Corrado Bevilacqua Marx, la teoria dell`equilibrio
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Corrado Bevilacqua Marx, la teoria dell`equilibrio
Corrado Bevilacqua Marx, la teoria dell'equilibrio economico generale e la crisi attuale I libri di http://www.laprimaradice.myblog.it Una crisi di civiltà, pdf La manovra, politici e tecnici nell'Italia della crisi, pdf La fine dell'utopia, pdf Alle origini della crisi, pdf La lampada di Aladino, come uscire dalla crisi, pdf Cari economisti, pdf Marxismo ed economia, pdf Economia politica e capitalismo, pdf L'orlo del baratro, pdf Collasso, pdf Where the world is going to, epub Prefazione. Nessuno l'aspettava. La crisi è arrivata improvvisa e violenta, come un temporale estivo. Eppure, c'erano state delle avvisaglie. Crisi messicana, crisi della New Economy, crisi delle Tigri asiatiche. Nessuno aveva, però, dato ad esse la dovuta importanza. Come ha scritto Kenneth Rogoff in uno studio per la Federal Reserve della California: “The fundamental flaw in these analyses was the assunption that advanced country capital markets were fundamentally perfect”. Abbiamo visto quanto fossero perfetti. I valori di borsa erano comunque troppo elevati rispetto ai “fondamentali”, c'era in giro troppa liquidità, c'erano troppi titoli ad alto rischio messi in circolazione dalle banche. In altre parole, si stava realizzando ciò che era previsto nel modello di Minsky. Parole al vento. Chi avrebbe dovuto ascoltare gli ammonimenti degli economisti più avveduti, non aveva alcuna voglia di starli ad ascoltare. S'era creato un clima che gonfiava di una euforia irrazionale la bolla speculativa che s'era areata attorno a dei titoli spazzatura. La bolla si gonfiò, si gonfiò, poi esplose come la rana che voleva diventare bue, splendida allegoria del capitalismo del nostro tempo. Un capitalismo che, sospinto dal vento sprigionatosi dall'implosione del comunismo sovietico, ha inondato di scintillanti monete false tutto il mondo che non era stato ancora conquistato alla sua causa. Un mondo di risorse da sfruttare a proprio piacimento. Un mondo intero da soggiogare alla logica della ricerca del massimo profitto. Un mondo intero nel quale diffondere il verbo del neoliberismo. Liberi di scegliere. Abbasso le regole. Viva la deregolamentazione. Liberalizziamo i servizi che oggi sono pubblici, prendiamoci l'acqua. E con l'acqua prendiamoci anche l'uomo che è per la maggior parte fatto d'acqua. L'acqua è un bene fondamentale, fonte essenziale di vita. Prendere l'acqua, privatizzarla, sottomettere il suo sfruttamento alla logica della ricerca del massimo profitto vuol dire prendere la vita delle persone, appropriarsi delle loro possibilità di sopravvivenza. L'ha spiegato molto chiaramente Vandana Shiva. Per i neoliberisti queste preoccupazioni sono un non senso. Per essi, ognuno di noi altro non è che una sorta di Robinson Crusoe e il mondo in cui viviamo altro non è che l'isola dove egli ricostruisce la propria vita. In realtà, nel petto di Robinson Crusoe alberga l'anima di Kurz, l'eroe negativo di Cuore di tenebra di Joseph Conrad: il pozzo nero del colonialismo europeo. Cartina di tornasole del “fardello dell'uomo bianco”. Cuofre di tenebra e Apocalyses now. Congo e Vietnam. Etica ed estetica. Necessità della scelta. Marlowe, l'io narrante del racconto d Conrad, si sente irresistibilmente attratto dall'alone di mistero che circonda la figura di Kurz, il cacciatore di negri che s'annida nel folto della foresta. Il Kurz di Conrad è una figura tragica. Il Kurz di Coppola è un personaggio da farsa. Né avrebbe potuto essere altrimenti, considerato il contesto: una guerra fatta più per far dispetto al proprio avversario che per convinzione. Una guerra che gli Usa non avrebbero mai potuto vincere. Una guerra tipica della Guerra fredda. Prodotto della teoria del domino.[The New York Times I documenti segreti deel Pentagono sulla guerra in Vietnam, Garzanti] Una guerra che dimostrò come il sogno americano, il sogno della città sulla collina, fosse ormai un lontano ricordo. Imperava la ragion di stato, la necessità di dimostrare la propria esistenza come superpotenza: tutti dovevano sapere che gli Usa non avrebbero mai consentito a nessuno stato al mondo di diventare comunista. Eravamo negli Anni 60. Essi s'erano aperti con la elezione di John F. Kennedy alla Casa Bianca. Un uomo giovane per una politica giovane. Walter Heller, suo consigliere economico, scrisse un manifesto per la politica economica della “nuova frontiera”. [W. Heller Le nuove frontiere dell'economia, Einaudi] Essi si erano chiusi con due anni di anticipo, nel 1968 con l'assassinio del fratello del presidente Kennedy, Bob, a Los Angeles per mano di Shiran Shiran, e con l'assassinio a Menphis di Martin Luther King, l'uomo che aveva un sogno. Oggi, tutto ciò è lontano da noi, avvolto nella nebbia dei ricordi, coperto dalla polvere del passato. L'Unione Sovietica non esiste più. Il nemico è scomparso nel nulla. L'impero del male è crollato e sulle sue ceneri è nato uno stato di tipo nuovo controllato da una nuova classe dirigente. Nuove potenze economiche si sono affacciate sulla scena mondiale mettendo in crisi le vecchie potenze capitalistiche occidentali che non riescono a tenere il passo dei nuovi concorrenti. La classe operaia, sulle quale Marx aveva puntato le sue speranze, è stata smembrata dalla rivoluzione informatica; è stata messa al tappeto dalla concorrenza delle nuove potenze economiche che possono contare su un enorme esercito industriale di riserva che abbassa il costo di riproduzione della forza lavoro a livelli preindustriali e mette fuori mercato i beni prodotti dalle economie capitalistiche occidentali. In un capitolo famoso dei Principi di economia pubblicati all'inizio dell'Ottocento, quando la Rivoluzione industriale era nella sua prima stagione, David Ricardo, ricco agente di cambio trasformatosi in economista, dimostrava che il Portogallo avrebbe guadagnato molto di più, nei suoi scambi con l'Inghilterra, se avesse continuato a produrre vino invece di mettersi a produrre il grano che importava dalla stessa Inghilterra. Il vantaggio sarebbe stato ancora maggiore, se invece di grano si fosse messo a produrre macchine. La Germania dimostrò che Ricardo sbagliava [T. Kemp L'industrializzazione in Europa nell'Ottocento, il mulino; id. Modelli di industrializzazione, Laterza; P. Bairoch Rivoluzione industriale e sottosviluppo, Einaudi]. Essa dimostrò, infatti, che era possibile per un paese non ancora industrializzato, com'era invece l'Inghilterra, industrializzarsi fino a superare la stessa Inghilterra grazie ad una oculata politica industriale che mettesse in uso le sue forze produttive, secondo gli insegnamenti di Federico List [F. List Il sistema dell'economia nazionale, Isedi]. Oggi, mutatis mutandis, è quanto sta succedendo nei rapporti fra potenze capitalistiche occidentali e nuove potenze economiche le quali stanno dimostrando che il problema della formazione del capitale nei paesi sottosviluppati può essere risolto attraendo capitali dall'estero grazie ai vantaggi comparati che la presenza di un enorme esercito industriale di riserva offre agli investitori esteri. Questo fatto, da un lato, ha mandato a gambe all'aria la divisione internazionale del lavoro e ha posto in serie difficoltà le potenze capitalistiche occidentali nelle quali il costo di riproduzione della forza lavoro è molto più elevato di quello esistente nelle nuove potenze economiche; dall'altro lato ha dimostrato che il problema del sottosviluppo era più un problema politico relativo al controllo straniero sull'uso delle risorse locali che un problema economico, relativo alla formazione del captale [R. Nurske La formazione del capitale nei paesi sottosviluppati, Einaudi]. L'economia di carta ha preso il sopravvento sull'economia reale, derivati, hedge funds hanno preso il sopravvento su fabbriche, operai, prodotti materiali. In altre parole, la ricchezza si è virtualizzata allo stesso modo che s'è virtualizzata la nostra vita. Esiste ciò che si vede in televisione. Noi siamo ciò che si legge nei nostri profili online. Lo spettacolo ha preso il sopravvento sulla realtà. Siamo degli alienati che vivono vite virtuali. Non siamo più Tizio, Caio, Sempronio, Mevio, Tullio, siamo i nostri Id online, le nostre passwords: 46maggio19. Marx asseriva che non è la nostra coscienza che fa il nostro essere sociale, ma è il nostro essere sociale che fa la nostra coscienza. Se è così, allora dobbiamo chiederci, qual è l'essere sociale di una ragazza dei call center; qual è l'essere sociale di un giovane precario. Come può svilupparsi una coscienza di classe in chi non ha classe di appartenenza, in chi trascorre la propria vita facendo i lavori più diversi per brevi periodi di tempo. Come può svilupparsi una professionalità in chi non ha una professione, in chi non ha mai imparato un mestiere; in chi sa far tutto perché ha sempre fatto dei lavori per i quali non era richiesta alcuna professionalità, alcun saper fare? Quale vita può mai costruirsi costui' E che senso può avere per lui una vita senza alcun punto di riferimento; una vita, per usare una celebre espressione di Deleuze e Guattari, da rizoma? Come può mettere radici chi non ha alcun terreno in cui porle? Non ha un futuro cui guardare con speranza? Che umanità è quella che stiamo generando? L'uomo, si dice, è un animale sociale che non può vivere isolato, come il protagonista del racconto Il lupo della steppa di Hermann Hesse. L'uomo, si dice, è un animale politico che non può vivere allo stato brado. Ha bisogno di un'organizzazione, come spiegò Platone. Lo stato esiste perché nessun uomo può fare da solo tutte le cose di cui abbisogna. In questo modo, si creò la prima elementare divisione del lavoro, nacquero le prime specializzazioni C'è chi si specializza nella produzione di punte di lancia e chi si specializza nella produzione di lame per coltelli. Chi si specializza nella produzione di fiocine e chi si specializza nella produzione di scodelle. Siamo ancora nella fase primitiva della divisione del lavoro; siamo, cioè, in quello che Adam Smith chiamava lo stadio rude e rozzo della storia della società. Smith vedeva, infatti, la storia come susseguirsi di fasi attraverso le quali l'uomo era passato dalla barbarie primitiva alla civiltà. Oggi barbaro è il diverso, l'altro, l'immigrato specialmente se è di colore; è chi parla un'altra lingua a noi incomprensibile, ha altri usi e costumi, venera un altro Dio. Questo fatto mette paura, rende più sottile la nostra percezione del rischio, ci fa sentire insicuri, determina la nostra domanda di sicurezza, anche se per ottenere maggior sicurezza dobbiamo rinunciare a parte della nostra libertà; dobbiamo accettare controlli che non avremmo mai accettato; accettiamo intromissioni nella nostra vita privata che avremmo sempre rifiutato. Ritorniamo così al punto di partenza. La crisi contro la quale stiamo lottando non è una crisi come le altre. Essa è molto più complessa; essa è espressione, infatti, dell'intrecciarsi di differenti crisi che hanno coinvolto la nostra economia, la nostra società la nostra politica, le quali richiedono per la loro soluzione il varo d'un insieme di misure di carattere economico, sociale, politico che l'attuale sistema economico-sociale non è in grado di offrire. Essa richiede quella che una volta si chiamava fuoriuscita dal sistema; superamento del capitalismo. Per andare dove? Non c'è stato spiegato che la storia è finita con il crollo dell'Unione sovietica. Che il comunismo mancò l'obiettivo e che non c'è alternativa al capitalismo? Se fosse davvero così, vorrebbe dire che il nostro destino è segnato. Io credo che un'alternativa essta. Occorre tornare alle origini, occorre riscoprire le nostre radici; occorre rifare a ritroso la strada computa da Marx. Marx era partito dalla critica della religione per arrivare alla critica della politica e quindi alla critica dell'economia politica da lui considerata la “anatomia della società civile” Noi dobbiamo partire dalla critica dell'economia politica – cosa resa più che mai necessaria dalla crisi – per arrivare alla critica della politica e quindi alla critica della religione. In altre parole, per scendere al concreto dobbiamo salire all'astratto. Come Marx scrisse infatti nella Einleitung, “il concreto è concreto perché sintesi di molte determinazioni e unità del molteplice”. Di ciò si discusse animatamente in casa marxista in Italia tra gli anni 50 e 60 a causa dello scandalo provocato dalla pubblicazione dell'introduzione di Lucio Colletti ai Quaderni filosofici di Lenin. Chi fosse interessato a quel dibattito, può leggere il libro di Franco Cassano Marxismo e filosofia in Italia. Qui basti ricordare come allora si fronteggiassero due posizioni, quella storicista e quella sociologica. L'esponente più acuto di quest'ultima fu senza dubbio Raniero Panzieri, il fondatore e l'animatore dei Quaderni Rossi; nonché il traduttore del secondo libro del Capitale di Marx ed autore con Lucio Libertini delle Sette Tesi sul controllo operaio del 1958. Da quelle tesi emergeva con chiarezza l'indivisibilità della democrazia, ovvero, la sua orizzontalità. Essa, per funzionare, deve essere presente in tutti gli ambiti della vita economica, politica, sociale, culturale. Non c'è democrazia nella società, se non c'è democrazia nelle fabbriche, se non c'è democrazia nei partiti... All'incontro, dalla analisi di Panzieri emergeva la tendenza caratteristica del neocapitalismo a uscire dalla fabbrica ed a occupare tutti gli spazi possibili fuori di essa. In tal senso è esemplare il cosiddetto Progetto 80 elaborato, nel 1966, dai tecnici del ministero del Bilancio e della programmazione economica. Tale tendenza venne analizzata in modo esemplare nella relazione sul neo-capitalismo tenuta da Panzieri al convegno di Agape del 1962. Tale teorizzazione verrà poi rielaborata da Mario Tronti in alcuni saggi fondamentali pubblicati sui Quaderni Rossi. Ora, ricordando questi antefatti, non voglio affermare che dobbiamo far nostre quelle analisi, ma intendo ricordare che ci fu un tempo in cui la sinistra era all'avanguardia nella produzione culturale e lo era perché aveva saputo mantenere, da un lato il legame con il proprio patrimonio culturale, vedi i saggi di Panzieri Plusvalore e pianificazione, e Sull'uso capitalistico delle macchine; dall'altro, aveva saputo mantenere vivo il legame con la propria “base”, vedi le cronache dei Quaderni rossi sulle lotte operaie dei primi anni 60. [M. Beaud Storia del capitalismo, Mondadori, A. Glyn Capitalismo scatenato, Brioschi, R. Reich Supercapitalismo, Fazi, P. Bowels Capitalismo, Il mulino, G. Ingham Capitalismo, Einaudi, A. Fontaine La Guerra fredda, Piemme, E. Formigoni La politica internazionale nel XX scolo, Il mulino, E. Di Nolfo Dagli imperi militari agli imperi tecnologici, Laterza, E. Galli della Loggia Storia del mondo contemporaneo, Il mulino, G. Arrighi Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, D. Harvey Storia del neoliberismo, Il saggiatore, J. Stiglitz Bancarotta, Einaudi, N. Roubini Non è fnita, Fetrinelli, R. Rajan Terremoti finanziari, Einaudi] Sezione. Il modello di Minsky. Hyman Minsky The financial instability hypothesis Working Paper No. 74 Jerome Levy Economics Institute of Bard College. The financial instability hypothesis, Minsky scrisse, has both empirical and theoretical aspects. The readily observed empirical aspect is that, from time to time, capitalist economies exhibit inflations and debt deflations which seem to have the potential to spin out of control. In such processes the economic system's reactions to a movement of the economy amplify the movement--inflation feeds upon inflation and debt-deflation feeds upon debt-deflation. Government interventions aimed to contain the deterioration seem to have been inept in some of the historical crises. These historical episodes are evidence supporting the view that the economy does not always conform to the classic precepts of Smith and Walras: they implied that the economy can best be understood by assuming that it is constantly an equilibrium seeking and sustaining system. The classic description of a debt deflation was offered byIrving Fisher (1933) and that of a self-sustaining disequilibrating processes by Charles Kindleberger (1978).Martin Wolfson (1986) not only presents a compilation of data on the emergence of financial relations conducive to financial instability, but also examines various financial crisis theories of business cycles.As economic theory, the financial instability hypothesis is an interpretation of the substance of Keynes's "General Theory".This interpretation places the General Theory in history. As the General Theory was written in the early 193Os, the great financial and real contraction of the United States and the other capitalist economies of that time was a part of the evidence the theory aimed to explain. The financial instability hypothesisalso draws upon the credit view of money and finance by Joseph Schumpeter (1934, Ch.3) Key works for the financial instability hypothesis in the narrow sense are, of course, Hyman P. Minsky (1975, 1986). The theoretical argument of the financial instabilityhypothesis starts from the characterization of the economy as a capitalist economy with expensive capital assets and a complex, sophisticated financial system. The economic problem is identified following Keynes as the "capital development of the economy," rather than the Knightian "allocation of given resources among alternative employments." The focus is on an accumulating capitalist economy that moves through real calendar time. The capital development of a capitalist economy is accompanied by exchanges of present money for future money. The present money pays for resources that go into the production of investment output, whereas the future money is the "profits"which will accrue to the capital asset owning firms (as the capital assets are used in production). As a result of the process by which investment is financed, the control over items in the capital stock by producing units is financed by liabilities--these are commitments to pay money at dates specified or as conditions arise. For each economic unit, the liabilities on its balance sheet determine a time series of prior 2 payment commitments, even as the assets generate a time series of conjectured cash receipts.This structure was well stated by Keynes (1972) : There is a multitude of real assets in the world which constitutes our capital wealth - buildings, stocks of commodities, goods in the course of manufacture and of transport, and so forth. The nominal owners of these assets, however, have not infrequently borrowed money (Keynes' emphasis) in order to become possessed of them. To a corresponding extent the actual owners of wealth have claims, not on real assets, but on money. A considerable part of this financing takes place through the banking system, which interposes its guarantee between its depositors who lend it money, and its borrowing customers to whom it loans money wherewith to finance the purchase of real assets. The interposition of this veil of money between the real asset and the wealth owner is an especially marked characteristic of the modern world."(p.l51) This Keynes "veil of money" is different from the Quantity Theory of money "veil of money." The Quantity Theory "veil of money" has the trading exchanges in commodity markets be of goods for money and money for goods: therefore, the exchanges are really of goods for goods. The Keynes veil implies that money is connected with financing through time. A part of the financing of the economy can be structured as dated payment commitments in which banks are the central player. The money flows are first from depositors to banks and from banks to firms: then, at some later dates, from firms to banks and from banks to their depositors. Initially, the exchanges are for the financing of investment, and subsequently, the exchanges fulfill the priorcommitments which are stated in the financing contract. In a Keynes "veil of money" world, the flow of money to firms is a response to expectations of future profits, and the flow of money from firms is financed by profits that are realized. In the Keynes set up, the key economic exchanges take place as a result of negotiations between generic bankers and generic businessmen. The documents "on the table" in such negotiations detail the costs and profit expectations of the businessmen: businessmen interpret the numbers and the expectations as enthusiasts, bankers as skeptics. Thus, in a capitalist economy the past, the present, and the future are linked not only by capital assets and labor force characteristics but also by financial relations. The keyfinancial relationships link the creation and the ownership of capital assets to the structure of financial relations and changes in this structure. Institutional complexity may result in several layers of intermediation between the ultimate owners of the communities' wealth and the units that control and operate the communities' wealth. Expectations of business profits determine both the flow of financing contracts to business and the market price of existing financing contracts. Profit realizations determine whether the commitments in financial contracts are fulfilled—whether financial assets perform as the pro formas indicated by the negotiations. In the modern world, analyses of financial relations and their implications for system behavior cannot be restricted to the liability structure of businesses and the cash flows they entail. Households (by the way of their ability to borrow on credit cards for big ticket consumer goods such as automobiles, house purchases, and to carry financial assets), governments (with their large floating and funded debts), and international units (as a result of the internationalization of finance) have liability structures which the current performance of the economy either validates or invalidates. An increasing complexity of the financial structure, in connection with a greater involvement of governments as refinancing agents for financial institutions as well as ordinary business firms (both of which are marked characteristics of the modern world), may make the system behave differently than in earlier eras. In particular, the much greater participation of national governments in assuring that finance does not degenerate as in the 1929-1933 period means that the down side vulnerability of aggregate profit flows has been much diminished. However, the same interventions may well induce a greater degree of upside (i.e. inflationary) bias to the economy. In spite of the greater complexity of financial relations,the key determinant of system behavior remains the level of profits. The financial instability hypothesis incorporates the Kalecki (1965)-Levy (1983) view of profits, in which the structure of aggregate demand determines profits. In the skeletal model, with highly simplified consumption behavior by receivers of profit incomes and wages, in each period aggregate profits equal aggregate investment. In a more complex (though still highly abstract) structure, aggregate profits equal aggregate investment plus the government deficit. Expectations of profits depend upon investment in the future, and realized profits are determined by investment: thus, whether or not liabilities are validated depends upon investment. Investment takes place now because businessmen and their bankers expect investment to take place in the future. The financial instability hypothesis, therefore, is a theory of the impact of debt on system behavior and also incorporates the manner in which debt is validated. In contrast to the orthodox Quantity Theory of money, the financial instability hypothesis takes banking seriously as a profit-seeking activity. Banks seek profits by financing activity and bankers. Like all entrepreneurs in a capitalist economy, bankers are aware that innovation assures profits. Thus, bankers (using the term generically for all intermediaries in finance), whether they be brokers or dealers, are merchants of debt who strive to innovate in the assets they acquire and the liabilities they market. This innovative characteristic of banking and finance invalidates the fundamental presupposition of the orthodox Quantity Theory of money to the effect that there is an unchanging "money" item whose velocity of circulation is sufficiently close to being constant: hence, changes in this money's supply have a linear proportional relation to a well defined price level. Three distinct income-debt relations for economic units, which are labeled as hedge, speculative, and Ponzi finance, can be identified.Hedge financing units are those which can fulfill all of their contractual payment obligations by their cash flows: the greater the weight of equity financing in the liability structure, the greater the likelihood that the unit is a hedge financing unit. Speculative finance units are units that can meet their payment commitments on "income account" on their liabilities, even as they cannot repay the principle out of income cash flows. Such units need to "roll over" their liabilities: (e.g. issue new debt to meet commitments on maturing debt). Governments with floating debts, corporations with floating issues of commercial paper, and banks are typically hedge units. For Ponzi units, the cash flows from operations are not sufficient to fulfill either the repayment of principle or the interest due on outstanding debts by their cash flows from operations. Such units can sell assets or borrow. Borrowing to pay interest or selling assets to pay interest (and even dividends) on common stock lowers the equity of a unit, even as it increases liabilities and the prior commitment of future incomes. A unit that Ponzi finances lowers the margin of safety that it offers the holders of its debts. It can be shown that if hedge financing dominates, then the economy may well be an equilibrium seeking and containing system. In contrast, the greater the weight of speculative and Ponzi finance, the greater the likelihood that the economy is a deviation amplifying system. The first theorem of the financial instability hypothesis is that the economy has financing regimes under which it is stable, and financing regimes in which it is unstable. The second theorem of the financial instability hypothesis is that over periods of prolonged prosperity, the economy transits from financial relations that make for a stable system to financial relations that make for an unstable system. In particular, over a protracted period of good times,capitalist economies tend to move from a financial structure dominated by hedge finance units to a structure in which there is large weight to units engaged in speculative and Ponzi finance. Furthermore, if an economy with a sizeable body of speculative financial units is in an inflationary state, and the authorities attempt to exorcise inflation by monetary constraint, then speculative units will become Ponzi units and the net worth of previously Ponzi units will quickly evaporate. Consequently, units with cash flow shortfalls will be forced to try to make position by selling out position. This is likely to lead to a collapse of asset values. E concludeva osseravndo che “The financial instability hypothesis is a model of a capitalist economy which does not rely upon exogenous shocks to generate business cycles of varying severity. The hypothesis holds that business cycles of history are compounded out of (I) the internal dynamics of capitalist economies, and (ii) the system of interventions and regulations that are designed to keep the economy operating within reasonable bounds.” La teoria classica del valore-lavoro. La teoria classica del valorelavoro aveva le sue radici nel cosiddetto individualismo possessivo e mirava a delegittimare tutte le forme di proprietà che non fossero frutto del lavoro umano. [G.B. Mcpherson Individuo e proprietà alle origini del pensiero borghese, Isedi] Famosa è, a questo riguardo, la affermazione di John Locke, contenuta nel Secondo trattato sul governo, secondo il quale, un uomo era proprietario di tanta terra quanta egli era capace di coltivare da solo. Nelle parole di Locke As much land as a man tills, plants, improves, cultivates, and can use the product of, so much as is his property. La teoria del valore-lavoro ebbe, all'origine un significato eversivo dell'ordine assolutistico esistente e Adam Smith può essere visto a giusto titolo come il rappresentate delle istanze rivoluzionarie della borghesia in ascesa [R. Meek Studi sulla teoria del valore lavoro, Feltrinelli] Secondo Adam Smith, la legge del valore-lavoro valeva, però, come legge regolatrice degli scambi, solo nello stadio rude e rozzo della società quando non esistevano ancora dei “possessori di fondi”. L'avvento di tali proprietari, cambiava l'assetto sociale dell'economia e rendeva i proprietari di fondi partecipi del processo di accumulazione di capitale. Per tale via, Smith introduceva quella che sarebbe poi diventata la teoria dei fattori della distribuzione. [K. Marx Teorie sul plusvalore, Editori riuniti] Every man is rich or poor according to the degree in which he can afford to enjoy the necessaries, conveniences, and amusements of human life. But after the division of labour has once thoroughly taken place, it is but a very small part of these with which a man's own labour can supply him. The far greater part of them he must derive from the labour of other people, and he must be rich or poor according to the quantity of that labour which he can command, or which he can afford to purchase. The value of any commodity, therefore, to the person who possesses it, and who means not to use or consume it himself, but to exchange it for other commodities, is equal to the quantity of labour which it enables him to purchase or command. Labour, therefore, is the real measure of the exchangeable value of all commodities. Per Smith, la ricchezza di una nazione altro non era che il suo fondo accumulato di lavoro, o, per dirla in altre parole, essa consisteva nella capacità dei possessori di fondi di mettere in moto lavoro, ovvero, diremmo oggi, di creare occupazione, attraverso una continua diffusione della divisione del lavoro. [G. Pietranera La teoria del valore e dello sviluppo in Adam Smith, Feltrinelli] Nelle parole di Smith, As it is the power of exchanging that gives occasion to the division of labour, so the extent of this division must always be limited by the extent of that power, or, in other words, by the extent of the market. When the market is very small, no person can have any encouragement to dedicate himself entirely to one employment, for want of the power to exchange all that surplus part of the produce of his own labour, which is over and above his own consumption, for such parts of the produce of other men's abour as he has occasion for. In linea enerale, scrive Smith, The division of labour, from which so many advantages are derived, is not originally the effect of any human wisdom, which foresees and intends that general opulence to which it gives occasion. It is the necessary, though very slow and gradual consequence of a certain propensity in human nature which has in view no such extensive utility; the propensity to truck, barter, and exchange one thing for another. Fondamentale era, in questo contesto, la distinzione fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, ovvero, per dirla con Marx, la distinzione fra lavoro che si scambia con reddito e lavoro che si scambia con capitale. Lavoro produttivo, nel senso della produzione capitalistica, scrisse Marx nelle Teorie sul plusvalore, è il lavoro salariato che, nello scambio con la parte variabile del capitale (la parte del capitale spesa in salario), non solo riproduce questa parte del capitale (o il valore della propria capacità lavorativa), ma oltre a ciò produce plusvalore per il capitalista. Solo per questa via la merce, o il denaro, è trasformata in capitale, è prodotta come capitale. È produttivo solo il lavoro salariato che produce capitale. (Ciò significa che esso riproduce, accresciuta, la somma di valore che è stata spesa in esso, ossia che restituisce più lavoro di quanto ne riceva sotto forma di salario. Dunque è produttiva solo la capacità lavorativa la cui valorizzazione è maggiore del suo valore.) La mere existence di una classe di capitalisti, quindi del capitale, dipende dalla produttività del lavoro, ma non dalla sua produttività assoluta, bensì dalla sua produttività relativa. Per esempio: se una giornata lavorativa fosse solo sufficiente a mantenere l’operaio in vita, cioè a riprodurre la sua capacità lavorativa, in senso assoluto il lavoro sarebbe produttivo, perché sarebbe riproduttivo, cioè sostituirebbe costantemente i valori che ha consumato (uguali al valore della sua propria capacità lavorativa). Ma non sarebbe produttivo nel senso capitalistico, perché non produrrebbe nessun plusvalore. Questa produttività dipende dalla produttività relativa, dal fatto che l’operaio non solo sostituisce un vecchio valore, ma che ne crea uno nuovo; dal fatto che egli oggettiva nel suo prodotto un tempo di lavoro maggiore di quello oggettivato nel prodotto da cui è mantenuto in vita come operaio. È su questa specie di lavoro salariato produttivo che si fonda il capitale, la sua esistenza. Da qui la polemica di Smith contro alcuni dei più rispettabili ordini della società che vivevano del lavoro altrui come preti, frati, comici e saltimbanchi. David Ricardo si mantenne fedele alla teoria del lavoro contenuto e cercò di risolvere per tutta la sua vita il problema della misura invariabile del valore. [C. Napoleoni Simth, Ricardo, Marx, Boringhieri] La rivoluzione marginalista. In cosa consiste la rivoluzione