piccolo corno. Se lo portò alla bocca e vi soffiò gonfiando le gote e traendone un suono lungo e melodioso che
indusse i più vicini a voltarsi.
Quando si accorse di essere al centro di una decina di sguardi, l’uomo vestito di rosso gridò: “Bella e gentile gente di
Billom! Io, Janicot, vi invito a vedere lo spettacolo che viene da
un altro mondo! Vi invito a vedere lo spettacolo che non ha mai
visto nessuno di questo mondo!”
La stranezza di quelle parole, pronunciata con voce chiara e
squillante, convinse chi si era girato ad avvicinarsi per capire e
vedere meglio, e altri ancora a unirsi ai primi.
I piccoli animali annidati nelle orbite dell’uomo vestito di
rosso guizzarono sul cerchio di uomini, donne e bambini.
Finalmente ritenne di aver prolungato abbastanza l’attesa, così
ripose il corno nella sacca, si sfilò i guanti e li infilò nella fascia
arabescata stretta alla vita. Anche quelle mani, piccole e sottili,
sarebbero potute appartenere a un fanciullo.
Con la mano destra slacciò il legaccio sulla spalla e lasciando cadere per terra il mantello nero, e con la mano sinistra trasse dalla sacca quattro palle di quattro diversi colori.
Assicuratosi ancora una volta di essere al centro dell’attenzio-
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RICCARDO BORGOGNO
ne, cominciò a lanciare le palle in alto e a riafferrarle al ritorno, e al tempo stesso a farle passare da una mano all’altra. In
questo modo ottenne un movimento circolare che diventava via
via sempre più veloce, finché le palle non furono più distinguibili. Tra le due mani che si muovevano vorticosamente si era
formato un solo cerchio dei quattro colori che sfrecciavano e si
sovrapponevano.
I contadini e i mercanti avevano già visto quel gioco molte
volte, ma ogni volta produceva lo stesso piacere e la stessa
ammirazione. Infine l’uomo rosso riafferrò le quattro palle e
non le rilanciò più ma, sempre tenendole due per mano, compì
un inchino lezioso che strappò vari risolini.
“Madonne e monsignori, io ho viaggiato in molti paesi e
visto cose meravigliose che intendo mostrarvi. Ma posso farlo
solo se uno di voi sarà così gentile da prestarmi il suo aiuto.”
La prima fila era formata da un cerchio di bambine e bambini per i quali la fiera era quasi l’unica occasione di divertimento in tutto l’anno. Un gruppetto era invece formato da giovani contadine dalle lunghe trecce che ogni tanto parlavano tra
loro sottovoce e scoppiavano in risolini. Una di esse aveva lunghi capelli rossi e un arcipelago di lentiggini sulle guance.
Janicot la indicò.
“Quella damigella, per esempio, con i capelli del colore del
fuoco, come il mio abito, mi sembra la più indicata per partecipare al prossimo gioco e guadagnarsi gloria e ammirazione.
Volete avvicinarvi, bella damigella?”
La contadina dai capelli rossi si guardò intorno con imbarazzo, ma le sue compagne scoppiarono a ridere e praticamente
la spinsero in mezzo al cerchio. Forse si sarebbe data alla fuga
ma Janicot l’aveva già presa per mano e, sorridendo, le si rivolse ad alta voce affinché tutti potessero udire.
“Come vi chiamate, bella damigella?”
“Madeleine,” rispose la fanciulla, e allora Janicot le si
mise di fronte, le posò le mani sulle spalle e la fissò negli
occhi.
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