marginalista? Detto semplicemente, ha spiegato Enrico Saltari, essa consiste nella comparsa di una nuova teoria del valore di scambio ossia di una nuova spiegazione dei prezzi relativi, del valore di un bene in termini di un altro. Con la teoria dei classici (i cui rappresentanti più autorevoli furono Smith, Ricardo e successivamente Marx) il valore di scambio di un bene veniva ricondotto al costo di produzione espresso dal lavoro necessario a produrlo. Ora, con la rivoluzione marginalista, l’origine del valore di un bene viene rintracciata nella scarsità del bene medesimo ovvero nel fatto che il bene è “utile e disponibile in quantità limitata“, per usare la definizione di Walras. Il passo teorico decisivo compiuto da Jevons, Menger e Walras fu di individuare nell’utilità marginale lo strumento analitico in grado di misurare la scarsità e di farne con ciò stesso il fondamento del valore, anche se, come vedremo in seguito, il solo Walras riuscì a dedurre dall’utilità marginale una rigorosa teoria della determinazione dei prezzi. Interpretata in questi termini, la rivoluzione marginalista è assai meno rivoluzionaria di quanto l’etichetta lasci trasparire. L’utilità e la scarsità avevano già fatto la loro comparsa ben prima del 1870 come fondamenti del valore di scambio nelle opere di molti altri economisti. Per fare un solo accenno che ci tornerà comodo più avanti, Auguste Walras (il padre di Leon) aveva sostenuto più di quaranta anni prima che all’origine del valore si trovava non il lavoro ma la rareté, con un’espressione che il figlio riprenderà letteralmente nei suoi Elementi. Quella che si verificò nei primi anni del 1870 con le opere di Jevons, Menger e Walras non fu dunque affatto una trasformazione radicale e improvvisa, come dovrebbe essere una rivoluzione. Al contrario, la sua gestazione durò assai a lungo e impiegò poi più di un decennio per affermarsi. Per parafrasare una celebre definizione, se l’etichetta di rivoluzione marginalista è appropriata, lo è assai più per l’aggettivo che non per il sostantivo. Il motivo è che con la rivoluzione marginalista, e l’economia marginalista che ne derivò, fece per la prima volta la sua apparizione sulla scena della teoria economica il calcolo differenziale per via della determinazione delle posizioni di ottimo il cui ruolo è cruciale nella nuova teoria del valore. Insomma, nacque il connubio oggi noto come Economia matematica. Al centro della nuova concezione dell’Economia si trova il consumo, colto soprattutto sul terreno individuale, vale a dire inteso essenzialmente come soddisfazione dei bisogni del singolo. Ne discende che un bene in tanto ha valore ed è utile − è un bene economico − soltanto in quanto può provvedere direttamente o indirettamente alla soddisfazione dei bisogni. Il problema dell’individuo è di conseguenza di ripartire le risorse a sua disposizione tra i vari beni in modo tale che la soddisfazione dei bisogni, e quindi l’utilità che ne ritrae, sia massima. Guardando agli incrementi di utilità che quantità addizionali dei diversi beni danno – l’utilità marginale appunto – l’individuo è in grado di risolvere questo problema di massimo, determinando così le quantità “ottime” da destinare al consumo, tali cioè da massimizzare l’utilità. Supponiamo per semplicità che l’individuo sia in possesso di un solo bene. Secondo l’economia marginalista, questo bene verrà dapprima destinato a soddisfare i bisogni più urgenti perché è in questi impieghi che, per definizione, si ha l’utilità maggiore. Ma a mano a mano che si utilizzano dosi successive del bene a soddisfare questi bisogni, l’utilità che se ne ottiene è via via minore. L’utilità marginale è cioè decrescente. Questa è l’ipotesi cardine del marginalismo perché implica, dal punto di vista economico e formale, l’esistenza di una posizione di massimo. Proprio perché l’utilità marginale è decrescente, può verificarsi che divenga a un certo punto più conveniente destinare dosi ulteriori del bene ad altri bisogni, magari meno impellenti in assoluto ma che ora presentano un’utilità marginale più elevata. L’utilità totale sarà massima quando l’allocazione del bene tra i diversi bisogni sarà tale da renderne uguale in tutti gli impieghi l’utilità marginale. Se così non fosse, l’individuo non starebbe massimizzando la propria utilità: sarebbe infatti conveniente spostare l’impiego del bene dal bisogno dove l’utilità marginale è minore a quello in cui è maggiore, aumentando in questo modo l’utilità totale. Tale risultato teorico e che è alla base della nuova teoria del valore, denominato da Walras teorema dell’utilità massima, non fu affatto facile e scontato da raggiungere per i tre fondatori del marginalismo. Al contrario, venne ottenuto seguendo percorsi teorici spesso lunghi e tortuosi e soprattutto assai diversi tra loro. Questa diversità è rilevante. Mentre Jevons e Menger partirono dall’utilità marginale per arrivare, anche se non sempre in modo chiaro e rigoroso, alla spiegazione del valore di scambio, Walras seguì esattamente il percorso opposto: per Walras l’utilità marginale fu soltanto lo strumento concettuale che dava fondamento teorico alla teoria dello scambio e dei prezzi. Soltanto Walras riuscì a incastonare l’utilità marginale all’interno di quell’edificio mirabile di interrelazioni tra mercati noto oggi come teoria dell’equilibrio economico generale. Più precisamente, solo Walras riuscì a ricavare dal teorema dell’utilità massima le curve individuali di domanda e offerta e a determinare poi per aggregazione i prezzi di equilibrio. Ripercorrere sinteticamente le tappe principali della strada seguita da Walras per ottenere quei due risultati ci permetterà di apprezzare qual è stato il contributo specifico della Matematica (e dei matematici) all’Economia e quanto dell’armamentario da lui impiegato faccia ancora parte della cassetta degli strumenti dell’economista d’oggi. Walras eredita dunque dal padre il concetto di rareté come spiegazione e causa del valore di scambio. In realtà, l’eredità che Auguste Walras lascia al figlio è assai più consistente. Per avere un’idea di questa influenza, basti ricordare perché per Auguste Walras il concetto di scarsità era così importante. In un’opera pubblicata nel 1831 (De la nature de la richesse et de l’origine de la valeur) afferma che, indagando nelle sue ricerche filosofiche sull’origine e la natura della proprietà privata, si era imbattuto nello studio del-l’Economia politica e che da questo studio aveva tratto la conclusione che tra l’Economia politica e la teoria della proprietà sussistono rapporti assai stretti. La prima si occupa di tutti quei beni che hanno un valore di scambio e che per ciò stesso costituiscono la ricchezza sociale, come egli ama definirla; la seconda di tutto ciò di cui ha senso appropriarsi, cioè di tutti i beni “coercibili”. Ma all’origine di queste due qualità dei beni, il valore e l’essere oggetto di appropriazione, vi è un’unica causa, la rareté. Soltanto i beni utili ma disponibili in quantità limitata hanno, per Auguste Walras, valore di scambio; d’altra parte, soltanto di questi beni ha senso appropriarsi. Tuttavia, per Auguste Walras esiste una priorità logica. Si deve iniziare dallo studio del fenomeno del valore di scambio, per poi considerare quello dell’appropriazione, perché è il valore a motivare l’appropriazione, e non viceversa. Gli Elementi di Leon Walras, a partire dalla seconda edizione (1889), recano un sottotitolo assai meno noto che recita Teoria della ricchezza sociale e la succinta descrizione delle caratteristiche e dell’origine della ricchezza che abbiamo appena dato si trova quasi negli stessi termini all’inizio degli Elementi. Leon Walras definiva l’Economia politica come la catallattica, ossia come la teoria del valore di scambio che peraltro identificava esplicitamente con la teoria della ricchezza sociale. Ciò detto, rimane il problema della misurabilità della scarsità. Qui sta naturalmente la differenza più rilevante tra Auguste e Leon Walras. Per il primo, la scarsità di un bene è definita dal rapporto tra la quantità esistente e la quantità totale desiderata dagli individui (“la somme des besoins“). Auguste Walras ritiene che il rapporto così costruito sia misurabile e che quindi l’Economia politica sia una “scienza matematica”. Ma è proprio questo che non è possibile visto che, come lo stesso Auguste Walras riconoscerà trent’anni dopo in una lettera al figlio, non è chiaro come possa essere misurata la somma dei bisogni non esistendo un’unità di misura del bisogno. La ragione immediata ed evidente dell’impossibilità di definire questa unità è che non possiamo effettuare confronti interpersonali. Non possiamo cioè sommare bisogni individuali per loro natura eterogenei, perché espressi da soggetti tra loro diversi. Per dirla in altro modo, la definizione di scarsità di Auguste Walras non funziona perché in¬terpreta la scarsità dal punto di vista sociale. Questa è anche la strada intrapresa, almeno all’inizio, da Leon Walras e su cui continua a lavorare per ben dodici anni (dal 1860 al 1872) senza riuscire a trovare una via d’uscita. W. Jaffé ha suggerito che l’incontro “fatale” tra Economia e Matematica avvenne nel 1872. Proprio in quell’anno Walras ha modo di sottoporre un problema formale di cui non riesce a venire a capo a Paul Piccard, suo collega presso l’Università di Losanna dove insegnava Meccanica industriale e dove Walras stesso era professore di Economia politica dal 1870. Come si deduce da una lettera allo stesso Piccard del 1873, Walras ha compiuto notevoli progressi nel corso di quei dodici anni. Da un lato, ha elaborato una teoria generale dei prezzi: nel caso dello scambio afferma che, date le curve di domanda e le quantità esistenti dei beni, i prezzi vengono determinati attraverso l’equilibrio di domanda e offerta. Dall’altro, è arrivato a supporre che vi sia un’unità di misura dell’intensità dei bisogni riferita però – questo punto è decisivo – al singolo individuo e non all’insieme dei soggetti che desiderano un dato bene. Insomma, Walras ipotizza che esista una funzione di utilità individuale. Il problema cruciale che Walras non riesce a risolvere e che sottopone a Piccard è come si possa dedurre la funzione di domanda di un bene dalla funzione di utilità. La risposta formale si trova in una nota redatta dallo stesso Piccard e riprodotta nel primo dei volumi che raccolgono la corrispondenza di Walras. Ciò che colpisce in questa soluzione, scrisse Saltari, poi adottata da Walras, è non solo e non tanto l’approccio analitico quanto piuttosto che in essa si trova implicitamente la definizione formale di scarsità, ovvero l’utilità marginale. La soluzione di Piccard è assai semplice e si compone di una parte grafica e una più propriamente analitica. Nella pagina linkata ne riproponiamo una versione aggiornata. La breve nota di Piccard contiene la soluzione al problema (posto da Walras) di ricavare la funzione di domanda dalla funzione di utilità: se pensiamo al prezzo p come a una costante parametrica, la condizione del primo ordine per il problema di massimizzazione dell’utilità permette infatti di determinare quella che il più noto e rigoroso manuale di Microeconomia attualmente in circolazione denomina funzione walrasiana di domanda: possiamo cioè scrivere x = x(p) (trascurando l’influenza della quantità posseduta dell’altro bene y). È peraltro facile verificare che, se valgono le ipotesi walrasiane che le utilità dei beni siano indipendenti e che la condizione del secondo ordine sia soddisfatta, questa funzione di domanda è decrescente rispetto al prezzo così come ipotizzava Walras. Inoltre, consente di dare precisione formale al concetto di rareté attraverso l’impiego del calcolo differenziale, di dare cioè un contenuto alla definizione di rareté come “l’intensité du dernier besoin satisfait“ che si trova negli Elementi. Quanto di questa impostazione sopravvive ancora oggi? Per rimanere sul terreno dei rapporti tra Economia e Matematica, ci concentreremo sul problema della misurabilità dell’utilità, un tema cui Walras era particolarmente sensibile e su cui decise di sentire l’opinione di quello che era il matematico più importante e noto dell’epoca, Henri Poincaré. Per affrontarlo, partiamo da quella che appare come l’ipotesi meno realistica dell’impostazione walrasiana: l’utilità di un bene non dipende da quella dell’altro ossia i due beni sono tra loro indipendenti. A pensarci bene, è più difficile immaginare beni indipendenti piuttosto che beni dipendenti (complementari o succedanei che siano). In termini formali, questa estensione implica che l’utilità non è più separabile e che dobbiamo scrivere l’utilità totale U = U(x,y) senza poter separare le singole utilità dei due beni. In questo caso le utilità marginali, che indicheremo sinteticamente con Ux e Uy, saranno delle derivate parziali in cui l’utilità marginale del singolo bene dipende anche dalla quantità dell’altro bene. Questa estensione tuttavia non modifica di molto la condizione del primo ordine che ora diviene: Ux / Uy = p. Cambia naturalmente anche la condizione del secondo ordine che deve tener conto dell’interdipendenza tra beni attraverso la derivata parziale mista. Questa estensione al caso di beni dipendenti fu effettivamente perseguita da Pareto all’inizio del secolo scorso. La sua generalizzazione condusse tuttavia a qualcosa di più importante: l’abbandono della misurabilità dell’utilità e dell’ipotesi dell’utilità marginale decrescente. Quando introduciamo l’interdipendenza tra beni, abbiamo a che fare con tre variabili, l’utilità totale e le quantità dei due beni. Per rappresentare il comportamento del consumatore in un grafico a due dimensioni, Pareto suppone costante l’utilità. Si individuano in tal modo delle curve di indifferenza, convesse verso l’origine degli assi, che rappresentano l’insieme delle combinazioni delle quantità dei due beni (x,y) per cui l’utilità non varia e rispetto alle quali il consumatore è appunto indifferente. Si può mostrare che la posizione di ottimo del consumatore, e quindi le quantità scelte dei due beni, è caratterizzata dalla tangenza tra una data curva di indifferenza e il vincolo di bilancio. Ragionando in questo modo, tuttavia, ai fini della determinazione della posizione di ottimo non abbiamo più la necessità di conoscere il livello dell’utilità raggiunto ma soltanto che una combinazione di beni – (x*, y*) – è preferita alle altre. Siamo passati da una rappresentazione cardinale dell’utilità ad una ordinale. Con la prima, l’utilità è misurabile nel senso che è possibile stabilire un’unità di misura della soddisfazione anche se in senso solo soggettivo e quindi misurare l’utilità totale in base a questa scala (come avviene per il peso, la distanza o la temperatura). Si noti che l’unità di misura, e quindi l’utilità, è unica a meno di una trasformazione lineare (come per chilometri e miglia). Con la seconda, i valori assegnati all’utilità servono soltanto a ordinare le combinazioni di beni in base alle preferenze; l’utilità perde ogni significato quantitativo. Purché l’ordinamento rimanga inalterato, i valori assegnati possono cambiare: la funzione di utilità è unica a meno di una trasformazione monotona crescente. Per cogliere questo punto, vediamo come è possibile ricavare la condizione di ottimo prima vista utilizzando però l’apparato delle curve di indifferenza. La pendenza delle curve di indifferenza rappresenta il saggio di sostituzione di y con x ed è misurata, in valore assoluto, dal rapporto tra le utilità marginali. D’altra parte,la pendenza del vincolo di bilancio è, sempre in valore assoluto e nel piano (x,y), uguale al prezzo relativo p: per definizione, sul mercato possiamo sostituire y con x pagando p. Poiché l’utilità aumenta procedendo verso l’alto e a destra nel grafico, la posizione di ottimo si avrà quando curva di indifferenza e vincolo di bilancio sono tangenti. Nel punto di tangenza le due pendenze saranno uguali e dovrà perciò valere di nuovo la condizione di ottimo, in cui il saggio di sostituzione è uguale al prezzo. Per caratterizzare la posizione di ottimo, l’utilità marginale (come pure l’ipotesi che sia decrescente) non conta. Ciò che conta ai fini della massimizzazione dell’utilità è il rapporto tra le utilità marginali, cioè la scarsità relativa, e quindi il saggio di sostituzione tra i due beni. Per stabilire qual è il suo paniere preferito, il consumatore confronta quanto è disposto a “pagare” in termini di utilità rinunciando ad un dato bene con il prezzo di mercato. Quando la valutazione soggettiva della sostituibilità coincide con quella oggettiva del mercato, la posizione raggiunta non è ulteriormente migliorabile. Si noti un’altra significativa modifica rispetto all’apparato walrasiano. Affinché la posizione di ottimo così determinata sia effettivamente un massimo, non abbiamo più bisogno di ipotizzare (come fece Walras) che l’utilità marginale sia decrescente ma soltanto che le curve di indifferenza siano convesse ovvero che il saggio di sostituzione sia decrescente. È un’ulteriore prova del fatto che l’utilità è misurabile ma solo in senso ordinale e non cardinale: per determinare la posizione di ottimo, basta sapere che un paniere è preferito ad un altro ma non di quanto. La necessità di rinunciare all’utilità cardinale e di passare a quella ordinale era stata anticipata da Poincaré a Walras nella lettera dell’ottobre del 1901 riportata nel box, che afferma esplicitamente come la funzione di utilità che rappresenta le preferenze sia unica a meno di una trasformazione monotona crescente. Qualunque trasformazione della funzione di utilità che lasci invariato l’ordine delle preferenze del consumatore può essere considerata una valida funzione di utilità. L’osservazione di Poincaré sulla non unicità della funzione di utilità lascia peraltro intravvedere che dietro l’utilità vi è un oggetto più primitivo: le preferenze del consumatore, formalmente specificate da una relazione binaria definita sull’insieme delle alternative come (x, y) e su cui vengono imposti degli assiomi che si ritiene definiscano il comportamento del consumatore. L’esempio più rilevante di questi assiomi è che il consumatore sia razionale, il che significa che è sempre in grado di scegliere tra due alternative e che non si contraddice nelle sue scelte. L’idea di fondo dell’approccio assiomatico del comportamento del consumatore, quello che oggi ha finito con l’affermarsi, è che la funzione di utilità rappresenti le preferenze specificate dagli assiomi nel senso che dire che preferiamo una combinazione di beni a un’altra equivale a dire che l’utilità della prima è maggiore di quella della seconda. Non ci dilungheremo oltre su questo punto. Aggiungiamo solo che, se partiamo dalle preferenze e intendiamo da queste dedurre la funzione di utilità, l’assioma di razionalità non è di per sé sufficiente. Se vogliamo ottenere le curve di indifferenza del grafico, occorre imporre altri assiomi sulle preferenze come la monotonicità, la convessità, la continuità. Per Walras la questione della misurabilità dell’utilità rimase fino alla fine una questione cruciale. l’epoca. Anche se nessuno si sognerebbe di dire che le particelle stanno consapevolmente minimizzando qualcosa, si dice che esse hanno un comportamento che può essere descritto come se esse agissero in modo minimizzante. Viene inoltre introdotta la nozione di energia potenziale come un’entità non osservabile che può essere inferita soltanto dai suoi legami teorici con altre variabili. Qui per Walras si apre un importante parallelo con la sua costruzione teorica. Egli sostiene che le utilità marginali, e cioè le derivate parziali della funzione di utilità (che non sono osservabili), sono uguali a meno di una costante di proporzionalità ai prezzi (che sono invece osservabili). Così come le derivate parziali della non osservabile energia potenziale sono uguali alle componenti del vettore di forza. In conclusione , notò Saltari, si possono citare le parole di Poincaré: “Quando dunque ho parlato dei ‘giusti limiti’, non era assolutamente quello che intendessi dire. Ho pensato che all’inizio di ogni speculazione matematica ci sono delle ipotesi e che, perché questa speculazione sia fruttuosa, occorre, come del resto nelle applicazioni della Fisica, che ci si renda conto di queste ipotesi. È se si dimenticasse questa condizione che si supererebbero i giusti limiti. Per esempio, in Meccanica si trascura spesso l’attrito e si guarda ai corpi come infinitamente lisci. Lei guarda agli uomini come infinitamente egoisti ed infinitamente perspicaci. La prima ipotesi può essere accettata come prima approssimazione, ma la seconda necessiterebbe forse di qualche cautela.” Non è del tutto chiaro cosa intenda Poincaré quando critica l’ipotesi di Walras che gli uomini siano “infiniment clairvoyants“. Con ogni probabilità, si riferisce all’ipotesi che gli uomini siano sempre in grado di calcolare la loro posizione di ottimo in qualunque situazione per quanto complessa e quindi che siano perfettamente razionali. È in ogni caso del tutto evidente che, qualunque sia l’interpretazione, Poincaré solleva un problema di realismo delle ipotesi alla base della teoria walrasiana. Il problema nasce proprio dal tentativo di Walras (e più in generale del marginalismo) di “matematizzare” l’Economia inducendolo a fare ipotesi, come quella della perfetta razionalità, al fine di ottenere risultati formali. Sarebbe fin troppo facile concludere con questa accusa a Walras, di degenerazione nell’uso della Matematica e di scarso realismo, notando che a tutt’oggi pochi progressi sono stati fatti su questo terreno. Le critiche alla scarsità di realismo sono oggi amplificate dalla crisi finanziaria che ha riacceso il dibattito sulle (in)capacità previsive dell’Economia attribuite all’uso “eccessivo” dei modelli matematici. Sezione. Léon Walras. Separately but almost simultaneously with William Stanley Jevons and Carl Menger, scrisse William Jaffè, French economist Leon Walras developed the idea of marginal utility and is thus considered one of the founders of the “marginal revolution.” But Walras’s biggest contribution was in what is now called general equilibrium theory. Before Walras, economists had made little attempt to show how a whole economy with many goods fits together and reaches an equilibrium. Walras’s goal was to do this. He did not succeed, but he took some major first steps. First, he built a system of simultaneous equations to describe his hypothetical economy, a tremendous task, and then showed that because the number of equations equaled the number of unknowns, the system could be solved to give the equilibrium prices and quantities of commodities. The demonstration that price and quantity were uniquely determined for each commodity is considered one of Walras’s greatest contributions to economic science. But Walras was aware that the mere fact that such a system of equations could be solved mathematically for an equilibrium did not mean that in the real world it would ever reach that equilibrium. So Walras’s second major step was to simulate an artificial market process that would get the system to equilibrium, a process he called “tâtonnement” (French for “groping”). Tâtonnement was a trial-and-error process in which a price was called out and people in the market said how much they were willing to demand or supply at that price. If there was an excess of supply over demand, then the price would be lowered so that less would be supplied and more would be demanded. Thus would the prices “grope” toward equilibrium. To keep constant the equilibrium toward which prices were groping, Walras assumed—highly unrealistically—that no actual exchanges were made until equilibrium was reached. If, for example, people who wanted to buy ketchup wanted more than sellers were willing to sell, then they would buy none at all. This assumption limits the usefulness of Walras’s simulated process as an aid to understanding how real markets work. Walras’s sole academic job was as an economics professor at the University of Lausanne in Switzerland. This location was not ideal: because the dominant thinking in economics at the time was in Britain, it was difficult for Walras to affect the rest of the profession. Also, because his students were more interested in becoming lawyers than in becoming economists, Walras did not have disciples. Although his impact on economics was limited during his lifetime, it has been much greater since the 1930s. Historian of economic thought Mark Blaug wrote that Walras “may now be the most widelyread nineteenth century economist after Ricardo and Marx.” Walras’s father, the French economist Auguste Walras, encouraged his son to pursue economics with a particular emphasis on mathematics. After sampling several careers—he was for a while a student at the school of mines, a journalist, a lecturer, a railway clerk, a bank director, and a published romance novelist—Walras eventually returned to the study and teaching of economics. In that scientific discipline Walras claimed to have found “pleasures and joys like those that religion provides to the faithful.” Walras retired in 1902 at age fifty-eight. Léon Walras (1834-1910), whose full name was Marie Esprit Léon Walras, ricorda Jaffè (the final “s” is sounded), is celebrated among economists and econometricians as the first to have formulated a multiequational general equilibrium model of economic relationships. He was born on December 16, 1834, in Évreux, a provincial town of Normandy, France. Although he spent more than half his adult life in Switzerland, he retained his French citizenship. His patronymic was not French but a corruption of the Dutch surname of his greatgrandfather Andreas Walravens, a journeyman tailor who migrated in 1749 from what is now County Limburg in the Netherlands to Montpellier in the south of France. There the Walras family remained in modest obscurity until Antoine Auguste Walras, Léon’s father, was accepted as a student of the École Normale Supérieure in Paris, where he was a classmate of Antoine Augustin Cournot. Auguste Walras, author of De la nature de la richesse, et de I’origine de la valeur (1831), was an economist in his own right, although he failed to obtain a chair in economics and wasted his years as a minor administrator in the French educational system. His career was botched partly because of his outspoken anticlericalism, combined with a singular ineptitude in dealing with his hierarchical superiors, and partly because of his untimely advocacy of a utility theory of value, of land nationalization, and of radical tax reforms. Walras inherited his father’s traits of character in all too generous measure. He also adopted his father’s unorthodox economic views; indeed, his father was the only teacher of economics Walras ever had. His mother, Louise Aline nee Sainte Beuve, the daughter of a notary of Evreux, came from a locally prominent family that at times claimed the nobiliary particle de but was not of the same line as that of the famous literary critic Sainte Beuve. From his mother, Walras inherited the frugal, calculating temper of the Normans and, eventually, 100,000 francs. Walras’ early education followed the usual course for youths of his station, culminating in two baccalaureate degrees, one in letters, in 1851, and the other in science, in 1853. His curriculum included mathematics through high-school algebra and analytical geometry but nothing much beyond. In fact, his mathematical attainments proved insufficient to enable him to gain entrance to the école Polytechnique. Finally, in 1854, he was admitted as a nonresident student to the École des Mines in Paris. With Bohemian insouciance he neglected his engineering studies, which he found distasteful, and turned to literature. In 1858 he published a novel, Francis Sauveur, and in 1859 a short story, “La lettre,” in the Revue francaise. These pieces, although lacking in literary distinction, were not without significance, for they contained ideas inspired by the revolution of 1848 and, in most unlikely contexts, elements of economic reasoning that were clearly the first fruits of Walras’ upbringing in an economist’s household. Realizing that he was not meant for a literary career, he promised his father in the summer of 1858 that he would devote his life to economics. Professional openings for an economist in France of that epoch were extremely rare and were all the more inaccessible to Walras not only because he lacked the requisite formal university training but also because he stood outside the charmed circle of official French economists, who formed a closed corporation dedicated to the existing political and social order and to the dogma of unmitigated economic individualism. But Walras’ need to make a living was pressing, particularly when he set up house around 1859 with an unmarried mother, Celestine Aline Ferbach, and had twin daughters by her in 1863, one of whom died in infancy. It was not until 1869 that he married her, legitimizing her son and his own surviving daughter, Marie Aline. He tried his hand at journalism but was soon discharged because of the independence of his opinions. He worked for a while at the secretariat of the Chemin de Fer du Nord. Then, in 1864, he became managing director of a bank for cooperatives in which Léon Say was interested, but the bank was compelled to liquidate in 1868. While he was directing the bank, Walras wrote and lectured on the organization of cooperatives, which were looked upon in the 1860s as an antidote to the revolutionary threats of the working classes. From 1866 to 1868 he and Léon Say edited a short-lived monthly cooperative organ, Le travail. Finally, before receiving his call to the Academy (later the University) of Lausanne, he was corresponding secretary for a private banking establishment in Paris. During the 12 years between his departure from Ecole des Mines and his entrance upon an academic career in Switzerland, Walras was writing and cogitating on economic subjects. At an early stage he formulated in broad outline the whole program of his intellectual lifework: a trilogy made up of pure economics, applied economics, and what he called “social economics” (économie sociale). Pure economics was conceived on the analogy of pure mechanics and was to consist in an explanatory model, mathematical in structure, depicting a comprehensive network of relationships rigorously derived from the assumption of supposedly perennial, or “natural,” economic forces independent of institutional arrangements. Applied economics was thought of in terms of the application of pure theory to problems of production, with a view to determining, in the classical tradition, the forms of industrial organization most conducive to the maximization of social output. While applied economics hovered between the positive and the prescriptive design, social economics was to be unreservedly normative and concerned with principles of “justice” (essentially Aristotelian and Thomistic) which should govern not only the distribution of wealth, especially between the state and private individuals, but also exchange. Before going to Lausanne, Walras made little or no progress in pure economics, publishing nothing on the subject. Nevertheless, he made two fumbling attempts, which survive in manuscript, to apply the little mathematics he knew to economic analysis, and he arrived at only one concept of importance, his equation d’échange, a budget equation in all but the name. Nor did he make any advance in applied economics at this time. His attention was almost entirely absorbed in formulating the fundamental philosophical ideas of his social economics. In this period he published his first professional book, L’économie politique et la justice (1860), which was essentially an ideological work based on his father’s views. In 1860, while participating in an international congress on taxation held at Lausanne, he first met the young Swiss lawyer and politician Louis Ruchon-net, who ten years later helped him to obtain his appointment to a newly established chair in political economy at Lausanne. In a series of public lectures delivered in Paris during 1867-1868 and published under the title Recherche de I’ideal social (1868), Walras expounded his philosophy of social reform based on the metaphysical ideas of Victor Cousin and Etienne Vacherot, calling for a conciliation of interests. Ideological as his position was, he resisted the efforts of his Saint-Simonian friends to enroll him among their number, because their socialism was “unscientific.” He always thought of himself as a “scientific” socialist, with “scientific” reasons for advocating that the state take over (by purchase) whatever private property (land, natural monopolies, railways) could be shown analytically to be inconsistent with the attainment of the relative maximum welfare that free competition, when properly constrained by the inviolable rules of “justice,” would bring about. The state, then, having its own income-producing property, would not—indeed should not—impose taxes, for taxation itself interferes with the beneficent operation of competitive forces. Neither in the Recherche de I’idéal social nor in any other of the pre-Lau-sanne publications did Walras display analytical acumen or give any inkling of what was to come. On December 16, 1870, his 36th birthday, Walras delivered his first lecture as professeur extraordinaire in the faculty of law of the Academy of Lausanne. Virtually up to the last moment his path toward the realization of this long-cherished ambition had been beset with difficulties. The France —Prussian War, raging in France, made it hard enough for Walras to join his post; earlier, his appointment even for a trial period of one year had been opposed by three of the seven members of the Swiss ad hoc committee charged with the task of appraising candidates for the Lausanne chair of political economy. The minority report, while agreeing that Walras was superior to his competitors for the post, found his writings “communistic"! By 1871 all such fears were allayed and Walras was duly inaugurated as professeur ordinaire—with tenure. Whether only out of caution or out of sheer intellectual curiosity, he initially concentrated upon pure economics, which then became his dominant passion. In fact, when he later resumed writing on questions of policy, it was, as he confessed to a correspondent, mainly because he felt that his articles on current issues would eventually call attention to his analytical work. Marginal utility theory Once at Lausanne, Walras began to teach himself calculus, having been shown by Paul Piccard, a professor of mechanics, how to apply the technique of maximization to the theory of utility. Thus, Walras developed his mathematical theory of rareté (marginal utility) and presented the twocommodity case in simplified geometric form in a paper, “Principe d’une théorie mathématique de l’échange,” which he read before the Académie des Sciences Morales et Politiques of Paris in 1873. This performance was greeted with undisguised hostility. After the publication of this first paper, he was dismayed to learn that W. Stanley Jevons had anticipated him in originating the theory of marginal utility. Walras honorably acknowledged Jevons’ priority, consoling himself with the perfectly just reflection that he had done better than Jevons in establishing a correct relation between utility and demand. Nevertheless, his feelings of jealousy continued to rankle until he discovered that the German economist Gossen, already dead and consequently no longer a potential rival, had anticipated both Jevons and himself in 1854. To forestall further disappointments in his race for priority, Walras hastened his pace, publishing a series of three additional papers in pure economics, the substance of which was embodied in the first edition of his EÉléments d’economie politique pure (1874-1877). Walras sought to make himself known to economists in France and elsewhere by sending them reprints of his articles and copies of his Éléments, accompanied by letters asking for criticism. His first success was in Italy, where Gerolamo Boc-cardo, Luigi Bodio, and Alberto Errera acclaimed Walras’ contributions with enthusiasm. From Germany, England, Holland, and Denmark he received encouraging responses. In France, however, to Walras’ chagrin, his early work evoked either no comment at all or else outright antagonism, except from Cournot and the philosopher Charles Renouvier. As time went on, Walras’ economic correspondence assumed enormous proportions: literally thousands of letters passed between him and such of his contemporaries as Foxwell, Marshall, Edge-worth, and Wicksteed in England; Menger, Böhm-Bawerk, and Lieben in Austria; PantaLéoni, Pareto, and Barone in Italy; Charles Gide, Hermann Laurent, Henri Poincaré (on methodology), and Albert Aupetit in France; Bortkiewicz in Germany; Knut Wicksell in Sweden; and John Bates Clark, Irving Fisher, and Henry Ludwell Moore in the United States. He thus became literally an economist’s economist, for it was impossible for him to mold disciples among his law students at Lausanne, who regarded the course in economics as a tiresome superfluity. In other universities the novel mathematical character of his writing repelled the ordinary student, whose training was purely literary, and the marginal utility approach to value outraged the orthodox economists dedicated to the Ricardian cost-of-production approach. Only the elite of the profession took any interest at all in Walras’ innovations, and with them he held a continuous seminar—by correspondence—exchanging criticisms that left their mark on the four successive editions of the Éléments which appeared during Walras’ lifetime. While Walras had no economic colleagues at Lausanne with whom to take counsel, he did have mathematical colleagues, not only Paul Piccard but also Hermann Amstein, from whom he got all the help he could. When he asked Amstein to formulate the mathematical conditions of minimum cost of production, Amstein in 1877 presented him with an almost perfect marginal productivity model, even using the Lagrange multiplier method; but Walras knew too little mathematics to understand it and Amstein too little economics to appreciate its significance. It was not until after Wicksteed’s Essay on the Co-ordination of the Laws of Distribution appeared in 1894 that Walras filled the empty niche in his theory of production by incorporating Barone’s formulation of the marginal productivity theory into his Éléments, since Amstein’s still remained beyond his ken. Theory of general equilibrium For many years Walras thought that his chief title to fame lay in his marginal utility theory, which was certainly more rigorous and elegant than that of either Jevons or Menger. He did not realize the full significance of the unique character of his general equilibrium system until Barone hailed it in the Giornale degli economisti (1894, p. 407) as “the most general, most comprehensive and most harmonious” that had yet appeared. Already in the 1870s, in the first edition of the Éléments, Walras had laid the groundwork for a unified model, comprising the theories of exchange, production, capital formation, and money. In the subsequent revisions of the Éléments, he strengthened the model by applying the principle of utility maximization throughout. Moreover, to link his model to the real world, he followed up each of his successive cumulative submodels describing the static determination of equilibrium with a related quasi-dynamic theory of the emergence (or establishment) of equilibrium via the operation of the competitive market mechanism. He called the process of automatic adjustments of the network of real markets to equilibrium one of tdtonnement, that is, of groping without conscious direction. His argument that the process would culminate, under his assumptions, in a stable equilibrium was, nevertheless, intuitive, without any semblance of a rigorous demonstration. Despite this and other defects, lacunae, and inconsistencies in detail, which were inevitable in so immense a pioneer work produced with primitive mathematical tools, Walras’ general equilibrium model earned for him the supreme encomium of Joseph Schumpeter, who said that “as far as pure theory is concerned, Walras is in my opinion the greatest of all economists” (1954, p. 827). The idea of general equilibrium was not new with Walras. It had already been enunciated in 1690 by Nicholas Barbon; there were discernible adumbrations of the theory in Petty, Boisguilbert, Cantillon, and especially in Turgot and Quesnay; and an implicit pattern of mutually interdependent relationships underlies the writings of the great classical founders of economics, Adam Smith, Ricardo, and Jean Baptiste Say. It is altogether unlikely, however, that Walras derived direct inspiration for his multiequational model of interdependence from these precursors. He himself liked to give the impression that his father and Cournot had furnished the principal elements of his economic theory, but Cournot had mentioned the interconnection of all the parts of the economic system only to recoil from it as surpassing “the powers of mathematical analysis,” and Auguste Walras had furnished nothing but vague hints of general equilibrium. The true fons et origo of Walras’ multiequational formulation of general equilibrium was Louis Poinsot’s once famous textbook in pure mechanics, Éléments due statique (1803), which, as Walras confided to a friend in 1901, he first read at the age of 19 and then kept by him as a companion book throughout his life. In Poinsot we find virtually the whole formal apparatus that Walras later employed in his Éléments d’economie politi-que pure. Poinsot’s Éléments de statique bristles with systems of simultaneous equations, some of them equilibrium equations proper and others equations of condition (constraints or definitional identities), and contains the postulate that these systems have determinate solutions if they consist in as many independent equations as unknowns. Isnard’s Traite des richesses (1781)—which Walras rescued from oblivion by inserting it in the list of writings on mathematical economics compiled by Jevons (1871)—also appears to have played a part in shaping Walras’ formulation of his system. Walras praised Isnard for having correctly stated algebraically the inverse proportionality of values to quantities exchanged. Both in his unpublished juvenile essays of the 1860s and in the opening algebraic treatment of exchange in the Éléments, Walras’ simultaneous equations bear a remarkable resemblance to Isnard’s. Notable, too, was Isnard’s anticipation of the Walrasian proposition that the use of a standard unit of account obviates the need for recourse to arbitrage in a competitive, multi-commodity model. Although Walras was not really indebted to his father or to Cournot for his composite model, his pure theory does bear the sharp imprint of their influence. Walras took over, for better or for worse, a good part of his father’s terminology, his taxonomy, and his conception of the object of economics. From Cournot he first learned the meaning of functional relations between variables; it was precisely his growing dissatisfaction with Cournot’s particular demand function that first led him to seek a wider framework within which to express the quantity demanded of a commodity as a function not of the price of that commodity alone, but of the entire constellation of prices. This was the point of departure for his general equilibrium model. Soon after the publication of the first edition of the Éléments, Walras’ wife was stricken by a fatal illness and his financial situation deteriorated. His academic salary, which had been raised in 1872 from the initial 3,600 francs per annum to 4,000 francs, still proved inadequate. To eke out the income he required for his family needs and his research and publication expenses, he had to give supplementary courses at Geneva and Neuchatel, to serve as a regular consulting actuary for a Swiss insurance company, to write fortnightly feature articles (under the pseudonym “Paul") for the Gazette de Lausanne, to contribute weighty articles to the Bibliotheque universelle, and to borrow. When in 1879 his old friend Jules Ferry became minister of public instruction in France, Walras thought he had a chance to obtain a university post in his native country and to improve his financial situation. His efforts in this direction proved vain, notwithstanding his offer to help Ferry modernize the whole French university system and, by the same token, pull the teaching of economics out of the law-school rut and give it the status of a science. In 1881 the Academy of Lausanne increased his salary to 5,000 francs. But it was only after his second marriage in 1884 (his first wife having died in 1879), that his financial condition took a substantial turn for the better. His second wife, Léonide Désirée Mailly, a French spinster who had lived for many years in England, brought with her an annuity which more than doubled the income of the Walras household. Relieved now of private financial worries, Walras returned to his work with a burst of renewed energy. He ventured upon a fundamental revision of his theories of money and capital and took up the cause of monetary reform. In his monetary theory, he substituted the conception of a demand for cash balances (encaisse désirée) for his earlier conception of the demand for money as depending on the volume of transactions to be cleared (circulation àdesservir). As Arthur Marget pointed out, this entailed the substitution of his earlier Fisherian equation of exchange by an equation essentially Keynesian in form (1931). The change was made in the interests of symmetry and over-all coherence in the general model, for now the same primum mobile—the maximization of utility—could operate in the theory of money as in the rest of his system. Walras’ new monetary theory, first announced in his paper “Équations de la circulation” (1899), was very soon incorporated into the fourth edition of the Éléments. Into this edition, he also introduced his revised conception of the role of interest as an equilibrating factor between the aggregate demand for cash balances and the existing quantity of money. Walras’ revision and extension of his theory of capital formation were similarly motivated. In the fourth edition of the Éléments, in order to avoid the dilemma of either continuing to use his earlier empirical savings function unrelated to the utility maximization principle or of complicating his postulates with time preference functions, Walras chose to consider savings and investment, as he did consumption and production, exclusively at the moment of decision making. He envisaged the decisions theoretically as bearing on a fictive commodity, “perpetual net income” (net of depreciation and insurance charges), each unit of which represents a perpetual yield of one unit of numeraire per annum from whatever assets, human as well as marketable, an individual possesses. This commodity, having a utility function of its own, enters into the general equilibrium model on the same footing as any other commodity and renders the entire system homogeneous. In his writings on monetary reform, Walras focused his attention upon the questions, then current, of bimetallism and bank note issue. His work Théorie mathématique du bimétalUsme (1881) presented, in the form of an ad hoc model, a complete theory of the bimetallist standard with a fixed ratio. Basing his proposal on this model, as well as on his utility theory and his conception of “justice,” he advocated a symmetallist system in the form of a gold standard with a regulatory silver token currency. The state would regulate the quantity of a special silver token currency in such a way as to counteract the long wave fluctuations in the value of money. In the matter of bank note issue, Walras maintained that any system that fell short of 100 per cent metallic coverage was dangerous. These arduous labors exhausted Walras. By 1892 he felt he could no longer go on with his teaching. The inheritance he received from his mother in that year enabled him to purchase an annuity and repay his old debts, incurred mainly in the publication and free distribution of his books and economic papers. Thereupon, he retired from the university on a pension of 800 francs a year and was succeeded in his chair by his protégé Vilfredo Pareto. He did not, however, lay down his pen. In the decade 18921902, as has been seen, he made some of his most important innovations in the theory of capital and money. He could not, however, find strength to write the systematic treatises he had planned on applied economics and social economics. Instead, he published two volumes of collected papers, Études d’économie sociale in 1896 and Études d’économie politique appliquée in 1898. From 1902 on, after completing his notes for what ultimately became the definitive edition of 1926, he devoted himself to puttering and to propaganda in favor of his theory. Upon the death of his second wife in 1900, her annuity ceased, and Walras and his unmarried daughter, Aline, moved, without regrets, to a modest apartment at Clarens, near Montreux, where he died on January 5, 1910. Six months before his death, the University of Lausanne celebrated his jubilee as an economist, on which occasion he was acclaimed in messages from all over the world as the founder of the general equilibrium school. Though Walras had received occasional marks of recognition before his death, it was only posthumously that his reputation and influence grew to their present proportions. After 1910, Etienne Antonelli championed the Walrasian model in his lectures and writings in France. Elsewhere, Walras’ model has been the subject of continued emendations, controversy, and fluctuating evaluations. His crabbed notations have been streamlined; his crude mathematics polished, perfected, and modernized; his utility theory superseded by a theory of ordinal preference unencumbered by assumptions of cardinal measurement and independence; his production theory freed from implications that had left the distinction between free and scarce goods empirically hazy; his production functions generalized to admit more easily of variable coefficients of production; his investment theory disrassociated from postulates of certainty of outcome; and his unwarranted premise that equality between the number of unknowns and the number of independent equations is sufficient for a determinate solution supplanted by rigorous existence theorems. For all that, the main lines of the Walrasian model remain intact, and its authority is such that in 1949 Milton Friedman was forced to admit, “We curtsy to Marshall, but we walk with Walras” (p. 489). Some critics, while conceding the aesthetic qualities of the general equilibrium model, hold it to be sterile, little realizing that pure economics is no more intended for direct application to practical problems than pure mechanics is intended for guidance to machinists. Besides, it is putting a strange construction upon the word “sterility” to apply it to an over-all theory that is the acknowledged forebear of input-output analysis and that directly begot the modern conceptions of exchange, production, saving, investment, interest, and money and fitted them neatly into a single, coherent framework. This was the achievement of Walras, a lonely, cantankerous savant, often in straitened circumstances, plagued with hypochondria and a paranoid temperament, plodding doggedly through hostile, uncharted territory to discover a fresh vantage point from which subsequent generations of economists could set out to make their own discoveries. Il concetto di equilibrio economico. Fin dalla seconda metà del Settecento, scrivono Bruna Ingrao e Giorgoo Israel, gli studiosi che si sono occupati di economia hanno fatto uso del concetto di equilibrio economico per analizzare i fenomeni della produzione, del consumo e dello scambio. Nel corso dell'Ottocento questo concetto ha man mano acquisito un ruolo centrale nei tentativi di trasformare la giovane scienza economica in una scienza quantitativa avente le stesse caratteristiche di rigore e oggettività e metodi analoghi a quelli della fisica-matematica. La teoria dell'equilibrio economico generale, la cui prima formulazione compiuta è dovuta all'economista francese Léon Walras (1834-1910), è considerata da molti interpreti come il fondamento della teoria economica contemporanea in cui il concetto di equilibrio riveste un ruolo fondamentale. L'indirizzo di pensiero ispirato dalla teoria dell'equilibrio economico generale si differenzia da altre correnti teoriche contemporanee (come la teoria che riprende la tradizione classica inglese, la teoria evolutiva di Alfred Marshall, la teoria della disoccupazione involontaria di John Maynard Keynes e della scuola keynesiana, la teoria di Schumpeter), ma non perché sia l'unico a utilizzare il concetto di equilibrio. Questo concetto, infatti, è stato usato ed è tuttora correntemente usato anche in accezioni diverse e secondo definizioni diverse da quella adottata nella teoria walrasiana. Nei capitoli che seguono accenneremo ai diversi concetti di equilibrio ma ci soffermeremo sulle idee e sui problemi della teoria dell'equilibrio economico generale. Quello di equilibrio economico è un concetto che descrive uno stato possibile del sistema economico, definito idealmente da particolari proprietà. Questo stato ideale del sistema economico è l'oggetto di una riflessione teorica tesa a definire modelli capaci di rappresentarlo con chiarezza e precisione e a ottenere risultati interessanti circa le sue proprietà. I problemi che nascono in questa riflessione possono così riassumersi: come è descritto il sistema economico di cui si vuol studiare questo stato ideale? come sono definite le proprietà che caratterizzano tale stato ideale? su quale arco di tempo si osserva il sistema economico quando se ne considera uno stato di equilibrio? perché - infine - viene attribuita tanta importanza allo stato di equilibrio? Iniziamo col descrivere brevemente il contesto teorico entro cui vengono esaminati questi problemi e precisamente la nozione di sistema economico. Il sistema economico è caratterizzato, in questa teoria, da tre elementi: le merci, i prezzi e l'attività degli agenti economici. Una merce è da intendere come un bene (presente in natura o risultato dell'attività produttiva) o una prestazione di attività lavorativa o di servizi ed è caratterizzata da tre elementi: la sua quantità fisica, la sua collocazione nello spazio, la sua collocazione nel tempo. Il prezzo è un numero che definisce ciò che deve essere pagato ora, in termini della quantità di una data merce, per ottenerne un'altra: esso definisce quindi i rapporti di scambio ed è anche un indicatore della 'scarsità' delle merci. Gli agenti economici sono i produttori e i consumatori. I primi sono mossi nella loro attività (la produzione di merci) dall'intento di rendere massimo il proprio profitto. I secondi si scambiano le merci nell'intento di 'massimizzarne l'utilità', ovvero di soddisfare, al livello massimo consentito, un sistema di 'preferenze' che guida le loro scelte. Gli uni e gli altri sono mossi dalla spinta a ottenere il massimo vantaggio possibile (insaziabilità). Si suppone che essi agiscano sulla base di un piano perfettamente determinato (il che presuppone una capacità di previsione perfetta): questa ipotesi ha come conseguenza il carattere strettamente deterministico del sistema economico. Tre proprietà sono state usate, in numerose varianti, per definire lo stato di equilibrio del mercato. In base alla sua prima e più intuitiva caratterizzazione lo stato di equilibrio è uno stato dell'economia che, una volta raggiunto, permane, o, più precisamente, è uno stato che il sistema economico tende spontaneamente a raggiungere e a conservare invariato. Questa nozione intuitiva, secondo cui l'equilibrio economico è uno stato di invarianza del mercato e allo stesso tempo è un punto di arrivo cui tende l'evoluzione del mercato, è stata oggetto di sofisticate elaborazioni formali che ne hanno di volta in volta reso preciso il significato mediante diversi modelli matematici. In secondo luogo, l'equilibrio economico è concepito come uno stato in cui ciascun agente economico si trova in una posizione ottimale, tenuto conto delle limitazioni ('vincoli') che gli sono imposte dalle scelte degli altri agenti e dalle risorse di cui egli stesso dispone o che sono globalmente disponibili nell'economia. Nello stato di equilibrio ogni scambista sceglie i comportamenti e i piani che più gli convengono secondo criteri di ottimalità. Infine lo stato di equilibrio è inteso come uno stato di coerenza dei piani e di compatibilità delle scelte dei singoli operatori, scelte che possono pertanto essere tradotte in un sistema di scambi coerente e realizzabile, nel senso che nessuno si troverà nell'impossibilità di scambiare ciò che ha programmato in quanto non compatibile con le decisioni degli altri agenti. Questa proprietà dello stato di equilibrio è variamente rappresentata da condizioni di uguaglianza tra domanda e offerta sui mercati. È spontaneo chiedersi perché il concetto di equilibrio abbia avuto un ruolo tanto centrale nella teoria economica. La risposta è che dietro la scelta di questo concetto vi è una 'visione', per usare un termine caro a Schumpeter, una concezione del mondo dei fenomeni economici che ha indirizzato la scelta dei modelli e dei termini utilizzati. La concezione è quella secondo cui il comportamento degli agenti economici porta in modo naturale l'economia verso una condizione di compatibilità dei differenti fini. Data questa concezione, che costituisce una premessa 'metafisica' e indimostrabile della teoria, obiettivi dello studio diventano la caratterizzazione dell'evoluzione spontanea postulata e la scoperta delle condizioni sotto le quali si manifesta lo stato di compatibilità. In questa 'visione' la compatibilità dei fini nello stato di equilibrio del mercato è caratterizzata dalla proprietà dell'ottimalità: gli operatori si trovano nello stato di equilibrio 'meglio' che in altri stati, in quanto in esso realizzano le loro scelte preferite. Intervengono così nozioni come quella di maggior benessere e di migliori condizioni del sistema, la cui introduzione ha dato luogo a lunghi dibattiti per pervenire alla definizione rigorosa di cosa debba intendersi per ottimalità a livello delle scelte di una collettività e non di un singolo. I problemi che si ponevano possono essere riassunti nelle seguenti domande: è possibile misurare il benessere di una collettività? si può in alternativa adottare un criterio di confronto tra stati del sistema economico per decidere quale sia ottimale ed entro quali limiti? Una definizione esatta della nozione di ottimalità fu data da Vilfredo Pareto (18481923). Secondo tale definizione, uno stato ottimale (o 'efficiente nel senso di Pareto') è uno stato in cui non è possibile migliorare la soddisfazione di un agente senza diminuire quella di almeno un altro agente. Questa nozione precisa ha inaugurato un filone di ricerca tendente a mostrare l'esistenza di ottimi nel senso di Pareto e a studiare la relazione di questa nozione con quella di equilibrio. Si è così mostrato non soltanto che un ottimo di Pareto esiste, sotto condizioni piuttosto generali, ma anche che un equilibrio economico relativo a un dato sistema di prezzi è un ottimo di Pareto e viceversa. Un ruolo importante (e anticipatore) ha avuto l'analisi dell'equilibrio parziale: l'equilibrio tra la domanda e l'offerta nel mercato di un solo bene considerato isolatamente. I primi modelli matematici di equilibrio parziale furono costruiti da Antoine-Augustin Cournot (1801-1877), matematico e filosofo francese, nel testo Recherches sur les principes mathématiques de la théorie des richesses pubblicato nel 1838. In questo testo Cournot distingueva le situazioni di mercato in base al numero delle imprese presenti dal lato dell'offerta e individuava tre principali forme di mercato: il monopolio (un unico produttore), il duopolio (due produttori), la concorrenza indefinita (molti produttori ciascuno di dimensioni modeste rispetto al mercato, così da non essere in grado di influire individualmente con la propria produzione sulle condizioni generali dell'offerta). L'analisi parziale di Cournot permetteva di studiare le proprietà dell'equilibrio nelle diverse forme di mercato. Nell'analisi di equilibrio parziale si considerano la domanda dei consumatori e l'offerta dei produttori come funzioni del prezzo della merce scambiata nel mercato sul quale si vuole concentrare l'attenzione. L'equilibrio è lo stato del mercato caratterizzato da un prezzo della merce (il prezzo di equilibrio), al quale la domanda espressa dai consumatori e l'offerta espressa dai produttori sono eguali. Tutti i modelli di equilibrio parziale si fondano, quindi, sull'ipotesi che sia possibile, per semplicità, isolare ciò che accade su un mercato da ciò che accade sugli altri mercati del sistema economico, senza che l'indagine perda rilevanza teorica. I modelli di equilibrio economico generale vogliono invece sottolineare le relazioni tra gli scambi che avvengono sui diversi mercati di un'economia. L'equilibrio generale è lo stato dei mercati (anch'esso definito da un sistema di prezzi di equilibrio) in cui, su tutti i mercati presenti nel sistema economico, la domanda globale del mercato e l'offerta globale del mercato - ovvero le somme rispettive di tutte le domande e di tutte le offerte individuali su ciascun mercato sono eguali. I modelli di equilibrio generale, come vedremo, vanno incontro a grandi difficoltà formali, per la complessità delle interrelazioni tra i mercati che intendono porre in evidenza. I modelli di equilibrio parziale, benché più elementari, sono stati preferiti da molti economisti, proprio perché ritenuti più maneggevoli e tuttavia efficaci per descrivere situazioni di mercato circoscritte, per analizzare i problemi particolari di un settore industriale, per definire le forme di mercato (monopolio, oligopolio, concorrenza perfetta), per studiare gli scambi di determinati tipi di beni. Il metodo dell'equilibrio parziale fu adottato in particolare dall'economista inglese Alfred Marshall (1842-1924) nel suo trattato Principles of economics, pubblicato nel 1890. Marshall studiava l'equilibrio di ciascun mercato isolatamente come equilibrio dell'industria, ponendo l'accento sull'evoluzione e l'adattamento della struttura produttiva (imprese, impianti, manodopera, reti di vendita) alle condizioni della domanda finale espressa dai consumatori. A seconda dell'arco di tempo entro il quale questo adattamento poteva aver luogo, Marshall distingueva tre diversi equilibri del mercato: l'equilibrio del giorno di mercato, l'equilibrio di breve periodo, l'equilibrio di luogo periodo. L'equilibrio del giorno di mercato è l'equilibrio tra domanda e offerta, che si realizza spontaneamente in un mercato in condizioni di concorrenza, quando gli scambi si svolgano in un arco di tempo molto breve: la struttura produttiva dell'industria è data, le imprese hanno già deciso i livelli di produzione e portato al mercato la propria offerta, il prezzo di mercato si fissa al livello in corrispondenza del quale l'intera offerta sul mercato viene assorbita dalla domanda dei consumatori. Nell'equilibrio di breve periodo, che si determina in un arco di tempo più lungo, i livelli di produzione possono essere adattati dalle imprese per sfruttare le opportunità di profitto offerte dalle condizioni della domanda. In un arco di tempo ancora più lungo anche la struttura produttiva dell'intera industria si potrà modificare fino a raggiungere le condizioni di efficienza e minimizzazione dei costi (equilibrio di lungo periodo) che, secondo la teoria di Marshall, caratterizzano le imprese in condizioni di concorrenza. L'idea che si possa isolare idealmente uno stato del sistema economico in cui la struttura produttiva sia data e le imprese adattino la propria offerta alle condizioni della domanda sulla base delle aspettative di profitto fu ripresa da J.M. Keynes nella General theory of employment, interest and money, pubblicata nel 1936, una riflessione teorica sulle gravi difficoltà delle economie di mercato nella crisi degli anni trenta. Keynes introdusse la nozione di equilibrio di sottoccupazione: l'equilibrio che si determina in un'economia nel breve periodo quando l'attività produttiva delle imprese ristagna a livelli di sottoutilizzo degli impianti e una parte delle forze di lavoro non trova occupazione, pur essendo disponibile a lavorare accettando le retribuzioni correnti di mercato. Questa nozione estendeva all'intero sistema economico l'idea marshalliana dell'equilibrio di breve periodo, con la particolarità di considerare come equilibrio, ovvero come stato nel quale il sistema economico tende a persistere, una situazione dei mercati caratterizzata dalla disoccupazione delle risorse e cioè, in primo luogo, dallo squilibrio tra la domanda e l'offerta sul mercato del lavoro. Per questa singolare combinazione di analisi di equilibrio ed enfasi sull'eccesso di offerta nel mercato del lavoro, la definizione di Keynes è stata molto criticata nel dibattito successivo alla pubblicazione della General theory of employment, interest and money e ancora nel dibattito recente. Ciò nonostante, la nozione di equilibrio macroeconomico di breve periodo con disoccupazione delle risorse (in particolare della risorsa lavoro) è entrata a far parte della teoria economica contemporanea ed è correntemente usata nella letteratura.Molte controversie ha suscitato anche l'idea di equilibrio di lungo periodo, per la difficoltà di combinare in modo coerente lo studio del cambiamento dell'apparato produttivo nel tempo e l'ipotesi dell'invarianza dei dati e del contesto, che caratterizza i modelli di equilibrio parziale. Il fatto di considerare il tempo esplicitamente (e quindi non soltanto come una variabile formale) complica enormemente il concetto di equilibrio anche nei modelli di equilibrio generale, perché introduce elementi di variabilità nel comportamento di mercato degli operatori e implica la considerazione di un contesto concettuale non deterministico. Ciò comporta sottili problemi logici nella definizione dell'ottimalità e della compatibilità delle scelte. La coerenza dei piani individuali e la compatibilità delle scelte degli operatori possono riguardare soltanto le scelte presenti oppure le scelte che interessano un arco di tempo più lungo o persino le scelte che interessano tutto il futuro, nei modelli più astratti. Le scelte economiche che si proiettano nel futuro comportano delle aspettative, sia perché impegnano oggi risorse e redditi che saranno disponibili nel futuro, sia perché promettono consegne di beni non ancora effettuate e quindi sono espressione di piani di produzione e scambio non ristretti al presente: sono scelte dettate dall'aspettativa che nel futuro prevarranno certe condizioni attese, che un evento o un insieme di eventi avranno o non avranno luogo. Se esplicitiamo il dato che gli agenti economici fanno scelte e svolgono la loro attività nel corso di successivi periodi di tempo, allora dobbiamo anche tener conto esplicitamente del fatto che anche i piani di scambio formulati nel periodo presente per essere immediatamente realizzati sono parte di scelte e progetti che si fondano su aspettative circa eventi futuri, scelte e progetti che gli agenti potranno rivedere e correggere alla luce delle conferme che riceveranno dai fatti o degli errori di previsione. La scelta di piani ottimali è una scelta inter-temporale, che investe una successione di periodi e comporta un complicato processo di formazione e verifica delle aspettative. Queste considerazioni fanno intendere che sono possibili diverse nozioni di equilibrio, per descrivere l'intricata rete di relazioni che si stabiliscono sui mercati quando si vogliano rappresentare l'ottimalità e la compatibilità di piani intertemporali, che hanno attuazione nel corso del tempo. Le difficoltà logiche e formali che emergono nella trattazione del tempo, nell'ambito della teoria dell'equilibrio economico generale, sono state oggetto di dibattito e riflessione soprattutto durante gli anni venti e trenta del XX secolo. In quel periodo tre studiosi, l'austriaco Friedrich A. von Hayek, lo svedese Erik Lindahl, l'inglese John Hicks, hanno contribuito a definire il concetto di equilibrio temporaneo, rappresentando gli scambi sui mercati come una successione di stati di equilibrio condizionati dalle aspettative circa il futuro degli agenti economici e dalle risorse e dall'apparato produttivo che l'economia ha ereditato dai periodi precedenti. Nei modelli di equilibrio temporaneo gli scambi sono o contrattati e attuati in ciascun periodo (scambi a pronti, cioè a consegna immediata) o contrattati per essere attuati più tardi (scambi a termine, cioè a consegna differita). La compatibilità delle scelte, ovvero lo stato di equilibrio, che si realizza in ognuno di questi periodi non è però garanzia di compatibilità e ottimalità dei piani per tutta la successione dei periodi, vale a dire anche relativamente ai periodi futuri, quando gli agenti potranno rivedere le proprie scelte, correggere le proprie aspettative, contrattare e attuare nuovi scambi. Una successione di stati dell'economia, nella quale gli agenti economici non debbano mai rivedere le proprie aspettative sugli eventi futuri, perché l'andamento del mercato conferma le loro previsioni, prende il nome di equilibrio con aspettative confermate.Per aggirare le difficoltà poste dal fatto di considerare il tempo, si è preferito adottare un modello artificioso, che rappresenta il caso particolare di un sistema economico nel quale tutti gli scambi sono contrattati in un unico momento iniziale, per essere poi attuati, secondo i contratti stabiliti, nel corso dei successivi periodi di tempo. Lo stato di equilibrio che si determina in questa particolarissima economia di mercati a termine completi, nella quale sono progettati e contrattati nel periodo iniziale tutti gli atti di scambio e di produzione che saranno realizzati in futuro, prende il nome di equilibrio intertemporale, perché rappresenta appunto uno stato di coerenza e compatibilità delle scelte ottimali degli agenti economici che si estende a tutto il futuro. A questo modello dedicheremo il seguito della nostra trattazione. L'ambizione della teoria dell'equilibrio economico generale, dalle origini fino ai suoi sviluppi recentissimi, e quindi l'aspirazione degli autori che l'hanno sviluppata, è stata quella di produrre una teoria scientifica rigorosa, formulata mediante una struttura matematica internamente coerente, che permettesse di ottenere delle dimostrazioni dei risultati previsti. Benché la teoria sia stata formulata agli inizi in un linguaggio matematico molto elementare, se non primitivo, i problemi che affrontava erano i medesimi che costituiscono ancora l'oggetto delle ricerche enormemente più sofisticate di oggi. L'idea fondamentale della teoria è quella dell'interdipendenza dei mercati: i prezzi relativi sono determinati dall'interazione tra domanda e offerta su tutti i mercati. Poiché uno stato di equilibrio è definito da un sistema di prezzi di equilibrio, l'oggetto principale della teoria è sempre stato la determinazione dei prezzi in un mercato di concorrenza perfetta. L'assunto metodologico fondamentale è che ciò che avviene sul mercato nell'aggregato è determinato dalla somma delle scelte dei singoli produttori e consumatori e che queste scelte possono essere rappresentate in modo chiaro e completo a partire dalle preferenze degli individui e dalle tecnologie produttive delle imprese. I prezzi di equilibrio sono determinati dall'interazione tra le scelte razionali dei singoli e i vincoli posti dalla tecnologia e dalla disponibilità delle risorse. L'ipotesi della concorrenza perfetta esprime l'idea che i singoli agenti, consumatori o imprese, non siano in grado di influire con interventi consapevoli sul risultato di questa interazione e nelle loro decisioni debbano assumere come un dato i prezzi relativi espressi dal mercato. Questa ipotesi si enuncia dicendo che gli agenti sono price-takers. Proprio in quanto così determinati, i prezzi sono gli unici segnali che permettono di condurre il sistema dei mercati interdipendenti (di concorrenza perfetta) all'equilibrio. Un dato sistema di prezzi relativi determina l'eccesso di domanda dei vari mercati; se tale eccesso non è nullo, il sistema dei prezzi si modificherà in modo che la domanda e l'offerta si avvicinino a uno stato di eguaglianza. La modificazione seguirà la legge della domanda e dell'offerta: il prezzo in un mercato cresce in corrispondenza di un eccesso positivo della domanda e decresce in corrispondenza di un eccesso di domanda negativo. Tale processo di aggiustamento dei prezzi (chiamato da Walras tâtonnement) non deve essere concepito come un processo consapevolmente guidato (come accadrà nella reinterpretazione moderna del concetto di equilibrio nell'ambito delle teorie della pianificazione), bensì come un meccanismo di autoregolazione dei mercati, che, guidati da una sorta di 'mano invisibile' (secondo l'espressione di Adam Smith), vengono spontaneamente condotti all'equilibrio. Un mercato di concorrenza perfetta tende all'equilibrio tra domanda e offerta e lo raggiunge attraverso aggiustamenti dei prezzi relativi, che cessano solo quando si raggiunge appunto un sistema di prezzi di equilibrio. Nonostante le formulazioni precedenti si ispirino alle versioni più moderne della teoria dell'equilibrio economico, non c'è dubbio che i concetti sottostanti operano anche nelle prime versioni di tale teoria. I problemi storiografici che si pongono sono allora quelli di analizzare come si sia formato il concetto di equilibrio economico, come si sia perfezionato e affinato e, allo stesso tempo, come gli economisti che hanno sviluppato questo filone di pensiero abbiano elaborato i criteri di scientificità che intervengono nella costruzione della teoria. Questi problemi storiografici si intrecciano strettamente ai problemi di carattere analitico: la dimostrazione della coerenza interna della teoria, la verifica empirica dei suoi risultati, l'applicabilità dell'apparato teorico ai fenomeni reali. Nell'evoluzione della teoria dell'equilibrio economico generale possiamo distinguere quattro grandi tappe: 1) una prima fase di gestazione del concetto di equilibrio economico, che prende forma nella cultura francese del tardo illuminismo e si ispira direttamente al concetto di equilibrio della meccanica; 2) una seconda fase di formazione e consolidamento della teoria, nell'opera di Walras e Pareto, in cui si definiscono il nucleo paradigmatico della teoria e i suoi concetti fondamentali sotto l'evidente influsso dei concetti e dei metodi della fisica matematica classica; 3) una terza fase in cui la teoria, dopo la crisi della versione precedente, rinasce negli anni trenta del nostro secolo nell'ambiente scientifico di lingua tedesca (a Vienna, in particolare) e vengono poste le basi di una linea di sviluppo assiomatica; 4) la fioritura negli Stati Uniti, a partire dagli anni quaranta, dei programmi di assiomatizzazione della teoria e quindi degli sviluppi che la teoria ha conosciuto fino a oggi, attraverso varie peripezie metodologiche e concettuali. La prima formulazione del concetto di equilibrio economico è un prodotto del pensiero filosofico e scientifico del XVIII secolo nell'ambito della nascente scienza della società. Questo concetto e le sue prime definizioni scientifiche sono ispirati da un tema centrale della cultura illuminista (e soprattutto tardoilluminista): la centralità e il valore universale della scienza fisico-matematica newtoniana, le enormi speranze suscitate dalle sue conquiste in ogni campo del sapere, l'impulso che tale scienza trasmette a costruire nuove regulae philosophandi nella storia, nel diritto, nella teoria politica. Uno dei risultati più evidenti di tale clima culturale è l'emergere nelle scienze sociali della nozione di 'legge', intesa come 'legge naturale'. Il modello da imitare, per determinare le leggi scientifiche della società, è la meccanica newtoniana, di cui uno dei concetti centrali è quello di equilibrio meccanico (statico o dinamico che sia). È possibile seguire con precisione (v. Ingrao e Israel, 1987) l'emergere progressivo di questo concetto nell'opera dei fisiocratici e in particolare nel pensiero di Anne-Robert-Jacques Turgot (1727-1781) e di Pierre-Samuel Dupont de Nemours (1739-1817). Non va trascurato, inoltre, il clima generale di sviluppo delle applicazioni della matematica a tematiche di carattere sociale e biologico, che è bene espresso dalle ricerche nel campo della arithmétique politique e che spingerà il marchese di Condorcet (1743-1794) alla formulazione di un ambizioso programma di mathématique sociale, di cui l'economia politica costituisce soltanto un aspetto. Tali ricerche saranno proseguite nel contesto delle attività della Classe de Sciences Morales et Politiques dell'Institut de France (v. Israel, 1991), che è il centro di attività del gruppo degli idéologues. Sarà proprio la Classe a premiare, nel 1801, quello che può essere considerato il primo testo contenente una formulazione esplicita del concetto di equilibrio economico e un primo tentativo coerente di matematizzazione della teoria dello scambio e della determinazione dei prezzi. Si tratta di un libro del matematico francese Nicolas-François Canard (17501833). In questo testo (v. Canard, 1801) l'equilibrio parziale è paragonato all'equilibrio statico di una leva, mentre l'equilibrio generale del mercato è rappresentato attraverso una metafora tratta dalla meccanica dei fluidi: il sistema economico è assimilato a un sistema di canali intercomunicanti in cui le acque raggiungono uno stato di equilibrio. Si noti che l'analogia idrodinamica è ispirata a sua volta dal parallelismo fra il processo di circolazione del sangue e l'equilibrio economico (inteso in forma dinamica), che è un tema classico del pensiero fisiocratico. Da questa fonte Canard lo ha ripreso. Il tentativo di Canard è per molti versi assai ingenuo, ma contiene in nuce parecchi concetti importanti che saranno ripresi nell'opera di Cournot e Walras. Fra di essi troviamo, in forma embrionale, un'idea del processo di aggiustamento dei prezzi (tâtonnement). Il lavoro di Canard e la parallela fioritura di lavori di matematica sociale, che spaziano dalla demografia alla teoria giuridica e politica, ai problemi di debito pubblico, alla statistica sanitaria, cadono infine nel discredito per un processo complesso di mutamento che si verifica nella cultura francese e che ha anche risvolti direttamente politici: il dispotismo napoleonico, l'esaurirsi del razionalismo utopistico riformatore dell'epoca rivoluzionaria, la separazione disciplinare che tende ad allontanare le scienze esatte dalle altre scienze. Anche nel gruppo degli idéologues prevale la tendenza a perseguire un progetto di costruzione della scienza sociale che rifiuta radicalmente la matematizzazione. L'economista Jean-Baptiste Say (1767-1832) è una figura di spicco di questa tendenza. Si determina così una svolta che renderà l'ambiente della scienza sociale francese ostile alla matematizzazione, un'ostilità che sarà poi amaramente sperimentata da Cournot e da Walras. Questa ostilità si sviluppa anche negli ambienti delle scienze fisicomatematiche, che pure erano stati così sensibili alle tematiche dell'arithmétique politique e della mathématique sociale e avevano visto manifestarsi l'interesse diretto per queste discipline da parte di scienziati di primo piano come Bernoulli, Condorcet, Lagrange, Vandermonde e Laplace. In estrema sintesi ciò è conseguenza del prevalere di una visione romantica, che nega la possibilità di esprimere 'in numeri', e cioè di studiare quantitativamente, questioni che toccano la libertà del soggetto sociale, la quale appare (in pieno conflitto con la visione prevalente nel materialismo settecentesco) come irriducibile a uno studio scientifico esatto. Da un lato ciò si esprime, nel mondo delle scienze fisico-matematiche, nel prevalere di una 'ripugnanza' per l'applicazione del calcolo alle cose dell'ordine morale, per l''aberrazione' consistente nell'"assimilare l'uomo a un dado" (per usare le parole del fisico-matematico Louis Poinsot, allievo di Laplace). E dall'altro lato, nel mondo delle scienze sociali, nel prevalere del metodo storico. Questa sostanziale convergenza stronca lo sviluppo scientifico di quelle discipline che trovano uno spazio di sviluppo in ambienti marginali rispetto alla scienza 'ufficiale', come quelli degli ingegneri o dei cultori della statistica. (Di particolare interesse, in questo contesto, è il contributo di Jules Dupuit, 1804-1866). Poiché la polemica si appunta soprattutto sull'uso del calcolo delle probabilità, cui viene negato uno status epistemologico di pari dignità con il punto di vista del determinismo e del calcolo infinitesimale, un margine sottilissimo viene lasciato all'uso di un punto di vista direttamente plasmato su quello della meccanica. È proprio in questa stretta fessura che si fa strada l'opera fondamentale di Cournot. Cournot è ormai del tutto lontano dai grandi progetti riformatori, finalizzati alla felicità del genere umano, tipici del pensiero illuministico ed è anche molto più prudente di quanto sarà poi Walras nel valutare la portata del progetto di matematizzazione dell'economia: egli si limita alla formulazione di teorie parziali, con molti distinguo sulla loro applicabilità. In coerenza con questo atteggiamento egli prende energicamente le distanze dal tentativo pioneristico di Canard, pur ispirandosi con ogni evidenza a diverse idee dell'ingenuo professore francese di matematica e mostrando a più riprese di trarre spunto dall'analogia meccanica. L'originalità del progetto di Cournot (v., 1838) consiste nell'aver indicato la via dell'uso della teoria delle funzioni nello studio dei problemi economici, senza la necessità di specificare la forma delle funzioni che descrivono le leggi studiate, se non in termini di proprietà analitiche molto generali. Non c'è dubbio che questo indirizzo astratto e assolutamente alieno da ogni applicazione numerica diretta ha plasmato gli sviluppi di tutta la teoria dell'equilibrio economico generale fino ai nostri giorni. Oltre a questo contributo metodologico fondamentale, i contributi specifici più importanti di Cournot sono la chiara enunciazione della legge che regola in un singolo mercato la relazione fra la quantità domandata del bene scambiato e il prezzo in moneta del bene stesso (loi du débit) e, come abbiamo già ricordato, la definizione delle 'forme' fondamentali del mercato, che nella teoria del duopolio anticipa e imposta l'analisi contemporanea dei mercati di oligopolio. Tuttavia, per le ragioni sopra illustrate, il mondo scientifico e il mondo degli economisti erano ormai poco disposti a interessarsi a un siffatto approccio e l'opera di Cournot cadde in un silenzio quasi totale, al punto che nella sua opera successiva (v. Cournot, 1863), che riproponeva i contenuti della precedente, Cournot espunse tutte le formule matematiche. Con questo silenzio si chiuse la prima fase di gestazione del concetto di equilibrio, ma ormai erano stati gettati i semi di un progetto scientifico che continuò a sopravvivere in forma sotterranea. Tale progetto si basava su un'idea che riemerse in Walras come in Pareto (e in molti altri autori, tra i quali ricordiamo William Stanley Jevons, Irving Fisher e Paul Samuelson): l'idea che i concetti della meccanica possano, una volta spogliati del riferimento specifico ai fenomeni fisici, costituire un repertorio di concetti astratti utilizzabili per una rappresentazione efficace dei fenomeni di mercato, e che a questo repertorio si debba attingere a piene mani, perché esso offre una sorta di materia prima concettuale già elaborata e sperimentata in una scienza solida come la fisica. Quest'idea è la premessa per il pieno sviluppo del concetto di equilibrio nell'opera di Walras, più precisamente nel testo che raccoglie le sue lezioni universitarie, pubblicato col titolo Éléments d'économie politique pure ou théorie de la richesse sociale (v. Walras, 18741877). Nell'opera di Walras il progetto di creare un'economia politica pura in forma matematica, secondo il modello scientifico della meccanica classica e dell'astronomia newtoniana, diviene un progetto articolato e compiuto. Walras mutuò lo scheletro delle equazioni dell'equilibrio dal trattato di statica di Poinsot e attinse dalla meccanica classica non solo, e non tanto, gli strumenti matematici, ma anche, e soprattutto, un sistema di concetti per descrivere e interpretare i fenomeni di mercato. Ciò emerge con chiarezza nella discussione metodologica che Walras premise alla sua costruzione teorica: la distinzione tra tipi reali e tipi ideali di mercato e la descrizione di come si passi dalla definizione dei primi all'analisi formale per teoremi e dimostrazioni. Il mercato di concorrenza perfetta è concepito da Walras come la rappresentazione ideale, senza 'attriti', del tipo reale del 'mercato d'asta', che è scelto a sua volta come la forma tipica del mercato tout court. Il tâtonnement è la rappresentazione astratta e depurata di aspetti accessori ('attriti') del meccanismo di funzionamento di un mercato d'asta, costruita per mostrare, attraverso i concetti puri della teoria, come i mercati di concorrenza convergano verso lo stato di equilibrio. Per Walras il tâtonnement è una sorta di simulazione ideale di ciò che accade effettivamente nei mercati, una rappresentazione ideale di come si svolgerebbero i fenomeni dello scambio in mercati che si avvicinassero alle condizioni ideali della concorrenza perfetta. L'ultimo scritto di Walras è un breve saggio tutto dedicato a convincere i "contraddittori matematici" che vi è perfetta analogia tra la teoria dell'equilibrio economico walrasiana e due temi centrali della meccanica: l'equilibrio della bilancia e le equazioni della gravitazione universale. Walras arriva a concludere che l'economia è una scienza 'psichico-matematica' del tutto analoga alle scienze fisico-matematiche, salvo il fatto che si occupa appunto di grandezze psichiche anziché fisiche. Nella corrispondenza di Walras un intero carteggio è dedicato alla discussione puntuale e precisa di questa analogia, che egli considera fondamentale al fine di convincere i fisici e i matematici della solidità scientifica della nuova disciplina. Con insistenza accanita Walras si rivolse, infatti, ai fisici e ai matematici dell'epoca per ricevere approvazione e incoraggiamento al suo programma scientifico. Nel programma di Walras era presente un problema aperto e irrisolto: la relazione tra l'anima normativa e l'anima descrittiva della teoria dell'equilibrio economico. Fin dal XVIII secolo il progetto di trasferire il concetto di legge dalle scienze fisiche alle scienze sociali aveva sollevato il problema della compresenza, nelle scienze sociali, di due facce del concetto di legge: da un lato la regolarità dei fenomeni e la loro causalità indipendente dal volere dell'uomo, dall'altro la norma della ragione e quindi il precetto dell'azione sociale. Questo conflitto - o duplicità di significato - insito nel concetto di 'legge naturale' esteso al mondo dei fenomeni umani è presente in Montesquieu, in Condorcet, nella fisiocrazia. Lo ritroviamo nell'opera di Walras, che discende, per aspetti importanti, dalla teoria del diritto naturale. Per i teorici del diritto naturale la legge naturale ha il carattere di una verità certa ed evidente di tipo deduttivo, come le verità della geometria, e non è indotta a partire da regolarità osservate nel mondo umano, né smentita dalle assurdità della storia. Per Walras l'equilibrio di concorrenza perfetta, prima ancora di essere il modello astratto di un'organizzazione sociale esistente, è una norma della ragione, un ideale di organizzazione sociale cui tendere. L'equilibrio economico generale è un ideale normativo più che una fotografia della realtà dei mercati. Come si concili questa concezione normativa dell'equilibrio con la concezione meccanicistica mutuata dalla fisica classica è il problema interpretativo più delicato che si presenti allo studioso dell'opera di Walras. Nell'opera di Vilfredo Pareto (1848-1923) la difficile convivenza divenne un'aperta contraddizione, che portò in definitiva Pareto a spostarsi sul terreno della sociologia. Pareto, un ingegnere italiano, era anche più radicato di Walras nella cultura scientifica del suo tempo. Contrariamente a Walras, aveva avuto una formazione scientifica regolare presso il Politecnico di Torino, che era allora un centro molto vivo di dibattito scientifico e un'ottima scuola di meccanica. Il suo programma scientifico fu subito informato, a differenza di quello di Walras, a una esigenza preminente di fondazione empirica della teoria, perché Pareto considerava il metodo sperimentale cardine e fondamento di ogni discorso scientifico. Nella costruzione della teoria dell'equilibrio Pareto fu guidato ancor più di Walras dall'idea dell'analogia meccanica. Nel suo Cours (v. Pareto, 1896-1897) egli inserì una tabella a doppia entrata delle corrispondenze tra fisica e teoria economica, ribadendo sia in quest'opera che nel Manuale (v. Pareto, 1906) che l'equilibrio di un sistema di punti materiali della meccanica offre alla teoria economica un sistema di concetti già ben costruito per ragionare sull'equilibrio economico. Nella costruzione della teoria dell'equilibrio Pareto si scontrò con quella che ritenne una mancata corrispondenza tra teoria e fatti, e in particolare con quello che egli chiamò il "fenomeno soggettivo", cioè l'impatto sui comportamenti e quindi sui fenomeni sociali delle convinzioni soggettive, per irrazionali o false che esse possano essere. In definitiva, pur essendo molto più immerso di Walras nella problematica della matematizzazione dei processi reali, Pareto considerava tuttavia l'uso della matematica come un aspetto di un processo conoscitivo che deve essere saldamente radicato nel metodo sperimentale. Non essendo riuscito a dare un fondamento, un sostegno empirico alla teoria, Pareto entrò in quella crisi che lo spinse alla fine ad abbandonare il terreno dell'economia pura. Della sua svolta vanno ricordati due aspetti: il distacco dalla razionalità come movente prevalente delle azioni umane e l'esigenza di ritrovare nel campo allargato della sociologia la verifica sperimentale che gli risultava impossibile trovare nell'ambito ristretto della teoria economica. Per il primo aspetto Pareto, che aveva introdotto il concetto di homo oeconomicus come astrazione analoga al 'punto materiale' in meccanica, giunse a collocare la razionalità in una posizione di secondo piano nella spiegazione dei moventi delle azioni umane, quei moventi che forniscono la chiave per interpretare i grandi fatti sociali. Costruì invece una teoria delle azioni 'non logiche', attribuendo a tali azioni un'importanza sempre maggiore per comprendere le regolarità del mondo sociale. Per il secondo aspetto, pur senza rinnegare la teoria dell'equilibrio economico generale, Pareto giunse a sottolinearne la limitatissima applicabilità a fini sia normativi sia descrittivi. La povertà dei contenuti empirici della teoria era stata lamentata anche dai fisici e matematici in risposta ai tentativi di diffondere la teoria stessa fatti soprattutto da Walras (v. Ingrao e Israel, 1987, cap. 6). È questo il problema centrale che emerge dal carteggio tra Walras e Poincaré (sollecitato da Walras a dare il suo appoggio alla teoria): il problema che Poincaré solleva è appunto quello del procedimento di astrazione adottato nella costruzione della teoria e dei "giusti limiti" di questa procedura. Secondo Poincaré, "all'inizio di ogni speculazione matematica vi sono delle ipotesi e [...] affinché questa speculazione sia fruttuosa occorre (come nelle applicazioni alla fisica, del resto) che ci si renda conto di queste ipotesi. Se si dimenticasse questa condizione si supererebbero i giusti limiti". Anche il fisico matematico Paul Painlevé muove, nella sostanza, la stessa critica, nell'introduzione all'edizione francese del 1909 della Theory of political economy di Stanley William Jevons (1835-1882). Tale critica circola in molti ambienti di economisti, manifestandosi, in particolare, nel rifiuto da parte dell'ambiente di Cambridge di accettare la teoria in tutte le sue ambizioni di generalità e astrattezza. Alle soglie degli anni trenta, dopo circa cinquant'anni di vita, la teoria walrasiana era ancora quasi inesplorata sotto il profilo matematico: il suo nucleo concettuale era già chiaramente espresso negli Eléments, ma esso non aveva ancora trovato una chiara definizione formale, in particolare attraverso una precisa e soddisfacente formulazione matematica dei problemi dell'esistenza, dell'unicità e della stabilità dinamica dell'equilibrio, né tanto meno erano stati conseguiti risultati concernenti tali problemi. Ha inizio a questo punto quella che abbiamo indicato come la terza fase nello sviluppo storico della teoria e che è legata alla diffusione della modellizzazione matematica e quindi di un rapporto più elastico fra matematica e realtà, che non subisce in modo stretto i vincoli del riduzionismo meccanicista. Non a caso questa fase ebbe luogo in un diverso contesto geografico, trovando fertile terreno nei nuovi sviluppi assiomatici e astratti della scienza in Germania e in Austria. Questa nuova fase, legata soprattutto ai nomi di Abraham Wald (1902-1950) e John von Neumann (1903-1957), è caratterizzata da un cambiamento profondo dell'approccio matematico, che non è più quello dell'analisi infinitesimale, secondo le vedute della scuola di Losanna, bensì quello dell'analisi convessa. In verità i primi teoremi di esistenza dell'equilibrio, dimostrati da Wald nel quadro delle attività del Seminario Menger a Vienna, utilizzano ancora strumenti classici (ma con risultati limitati, proprio per le tecniche usate), mentre von Neumann apre la via, con l'uso delle tecniche di analisi convessa e dei teoremi di punto fisso, agli sviluppi che condurranno ai risultati degli anni cinquanta. Questa fase (che è trattata in dettaglio in Ingrao e Israel, 1987, e in Weintraub, 1986) è tanto breve quanto decisiva per lo sviluppo della teoria e ha il suo culmine nel trattato scritto da von Neumann in collaborazione con Morgenstern (v. von Neumann e Morgenstern, 1944), in cui l'originale visione walrasiana viene rimpiazzata da una descrizione dei processi economici nel quadro della teoria dei giochi strategici. In tale impostazione l'adesione a un punto di vista modellistico astratto è la chiave che permetterà finalmente di tradurre il nucleo paradigmatico della teoria (le questioni dell'esistenza, dell'unicità e della stabilità dinamica dell'equilibrio) in una fruttuosa struttura matematica, ma implica anche un indebolimento dell'adesione al riduzionismo fisico-matematico classico. Ma soltanto in parte, perché più tardi la necessità di riferirsi - in assenza di altri validi riferimenti concettuali - al modello della fisica si presenterà ancora nel trattato di von Neumann e Morgenstern. L'asse appare tuttavia spostato dal riferimento alla fisica-matematica classica a quello allora dominante della fisica teorica, in pieno e impetuoso sviluppo. La quarta fase può essere caratterizzata come quella in cui ha luogo la matematizzazione completa della teoria dell'equilibrio nella sua veste classica, entro un punto di vista assiomatico integrale di orientamento 'bourbakista': la sua più chiara manifestazione è la Theory of value di Debreu (v., 1959). Il primo periodo di questa fase si caratterizza per una prosecuzione del programma di uso sistematico della teoria dei giochi e dell'analisi convessa iniziato da von Neumann, che conduce, nel 1954, alla dimostrazione di un teorema molto generale di esistenza dell'equilibrio da parte di Kenneth Arrow e Debreu (entrambi nati nel 1921). Tuttavia, in questo lavoro di ricerca, il modello matematico viene man mano 'depurato' dei riferimenti alla teoria dei giochi attraverso un recupero dei concetti e del linguaggio della teoria walrasiana classica, sia pure entro il nuovo quadro formale e astratto. Tale impostazione ha consentito non soltanto di rispondere in modo positivo al problema dell'esistenza dell'equilibrio, ma anche di mostrare le insormontabili difficoltà che esistono sulla via di una dimostrazione della sua unicità. In un secondo periodo, inaugurato dal contributo di Stephen Smale (nato nel 1930), si è avuto un ritorno ai metodi del calcolo differenziale classico, sia pure nell'ottica della moderna topologia differenziale: questo approccio ha consentito di ridimostrare tutti i risultati ottenuti in precedenza. In questa cornice differenziale è stato inoltre affrontato il problema della stabilità dinamica (e in particolare quello del tâtonnement) mostrando che, anche in questo ambito, è impossibile conseguire sul piano analitico i risultati sperati: i processi di aggiustamento dei prezzi non sono quasi mai convergenti, se non sotto ipotesi molto restrittive e di significato economico molto particolare.Questi risultati conducono allo stato presente della teoria e ai difficili problemi che essa è costretta ad affrontare per individuare possibili vie di sviluppo. Sezione. Il modello di Arrow e Debreu. E' il più famoso dei modelli neoclassici contemporaneei. Quella che segue è la sua formulazione nelle parole dei due autori. A. Wald has presented a model of production and a model of exchange and proofs of the existence of an equilibrium for each of them. Here proofs of the existence of an equilibrium are given for an integrated model of production, exchange and consumption. In addition the assumptions made on the technologies of producers and the tastes of consumers are significantly weaker than Wald's. Finally a simplification of the structure of the proofs has been made possible through use of the concept of an ahstract economy, a generalization of that of a game. Walras first formulated the state of the economic system at any point of time as the solution of a system of simultaneous equations representing the demand for goods by consumers, the supply of goods by producers, and the equilibrium condition that supply equal demand on every market. It was assumed that each consumer acts so as to maximize his utility, each producer acts so as to maximize his profit, and perfect competition prevails, in the sense that each producer and consumer regards the prices paid and received as independent of his own choices. Walras did not, however, give any conclusive arguments to show that the equations, as given, have a solution. The investigation of the existence of solutions is of interest both for descriptive and for normative economics. Descriptively, the view that the competitive model is a reasonably accurate description of reality, at least for certain purposes, presupposes that the equations describing the model are consistent with each other. Hence, one check on the empirical usefulness of the model is the prescription of the conditions under which the equations of competitive equilibrium have a solution. Perhaps as important is the relation between the existence of solutions to a competitive equilibrium and the problems of normative or welfare economics.It is well known that, under suitable assumptions on the preferences of consumers and the production possibilities of producers, the allocation of resources in a competitive equilibrium is optimal in the sense of Pareto (no redistribution of goods or productive resources can improve the position of one individual without making at least one other individual worse off), and conversely every Paretooptimal allocation of resources can be realized by a competitive equilibrium. To study this question, it is first necessary to specify more carefully than is generally done the precise assumptions of a competitive economy. The main results of this paper are two theorems stating very general conditions under which a competitive equilibrium will exist. Loosely speaking, the first theorem asserts that if every individual has initially some positive quantity of every commodity available for sale, then a competitive equilibrium will exist. The second theorem asserts the existence of competitive equilibrium if there are some types of labor with the following two properties: (1) each individual can supply some positive amount of at least one such type of labor; and (2) each such type of labor has a positive usefulness in the production of desired commodities. The conditions of the second theorem, particularly, may be expected to be satisfied in a wide variety of actual situations, though not, for example, if there is insufficient substitutability in the structure of production. The assumptions made below are, in several respects, weaker and closer to economic reality than A. Wald's. Unlike his models, ours presents an integrated system of production and consumption which takes account of the circular flow of income. The proof of existence is also simpler than his. Neither the uniqueness nor the stability of the competitive solution is investigated in this paper. The latter study would require specification of the dynamics of a competitive market as well as the definition of equilibrium. Mathematical techniques are set-theoretical. A central concept is that of an abstract economy, a generalization of the concept of a game. L'analisi delle interdipendenze strutturali. Nell'introdurre The structure of American economy 1919-1929, la prima presentazione organica di quella che verrà poi chiamata l'analisi input-output, ricorda Paolo Costa, Leontief definisce il suo lavoro "un tentativo di applicare la teoria dell'equilibrio economico generale - o meglio, dell'interdipendenza generale - a uno studio empirico delle interrelazioni fra le differenti parti di un'economia [nazionale], che si rivelano attraverso covariazioni di prezzi, produzioni, investimenti e redditi" . L'idea di analizzare in dettaglio le relazioni intercorrenti tra le diverse parti di un sistema economico può essere fatta risalire a François Quesnay (v., 1973) e al suo Tableau économique (1758), che è riecheggiato anche nel modello di riproduzione a più settori utilizzato da Karl Marx nella sua analisi dell'interdipendenza delle attività economiche. Leon Walras (v., 1874) costruisce il prototipo dei modelli matematici di equilibrio economico generale nel quale la produzione è rappresentata da un 'indefinito' numero di settori (mercati); Gustav Cassel (v., 1932) estende e migliora il modello di Walras e suggerisce l'idea di derivare le funzioni di domanda e di offerta del modello di equilibrio generale dall'osservazione empirica piuttosto che deduttivamente dal principio di massimizzazione dell'utilità. Il modello delle interdipendenze strutturali di Leontief rende operativa l'idea di Cassel semplificando lo schema walrasiano fino a identificare relazioni funzionali che possono essere statisticamente stimate. A questo risultato Leontief arriva: 1) escludendo - almeno dal modello di base - le equazioni di offerta dei fattori primari (quelli non prodotti all'interno dell'economia studiata nell'unità di tempo di osservazione) e quelle di domanda dei beni e servizi finali (quelli non utilizzati come input di altri processi produttivi nell'economia studiata e nell'unità di tempo di osservazione); 2) riducendo, per aggregazione, il numero infinito di mercati di Walras a un numero finito di settori (o industrie, o branche produttive); 3) accettando la semplificazione walrasiana dei 'coefficienti fissi' (v. § 6b) e quindi funzioni di produzione 'lineari' (o 'alla Leontief', come verranno chiamate). Il compromesso tra 'fatti' e 'teoria' Nella migliore tradizione dell'economia classica il proposito indiscutibilmente ambizioso dell'analisi delle interdipendenze strutturali è quello di studiare la realtà economica in tutta la sua complessità, accettando "un compromesso fra le generalizzazioni senza vincoli del ragionamento puramente teorico e le limitazioni pratiche della raccolta dei dati empirici" (v. Leontief, 1941, p. 4) che consenta di evitare gli opposti pericoli di teorizzazioni eleganti, ma irrilevanti o comunque prive di validazione empirica, da un lato, e, dall'altro, di applicazioni empiriche non ordinate da alcuna ipotesi teorica. Il pericolo che si vuol evitare è l'allargarsi dello scarto tra 'fatti' e 'teoria', che rischia di "mettere a repentaglio l'integrità dell'economia come scienza empirica" (v. Leontief, 1989, p. 3). Il 'compromesso' si fonda su una teoria che tende a interpretare la realtà economica in termini della sua struttura (tecnologie, stili di vita e quindi di consumo, risorse primarie) e su uno strumento contabile - la tavola input-output, o tavola delle interdipendenze settoriali, o tavola economica intersettoriale - che consente una descrizione coerente dei fatti. La tavola organizza i dati nella logica del modello e il modello diventa credibile perché trova nella tavola conferma della sua operatività. Interdipendenze produttive e duplicazioni contabili L'interdipendenza strutturale, oggetto sia della descrizione contabile sia della rappresentazione analitica, è innanzitutto quella che si manifesta all'interno della parte 'attività produttiva' del sistema (costituito da parti legate da rapporti di interazione) al quale può essere ricondotta l'economia di una regione, di un paese o anche del mondo intero. La possibilità di studiare ed eventualmente controllare il comportamento di un sistema economico dipende - nella logica input-output - dalla capacità di rappresentarne, nel modo più disaggregato possibile, le parti e le loro interconnessioni. Rispetto alla rappresentazione aggregata del comportamento del sistema, espressa da un circuito economico (v. figura) nel quale 'imprese' producono 'beni e servizi' destinati a 'famiglie e resto del mondo', utilizzatori finali che, a loro volta, forniscono alle imprese le risorse primarie (i beni e i servizi non prodotti dall'economia in questione nell'unità di tempo considerata), l'analisi input-output mette in evidenza solo un sottocircuito in più (la linea tratteggiata nella figura), quello degli scambi di beni e servizi tra le imprese o tra loro raggruppamenti significativi: i settori. Nell'approccio input-output la descrizione delle interdipendenze intermedie tra settori produttivi (flussi di beni e servizi tra imprese, dettati dalle tecnologie di produzione, che dal punto di vista della contabilità nazionale danno luogo solo a 'duplicazioni' da eliminare ai fini della misura del prodotto interno lordo) integra utilmente la descrizione delle interdipendenze finali tra settori produttivi e impieghi finali, da un lato, e delle interdipendenze primarie tra settori produttivi e risorse primarie, dall'altro. Il motivo di questa particolare attenzione prestata alle interdipendenze intermedie sta nell'ipotesi implicita che le performances dell'intero sistema economico dipendano in misura prevalente da quanto succede all'interno del mondo della produzione: i rapporti tra le unità produttive influenzano fortemente sia le interdipendenze primarie sia le interdipendenze finali. Poiché i rapporti tra le unità di produzione sono largamente determinati dalle tecnologie produttive, è nella tecnologia e nella evoluzione di quest'ultima che l'analisi delle interdipendenze strutturali ricerca il primus movens della dinamica dei sistemi economici. Leontief rende empiricamente applicabile il modello di interdipendenza settoriale dal momento in cui si rende conto della possibilità di sfruttare il contenuto informativo delle duplicazioni contabili per calcolare i coefficienti fissi alla Walras. L'intuizione nasce dall'analisi del grande sforzo di costruzione della contabilità economica dell'URSS nei primi anni venti. È in un articolo pubblicato nel 1925 sul bilancio dell'economia dell'URSS che Leontief (v., 1925) mette in luce le relazioni esistenti tra valore della produzione lorda, valore delle duplicazioni e valore del prodotto netto e, soprattutto, quelle tra disaggregazione settoriale della rappresentazione dei processi produttivi e duplicazioni, che ne misurano l'interdipendenza. Le fortune dell'analisi delle interdipendenze strutturali Nel 1936 la pubblicazione di Quantitative input and output relations in the economic system of the United States (v. Leontief, 1936) segna la data ufficiale di nascita dell'analisi delle interdipendenze strutturali. L'analisi input-output non avrebbe però fatto molta strada dopo quella data se i continui miglioramenti delle macchine da calcolo, prima, e dei calcolatori elettronici, poi, non avessero permesso di affrontare sistemi di dimensioni comunque elevate. Le prime tavole rappresentative dell'economia americana del 1919 e del 1929 erano state costruite da Leontief disaggregando la produzione in 42 settori, ma le limitate capacità di calcolo del tempo avevano costretto l'autore ad aggregare il sistema in soli 10 settori per poter impiegare il modello; oggi la soluzione di modelli rappresentativi di economie disaggregate in centinaia, o anche migliaia, di settori produttivi non impegna un calcolatore che per pochi istanti. Ad altri eventi, quasi altrettanto 'fortunati', va attribuita la graduale riduzione dell'altro ostacolo, costituito dalla limitata disponibilità delle informazioni statistiche di base. I costi, in tempo e denaro, della preparazione delle tavole input-output erano, e restano, molto elevati; la crescente disponibilità degli uffici centrali di statistica a costruirle malgrado ciò è legata alla valutazione della loro utilità anche a prescindere dalla costruzione dei modelli di analisi economica da esse ottenibili. Soprattutto le tavole più disaggregate, come quelle per il Giappone, la Norvegia, gli Stati Uniti e il Canada, si sono rivelate fonti dirette di informazioni sulla struttura della produzione industriale e dei mercati molto apprezzate dagli analisti di settore e dagli studiosi di marketing. La fortuna delle tavole input-output al di fuori dell'analisi economica intersettoriale è però legata soprattutto al loro impiego come quadri di coerenza della contabilità nazionale. Ogni tavola input-output è la rappresentazione, compatta e disaggregata allo stesso tempo, di tre dei conti nazionali fondamentali (il conto della produzione, il conto dell'equilibrio dei beni e servizi, il conto della distribuzione del valore aggiunto). Ogni sistema di contabilità nazionale può esistere anche senza la tavola input-output, ma la sua eventuale presenza assicura il rispetto del vincolo di coerenza fra rilevazioni differenti e, quindi, una maggior affidabilità di tutta la base informativa fornita dalla contabilità nazionale. È per questi motivi che dal 1968 le tavole input-output, pur modificate nel formato secondo i suggerimenti di Richard Stone (v. cap. 5), sono divenute parte integrante del sistema di contabilità nazionale raccomandato dalle Nazioni Unite (v. UN Statistical Office, 1968). Il cuore dell'analisi delle interdipendenze strutturali è costituito dalla matrice dei coefficienti tecnici (o matrice della tecnica o matrice strutturale) e dalla corrispondente tavola dei flussi (o delle transazioni input-output o delle interdipendenze strutturali). La matrice dei coefficienti tecnici è una matrice nella quale ogni riga e la corrispondente colonna sono intestate a una delle n merci prodotte nel sistema economico considerato e il cui elemento generico aij indica la quantità della merce i impiegata per la produzione di una unità della merce j (se la riga e la colonna 1 sono intestate alla merce grano e la riga e la colonna 2 sono intestate alla merce fertilizzanti, l'elemento a₂₁ della A indica la quantità di fertilizzante necessario per produrre una unità di grano). Letta una colonna alla volta, la matrice A descrive la tecnologia di produzione di ogni singola merce e, in quanto tale, può essere costruita ex ante (indipendentemente dalla contabilizzazione del concreto operare dei singoli processi produttivi) sulla base del giudizio di esperti e di informazioni raccolte direttamente da fonti ingegneristiche. Questa procedura di costruzione della matrice A ha avuto qualche applicazione (v. Fisher e Chilton, 1971), anche se la procedura normalmente seguita è quella statistica o ex post che deriva la matrice A dalla corrispondente tavola delle transazioni Z. La tavola (delle transazioni o dei flussi) input-output è una tabella a doppia entrata nella quale ogni riga e la corrispondente colonna sono intestate a un settore (a un'industria o a una branca produttiva: l'industria automobilistica, l'industria calzaturiera, l'allevamento del bestiame, i servizi assicurativi, ecc.). L'elemento j-esimo della riga i-esima della tavola indica la quantità zij (che può anche essere nulla) di beni o servizi prodotti dal settore i e ceduti al settore produttivo j (j=1, 2, 3, ..., n) o al settore di domanda finale (j=n+1), che comprende assieme consumi delle famiglie, consumi pubblici, investimenti, esportazioni al netto delle importazioni, ecc. L'elemento i-esimo della colonna j-esima della stessa tavola rappresenta la quantità zij (che può essere anche nulla) di beni o servizi prodotti dal settore i e acquistati dal settore j per essere combinati con gli inputs acquistati dal settore degli inputs primari (i=n+1) per produrre il bene j. Schematicamente il quadro contabile input-output può essere pensato e distinto in quattro quadranti. Il primo quadrante, Z, è quello delle transazioni intersettoriali; il secondo, D, è quello degli outputs finali; il terzo, V, è quello degli inputs primari; il quarto quadrante è nullo. Idealmente gli elementi della tavola rappresentano tutti delle quantità fisiche espresse, riga per riga, da opportune unità di misura, come 'quintali di grano', 'metri di stoffa', 'numero di automobili'. In pratica la maggior parte delle tavole delle interdipendenze strutturali sono espresse in valori, ottenuti applicando un dato sistema di prezzi (quelli correnti o quelli di un qualche anno base) alle misure di quantità. Questo non impedisce di pensare ai valori delle transazioni come comunque rappresentativi di quantità: ridefinendo, riga per riga, l'unità di misura fisica come la quantità del bene considerato acquistabile al prezzo di una unità di conto (per esempio una lira), ogni valore zij risulta dal prodotto di una quantità per un prezzo sempre uguale a 1. Se merci e industrie sono classificate nello stesso modo e se si può assumere che ogni industria produca una sola merce con una tecnologia unica e stabile, ogni coefficiente della A si ottiene per semplice divisione: formula. Questo significa accettare, tra l'altro, implicitamente l'ipotesi di specificazione deterministica del modello, che consente di stimare ogni coefficiente aij sulla base di una sola osservazione. Di fatto ogni coefficiente tecnico aij è stimato sulla base di più osservazioni: per ogni coefficiente esiste dunque una distribuzione di probabilità che deve far considerare detti coefficienti come variabili casuali. La stima stocastica dei coefficienti tecnici di produzione (v. Gerking, 1976; v. Martellato, 1978), costosa in tempo e denaro, consentirebbe, ove applicata, di valutare la bontà delle stime e, quindi, di ottenere anche un apprezzamento statistico della rispondenza del modello alla realtà osservata empiricamente. Ma, anche senza abbandonare l'approccio deterministico, nella realtà molte industrie producono più merci, eventualmente distinguibili tra prodotti primari (quelli che caratterizzano l'industria in questione) e varie categorie di prodotti secondari. Per ovviare a questa mancata corrispondenza biunivoca tra industria e merce prodotta, o la si impone artificialmente (come sostanzialmente fa il SEC, Sistema Europeo di Contabilità, introducendo il concetto di 'branca') o, come ha suggerito Richard Stone - e l'Ufficio statistico delle Nazioni Unite ha convenuto di raccomandare nel suo sistema di contabilità nazionale (v. UN Statistical Office, 1968) -, si contabilizzano gli inputs e gli outputs in due tavole separate e non necessariamente quadrate: una tavola, U, degli assorbimenti (use matrix), che descrive, per colonna, tutte le merci usate come inputs da ogni singola industria, e una tavola, V, dei prodotti (make matrix), che indica, per riga, tutte le merci prodotte, gli outputs, da ogni singola industria. La procedura per ricavare la matrice A dalle tavole U e V risulta meno banale e comunque non univoca, dipendendo dalle ipotesi sulla natura dei prodotti secondari e sulla loro influenza sulle tecnologie di produzione, che si possono ipotizzare maggiormente condizionate, alternativamente, dal tipo di industria o dal tipo di merce. Il significato e la qualità dei coefficienti della matrice A ricavati dalla corrispondente tavola Z dipendono anche dal livello di disaggregazione settoriale (il passaggio da un livello all'altro di aggregazione può introdurre degli errori sistematici nella soluzione del modello), dalle configurazioni di prezzo usate (oltre al costo dei fattori il prezzo ex fabrica contabilizza le imposte indirette nette e il prezzo di mercato anche i margini remunerativi del trasporto e della distribuzione commerciale), dall'anno di riferimento dei prezzi (con problemi non banali di deflazione ove l'anno di riferimento debba essere diverso da quello di rilevazione), dal modo in cui sono contabilizzati i flussi di beni e servizi importati, ecc. Il modello base Nella sua formulazione più semplice il modello input-output si fonda su tre insiemi di relazioni: due che ne rappresentano i vincoli contabili, e che quindi assumono la natura di identità, e il terzo che ne descrive l'ipotesi comportamentale base con un insieme di vere e proprie equazioni. Le equazioni di bilancio materiale e le equazioni di prezzo Se i settori produttivi dell'economia considerata sono n (ognuno dei quali produce una sola merce) e il settore (n+1) rappresenta le famiglie, che si immaginano responsabili di tutti gli impieghi finali (consumi, investimenti, esportazioni, ecc.) e detentrici di tutte le risorse primarie, il primo insieme di identità, detto insieme delle equazioni di bilancio materiale, sarà (X1 - x11) - x12 - x13 - ... - x1n - x1, n+1 = 0 - x21 + (X2 - x22) - x2 3- ... - x2n - x2, n+1 = 0 ............................................................................ - xn1 - xn2 - xn3 - ... + (Xn - xnn) - xn, n+1 = 0 nel quale Xi rappresenta (in quantità fisiche) la produzione lorda del settore i-esimo, xij rappresenta la quantità della produzione del settore i-esimo impiegata come input dal settore j-esimo e xii rappresenta la quantità della produzione lorda del settore i-esimo reimpiegata nello stesso settore. L'insieme di queste identità esprime l'equilibrio ex post tra la domanda e l'offerta di ogni merce, descrivendo il fatto che la produzione lorda di ogni industria Xi è identicamente uguale alla somma delle quantità della merce i consumata da tutte le industrie (impieghi intermedi o duplicazioni) o dalle famiglie (impieghi finali). Il secondo insieme di identità, detto insieme delle equazioni di prezzo (o equazioni di bilancio finanziario), esprime un secondo vincolo contabile: quello dell'equilibrio tra costi e ricavi. Esso ci dice che ex post il valore della produzione di ogni settore è identicamente uguale al valore di tutti i beni e servizi (compresi quelli primari) impiegati nella sua produzione. Se pi (con i = 1, 2, ..., n) rappresenta il prezzo della merce i prodotta dal settore produttivo i-esimo e pn+₁ è il prezzo degli inputs primari (non prodotti) forniti dalle famiglie, questo secondo insieme di identità può essere scritto (X1 - x11) p1 - x21 p2 - ... - xn1 pn - xn + 1, 1 pn + 1 = 0 - x12 p1 + (X2 - x22) p2 - ... - xn2 pn - xn+1, 2 pn+1 = 0 .............................................................................................. - x1n p1 - x2n p2 - ... + (Xn - xnn) pn - xn+1, n pn+1 = 0 ed esprime una interdipendenza tra i prezzi non diversa da quella esistente tra le quantità. Nella scelta della forma funzionale Leontief si rifà a Walras e opta per l'ipotesi che l'ammontare di ciascun elemento di costo sia strettamente proporzionale alla quantità dell'output. L'organizzazione tecnica di ciascuna industria risulta espressa da un insieme di equazioni lineari omogenee del tipo x1j = a1j Xj; x2j = a2j Xj; ... xij = aij Xj; ... xnj = anj Xj. Le funzioni di produzione che ne derivano assumono la forma Xj = min { x1j / a1j, x2j / a2j, ..., xij / aij, ..., xnj / anj } nella quale ogni aij=xij / Xj è un coefficiente di produzione dato e costante per il quale xij=aij Xj. L'ipotesi di costanza dei coefficienti tecnici è ciò che maggiormente distingue l'analisi delle interdipendenze strutturali dalla teoria neoclassica della produzione.L'ipotesi di costanza dei coefficienti tecnici di produzione non comporta necessariamente la loro stabilità nel tempo: l'analisi input-output consente di tener conto del progresso tecnico e di ogni altra causa di mutamento tecnologico, che si rifletterà nella modificazione di un qualche insieme di coefficienti della matrice A. I coefficienti fissi alla Leontief implicano, invece, rendimenti costanti di scala (assenza di economie di scala) e, soprattutto, assenza di sostituibilità tra i fattori di produzione nell'ambito di un dato processo produttivo (con conseguente ininfluenza dei prezzi relativi dei fattori sulla scelta delle combinazioni di inputs produttivi): due conseguenze che hanno condotto alcuni autori a considerare l'analisi input-output solo come un caso particolare e minore della teoria neoclassica. Leontief ha sempre difeso la scelta dei coefficienti fissi solo come un'utile approssimazione: se è indiscutibile che i coefficienti di produzione non sono fissi, ciò che conta è sapere se la loro variabilità influenza significativamente o no la validità empirica dei calcoli basati sull'approssimazione accettata da Leontief, una domanda alla quale non si può dare una risposta a priori, senza ricorrere a verifiche empiriche. Il modello delle quantità Se, per l'ipotesi di funzione di produzione a coefficienti fissi si ha xij=aij Xj, l'insieme delle identità di bilancio materiale può essere riscritto (ponendo xi, n+₁=di) come un sistema di equazioni lineari (1 - a11) X1 - a12 X2 - a13 X3 - ... - a1n Xn = d1 - a21 X1 + (1 - a22) X2 - a23 X3 - ... - a2n Xn = d2 ...................................................................................... - an1 X1 - an2 X2 - an3 X3 - ... + (1 - ann) Xn = dn, che in forma compatta diventa (I - A) X = D, dove A è la matrice dei coefficienti tecnici, I è una matrice identità, X il vettore della produzione totale e D il vettore della domanda finale. Se il vettore D della domanda finale è assegnato esogenamente, il sistema diventa un sistema lineare di n equazioni in n incognite, la cui soluzione, se il determinante di (I A) è diverso da zero, è X = (I - A)-1 D. È questo l'esercizio più comune eseguito con il modello input-output, che consente di calcolare lo sforzo produttivo (la produzione totale misurata dal vettore X) necessario per soddisfare ogni dato livello (e struttura) della domanda finale (consumi, investimenti, esportazioni nette, ecc.) rappresentata dal vettore D. Una volta noto il vettore delle produzioni lorde X è poi possibile correlare con il livello e l'articolazione settoriale della domanda finale il fabbisogno totale di risorse primarie (lavoro, capitale, importazioni, ecc.) o altri effetti esterni, quali il consumo di risorse naturali o l'inquinamento prodotto dai processi produttivi. Alternativamente, se è il vettore X delle produzioni lorde a essere assegnato esogenamente, il sistema di equazioni determina univocamente il vettore di domanda finale D o, ancora, potrà determinare un numero n di elementi incogniti sia di X sia di D, una volta che sia stato fissato esogenamente un numero n di produzioni lorde e/o di domande finali settoriali. Il modello dei prezzi Operando in modo analogo sull'insieme delle equazioni di prezzo (sostituendo ogni xij con il corrispondente aij Xj e ponendo xn+₁, i pn+₁=Yi, valore aggiunto del settore i) si può scrivere (1 - a11) X1p1 - a21X1p2 - a31X1p3 - ... - an1X1pn = Y1 - a12X2p1 + (1 - a22)X2p2 - a32X2p3 - ... - an2X2pn = Y2 ................................................................................................ - a1nXnp1 - a2nXnp2 - a3nXnp3 - ... + (1 - annXn)pn = Yn. Se si divide la prima equazione per X₁, la seconda per X₂, ..., l'n-esima per Xn e si pone Yi / Xi = vi (coefficiente di valore aggiunto per unità di produzione), si ottiene (1 - a11) p1 - a21 p2 - a31 p3 - .... - an1 pn = v1 - a12 p1 + (1 - a22) p2 - a32 p3 - ... -an2 pn = v2 ................................................................................. - a1n p1 - a2n p2 - a3n p3 - ... + (1 - ann) pn = vn, che in notazione compatta diventa (I - A') p = v, dove p è il vettore dei prezzi e v il vettore dei coefficienti di valore aggiunto e la matrice dei coefficienti tecnici A appare trasposta. Se il determinante della matrice (I - A) è diverso da zero, il sistema dei prezzi ha soluzione p = [(I - A)']-1 v, che si caratterizza per la sua indipendenza dalla soluzione del modello delle quantità. I prezzi così calcolati si caratterizzano come 'prezzi di produzione' che dipendono solo dalla tecnologia produttiva e dalle remunerazioni dei fattori primari, senza essere influenzati da eccessi di domanda o di offerta temporaneamente presenti sui mercati. Nel caso del modello dei prezzi l'esercizio classico consiste nel determinare il vettore dei prezzi settoriali p, coerente con un livello assegnato di remunerazioni unitarie settoriali, rappresentato dal vettore v (o con una sua ripartizione tra profitti e salari, in versioni del modello che rendano il tasso di profitto dipendente dal vettore dei prezzi). Anche con il modello dei prezzi sarà sempre possibile calcolare il vettore dei valori aggiunti unitari settoriali implicato da ogni vettore di prezzi assegnati esogenamente o, ancora, calcolare un insieme di n prezzi e/o valori aggiunti unitari determinato da un insieme di n elementi sia di p sia di v preassegnati. L'inversa di Leontief e le condizioni di Hawkins-Simon La significatività economica delle soluzioni sia del modello delle quantità sia del modello dei prezzi dipende dalle caratteristiche della matrice (I - A)-¹, detta anche 'inversa di Leontief' o matrice dei fabbisogni diretti e indiretti di produzione. Se anche un solo elemento della matrice (I - A)-¹ (il cui elemento generico αij misura la quantità totale di merce i che deve essere prodotta affinché il settore j sia in grado di destinare una unità di output alla domanda finale) risultasse negativo, non risulterebbe più assicurata la non negatività del vettore X per qualsiasi vettore D (non negativo) della domanda finale, ma livelli negativi di produzione non hanno senso economico, come non lo hanno i prezzi negativi che si otterrebbero dalla soluzione di p = [(I- A)´]-¹ v. Le condizioni di non negatività di (I - A)-¹, che garantiscono la vitalità economica del sistema, sono state formulate in vario modo; le più note vanno sotto il nome di 'condizioni di Hawkins-Simon' (v. Hawkins e Simon, 1949): per esse, condizione necessaria e sufficiente perché il sistema X = (I - A)-¹ D ammetta almeno una soluzione X≥0 per qualsiasi D≥0 è che siano tutti positivi i minori principali della matrice (I - A). L'interpretazione economica di queste condizioni è che la vitalità del sistema è garantita solo se ogni suo subsistema, di qualunque dimensione, è capace di produrre un surplus, cioè di produrre più di quanto assorba come inputs produttivi. Interdipendenze strutturali e ottimizzazione Il modello input-output delle quantità individua il solo vettore di produzione lorda coerente con un dato vettore di domanda finale; allo stesso modo, per il modello dei prezzi, esiste un solo vettore dei prezzi coerente con un dato vettore di remunerazioni unitarie degli inputs primari. Nella formulazione standard dei modelli delle interdipendenze strutturali non ci sono possibilità di scelta e, quindi, non sono rappresentati processi di ottimizzazione. Il modello input-output può essere riformulato come modello di ottimizzazione (v. Dorfman e altri, 1958) se lo si considera come un caso particolare - quello che ammette corrispondenza biunivoca tra 'attività' e prodotto - di activity analysis (v. Koopmans, 1951): una formulazione generale che considera sia la possibilità che un'attività produca più prodotti sia quella che un prodotto sia ottenuto da più 'attività'. Se si ammette esplicitamente che si possa scegliere tra tecnologie alternative di produzione di una stessa merce, o che si possa scegliere tra 'attività' che producono e 'attività' che importano un bene, o se si introducono vincoli aggiuntivi relativi all'impiego di risorse primarie (produzioni ad alta intensità di lavoro contro produzioni ad alta intensità di capitale, produzioni che utilizzano o non utilizzano beni importati, ecc.), il modello input-output si presenta come un modello di ottimizzazione di solito risolto con le tecniche della programmazione lineare. Quasi tutte le applicazioni empiriche dell'analisi delle interdipendenze strutturali si sono limitate all'impiego del 'modello base'. Con questa versione del modello (statico perché considera la rete delle interdipendenze che si producono tra le parti del sistema in un solo punto nel tempo, e aperto perché assume che la domanda finale sia da determinare esogenamente) si sono condotte soprattutto analisi strutturali - dalle triangolarizzazioni della matrice A all'analisi dei collegamenti (linkages) ascendenti e discendenti tra settori, al calcolo dei moltiplicatori settoriali di produzione, reddito, occupazione, ecc. - o analisi di simulazione (o di impatto, o di previsione condizionale): misura degli effetti di variazioni del livello o della composizione della domanda finale, degli effetti di mutamenti della tecnologia produttiva di uno o più settori, degli effetti della determinazione esogena della produzione totale di uno o più settori produttivi, ecc. Ma in un modello input-output aperto i livelli del consumo, degli investimenti e degli scambi con l'estero appaiono del tutto indipendenti dai livelli settoriali di produzione, così come - in termini duali - i livelli dei salari, dei profitti e dei prezzi delle importazioni appaiono del tutto indipendenti dai prezzi settoriali delle produzioni. Per far corrispondere l'analisi delle interdipendenze strutturali al progetto originario di modello di equilibrio economico generale applicato - un modello capace di controllare l'interdipendenza piena tra il momento della produzione e i momenti della distribuzione e della redistribuzione del reddito, del consumo, dell'investimento e dei rapporti con l'estero - Leontief e altri hanno proposto versioni del modello chiuse rispetto a componenti della domanda finale o rispetto alla remunerazione di categorie di inputs primari. La chiusura rispetto al consumo si ottiene rendendo esplicite le relazioni che intercorrono tra ammontare della produzione, reddito percepito da coloro che partecipano al processo produttivo e beni acquistati per il consumo finale. Essa richiede la definizione di due insiemi di coefficienti: una matrice V di coefficienti di valore aggiunto, il cui generico elemento vkj = Vkj / Xj (k = 1, 2, ..., r; j = 1, 2, ..., n) indica il reddito pagato dal settore j al gruppo di percettori k per unità di produzione di j, e una matrice C di coefficienti di (propensioni al) consumo, il cui elemento generico cik = Cik/Yk (i = 1, 2, ..., n; k = 1, 2, ..., r) misura i consumi di prodotti del settore i acquistati dal gruppo di percettori k per unità di reddito (Yk è il totale dei redditi percepiti dal gruppo dei percettori k). La soluzione del 'modello delle quantità' diventa in questo caso X = (I - A - CV)-1 d, nella quale d rappresenta il vettore delle domande finali diverse dal consumo, e dalla quale si può ricavare la relazione diretta tra reddito e domanda autonoma Y = V (I - A CV)-¹ d, che, dipendendo dalle tecnologie produttive A, dalle propensioni al consumo C e dai coefficienti di distribuzione del reddito V, può essere letta come un moltiplicatore di Leontief-Keynes-Kalecki (v. Miyazawa, 1976). Nel modello chiuso rispetto al consumo ogni gruppo di percettori di reddito k viene trattato come un settore produttivo che utilizza i consumi della colonna Ck, come inputs di un processo produttivo che fornisce a tutti i settori produttivi i servizi remunerati secondo la riga Vk: i coefficienti fissi delle matrici C e V non sono più conseguenza dell'ipotesi di tecnologia alla Leontief, ma solo approssimazioni lineari delle relazioni reali. Se si ipotizza che sia d = 0, che cioè non esistano componenti di domanda finale diverse dal consumo, il modello chiuso diventa rappresentativo del funzionamento di un'economia stazionaria, della quale consente di determinare la struttura (la composizione relativa) delle produzioni lorde e i prezzi relativi dei prodotti, ma non necessariamente il loro livello assoluto. La considerazione esplicita dei fenomeni di distribuzione (ed eventualmente di redistribuzione privata e pubblica) del reddito e delle relazioni tra reddito e consumo può esser vista come un'estensione del modello delle interdipendenze strutturali al suo 'quarto quadrante', ora non più nullo (v. sopra, cap. 5), o come l'assorbimento dell'analisi input-output, sul lato contabile, nelle matrici di contabilità sociale (Social Accounting Matrix o SAM) (v. Stone, 1961) o, sul lato modellistico, nelle forme più semplici dei modelli di equilibrio economico generale calcolato (Computable General Equilibrium models o CGE models), che condividono con l'input-output l'origine walrasiana. La chiusura rispetto all'investimento Per chiudere il modello rispetto agli investimenti occorre, in base a un'opportuna teoria, mettere in relazione il livello e la composizione settoriale del vettore di domanda di nuovi beni capitali classificati per settore di produzione, I, con i livelli di produzione settoriale X. L'insufficienza del modello input-output statico e aperto a rappresentare adeguatamente questa relazione nasce dallo sfasamento temporale tra il momento della produzione e quello dell'accumulazione. L'esistenza di un 'periodo di gestazione' nella produzione degli investimenti e la durata della 'vita media' dei beni capitali, entrambi normalmente più lunghi dell'anno solare assunto come periodo di produzione nella quasi totalità delle applicazioni input-output rendono la relazione intercorrente tra I e X circolare e dinamica. Questo problema è stato affrontato fin dall'inizio (v. Leontief, 1953) lavorando attorno all'estensione in un contesto multisettoriale del principio dell'acceleratore, già utilizzato dai modelli dinamici aggregati di tipo Harrod-Domar, che porta alla formulazione di un modello del tipo (I - A*) Xt - B (Xt+1 - Xt) = Dt con A* = (A+rA), dove rA è una matrice il cui elemento generico, raij, misura la quantità di produzione del settore i necessaria per rimpiazzare il capitale consumato dal settore j nella produzione di una unità di j; B è la matrice dei coefficienti di capitale medi e marginali, il cui generico elemento bij misura la quantità di produzione del settore i richiesta dal settore j per costituire il capitale necessario a un aumento unitario della sua (capacità di) produzione, e Dt è il vettore di domanda finale al netto della domanda di investimenti. Questo modello possiede una soluzione generale, Xt = [B-1 (I - A* + B)]t X0 + Xt*, che può descrivere la crescita multisettoriale del sistema studiato nel solo caso particolare che esso si trovi (e resti) sul sentiero di crescita equiproporzionale o bilanciata. Se si ipotizza che l'economia studiata reinvesta tutta la produzione eccedente i fabbisogni correnti (che si immaginano comprensivi dei consumi delle famiglie e delle altre componenti della domanda finale), il tasso massimo di crescita bilanciata, se esiste, dipende dall'autovalore massimo di [B-¹ (I - A*+B)]. Da questo autovalore massimo dipende anche il tasso di interesse reale sullo stock di capitale investito in ogni settore, determinato dal modello dinamico 'duale' dei prezzi. Modelli dinamici di questo tipo presentano problemi di calcolo, che nascono dalla singolarità della matrice B, e problemi teorici legati all'implausibilità di una dinamica del sistema che segua il sentiero di crescita bilanciata (il solo che può consentire di evitare il presentarsi nel tempo di outputs negativi, anche se non garantisce né il rispetto delle 'condizioni terminali', quando il modello è 'risolto in avanti' come modello di simulazione dinamica, né il rispetto delle 'condizioni iniziali', quando il modello è 'risolto all'indietro' con l'inversa dinamica - v. Leontief, 1970 - come modello di programmazione a ritroso teso a individuare i sentieri di crescita settoriale che possono condurre a condizioni finali desiderate) nonché alla connessa irragionevolezza dell'ipotesi di pieno utilizzo della capacità produttiva. Tra gli altri, lo stesso Leontief (v. Leontief e Duchin, 1986) ha recentemente impiegato un modello dinamico che ovvia a gran parte di questi inconvenienti. La chiusura rispetto al commercio estero Per tener conto dei rapporti che legano un sistema economico a unità produttive o di consumo appartenenti ad altre economie occorre, infine, partire da una modificazione dell'equazione di bilancio dell'economia studiata, che diventa del tipo X + M = AX + D + E, dove appaiono i due nuovi insiemi di variabili, il vettore delle importazioni settoriali M e il vettore delle esportazioni settoriali E. Il problema della chiusura del modello si pone in modo sostanzialmente diverso per le importazioni e per le esportazioni. Le importazioni sono, per definizione, variabili che dipendono dal livello della domanda intermedia e/o finale dell'economia considerata e, quindi, dal livello della sua produzione. Le esportazioni, invece, possono essere rese dipendenti dai livelli di produzione (e quindi rese endogene nella logica input-output) solo partendo dalla constatazione che 'le esportazioni di una economia altro non sono che le importazioni delle altre economie'. Esse dipendono dunque dai livelli di produzione delle economie verso le quali sono dirette; ma queste economie, a loro volta, dipenderanno, per le proprie esportazioni, anche dai livelli di attività del sistema economico analizzato: un modello input-output può essere chiuso rispetto alle esportazioni solo passando a una sua versione multiregionale. È la chiusura rispetto alle esportazioni che dilata enormemente lo spazio dell'analisi delle interdipendenze produttive, consentendo di passare dalla considerazione della sola interdipendenza intersettoriale a quella dell'interdipendenza intersettoriale e interregionale. Con una versione multiregionale del modello si può misurare il grado di integrazione di diversi subsistemi regionali di una economia, sia in termini di 'effetti di tracimazione' sia in termini di 'effetti di retroazione', ma ci si può anche proporre di studiare gli impatti differenziati sulle diverse economie regionali di politiche di spesa decise a livello centrale, o di studiare gli effetti di rilocalizzazione interregionale delle attività produttive. Il modello multiregionale, infine, consentendo la misura dei flussi interregionali di beni, può essere usato per stimare la domanda interregionale di trasporto o per valutare gli effetti di variazioni dei costi di trasporto sui livelli di produzione e di commercio interregionale delle diverse regioni. In una economia multiregionale la produzione continua a eguagliare - settore per settore - la domanda (intermedia e finale) a livello dell'intero sistema di regioni, ma questa eguaglianza non è più necessariamente verificata a livello della regione singola: a questo livello territoriale l'equilibrio di bilancio viene assicurato da flussi interregionali di beni e servizi che vengono, simmetricamente, visti come importazioni (interregionali) dalle regioni che li richiedono e come esportazioni (interregionali) dalle regioni che li producono. Ciò significa che la soluzione di un modello input-output multiregionale l'ottenimento di un vettore di produzione totale specificato sia per settore sia per regione - può essere ricavata solo raccordando la teoria leontieviana della produzione con una qualche teoria del commercio interregionale. Le forme di questo raccordo si distinguono per il grado di dettaglio con il quale sono descritti i flussi di commercio interregionale e per la determinazione, simultanea o separata, di questi ultimi rispetto a quelli di produzione regionale. Se rappresentiamo con xrsij il flusso del bene i prodotto nella regione r e utilizzato nella produzione di j nella regione s, l'ipotesi di coefficienti fissi di produzione continuerà a dettare l'entità del bene i necessario per la produzione del bene j nella regione s, asij, ma occorrerà affidare a un trade coefficient, ti, la rappresentazione della quota fornita dalla regione r dell'input i richiesto per la produzione di j nella regione s: xrsij = tiasijxsj. Le diverse classi di modelli multiregionali si distinguono a seconda della maggiore o minore specificazione settoriale e/o regionale dei trade coefficients, che corrisponde ad altrettante ipotesi sulla stabilità dell'intero pattern di commercio interregionaleintersettoriale, come nel modello 'interregionale puro' di Isard (v., 1951), o sulla stabilità del solo pattern interregionale, come nei modelli alla Chenery-Moses (v. Moses, 1955), o alla sola stabilità dei coefficienti di importazione ed esportazione totale, come nei modelli pool alla Leontief (v. Leontief e altri, 1977). Sono questi tre gli approcci classici alla chiusura dei modelli input-output rispetto al commercio interregionale, anche se nessuno di essi affronta il problema della codeterminazione dei flussi di commercio interregionale, il quale è affrontato, invece, dal modello input-output 'gravitazionale' di Leontief e Strout (v., 1963), che ha aperto la strada a tutta una famiglia di modelli input-output di interazione spaziale. L'ipotesi comportamentale rappresentata da un modello gravitazionale è che il flusso interregionale del bene i, xrsi, sia direttamente proporzionale alla produzione di i nella regione di origine r, Xri, e alla domanda di i nella regione di destinazione s, Dsi, e inversamente proporzionale a una qualche misura della distanza tra r e s, drs, secondo l'espressione xirs = ki Xir Dis drs (-α(i)), nella quale ki è un parametro di scala e α(i) è un parametro di sensitività alla distanza, specifico per ogni bene i, da stimare empiricamente. Oltre il sistema economico Se tra due processi si stabilisce un rapporto di interdipendenza diretta tutte le volte che l'output dell'uno diventa input dell'altro, mentre altri rapporti di interdipendenza indiretta possono essere mediati da un terzo o da un quarto processo, e così via, è evidente che non è solo nell'ambito dell'economia che sono riconoscibili reti di relazioni tra parti che si influenzano tra loro. L'analisi dell'interdipendenza strutturale è andata conseguentemente estendendosi in modo che alcuni dei sistemi input-output più recentemente progettati considerano non solo i processi economici strettamente definiti, ma l'intero ambiente naturale e sociale nel quale si svolgono le attività umane delle società semplici come di quelle industriali avanzate. Lo studio della generazione e dell'abbattimento dell'inquinamento, l'analisi dell'impiego di diverse risorse naturali non rinnovabili, lo studio dei sistemi demografici, l'analisi della produzione di servizi medici e di servizi scolastici, lo studio della struttura della conoscenza scientifica, sono alcuni dei campi nei quali l'analisi delle interdipendenze strutturali si è resa utile, sfruttando la sua possibilità di essere ponte tra i valori monetari della contabilità nazionale e il più ampio mondo delle relazioni tecnologiche, economiche, demografiche e naturali descrivibili in termini puramente fisici. Critica del modello di equilibrio economico generale. La ricca e tormentata storia della teoria dell'equilibrio economico generale, scrivono Ingrao e Isarel, conduce ad alcune significative riflessioni.La prima riflessione riguarda l'enorme ambizione e forse l'ingenuità con cui è stato affrontato il problema dell'equilibrio generale del mercato. In un carteggio con Pietro Verri, nel 1773, Condorcet metteva in guardia Verri dal sottovalutare le difficoltà della formalizzazione nella scienza sociale, osservando che le maggiori menti matematiche dell'epoca non erano state in grado di risolvere il 'problema dei tre corpi', e commentava: "Essi suppongono che questi corpi siano delle masse senza estensione [...] e questo problema, benché limitato da cento condizioni che lo facilitano, li ha occupati da venticinque anni e li occupa ancora. L'effetto delle forze che agiscono nella testa del commerciante, anche il più stupido, è ben più difficile da calcolare". Una problematica analoga, anche se affrontata in un'ottica diversa, emerse nel carteggio tra Walras e Poincaré: Poincaré sosteneva che fosse lecito assumere come punto di partenza una grandezza non misurabile (l'utilità espressa con una funzione arbitraria), ma non certo che una teoria costituita su queste basi fosse soddisfacente. Pur senza approfondirlo, Poincaré aveva toccato con grande acume un problema cruciale della teoria: il difetto di specificazione dovuto all'elevato numero di funzioni arbitrarie incluse nelle sue premesse.Tutte queste difficoltà acquistano un pieno significato se sono viste nel contesto del problema generale delle difficoltà che insorgono, in forme ormai ben note, quando si tenta di matematizzare dei campi di fenomeni ben più complessi di quelli fisici, quali sono i fenomeni biologici e sociali. Un secondo ordine di riflessioni investe l'ipotesi che è a fondamento della descrizione del comportamento degli agenti economici nei modelli di equilibrio: l'idea che gli agenti economici sono razionali in un senso molto particolare, cioè sono capaci di scegliere in modo coerente secondo procedure di ottimizzazione, dati i segnali che ricevono dal mercato. Questa visione della razionalità individuale del consumatore è controversa e criticabile, poiché attribuisce agli individui capacità di calcolo esagerate, mentre omette di rappresentare quella più autentica razionalità, essenziale anche nell'attività economica, che è la capacità inventiva e più in generale la capacità di interagire in modo creativo con l'ambiente. Gli agenti dei modelli di equilibrio economico generale sono degli "idioti razionali", come li ha spiritosamente definiti l'economista Amartya Kumar Sen. I risultati della storia della teoria dell'equilibrio economico generale mostrano che l'ipotesi della razionalità individuale del consumatore, già discutibile dal punto di vista del realismo, è anche povera: è povera di implicazioni e produce scarsi risultati in termini di ipotesi falsificabili e di proposizioni determinate. Infine una riflessione è stata avviata e dovrà essere approfondita sulla 'visione' del mercato che la teoria dell'equilibrio economico generale ci trasmette. Walras scelse il mercato d'asta come tipo reale da cui astrarre il tipo ideale della concorrenza perfetta. Questa scelta è stata densa di implicazioni: ha abituato l'economista teorico a pensare il mercato tout court come un mercato d'asta e, peraltro, come un mercato d'asta improprio e fittizio, perché perfetto dal punto di vista dell'informazione e collocato in un tempo algoritmico astratto che non è quello delle decisioni reali prese sul mercato; ha abituato altresì l'economista teorico a pensare il meccanismo di mercato come riducibile a un meccanismo dei prezzi elementare e trasparente. Nei mercati reali, fuori dalle finzioni della teoria walrasiana, l'armonizzazione e la compatibilità dei fini individuali sul mercato sono raggiunte anche grazie all'operare del meccanismo dei prezzi, ma entro un sistema di istituzioni, di regole, di relazioni di fiducia, di forme e attività organizzative, che non assomiglia affatto al banditore walrasiano. Il 'libero mercato' è un insieme di istituzioni in cui funzionano meccanismi allocativi e distributivi complessi, assai più ricchi e articolati, indipendentemente dalla loro maggiore o minore efficacia, di quelli descritti dalla teoria dell'equilibrio economico generale. Ciò che la teoria dell'equilibrio generale ha eliminato dall'analisi della forma ideale del mercato di concorrenza, in quanto 'accidente' irrilevante o in quanto ostacolo al paradigma della razionalità, è proprio ciò che consente di dare un contenuto positivo di conoscenza alla ricerca economica. Gli 'attriti', le specificità storiche e istituzionali dei mercati, le innovazioni tecnologiche, la storia monetaria o industriale, i processi di mutamento sono il materiale indispensabile che fornisce contenuto e determinatezza alla disciplina e le dà una ragione d'essere a fianco di altre forme di riflessione sulle regole della vita associata. La teoria marginalista abbandonava in via definitiva il concetto classico di valore-lavoro e introduceva il concetto di utilità, che diventerà poi con Pareto ofelimità; abbandonava il tema dello sviluppo economico caro agli economisti classici come Smith, Ricardo. Malthus, Torrens e introduceva il concetto di equilibrio economico generale. Introduceva il concetto di produttività marginale dei fattori della produzione come fondamento della teoria della distribuzione del reddito. Infine, avviava una progressiva matematizzazione della teoria economica che portò allo sviluppo di una particolare disciplina chiamata matematica per economisti. [M. Blaug Storia e critica della teoria economica, Boringhieri. P. Pettenati, M. Crivellini L'economia politica in una prospettiva storica, Il mulino. M. Dobb Storia del pensiero economico, Editori Riuniti. E. Roll Storia del pensiero economico, Boringhieri. J. Schumpeter Storia dell'analisi economica, Boringhieri. H. Denis Storia del pensiero economico, Il saggiatore. J. Robinson Ideologie e scienza economica, Sansoni]. Tale teoria trovò la sua sistemazione epistemologica nel 1932, quando, per opera di Lionel Robbins, insignito successivamente del titolo di Lord, essa venne definita come la scienza che studia il comportamento umano come relazione fra risorse scarse che hanno usi alternativi. [L. Robbins Sulla natura e sull'imprtanza della scienza economica, Utet]. Dalla definizione di Robbins, scrisse Napoleoni, discendevano delle importanti conseguenze. La prima si riferisce al carattere essenzialmente deduttivo della scienza economica. Tale carattere, già teorizzato da Stuart Mill un secolo prima [J. S. Mill Alcune questioni irrisolte dell'economia politica, Isedi], venne riconosciuto successivamente ad essa dal Jevons.[W. S. Jevons Teoria dell'economia politica, Utet ] La seconda conseguenza riguarda la neutralità della scienza economica che trasforma la stessa in una sorta di tecnica delle decisioni. La terza è connessa con la determinazione del punto di ottimo, inteso come ottimo paretiano di cui parleremo più avanti. [C. Napoleoni Il pensiero economico del 900, Einaudi] In questo quadro, è fondamentale la critica di Hicks. Come egli scrisse infatti in Valore e capitale, Ora, la ragione della sterilità del sistema walrasiano io credo che sia dovuta al fatto che egli non ci fornisce le leggi del cambiamento del suo sistema di equilibro generale. Egli poté dire quali condizioni devono essere soddisfatte dai prezzi stabiliti con date quantità e date preferenze, ma egli non spiegò che cosa accadrebbe se i gusti o le quantità disponibili mutassero. In termini generali, quello che possiamo dire è che a teoria dell'equilibrio eonomico generale funziona in condizioni di concorrenza perfetta, dove le curve di domanda e offerta sono perfettamente elastiche per quanto piccoli siano i movimenti dei prezzi e delle quantità. Dove esiste perfetta trasparenza dei mercati, perfetta simmetria nell'informazione, dove non esistono barriere di alcun tipo alla competizione. Non funziona se si formano delle rigidità che impediscono di realizzare l'equilibrio sui singoli mercati: in breve, mercato del lavoro, mercato dei capitali, mercato dei beni di consumo, mercato dei beni di investimento. Walras non si occupò soltanto di economia matematica, ma si occupò anche di scienze sociali. Famosa è la sua tripartizione della materia economica in: lo studio delle leggi naturali del valore di scambio ovvero la teoria della ricchezza sociale; lo studio dell'economia applicata; lo studio dell'economia sociale. [L. Walras Teoria generale della società, Archivio Guidi, Firenze] La distinzione tra produzione e distribuzione venne introdotta da Ricardo – vedi la sua definizione di economia come la scienza che si occupa della distribuzione del reddito nazionale. Nelle parole di Ricardo, The produce of the earth—all that is derived from its surface by the united application of labour, machinery, and capital, is divided among three classes of the community; namely, the proprietor of the land, the owner of the stock or capital necessary for its cultivation, and the labourers by whose industry it is cultivated. But in different stages of society, the proportions of the whole produce of the earth which will be allotted to each of these classes, under the names of rent, profit, and wages, will be essentially different; depending mainly on the actual fertility of the soil, on the accumulation of capital and population, and on the skill, ingenuity, and instruments employed in agriculture. To determine the laws which regulate this distribution, is the principal problem in Political Economy: much as the science has been improved by the writings of Turgot, Stuart, Smith, Say, Sismondi, and others, they afford very little satisfactory information respecting the natural course of rent, profit, and wages. Fu rielaborata da Stuart Mill per il quale, mentre le leggi della produzione dovevano essere considerate alla stregua di leggi naturali, si poteva agire a livello sociale al fine di migliorare le condizioni delle classi subalterne. Non a caso, Walras amava definirsi liberale in economia e socialista in politica. [L. Robbins La teoria della politica economica nell'economia politica classica inglese, Utet] La teoria dell'equilibrio economico generale considera il lavoro alla stregua d'un normale fattore della produzione e per tale via esso deve essere retribuito allo stesso modo degli altri fattori della produzione, cioè, sulla base della sua produttività marginale. [K. Wicksell La produttività marginale come fondamento della distribuzione in economia, in G. Lunghini, a cura di, Valore, prezzi, equilibrio economico generale, il Mulino]. Il modello può essere così sintetizzato. Il salario si forma sul mercato del lavoro in base al gioco della domanda ed offerta, a dire, più alti son o i salari, maggiore è l'offerta di lavoro; minori sono i salari, minore è l'offerta di lavoro. In condizioni di equilibrio, il salario corrisponde al rapporto fra l'utilità marginale dei beni che il lavoratore potrebbe acquistare con il maggior salario e la disutilità derivante dal minore tempo libero. Nelle parole di Jevons, A free labourer endures the irksomeness of work because the pleasure he expects to receive, or the pain he expects to ward off, by means of the produce, exceeds the pain of exertion. When labour itself is a worse evil than that which it saves him from, there can be no motive for further exertion, and he ceases. Therefore he will cease to labour just at the point when the pain becomes equal to the corresponding pleasure gained; and we thus have to defined by the equation Ora il problema è che il lavoratore non è un operatore economico qualsiasi, egli è costretto a lavorare perché non ha altre fonti di reddito e non può prendersi il lusso di seguire i principi della psicologia economica del marginalismo. Ciò rimanda alla diversa concezione del capitale di Marx e di Jevons. Per Marx, il capitale è, per prima cosa, un rapporto sociale. Per Jevons, Capital, as I regard it, consists merely in the aggregate of those commodities which are required for sustaining labourers of any kind or class engaged in work. A stock of food is the main element of capital; but supplies of clothes, furniture, and all the other articles in common daily use are also necessary parts of capital. The current means of sustenance constitute capital in its free or uninvested form. The single and all-important function of capital is to enable the labourer to await the result of any long-lasting work,—to put an interval between the beginning and the end of an enterprise. Analoga osservazione può essere fatta per quello che riguarda la teoria neoclassica della distribuzione del reddito. Per la teoria marginalista, la loro produttività marginale è l'unico criterio oggettivamente possibile per determinare la distribuzione del reddito. In realtà, come scrisse Marx, il capitale altro non è che lavoro accumulato, lavoro morto che sfrutta lavoro vivo, potenza della produzione che si erge contro il produttore, l'operaio che con il suo lavoro produce il plusvalore che serve a valorizzare il capitale che lo lega al proprio lavoro. In altre parole, per Marx, parlare di produttività del capitale è un non-senso, fa parte del gioco degli specchi creato dall'alienazione capitalistica che trasforma il creatore del valore, l'operaio, in servitore del capitale che egli, con il suo lavoro ha contribuito a creare. Come Marx scrisse in Teorie del plusvalore, La produttività del capitale consiste nella costrizione a fornire plus-lavoro, a lavorare in misura superiore alle necessità immediate, una costrizione che il modo di produzione capitalistico ha in comune con i modi di produzione precedenti, ma che esso esercita, realizza in maniera più favorevole alla produzione. Fondamentale, in questo processo è l'uso delle macchine alle quali è affidato il compito di aumentare la produzione di plusvalore relativo. Come Marx scrisse in Il capitale: Nella manifattura la rivoluzione del modo di produzione prende come punto di partenza la forza-lavoro scrisse Marx nel Capitale; nella grande industria, il mezzo di lavoro. Occorre dunque indagare in primo luogo in che modo il mezzo di lavoro viene trasformato da strumento in macchina, oppure in che modo la macchina si distingue dallo strumento del lavoro artigiano. Qui si tratta soltanto di grandi tratti caratteristici generali, poiché né le epoche della geologia né quelle della storia della Società possono esser divise da linee divisorie astrattamente rigorose. I matematici e i meccanici — e qua e là qualche economista inglese ripete la cosa — dichiarano che lo strumento di lavoro è una macchina semplice e che la macchina è uno strumento composto: in ciò non vedono nessuna differenza sostanziale, e chiamano macchine perfino le potenze meccaniche elementari, come la leva, il piano inclinato, la vite, il cuneo, ecc Di fatto tutte le macchine consistono di quelle potenze elementari, qual ne sia il travestimento e la combinazione. Tuttavia dal punto di vista economico la spiegazione non vale niente, perché vi manca l’elemento storico. Da un’altra parte, la distinzione fra strumento e macchina viene cercata nel fatto che nello strumento la forza motrice è l’uomo, nella macchina una forza naturale differente dall’uomo: ad esempio, animali, acqua, vento, ecc. Da questo punto di vista, l’aratro tirato dai buoi, che appartiene alle più differenti epoche della produzione, sarebbe una macchina, e il circular loom (Telaio circolare) del Claussen, che, mosso dalla mano di un solo operaio, esegue novanta- seimila maglie al minuto, sarebbe un semplice strumento. Anzi lo stesso loom sarebbe strumento, se mosso a mano, e macchina, se mosso a vapore. Poichè l’uso della forza animale è una delle più antiche invenzioni dell’umanità, la produzione a macchina precederebbe di fatto quella artigianale. Quando John Wyatt nel 1735 annunciò la sua macchina per filare, e con essa la rivoluzione industriale del secolo XVIII, non accennò neppure con una parola che la macchina non fosse mossa da un uomo ma da un asino; tuttavia questa parte toccò all’asino. Il programma del Wyatt suonava: una macchina « per filare senza dita». Ogni macchinario sviluppato consiste di tre parti sostanzialmente differenti, macchina motrice, meccanismo di trasmissione, e infine macchina utensile o macchina operatrice. La macchina motrice opera come forza motrice di tutto il meccanismo. Essa o genera la propria forza motrice, come la macchina a vapore, la macchina ad aria calda, la macchina elettromagnetica, ecc., oppure riceve l’impulso da una forza naturale esterna, già esistente, come la ruota ad acqua dalla caduta d’acqua, l’ala d’un mulino a vento dal vento, ecc. Il meccanismo di trasmissione composto di volanti, alberi di trasmissione, ruote dentate, pulegge, assi, corde, cinghie, congegni e apparecchi di ogni genere, regola il movimento, ne cambia, quand’è necessario, la forma, per esempio, da perpendicolare in circolare, lo distribuisce e lo trasmette alle macchine utensili. Queste due parti del meccanismo esistono solo allo scopo di comunicare alla macchina utensile il moto per il quale essa afferra e trasforma come richiesto l’oggetto del lavoro. Da questa parte del macchinario, dalla macchina utensile, prende le mosse la rivoluzione industriale del secolo XVIII; ed essa costituisce ancora sempre di nuovo il punto di partenza tutte le volte che una industria artigianale o manifatturiera trapassa in industria meccanica. Se ora consideriamo più da vicino la macchina utensile o macchina operatrice vera e propria, vediamo ripresentarsi, tutto sommato, se pure spesso in forma assai modificata, gli apparecchi e gli strumenti coi quali lavorano l’artigiano e l’operaio manifatturiero; ora però non più come strumenti dell’uomo, ma come strumenti d’un meccanismo o strumenti meccanici. O è tutta la macchina che si riduce a una edizione meccanica, più o meno modificata, del vecchio strumento del mestiere artigiano, come nel telaio meccanico; oppure gli organi operanti applicati allo scheletro della macchina operatrice sono vecchie conoscenze, come i fusi nella filatrice meccanica, come gli aghi nel telaio del calzettaio, le lame dentate nella segheria meccanica, i coltelli nella triturazione meccanica, ecc. La differenza fra questi strumenti e il corpo della macchina operatrice in senso proprio risale alla loro nascita. Infatti essi vengono ancor oggi prodotti per la maggior parte da lavoro di tipo artigiano o manifatturiero, e solo in seguito vengono fissati al corpo della macchina operatrice, che è prodotto a macchina. la macchina utensile è un meccanismo il quale, dopo che gli sia stato comunicato il moto corrispondente, compie con i suoi strumenti le stesse operazioni che prima erano eseguite con analoghi strumenti dall’operaio. Ora, la sostanza della cosa non cambia, sia che la forza motrice provenga dall’uomo, sia che provenga anch’essa a sua volta da una macchina. Dopo che lo strumento in senso proprio è stato trasmesso dall’uomo ad un meccanismo, al puro e semplice strumento subentra una macchina. Anche se l’uomo stesso rimane ancora primo motore, la differenza balza subito agli occhi. Il numero di strumenti di lavoro coi quali l’uomo può operare contemporaneamente è limitato dal numero dei suoi strumenti naturali di produzione, cioè dei suoi organi corporei. In Germania s’era provato, prima a far muovere due filatrici a ruota da un solo filatore, cioè di farlo lavorare contemporaneamente con le due mani e i due piedi: ciò era troppo faticoso; poi s’inventò una filatrice a pedale con due fusi, ma i virtuosi della filatura che riuscissero a filare due fili allo stesso tempo erano rari quasi quanto gli uomini con due teste. Invece la jenny filato fin da principio con dodici fino a diciotto fusi, il telaio da calzettaio ammaglia con molte migliaia di aghi per volta, ecc. Da bel principio il numero degli strumenti coi quali la stessa macchina utensile lavora simultaneamente è emancipato dal limite organico che restringe l’uso dello strumento artigiano da parte dell’operaio. La distinzione fra l’uomo come pura e semplice forza motrice e l’uomo come operaio che manovra il vero e proprio operatore, possiede una esistenza tangibilmente particolare in molti strumenti artigiani. Per esempio, nel filatoio a mulinello il piede opera soltanto come forza motrice, mentre la mano che lavora al fuso, trae e torce, compie la vera e propria operazione della filatura. La rivoluzione industriale s’impadronisce per prima proprio di quest’ultima parte dello strumento artigiano lasciando all’uomo, oltre al nuovo lavoro consistente nel sorvegliare con l’occhio la macchina e nel correggerne con la mano gli errori, ancora in un primo momento, la funzione puramente meccanica di forza motrice. Invece gli strumenti pei quali l’uomo agisce fin da principio soltanto come semplice forza motrice, come per esempio nel girare il manubrio d’una macina nel pompare, nell’alzare ed abbassare le braccia d’un mantice, nel pestare in un mortaio, provocano certo per primi l’uso di animali, dell’acqua e del vento come forze che danno movimento. In parte entro il periodo manifatturiero, e sporadicamente già molto prima di esso, questi strumenti si stirano fino a diventare macchine, ma non rivoluzionano il modo di produzione. Nel periodo della grande industria si vede che anche nella loro forma di tipo artigianale essi sono già macchine. Per esempio le pompe, con le quali gli olandesi prosciugarono nel 1836-37 il lago di Hariem, erano costruite secondo il principio delle pompe comuni; solo che, invece di braccia umane, erano ciclopiche macchine a vapore a muovere i pistoni. In Inghilterra il mantice comune e molto imperfetto del magnano viene ancora a volte trasformato in pompa pneumatica meccanica per mezzo del semplice collegamento del suo braccio con una macchina a vapore. La stessa macchina a vapore, come è stata inventata alla fine del secolo XVII durante il periodo della mani fattura e come ha continuato ad esistere fino al principio del decennio 1780-1790, non, ha provocato nessuna rivoluzione industriale. È stato piuttosto il fenomeno inverso, la creazione delle macchine utensili, che ha reso necessario rivoluzionare la macchina a vapore. Appena l’uomo agisce ormai soltanto come forza motrice di una macchina utensile invece di agire con il suo strumento sull’oggetto del lavoro, il travestimento della forza motrice in muscoli umani diventa un fatto casuale, e al suo posto può subentrare il vento, l’acqua, il vapore, ecc. Ciò non esclude naturalmente che tale cambiamento non richieda spesso grandi modificazioni tecniche del meccanismo originariamente costruito per la sola forza motrice umana. Oggi tutte le macchine che debbono ancora cominciare a farsi strada, come le macchine per cucire, le macchine per impastare il pane, ecc., vengono costruite contemporaneamente per forza motrice umana e per forza motrice puramente meccanica quando non escludano fin da principio, per la loro stessa destinazione, d’esser costruite su piccola scala. La macchina, dalla quale prende le mosse la rivoluzione industriale, sostituisce l’operaio che maneggia un singolo strumento con un meccanismo che opera in un sol tratto con una massa degli stessi strumenti o di strumenti analoghi, e che viene mosso da una forza motrice unica, qualsiasi possa esserne la forma. Ecco la macchina, ma per il momento solo come elemento semplice della produzione di tipo meccanico. L’ampliamento del volume della macchina operatrice e del numero dei suoi strumenti che operano contemporaneamente, richiede una macchina motrice più massiccia, e questa richiede a sua volta, per vincere la propria resistenza, una forza motrice più potente di quella umana, astraendo dal fatto che l’uomo è un imperfettissimo strumento di produzione di moto uniforme e continuo. Presupponendo che l’uomo agisca ormai soltanto come semplice forza motrice, e che quindi al posto del suo strumento sia subentrata una macchina utensile, ci sono forze naturali che lo possono sostituire anche come forza motrice. Di tutte le grandi forze motrici tramandate dal periodo della manifattura la peggiore era quella del cavallo, in parte perché il cavallo ha la testa, a modo suo, in parte perché è caro e può essere usato nelle fabbriche solo in misura limitata. Tuttavia il cavallo è stato spesso usato durante l’infanzia della grande industria, come ci attesta già, oltre le lamentele degli agronomi di quell’epoca, l’uso tramandato fino a noi di esprimere la forza meccanica in « cavalli ». Il vento era troppo incostante e incontrollabile; inoltre l’applicazione della forza idraulica predominava già durante il periodo della manifattura in Inghilterra, paese di nascita della grande industria. La trasformazione del macchinismo industriale dalle macchine utensili ai moderni robot, ha comportato un mutamento nell'organizzazione del lavoro dalle prime forme rudimentali di divisione del lavoro alla catena di montaggio, dalla catena di montaggio alle “isole” , dal fordismo al toyotismo al post-fordismo, che hanno visto, da un lato un aumento della produttività del lavoro; dall'altro lato, ha visto aumentare lo sfruttamento cui sono sottoposti i lavoratori, ovvero, ha visto inasprirsi il processo di estrazione del plusvalore relativo. [F. Pollock Automazione, Einaudi. H. Braverman lavoro e capitale monopolistico, Einaudi, A. Negri Il lavoro nel Novecento, Mondadori] In questo quadro si colloca il fordismo il quale, per Gramsci, come l'americanismo risultavano dalla necessità di giungere all'organizzazione di un'economia programmata. Il fordismo, a sua volta non avrebbe mai potuto affermarsi senza l'opera di Frederik Taylor. Fu infatti Taylor a razionalizzare il processo di estrazione del plusvalore attraverso l'introduzione di un genere di organizzazione del lavoro basata su una rigida fissazione dei tempi e dei metodi effettuata con precisione cronometrica. [B. Coirat La fabbrica e il cronometro, Feltrinelli]. Sezione. Taylor. These new duties are grouped under four heads, scrisse Taylor. First. They develop a science for each element of a man’s work, which replaces the old rule-of” thumb method.Second. They scientifically select and then train, teach, and develop the workman, whereas in the past he chose his own work and trained himself as best he could.Third. They heartily cooperate with the men so as to insure all of the work being done in accordance with the principles of the science which has been developed. Fourth. There is an almost equal division of the work and the responsibility between the management and the workmen. The management take over all work for which they are better fitted than the workmen, while in the past almost all of the work and the greater part of the responsibility were thrown upon the men. It is this combination of the initiative of the workmen, coupled with the new types of work done by the management, that makes scientific management so much more efficient than the old plan. Three of these elements exist in many cases, under the management of “initiative and incentive,” in a small and rudimentary way, but they are, under this management, of minor importance, whereas under scientific management they form the very essence of the whole system. The fourth of these elements, “an almost equal division of the responsibility between the management and the workmen,” requires further explanation. The philosophy of the management of “initiative and incentive” makes it necessary for each workman to bear almost the entire responsibility for the general plan as well as for each detail of his work, and in many cases for his implements as well. In addition to this he must do all of the actual physical labor. The development of a science, on the other hand, involves the establishment of many rules, laws, and formulae which replace the judgment of the individual workman and which can be effectively used only after having been systematically recorded, indexed, etc. The practical use of scientific data also calls for a room in which to keep the books, records, and a desk for the planner to work at. Thus all of the planning which under the old system was done by the workman, as a result of his personal experience, must of necessity under the new system be done by the management in accordance with the laws of the science; because even if the workman was well suited to the development and use of scientific data, it would be physically impossible for him to work at his machine and at a desk at the same time. It is also clear that in most cases one type of man is needed to plan ahead and an entirely different type to execute the work. The man in the planning room, whose specialty under scientific management is planning ahead, invariably finds that the work can be done better and more economically by a subdivision of the labor; each act of each mechanic, for example, should be preceded by various preparatory acts done by other men. And all of this involves, as we have said, “an almost equal division of the responsibility and the work between the management and the workman.” To summarize: Under the management of “initiative and incentive” practically the whole problem is “up to the workman,” while under scientific management fully one-half of the problem is “up to the management.” Perhaps the most prominent single element in modern scientific management is the task idea. The work of every workman is fully planned out by the management at least one day in advance, and each man receives in most cases complete written instructions, describing in detail the task which he is to accomplish, as well as the means to be used in doing the work. And the work planned in advance in this way constitutes a task which is to be solved, as explained above, not by the workman alone, but in almost all cases by the joint effort of the workman and the management. This task specifies not only what is to be done but how it is to be done and the exact time allowed for doing it. And whenever the workman succeeds in doing his task right, and within the time limit specified, he receives an addition of from 30 per cent. to 100 per cent. to his ordinary wages. These tasks are carefully planned, so that both good and careful work are called for in their performance, but it should be distinctly understood that in no case is the workman called upon to work at a pace which would be injurious to his health. The task is always so regulated that the man who is well suited to his job will thrive while working at this rate during a long term of years and grow happier and more prosperous, instead of being overworked. Scientific management consists very largely in preparing for and carrying out these tasks. The writer is fully aware that to perhaps most of the readers of this paper the four elements which differentiate the new management from the old will at first appear to be merely high-sounding phrases; and he would again repeat that he has no idea of convincing the reader of their value merely through announcing their existence. His hope of carrying conviction rests upon demonstrating the tremendous force and effect of these four elements through a series of practical illustrations. It will be shown, first, that they can be applied absolutely to all classes of work, from the most elementary to the most intricate; and second, that when they are applied, the results must of necessity be overwhelmingly greater than those which it is possible to attain under the management of initiative and incentive. The first illustration is that of handling pig iron, and this work is chosen because it is typical of perhaps the crudest and most elementary form of labor which is performed by man. This work is done by men with no other implements than their hands. The pig-iron handler stoops down, picks up a pig weighing about 92 pounds, walks for a few feet or yards and then drops it on to the ground or upon a pile. This work is so crude and elementary in its nature that the writer firmly believes that it would be possible to train an intelligent-gorilla so as to become a more efficient pig-iron handler than any man can be. Yet it will be shown that the science of handling pig iron is so great and amounts to so much that it is impossible for the man who is best suited to this type of work to understand the principles of this science, or even to work in accordance with these principles without the aid of a man better educated than he is. And the further illustrations to be given will make it clear that in almost all of the mechanic arts the science which underlies each workman’s act is so great and amounts to so much that the workman who is best suited actually to do the work is incapable (either through lack of education or through insufficient mental capacity) of understanding this science. This is announced as a general principle, the truth of which will become apparent as one illustration after another is given. After showing these four elements in the handling of pig iron, several illustrations will be given of their application to different kinds of work in the field of the mechanic arts, at intervals in a rising scale, beginning with the simplest and ending with the more intricate forms of labor. One of the first pieces of work undertaken by us, when the writer started to introduce scientific management into the Bethlehem Steel Company, was to handle pig iron on task work. The opening of the Spanish War found some 80,000 tons of pig iron placed in small piles in an open field adjoining the works. Prices for pig iron had been so low that it could not be sold at a profit, and it therefore had been stored. With the opening of the Spanish War the price of pig iron rose, and this large accumulation of iron was sold. This gave us a good opportunity to show the workmen, as well as the owners and managers of the works, on a fairly large scale the advantages of task work over the oldfashioned day work and piece work, in doing a very elementary class of work. L'ottimo paretiano. Vilfredo Pareto introdusse, come abbiamo visto, il concetto di ofelimità, l'uso delle curve di indifferenza, il concetto di ottimo che porta ancora il suo nome; cosicché, a ragion veduta si può parlare di sistema walrasianoparetiano. Secondo Pareto esisteva un unico punto di ottimo definito come quel punto allontanandosi dal quale non può migliorare la posizione di uno senza peggiorare di posizione di altri. [V. Pareto Manuale di economia, Studio Tesi] Ora, è da ricordare che, anche accettando l'affermazione paretiana sull'unicità del punto di ottimo – definito come quel punto dal quale non ci si può allontanare senza favorire alcuni e sfavorire altri - rimane il fatto che esisterebbe pur sempre la possibilità della creazione d'una divergenza fra efficienza economica privata ed efficienza economica sociale; tra benessere economico e benessere complessivo [C. Pigou Economia del benessere, Utet] Ovvero, come scrisse Tjalling Koopmans [T. Koopmansn Tre saggi sullo stato della scienza economica, Liguori], Un equilibrio concorrenziale, anche se costituisce un ottimo paretiano, può comportare una distribuzione del reddito più diseguale di quanto è ritenuto desiderabile socialmente. Il concetto di ottimo paretiano è insensibile a questa considerazione ed a questo proposito il termine ottimo è infelice. Sulla medesima falsariga, si muoveva l'obiezione di Samuelson il quale notava che [P. Samuelson Fondamenti di analisi economica, Il saggiatore]: La più importante critica all'esposizione di Pareto consiste nel fatto che un punto di ottimo non è un punto unico L'economia del benessere, nata per ovviare questo problema, non ebbe fortuna. [F. Caffè Saggi sulla moderna economia del benessere, Boringhieri]. Il motivo è che alla radice del problema della distribuzione ci sono i rapporti capitalistici di produzione di cui le leggi della distribuzione sono l'altra faccia. Ciò rende impossibile la definizione d'una funzione del benessere collettivo che soddisfi le legittime aspettative di tutti i soggetti sociali. [I. Little Una critica dell'economia del benessere, Isedi] Sezione. Economia del benessere. Welfare Economics and Public Choice, Timothy Besley London School of Economics and Political Science April 2002 Welfare economics provides the basis for judging the achievements of markets and policy makers in allocating resources. Its most powerful conceptual tool is the utility possibility frontier. This defines the set of utility allocations that can be achieved in a society subject to the constraints of tastes and technologies. Any allocation on the frontier cannot be Pareto dominated and hence would satisfy a rather minimal condition for it to be socially desirable. Distributional judgements about points on the Pareto frontier are typically embodied in a social welfare function. The social choice literature, beginning with Arrow (1951), has demonstrated the difficulties of deriving such a function from citizens' underlying preferences over social alternatives without making interpersonal comparisons of utility. By postulating a social welfare function for pedagogical purposes, the analyst is implicitly assuming that interpersonal comparisons of utility can be made and has adopted a position on how society should weigh such comparisons (Sen (1977)). The analysis of competitive markets culminated in the fundamental theorems of welfare economics which elucidated the (restrictive) conditions under which resource allocation by markets would achieve Pareto efficiency. The first fundamental theorem says that all perfectly competitive equilibria with complete markets (to deal with externalities and uncertainty) are Pareto efficient. The second fundamental theorem says that any Pareto efficient allocation might be decentralized by suitable choice of lump-sum transfers. Modern welfare economics builds on this by putting incentive constraints at centre stage. Among the seminal contributions are Mirrlees (1971) and Hammond (1979). This analysis dispenses with the assumption that lump-sum transfers are feasible because of the incentive problems that they create. The appropriate benchmark for government is second best Pareto efficiency, taking into account appropriate restrictions on policy instruments. A whole tradition of policy analysis in this vein has been developed (see, for example, Atkinson and Stiglitz (1980)). 1 Welfare economic approaches to the policy process have been criticized by those operating in the public choice tradition, for failing to consider how actual policy choices are made. Thus, even if we were able to understand what optimal policies are, there is no guarantee that the kinds of decision making institutions that we observe in reality will bring them about. The public choice critique of welfare economics says that, by failing to model government, it provides a misleading view of the appropriate role for government. (See Buchanan (1970) for a forceful plea for a level playing field.) To see the logic of the critique, consider the argument that the government should intervene to fix a market failure, say by introducing a Pigouvian tax. Then, the welfare economist will select the tax, and other policy instruments, to maximize some social welfare objective. There is no reason at all to expect the political process to yield this outcome. Even if the tax is chosen to be second best Pareto efficient, the distributional outcome selected by the political process need not match that of the “social planner”. While this may suggest that a public choice approach has to be more conservative, this is only true when equilibrium effects on other policy instruments are ignored. As argued in Besley and Coate (2002), it is possible for these other policy instruments to be changed in a welfare improving direction. Many models in the public choice literature lead to efficient policies which fail to maximize social welfare. A good example is the Leviathan approach of Brennan and Buchanan (1980). In this case politicians extract resources for themselves at the expense of voters. Proponents of probabilistic voting models have sometimes suggested that particular social welfare functions are maximized in political equilibrium. (See Coughlin (1992) for a discussion.) However, they rest on strong assumptions and it appears unlikely that technological assumptions are at the heart of the distributional conflict implicit in political competition. Some economists use the benchmark of social surplus to judge political outcomes. However, this is conceptually problematic and is even (misleadingly) labeled as an efficiency criterion. The notion of surplus is only defined under restrictive assumptions about preferences. Moreover, the criterion really only makes if (i) there are lump-sum transfers and (ii) social preferences weight a dollar in every citizen's hands equally. This would be fine if both the political process and the planner were able to use lump-sum transfers. However, even then, the exact allocation of transfers would enter the calculus of whether the intervention is 2 justified unless (ii) also holds. But the latter is only one particular distributional preference and not an efficiency criterion. Policies chosen by the political process may fail to be efficient using second-best efficiency as a benchmark. Besley and Coate (1998) define a welfare economic definition of political failure in this way. To motivate this, consider the textbook analysis of market efficiency. First, the set of efficient allocations is characterized (graphically, the utility possibility frontier). This is a purely technological notion of efficiency, since the frontier depends only on the tastes and technologies of the economy. The second step requires a model, such as that developed by Arrow-Debreu, to specify how markets allocate resources. The idea of market failure, then comes from observing that, under certain conditions, markets do not result in allocations that are on the frontier. The term “failure” is justified by the observation that, in principle, all citizens could be made better off. A parallel notion of political failure arises when resources used to determine policy fail to produce a selection from the second-best Pareto frontier so that, in principle, all citizens can be made better off. This welfare economic notion of political failure should be contrasted with the standard approach to political failure rooted in the work of Wicksell. He argued that government intervention is legitimate only if government dominates a status quo point where government is absent. Then a political failure is defined when government fails to select a Pareto dominant point. The welfare economic approach and Wicksellian approach are distinct. To see this, consider the comparison between the outcome attained from a political process to a policy vector x0 which is the outcome that would prevail with no government intervention. A Wicksellian political failure is now defined as a situation in which the political process selects a policy outcome which does not Pareto dominate x0. Let A denote the utility allocation associated with x0. By fixing market failures, we suppose that (in-line with the welfare economic approach) the government can, in principle, shift out the Pareto frontier. Let x0 be the new policy vector and consider possible utility outcomes associated with it. Point B which is on a higher Pareto frontier and hence is (second best) efficient. However, this point is not a Pareto improvement over point A. Hence, if chosen by government, it would constitute a Wicksellian political failure. However, it would not be a political failure according to the definition above as it is on the Pareto frontier and there is no scope for improving government 3 efficiency. Now consider point C. According to the Wicksellian definition, it is not a political failure as it a Pareto improvement relative to A. However, the definition based on second-best Pareto efficiency would regard it as a political failure. It is possible to make all citizens better off beginning from this point. (Figure 1 about here) Wicksell's definition of political failure embodies an important distributional judgement which outlaws any pure redistribution of resources around point A except in so far as this is justified on citizens' underlying preferences for redistribution. A government can intervene efficiently in the welfare economic sense and yet still create a political failure. Moreover, the scope for political failure on this definition is vast, depending on the status quo point x0 being posited. Are there good reasons to believe that governments chose inefficient policies using second best Pareto efficiency as the criterion? In answering this, it is essential that the same set of instruments that a welfare economist would allow the government to use should be available in the political process. Claims about the inefficiency of outcomes associated with the median voter often miss this point. Consider the claim that the median voter fails to provide public goods efficiently. While it is true that, in general, the Lindahl-Samuelson rule does not yield the same outcome as the median voter rule, this has nothing to do with political inefficiency. The Lindahl-Samuelson rule requires that lump-sum transfer are feasible while the median voter model usually works with a more restrictive tax system. The former achieves first best efficiency while the latter a very constrained form of second best efficiency. Why then does this kind of claim persist? The difficulty lies in the need to make sufficient restrictions on the model of political resource allocation to get an equilibrium to exist. These often exclude the rich policy space studied in welfare economics. However, the failing is on the side of economists not governments -- the latter struggling with a satisfactory theory of public choice. If the theory of market failure had proceeded in this way, it would have lead to many strange conclusions. Suppose that economists were limited in their ability to study multi-product pricing by firms. Then, we would conclude that there is always a market 4 failure when the government can make these choices instead! This critique of the literature was raised in an important article by Wittman (1989). In a static model of policy choice where rulers choose policy in their own interests (no matter how narrow), there is a presumption of second-best efficiency (Besley and Coate (1997)). A good example of this is the Leviathan model. There is no reason for Leviathan to extract resources from citizens in an inefficient way. However, there are potential sources of second-best Pareto inefficiency: the use of influence activities, legislative inefficiencies, coordination problems and strategic use of policies in a dynamic setting. We now discuss each of these briefly in turn. There is a vast literature on why the policy process may be subject to influence activities -- rent-seeking or lobbying. The literature on rent-seeking originating with Tullock (1967) and Krueger (1974) studied how private actions influence policy. Following Tullock (1980), formal analysis has focused mostly on modelling competition among individuals or groups to obtain an indivisible policy favor, the aim being to characterize the aggregate expenditure on rent-seeking activities (see, for example, Baye, Kovenock and de Vries (1994) and the references therein). Whether this activity is inefficient depends critically on the form that it takes. Cash transfers, as modeled by Grossman and Helpman (1994) yield movements around the Pareto frontier. However, examples such as campaign finance as modeled in Grossman and Helpman (1986) yield real resource misallocation. For this to be second-best inefficient (i.e. a political failure), there must exist is a way of re-organizing the influence game so that all players (including those involved in the influence process) can be better off. An example along these lines is studied in Besley and Coate (2001). But why might political favors not be granted in the most efficient way? An intriguing answer is given in Coate and Morris (1995). If voters fail to re-elect politicians who engage in such behavior that disguised forms of transfer may be preferred to keep voters in the dark. Political failure may also occur because of coordination difficulties among voters. Consider a world where there are both competent and incompetent candidates -- the latter defined as candidates who (for fixed ideological preferences) can generate a potential Pareto improvement. Then, it is possible to construct a political equilibrium between two 5 incompetent and one competent candidate of different ideologies where voters fail to coordinate on the competent candidate who therefore loses (Besley and Coate (1997)). Legislative policy making is also a potential source of political failure -- with important insights going back to the seminal work by Buchanan and Tullock (1957). However, for a legislature to pick a Pareto dominated point, it must be that there is some failure in the bargaining procedure used to make decisions -- either limits on transfers or the credibility of promises. The famed example of Shepsle, Weingast and Johnsen (1981) rests on limits of transfers between the legislators operating the norm of universalism. In dynamic models, examples of political failure are created principally by the strategic use of policy. One of the earliest examples to illustrate this is the work of Persson and Svensson (1989) and Tabellini and Alesina (1990). They show that governments will have an incentive to run deficits to reduce the policy flexibility of future incumbents. Aghion and Bolton (1980) and Milesi-Ferretti and Spaolore (1994)) show that strategic policy choice can also lead to changes in who is elected. This too may lead to policies being selected that are inefficient. Privatization decisions may be a key practical instance of this (Biais and Perrotti (2002)). Many governments underpriced privatizations to create a class of stakeholders committed to voting in favor of particular kinds of governments. This could explain privatization even without appealing to economic gains. Besley and Coate (1998) pulls this ideas together to give a unified definition of political failure in dynamic models where the criterion is second best Pareto efficiency. So what do we learn from this pathology? In cases of true political failure, there should be unanimous consent that something should be done (provided that the failure results in a truly Pareto dominant outcome). In all the above cases, there are important and interesting questions about institutions can be redesigned to mitigate the political failure. This is similar in spirit to the notion, in traditional public choice writings, that there should be a focus on designing a fiscal and procedural constitution (Brennan and Buchanan (1985)). In practice, it is likely that progress will come from piece-meal analysis of specific institutional variations. The juxtaposition of welfare economic and public choice approaches to the role of government is frequently overstated. There are as strong reasons for public choice economists to study welfare economics and optimal policy. Similarly, welfare economists 6 need to understand public choice. Societies frequently have make choices about how to govern their affairs which have both efficiency and distributional implications. The role of welfare economics in a world of public choice is to provide an analysis of this. 7 Aghion, P. and P. Bolton (1990). Government Debt and the Risk of Default: A Politico-Economic Model of the Strategic Role of Debt. In R. Dornbusch and M. Draghi (Eds), Public Debt Management: Theory and History, Cambridge: Cambridge University Press, England. Arrow, K. (1951). Social Choice and Individual Values, New York: John Wiley (2nd Edition, 1963). Atkinson, A. B. and J. E. Stiglitz (1980). Lectures on Public Economics, New York: McGraw Hill. Baye, M., D. Kovenock and C. De Vries (1994). The Solution to the Tullock Rent Seeking Game when R >2: Mixed-strategy Equilibria and Mean Dissipation Rates. Public Choice 81, 363-380. Besley, T. and S. Coate (1997). An Economic Model of Representative Democracy. Quarterly Journal of Economics 112(1), 85-114. Besley, T. and S. Coate (1998). Sources of Inefficiency in a Representative Democracy: A Dynamic Analysis. American Economic Review 88(1), 139-156. Besley, T. and S. Coate (2001). Lobbying and Welfare in a Representative Democracy. Review of Economic Studies 68 (1), 67-82. Besley, T. and S. Coate, (2002). On the Public Choice Critique of Welfare Economics. Forthcoming in Public Choice. Biais, B. and E. Perotti (2002). Machiavellian Underpricing. Forthcoming in the American Economic Review. Brennan, G. and J. M. Buchanan (1980). The Power to Tax: Analytical Foundations of a Fiscal Constitution. Cambridge: Cambridge University Press. Brennan, G. and J. M. Buchanan (1985). The Reason of Rules : Constitutional Political Economy, Cambridge: Cambridge University Press. Buchanan, J. M. (1972). Toward an Analysis of Closed Behavioral Systems. Chapter 2 in J. Buchanan and R. Tollison (Eds), Theory of Public Choice, Ann Arbor: University of Michigan Press. Buchanan, J. M. and G. Tullock (1962). The Calculus of Consent: Logical Foundations of Constitutional Democracy, Ann Arbor: University of Michigan Press. Coate, S. and S. Morris (1995). On the Form of Transfers to Special Interests. Journal of Political Economy 103, 1210-35. 8 Coughlin, P. (1992). Probabilistic Voting Theory, New York: Cambridge University Press. Grossman, G. and E. Helpman (1994). Protection for Sale. American Economic Review 84, 833-850. Grossman, G. and E. Helpman (1996). Electoral Competition and Special Interest Politics. Review of Economic Studies 63(2), 265-286. Hammond, P. (1979). Straightforward Incentive Compatibility in Large Economies. Review of Economic Studies 46, 263-282. Krueger, A. (1974). The Political Economy of the Rent-Seeking Society. American Economic Review 64, 291-303. Milesi-Ferretti, G.-M. and E. Spolaore (1994). How Cynical Can an Incumbent Be? Strategic Policy in a Model of Government Spending. Journal of Public Economics 55, 121-40. Mirrlees, J.A. (1971). An Exploration in the Theory of Optimum Income Taxation. Review of Economic Studies 38, 175-208. Persson, T. and L. Svensson (1989). Why a Stubborn Conservative Would Run a Deficit: Policy with Time-Inconsistent Preferences. Quarterly Journal of Economics 104, 325-346. Samuelson, P. (1954). The Pure Theory of Public Expenditure. Review of Economics and Statistics 36, 387-389. Sen, A. (1977). On Weights and Measures: Informational Constraints in Social Welfare Analysis. Econometrica 45, 1539-1572. Tabellini, G. and A. Alesina (1990). Voting on the Budget Deficit. American Economic Review 80, 3749. Tullock, G. (1967). The Welfare Costs of Tariffs, Monopolies and Theft. Western Economic Journal 5, 224-32. Weingast, B., K. Shepsle, and C. Johnsen (1981). The Political Economy of Benefits and Costs: A Neoclassical Approach to Distributive Politics. Journal of Political Economy 89, 642-64. Wittman, D. (1989). Why Democracies Produce Efficient Results. Journal of Political Economy 97, 1395-426. Il marginalismo sovietico. In tempi recenti sulla scorta della crisi della pianificazione sovietica, si formò in Urss una scuola che ispirò la propria ricerca ai principi della scuola di Losanna. Il capo riconosciuto di questa scuola fu Kantorovic, il quale, fin dagli anni 1930, sviluppò a Leningrado una nuova teoria matematica che rielaborava i concetti cardine della scuola di Losanna, a dire, del modello walrasianoparetiano. Il più famoso dei suoi allievi fu Valentin Novozilov [C. Boffito Efficienza economica e rapporti sociali di produzione, Einaudi]. L'applicazione al socialismo del modello walrasiano-paretiano non funzionò. Come scrisse infatti Little in Una critica della economia del benessere, Il modello socialista dei marginalisti costituisce un sistema formale di deduzioni la cui applicabilità è altamente dubbia anche in uno stato assolutista Per il resto vale quello che è stato scritto da Michael Ellman, e cioè che l'adesione degli economisti sovietici ai principi della scuola di Losanna, era più una sconfitta delle speranze di rinnovamento del sistema sovietico che il tentativo d'un suo ammodernamento [M. Ellman Soviet Planning Today, Cambridge University Press] La critica di Schumpeter. Malgrado l'atteggiamento critico nei confronti di Marx, Schumpeter è molto più marxista di quello che egli pensasse. Schumpeter non accetta, infattti, la rappresentazione dell'economia reale che offerta dall'economia ortodossa, l'economia, come egli la chiamò, del flusso circolare. Tale economia non spiega infatti il fenomeno dello sviluppo. Per Schumpeter occorreva abbandonare il modello del flusso circolare e occorreva focalizzare invece l'attenzione sul fenomeno dello sviluppo economico. Tale fenomeno era da considerarsi come un processso che aveva come elemento fondamentale l'innovazione, introdotta dall'imprenditore innovatore. L'innovazione poteva essere di di prodotto, di processo e con il suo ciclo determinava il ciclo economico. [J. Schumpeter La teoria dello sviluppo economico, Sansoni] Altro elemento fondamentale della teoria di Schumpeter è il credito creato dalle banche, senza le quali il processo di sviluppo si bloccherebbe. Infine, va sottolineato che l'innovazione comporta l'introduzione di una nuova curva di produzione; non di un movimento lungo la curva, perciò si tratta. Schumpeter sviluppò questa teoria in Cicli economici, un'opera monumentale pubblicata nel 1939; in essa, Schumpeter notava che Il nostro sistema economico non è un sistema puro ma in piena trasformazione verso qualcos'altro, cosicché non è sempre possibile descriverlo con un modello analitico coerente sotto il punto di vista logico. Come Schumpeter scrisse nel 1935 su The Review of Economic Studies in un artcolo intitolato L'analisi del mutamento economico, Con il termine sviluppo indichiamo i cambiamenti nei dati economici che avvengono continuamente nel senso di un aumento o di una diminuzione per unità di tempo. Questi cambiamenti sono irreversibili e sono il prodotto delle innovazioni, le quai sono cambiamenti della funzione di produzione di produzione che non possono essere scomposti in cambiamenti infinitesimi lungo la curva che rappresenta la funzione di produzione. Tale concetto venne sviluppato da Schumpeter in Cicli economici del 1939. Nel libro, Schumpeter notava che il progresso tecnico è l'essenza dell'impresa capitalistica e non può essere separato da essa. Esso può essere rallentato dalla monopolizzazione dell'economia e dalla sua conseguente burocratizzazione che svigorisce l'impulso ad innovare tipico dell'imprenditore individuale. [J. Schumpeter Capitalismo, socialismo, democrazia, Etas Kompas] Tale figura, che fu al centro del pensiero di Schumpeter, entrò in scena con Richard Cantillon il quale nel suo Saggio sulla natura del commercio in generale del 1754 dedicò alla figura dell'imprenditore alcune famose pagine. La critica marxiana dell'economia politica . A un primo sguardo la ricchezza borghese appare come una enorme raccolta di merci e la singola merce come sua esistenza elementare. Ma ogni merce si presenta sotto il duplice punto di vista di valore d'uso e di valore di scambio, scrisse Marx in Per la critica. La merce è in primo luogo, nel linguaggio degli economisti inglesi, "qualsiasi cosa necessaria, utile o gradevole alla vita", oggetto di bisogni umani, mezzo di sussistenza nel senso più ampio della parola. Questo esistere della merce come valore d'uso e la sua esistenza naturale tangibile coincidono. Il grano ad esempio è un valore d'uso particolare, differente dai valori d'uso cotone, vetro, carta, ecc. Il valore d'uso ha valore solo per l'uso e si attua soltanto nel processo del consumo. Un medesimo valore d'uso può essere sfruttato in modo diverso. La somma delle sue possibili utilizzazioni si trova però racchiusa nel suo esistere quale oggetto dotato di determinate qualità. Questo valore d'uso, inoltre, è determinato non solo qualitativamente, bensì anche quantitativamente. Valori d'uso differenti hanno misure differenti secondo le loro naturali peculiarità, ad esempio un moggio di grano, una libbra di carta, un braccio di tela, ecc. Qualunque sia la forma della ricchezza, i valori d'uso costituiscono sempre il suo contenuto, che in un primo tempo è indifferente nei confronti di questa forma. Gustando del grano, non si sente chi l'ha coltivato, se un servo della gleba russo, un contadino particellare francese o un capitalista inglese. Sebbene sia oggetto di bisogni sociali e quindi si trovi in un nesso sociale, il valore d'uso non esprime tuttavia un rapporto di produzione sociale. Questa merce come valore d'uso sia ad esempio un diamante. Guardando il diamante, non si avverte che è merce. Là dove serve come valore d'uso, esteticamente o meccanicamente, al seno di una ragazza allegra o in mano a chi mola i vetri, è diamante e non merce. L'essere valore d'uso sembra presupposto necessario per la merce, ma l'essere merce sembra pel valore d'uso una definizione indifferente. Il valore d'uso in questa sua indifferenza verso la definizione della forma economica, ossia il valore d'uso quale valore d'uso, esula dal campo d'osservazione dell'economia politica. Vi rientra solo là dove è esso medesimo definizione formale. In modo immediato, il valore d'uso è la base materiale in cui si presenta un determinato rapporto economico, il valore di scambio. Il valore di scambio appare in primo luogo come un rapporto quantitativo, entro il quale valori d'uso sono intercambiabili. Entro questo rapporto essi costituiscono la medesima grandezza di scambio. Così, un volume di Properzio e 8 once di tabacco da fiuto possono essere un medesimo valore di scambio, nonostante la disparità dei valori d'uso tabacco ed elegia. Come valore di scambio, un valore d'uso vale esattamente quanto l'altro, purchè sia presente nella dovuta proporzione. Il valore di scambio di un palazzo può essere espresso in un determinato numero di scatole di lucido da scarpe. Viceversa, i fabbricanti di lucido londinesi hanno espresso in palazzi il valore di scambio delle scatole sempre più numerose del loro prodotto. Astraendo quindi del tutto dal loro modo d'esistenza naturale e senza tener conto della natura specifica del bisogno per il quale sono valori d'uso, le merci si equivalgono in determinate quantità, si sostituiscono le une alle altre nello scambio, sono considerate equivalenti e in tal modo rappresentano la medesima unità malgrado la loro variopinta apparenza. I valori d'uso sono direttamente mezzi di sussistenza. Ma viceversa questi mezzi di sussistenza sono essi stessi prodotti della vita sociale, sono risultato di forza umana spesa, sono lavoro oggettivato. In quanto materializzazione del lavoro sociale, tutte le merci sono cristallizzazioni di una medesima unità. Quello che ora dobbiamo considerare è il carattere determinato di questa unità, ossia del lavoro che si esprime nel valore di scambio. Un'oncia d'oro, una tonnellata di ferro, un quarter di grano e venti braccia di seta siano, poniamo, valori di scambio uguali. In quanto sono tali equivalenti, in cui è cancellata la differenza qualitativa dei loro valori d'uso, essi rappresentano un volume uguale di uno stesso lavoro. Il lavoro che in essi uniformemente si oggettiva dev'essere esso stesso lavoro semplice, uniforme, indifferenziato, per il quale sia indifferente apparire nell'oro, nel ferro, nel grano, nella seta, allo stesso modo che è indifferente per l'ossigeno trovarsi nella ruggine del ferro, nell'atmosfera, nel succo dell'uva o nel sangue dell'uomo. Ma scavare oro, portar alla luce ferro, coltivare grano e tessere seta, sono tipi di lavoro che differiscono qualitativamente l'uno dall'altro. Infatti, ciò che oggettivamente appare come diversità dei valori d'uso, appare nel corso del processo come diversità dell'attività che produce i valori d'uso. Perciò, il lavoro che crea valore di scambio, in quanto è indifferente nei riguardi della particolare materia dei valori d'uso, lo è anche nei confronti della forma particolare del lavoro stesso. I differenti valori d'uso sono inoltre prodotti dell'attività di individui differenti, sono dunque il risultato di lavori individualmente differenti. Ma come valori di scambio rappresentano un lavoro uguale, indifferenziato, ossia lavoro in cui è cancellata l'individualità di chi lavora. Il lavoro che crea valore di scambio è quindi lavoro astrattamente generale. Se un'oncia d'oro, una tonnellata di ferro, un quarter di grano e venti braccia di seta sono valori di scambio di uguale grandezza, ossia equivalenti, un'oncia d'oro, mezza tonnellata di ferro, tre bushel di grano e cinque braccia di seta saranno valori di scambio di grandezza del tutto differente, e questa differenza quantitativa è l'unica differenza di cui siano in genere suscettibili in quanto valori di scambio. Come valori di scambio di grandezza differente rappresentano un più o un meno, un quantitativo maggiore o minore di quel lavoro semplice, uniforme, astrattamente generale, il quale costituisce la sostanza del valore di scambio. Si tratta di vedere come misurare questi quantitativi. O piuttosto si tratta di vedere quale sia la esistenza quantitativa di quel lavoro stesso, poichè le differenze di grandezza delle merci come valori di scambio non sono che differenze di grandezza del lavoro in esse oggettivato. Allo stesso modo che il tempo è l'esistenza quantitativa del movimento, iltempo di lavoro è l'esistenza quantitativa del lavoro. La diversità della propria durata è l'unica differenza di cui sia suscettibile il lavoro, presupposta come data la sua qualità. Come tempo di lavoro esso ottiene la propria scala di misura nelle naturali misure del tempo, ora, giornata, settimana, ecc. Il tempo di lavoro è l'esistenza vivente del lavoro, indipendentemente dalla sua forma, dal suo contenuto, dalla sua individualità; ne è l'esistenza vivente come esistenza quantitativa, e insieme è la misura immanente di questa esistenza. Il tempo di lavoro oggettivato nei valori d'uso delle merci è la sostanza che fa dei valori d'uso valori di scambio e quindi merci, allo stesso modo che ne misura la determinata grandezza di valore. I quantitativi correlativi di valori d'uso differenti nei quali si oggettiva un medesimo tempo di lavoro, sono degli equivalenti, ossia tutti i valori d'uso sono degli equivalenti nelle proporzioni in cui contengono il medesimo tempo di lavoro consumato oggettivato. Come valori di scambio tutte le merci non sono che misure di tempo di lavoro coagulato. Per comprendere la determinazione del valore di scambio in base al tempo di lavoro occorrerà tener fermi i seguenti punti di partenza principali: la riduzione del lavoro a lavoro semplice, per così dire privo di qualità; il modo specifico in cui il lavoro, che crea valore di scambio e quindi produce merci, è lavoro sociale; infine, la differenza che si ha fra il lavoro che ha per risultato valori d'uso e il lavoro che ha per risultato valori di scambio. Per misurare i valori di scambio delle merci in base al tempo di lavoro in esse contenuto, i differenti lavori dovranno essi stessi essere ridotti a lavoro semplice, indifferenziato e uniforme, in breve al lavoro che qualitativamente è sempre uguale e si differenzia solo quantitativamente. Questa riduzione sembra un'astrazione, ma è un'astrazione che nel processo sociale della produzione si compie ogni giorno. La riduzione di tutte le merci a tempo di lavoro è un'astrazione non maggiore, ma allo stesso tempo non meno reale, della riduzione di tutti i corpi organici in aria. Il lavoro, così misurato mediante il tempo, non appare infatti come lavoro di soggetti differenti, bensì i differenti individui che lavorano appaiono invece come semplici organi del lavoro. Ossia il lavoro, come si rappresenta in valori di scambio, potrebbe essere espresso come lavoro generalmente umano. Questa astrazione del lavoro generalmente umano esiste nel lavoro medio che ogni individuo medio può compiere in una data società, è un determinato dispendio produttivo di muscoli, nervi, cervello, ecc. umani. E' lavoro semplice al quale ogni individuo medio può essere addestrato e che esso deve compiere in una forma o nell'altra. Il carattere di questo lavoro medio varia esso stesso in paesi differenti e in epoche di civiltà differenti, ma si presenta come dato in una società esistente. Il lavoro semplice costituisce la massa di gran lunga maggiore di tutto il lavoro delle società borghesi, come ci si potrà convincere da tutte le statistiche. Che A durante 6 ore produca ferro e durante 6 ore tela, e che B allo stesso modo produca durante 6 ore ferro e durante 6 ore tela, o che A produca durante 12 ore ferro e B durante 12 ore tela, è evidente che si tratta semplicemente di un uso differente di un medesimo tempo di lavoro. Ma come si fa per il lavoro complesso che si eleva al di sopra del livello medio in quanto lavoro di più alta intensità, di maggiore peso specifico? Questo tipo di lavoro si riduce a lavoro semplice messo insieme, a lavoro semplice a potenza più elevata, cosicchè ad esempio una giornata di lavoro complesso sarà uguale a tre giornate di lavoro semplice. Non è questo ancora il luogo di trattare delle leggi che regolano questa riduzione. Ma è chiaro che questa riduzione ha luogo: infatti, come valore di scambio, il prodotto del lavoro più complesso è in una determinata proporzione equivalente del prodotto del lavoro medio semplice, e quindi pari a un determinato quantitativo di questo lavoro semplice. La determinazione del valore di scambio mediante il tempo di lavoro presuppone inoltre che in una determinata merce, ad esempio in una tonnellata di ferro, sia oggettivato lo stesso quantitativo di lavoro, non importa che sia il lavoro di A o di B o che individui differenti impieghino, per la produzione di uno stesso valore d'uso determinato qualitativamente e quantitativamente, un tempo di lavoro di uguale durata. In altre parole, si presuppone che il tempo di lavoro contenuto in una merce sia il tempo di lavoro necessario per la sua produzione, vale a dire il tempo di lavoro richiesto per produrre in date condizioni generali di produzione un nuovo esemplare di quella stessa merce. Le condizioni del lavoro che crea valore di scambio, come risultano dall'analisi del valore di scambio, sono determinazioni sociali del lavoro oppure determinazioni del lavoro sociale, ma non sono sociali senz'altro, lo sono in un modo particolare. Si tratta di un modo particolare di socialità. In primo luogo la semplicità indifferenziata del lavoro è uguaglianza dei lavori di individui differenti, un reciproco riferirsi dei loro lavori l'uno all'altro come a lavoro uguale, e ciò mediante una reale riduzione di tutti i lavori a un lavoro di uguale specie. Il lavoro di ogni individuo, in quanto si presenta in valori di scambio, ha questo carattere sociale di uguaglianza, e si presenta nel valore di scambio solo in quanto è riferito al lavoro di tutti gli altri individui come a lavoro uguale. Inoltre, nel valore di scambio, il tempo di lavoro del singolo individuo si presenta immediatamente come tempo di lavoro generale, e questo carattere generaledel lavoro individuale si presenta come carattere sociale di quest'ultimo. Il tempo di lavoro rappresentato nel valore di scambio è tempo di lavoro del singolo, ma del singolo indifferenziato dall'altro singolo, da tutti i singoli in quanto compiono un lavoro uguale, e quindi il tempo di lavoro richiesto per la produzione di una determinata merce è il tempo di lavoro necessario, che ogni altro impiegherebbe per la produzione di quella stessa merce. E' il tempo di lavoro del singolo, il suotempo di lavoro, ma solo come tempo di lavoro comune a tutti, per il quale è indifferente di quale singolo individuo esso sia il tempo di lavoro. Come tempo di lavoro generale, esso si esprime in un prodotto generale, in un equivalente generale, in un determinato quantitativo di tempo di lavoro oggettivato; e quest'ultimo, astraendo dalla forma determinata del valore d'uso in cui appare immediatamente come prodotto dell'uno, è traducibile a piacere in qualsiasi altra forma di valore d'uso in cui si esprima come prodotto di qualsiasi altro. E' grandezza sociale soltanto in quanto è una tale grandezza generale. Per risultare valore di scambio, il lavoro del singolo deve risultare equivalente generale, ossia rappresentazione del tempo di lavoro del singolo come tempo di lavoro generale o, ancora, rappresentazione del tempo di lavoro generale come tempo di lavoro del singolo. E' come se i diversi individui avessero messo insieme i loro tempi di lavoro e avessero espresso in valori d'uso diversi quantitativi diversi del tempo di lavoro a loro comune disposizione. Infatti, il tempo di lavoro del singolo è in tal modo il tempo di lavoro di cui la società ha bisogno per la espressione di un determinato valore d'uso, ossia per il soddisfacimento di un determinato bisogno. Ma qui si tratta soltanto della forma specifica in cui il lavoro acquisisce carattere sociale. Poniamo che un determinato tempo di lavoro del filatore si oggettivizzi per esempio in cento libbre di filato di lino; e che cento braccia di tela di lino, prodotte dal tessitore, rappresentino un quan- titativo uguale di tempo di lavoro. In quanto questi due prodotti rappresentano un quantitativo uguale di tempo di lavoro generale e sono quindi equivalenti per ogni valore d'uso che contenga un tempo di lavoro di uguale durata, essi sono equivalenti l'uno dell'altro. Solo per il fatto che il tempo di lavoro del filatore e il tempo di lavoro del tessitore si presentano come tempo di lavoro generale e i loro prodotti si presentano quindi come equivalenti generali, il lavoro del tessitore diventa qui per il filatore e il lavoro del filatore per il tessitore il lavoro dell'uno per il lavoro dell'altro, vale a dire per entrambi l'esistenza sociale dei loro lavori. Nell'industria contadina patriarcale invece, in cui filatore e tessitore abitavano sotto lo stesso tetto, in cui la parte femminile della famiglia filava e quella maschile tesseva, diciamo per il solo fabbisogno della famiglia, filato e tela erano prodotti sociali, filatura e tessitura erano lavori sociali entro i limiti della famiglia. Ma il loro carattere sociale non consisteva nel fatto che il filato si scambiava come equivalente generale con la tela come equivalente generale o entrambi reciprocamente come espressioni indifferenti ed equivalenti di uno stesso tempo di lavoro generale. Il nesso familiare, anzi, con la sua naturale e spontanea divisione del lavoro, imprimeva al prodotto del lavoro il suo peculiare timbro speciale. Oppure, prendiamo i servizi in natura e le prestazioni in natura del Medioevo. I determinati lavori dei singoli nella loro forma naturale, la particolarità, non la generalità del lavoro costituiscono qui il legame sociale. Oppure prendiamo infine il lavoro in comune nella sua forma naturale spontanea, come lo troviamo alle soglie della storia di tutti i popoli civili. Qui il carattere sociale del lavoro evidentemente non è dato dal fatto che il lavoro del singolo assume la forma astratta della generalità o che il suo prodotto assume la forma di equivalente generale. E' la comunità, il presupposto della produzione, ad impedire che il lavoro del singolo individuo sia il lavoro privato e il suo prodotto privato a far apparire invece il lavoro singolo direttamente come funzione di un membro dell'organismo sociale. Il lavoro che si esprime nel valore di scambio è presupposto come lavoro del singolo preso singolarmente: diventa sociale assumendo la forma del suo diretto opposto, la forma dell'astratta generalità. Caratteristico del lavoro che crea valore di scambio è infine che il rapporto sociale delle persone si rappresenta per così dire rovesciato, cioè come rapporto sociale delle cose. Soltanto in quanto un valore d'uso si riferisce all'altro quale valore di scambio, il lavoro di persone diverse è riferito l'uno all'altro come a lavoro uguale e generale. Quindi, se è esatto dire che il valore di scambio è un rapporto fra persone, bisogna tuttavia aggiungere: un rapporto celato sotto il velo delle cose. Allo stesso modo che una libbra di ferro e una libbra d'oro rappresentano lo stesso quantitativo di peso malgrado le loro qualità fisiche e chimiche diverse, due valori d'uso di merci, in cui sia contenuto lo stesso tempo di lavoro, rappresentano lo stesso valore di scambio. Il valore di scambio appare in tal modo come determinazione naturale sociale dei valori d'uso, come determinazione che spetta a questo in quanto cose, e a causa della quale nel processo di scambio essi si sostituiscono a vicenda secondo determinati rapporti quantitativi, costituiscono equivalenti, allo stesso modo che le sostanze chimiche semplici si combinano secondo determinati rapporti quantitativi, costituendo equivalenti chimici. E' soltanto l'abitudine della vita quotidiana che fa apparire come cosa banale, come cosa ovvia che un rapporto di produzione sociale assuma la forma di un oggetto, cosicchè il rapporto fra le persone nel loro lavoro si presenti piuttosto come un rapporto reciproco fra cose e fra cose e persone. Nella merce questa mistificazione è ancor molto semplice. Tutti più o meno capiscono vagamente che il rapporto delle merci quali valori di scambio è piuttosto un rapporto fra le persone e la loro reciproca attività produttiva. Nei rapporti di produzione di più alto livello questa parvenza di semplicità si dilegua. Tutte le illusioni del sistema monetario derivano dal fatto che dall'aspetto del denaro non si capisce che esso rappresenta un rapporto di produzione sociale, se pure nella forma di una cosa naturale di determinate qualità. Presso gli economisti moderni i quali sdegnano sghignazzando le illusioni del sistema monetario, fa capolino questa medesima illusione, non appena essi maneggino categorie economiche superiori, ad esempio il capitale. Essa irrompe nella confessione di ingenuo stupore quando ora appare come rapporto sociale ciò che essi goffamente ritenevano di fissare come cosa, e ora li stuzzica di nuovo come cosa ciò che avevano appena finito di fissare come rapporto sociale. Il valore di scambio delle merci, essendo infatti null'altro che il rapporto reciproco fra i lavori dei singoli individui come lavori uguali e generali, null'altro che l'espressione oggettuale di una forma specificamente sociale del lavoro, è una tautologia dire che il lavoro è l'unica fonte del valore di scambio e quindi della ricchezza in quanto consiste di valori di scambio. E la stessa tautologia è dire che la materia naturale come tale non contiene valore di scambio perchè non contiene lavoro e che il valore di scambio come tale non contiene materia naturale. Ma quando William Petty chiama "il lavoro il padre e la terra la madre della ricchezza", oppure quando il vescovo Berkeley domanda "se i quattro elementi e il lavoro dell'uomo applicato ad essi non siano la vera fonte della ricchezza", o quando l'americano Th. Cooper spiega volgarizzando: "Togli da una pagnotta il lavoro applicatovi, il lavoro del fornaio, mugnaio, affittuario, ecc., e che cosa rimane? Alcuni granelli di erbe che crescono allo stato selvatico, inservibili ad ogni uso umano", allora, in tutte queste vedute, non si tratta del lavoro astratto come fonte del valore di scambio, bensì del lavoro concreto come fonte di ricchezza materiale, in breve del lavoro in quanto produce valori d'uso. Pel fatto che il valore d'uso della merce sia presupposto, è presupposta la particolare utilità, la determinata finalità del lavoro consumato in essa, ma con ciò, dal punto di vista della merce, è allo stesso tempo esaurita ogni considerazione del lavoro come lavoro utile. Nel pane, come valore d'uso, ci interessano le sue qualità come mezzo alimentare, non ci interessano affatto i lavori dell'affittuario, del mugnaio, del fornaio. Qualora per mezzo di qualche invenzione i 19/20 di questi lavori venissero meno, la pagnotta farebbe lo stesso servizio di prima. Qualora cadesse bell'e pronta dal cielo, non perderebbe un atomo del suo valore d'uso. Mentre il lavoro che crea valore di scambio si attua nell'uguaglianza delle merci come equivalenti generali, il lavoro, come attività produttiva conforme al fine, si attua nell'infinita varietà dei suoi valori d'uso. Mentre il lavoro che crea valore di scambio è lavoro astrattamente generale e uguale, il lavoro che crea valore d'uso è lavoro concreto e particolare che si scinde in modi di lavoro infinitamente vari a seconda della forma e della materia. E' sbagliato dire che il lavoro, in quanto produce valori d'uso, sia l'unica fonte della ricchezza da esso prodotta, ossia della ricchezza materiale. Siccome il lavoro è l'attività svolta per adattare il materiale a questo o a quello scopo, il lavoro ha bisogno della materia come presupposto. In valori d'uso differenti la proporzione fra lavoro e materia naturale è molto differente, pure il valore d'uso contiene un sostrato naturale. Come attività conforme allo scopo di adattare l'elemento naturale in una forma o nell'altra, il lavoro è condizione naturale dell'esistenza umana, è una condizione del ricambio organico fra uomo e natura. Il lavoro che crea valore di scambio è per contro una forma specificamente sociale del lavoro. Il lavoro del sarto ad esempio, nella sua proprietà materiale di particolare attività produttiva, produce l'abito, ma non il valore di scambio dell'abito. Quest'ultimo lo produce non in quanto lavoro di sarto, bensì in quanto lavoro astrattamente umano, e questo rientra in un nesso sociale che non è stato infilato dal sarto. In questo modo, nell'antica industria domestica le donne producevano l'abito, senza produrre il valore di scambio dell'abito. Il lavoro come fonte di ricchezza materiale era noto tanto a Mosè legislatore quanto all'impiegato di dogana Adam Smith. La grandezza di valore di una merce non risente del fatto che all'infuori di essa esistano poche o molte merci di altra specie. Ma che la serie delle equazioni in cui il suo valore di scambio si attua, sia maggiore o minore, dipende dalla maggiore o minore varietà di altre merci. La serie delle equazioni in cui si esprime per esempio il valore del caffè esprime la sfera della sua scambiabilità, i limiti entro i quali funziona da valore di scambio. Al valore di scambio di una merce in quanto oggettivazione del tempo di lavoro generale sociale corrisponde l'espressione dell'equivalenza della merce in valori d'uso infinitamente differenti. Abbiamo visto che il valore di scambio di una merce varia con il variare della quantità del tempo di lavoro contenuto in essa. Il suo valore realizzato, ossia espresso nei valori d'uso di altre merci, deve a sua volta dipendere dalla proporzione in cui varia il tempo di lavoro impiegato nella produzione di tutte le altre merci. Se ad esempio rimanesse uguale il tempo di lavoro necessario alla produzione di un moggio di grano, mentre il tempo di lavoro necessario alla produzione di tutte le altre merci raddoppiasse, il valore di scambio del moggio di grano, espresso nei suoi equivalenti, sarebbe diminuito della metà. Praticamente il risultato sarebbe uguale a quello che si avrebbe se il tempo di lavoro necessario alla produzione del moggio di grano fosse diminuito della metà e il tempo di lavoro necessario alla produzione di tutte le altre merci fosse rimasto invariato. Il valore delle merci è determinato dalla proporzione in cui possono essere prodotte entro il medesimo tempo di lavoro. Per vedere a quali possibili variazioni sia esposta questa proporzione, poniamo il caso di due merci, A e B. Primo: supponiamo che il tempo di lavoro richiesto per la produzione di B rimanga invariato. In questo caso il valore di scambio di A, espresso in B, diminuisce o aumenta nella stessa proporzione in cui diminuisce o aumenta il tempo di lavoro necessario per la produzione di A. Secondo: Il tempo di lavoro richiesto per la produzione di A rimanga invariato. Il valore di scambio di A, espresso in B, diminuisce o aumenta nella proporzione inversa della diminuzione o dell'aumento del tempo di lavoro richiesto per la produzione di B.Terzo: Il tempo di lavoro richiesto per la produzione di A e B diminuisca o aumenti nella medesima proporzione. In tal caso l'espressione di equivalenza di A in B rimarrà invariata. Se a causa di una circostanza qualsiasi la forza produttiva di tutti i lavori diminuisse nella stessa misura, di modo che tutte le merci richiedessero in ugual proporzione un aumento del tempo di lavoro necessario alla loro produzione, sarebbe salito il valore di tutte le merci, l'espressione reale del loro valore di scambio sarebbe rimasta invariata, e la ricchezza reale della società sarebbe diminuita, poichè quest'ultima avrebbe bisogno di un tempo di lavoro maggiore per creare la medesima massa di valori d'uso. Quarto: Il tempo di lavoro richiesto per la produzione di A e B aumenti o diminuisca per entrambi, ma in grado disuguale, oppure aumenti il tempo di lavoro necessario per A mentre diminuisca quello per B, o viceversa. Tutti questi casi possono essere ridotti semplicemente al fatto che il tempo di lavoro richiesto per la produzione di una merce rimane invariato, mentre quello delle altre aumenta o diminuisce. Il valore di scambio di ogni merce si esprime nel valore d'uso di ogni altra merce, sia in unità di questo valore o in sue frazioni. In quanto valore di scambio, ogni merce è altrettanto divisibile quanto lo stesso tempo di lavoro che in essa è oggettivato. L'equivalenza delle merci è indipendente dalla loro divisibilità come valori d'uso, allo stesso modo che per l'addizione dei valori di scambio delle merci non ha importanza quale reale mutamento di forma subiscano i valori d'uso di queste merci nella loro rifusione in una sola merce nuova. Finora la merce è stata considerata da un duplice punto di vista, come valore d'uso e come valore di scambio, entrambe le volte unilateralmente. Ma come merce essa è immediatamente unità di valore d'uso e di valore di scambio; allo stesso tempo è merce soltanto in relazione alle altre merci. L'effettiva relazione reciproca delle merci è il loro processo di scambio. E' questo un processo sociale che gli individui stabiliscono indipendentemente l'uno dall'altro, ma lo stabiliscono soltanto come possessori di merci; la loro vicendevole esistenza dell'uno per l'altro è l'esistenza delle loro merci, e perciò in realtà non si presentano che come titolari consapevoli del processo di scambio. La merce è valore d'uso, grano, tela, diamante, macchina, ecc., ma come merce allo stesso tempo non è valore d'uso. Se pel suo possessore fosse valore d'uso, ossia mezzo immediato per il soddisfacimento dei suoi bisogni, non sarebbe merce. Per lui la merce è invece non valore d'uso, cioè semplicemente depositario materiale del valore di scambio ossia semplice mezzo di scambio; come depositario attivo del valore di scambio, il valore d'uso diventa mezzo di scambio. Per il possessore la merce, è ormai valore d'uso soltanto in quanto valore di scambio [12] . Valore d'uso essa deve quindi cominciar a divenire, in primo luogo per altri. Siccome non è valore per il suo possessore, è valore d'uso per i possessori di altre merci. Se non lo è, il lavoro del possessore è stato inutile, il suo risultato quindi non è merce. D'altra parte, deve diventare valore d'uso per lui stesso, poichè al di fuori di essa, nei valori d'uso di merci altrui, esistono i suoi mezzi di sussistenza. Per diventare valore d'uso la merce deve trovarsi di fronte quel particolare bisogno pel quale essa è oggetto di soddisfacimento. I valori d'uso delle merci diventano quindi valori d'uso cambiando posto in tutte le direzioni, passando dalla mano in cui sono mezzi di scambio alla mano in cui sono oggetti d'uso. Solo mediante questa generale alienazione delle merci, il lavoro in esse contenuto diventa lavoro utile. In questo progressivo riferirsi delle merci l'una all'altra in quanto valori d'uso, esse non acquisiscono alcuna nuova determinazione di forma economica. Scompare, anzi, la determinazione formale che le caratterizzava come merci. Il pane, ad esempio, passando dalla mano del fornaio in quella del consumatore, non muta la propria esistenza come pane. Viceversa, il consumatore è il primo che vi si riferisca come a valore d'uso, come a quel determinato mezzo alimentare, mentre nella mano del fornaio il pane era l'espressione di un rapporto economico, una cosa sensibilmente extrasensibile. L'unico mutamento formale, che le merci subiscono nel loro divenire come valori d'uso, è dunque l'abolizione della loro esistenza formale, in cui erano non valore d'uso per il loro possessore, valore d'uso per il loro non-possessore. Il divenire delle merci come valori d'uso presuppone la loro generale alienazione, il loro entrare nel processo di scambio, ma la loro esistenza per lo scambio è la loro esistenza come valori di scambio. Per attuarsi quindi come valori d'uso, devono attuarsi come valori di scambio. Se, dal punto di vista del valore d'uso, la singola merce in origine ci appariva come cosa autonoma, come valore di scambio era invece considerata fin da principio in relazione a tutte le altre merci. Questa relazione era però solo una relazione teorica, ideale. Solo nel processo di scambio essa si attua. D'altra parte, la merce è bensì valore di scambio in quanto in essa è consumata una determinata quantità di tempo di lavoro ed in quanto essa è quindi tempo di lavoro oggettivato. Ma, in modo immediato, è soltanto tempo di lavoro oggettivato individuale, di contenuto particolare, non è tempo di lavoro generale. Perciò non è valore di scambio in modo immediato, bensì deve divenire tale. In un primo tempo non può essere che oggettivazione del tempo di lavoro generale, alla maniera in cui esprime il tempo di lavoro in una determinata applicazione utile, dunque in un valore d'uso. Era questa la condizione materiale alla quale soltanto il tempo di lavoro contenuto nelle merci era presupposto come tempo di lavoro generale, sociale. Se dunque la merce può divenire, come valore d'uso, soltanto attuandosi come valore di scambio, d'altra parte può attuarsi come valore di scambio soltanto affermandosi come valore d'uso al momento della sua alienazione. Una merce può essere ceduta come valore d'uso solo a colui pel quale essa è valore d'uso, ossia oggetto di un particolare bisogno. D'altra parte la merce viene ceduta solo in cambio di un'altra merce, ossia, ponendoci dalla parte del possessore dell'altra merce, anche costui può alienare la sua merce, realizzata, soltanto mettendola in contatto con il particolare bisogno di cui essa sia l'oggetto. Nell'alienazione generale delle merci come valori d'uso, esse vengono riferite l'una all'altra a seconda della loro disparità materiale, in quanto cose particolari, le quali in virtù delle loro qualità specifiche soddisfano particolari bisogni. Ma in quanto tali semplici valori d'uso, le merci sono esistenze indifferenti l'una per l'altra, sono anzi prive di reciproche relazioni. In quanto valori d'uso possono essere scambiate soltanto in relazione a particolari bisogni. Ma sono scambiabili solo come equivalenti, e sono equivalenti solo come uguali quantitativi di tempo di lavoro oggettivato, cosicchè ogni considerazione delle loro qualità naturali come valori d'uso, e quindi del rapporto delle merci con particolari bisogni, è cancellata. Come valore di scambio una merce funziona invece sostituendo come equivalente una quantità comunque determinata di qualsiasi altra merce, non importa se pel possessore dell'altra merce essa sia valore d'uso o no. Ma per il possessore dell'altra merce essa diventa merce solo in quanto per lui è valore d'uso, e per il proprio possessore diventa valore di scambio solo in quanto è merce per l'altro. Questa relazione sarà quindi relazione delle merci in quanto grandezze essenzialmente uguali, differenti solo quantitativamente, sarà la loro equiparazione come materializzazione del tempo di lavoro generale e sarà allo stesso tempo la loro relazione come cose differenti qualitativamente, come valori d'uso particolari per bisogni particolari, in breve sarà la relazione che le differenzia come reali valori d'uso. Ma questa equiparazione e differenziazione si escludono a vicenda. Così appare non soltanto un circolo vizioso di problemi, presupponendo la soluzione dell'uno la soluzione dell'altro, bensì una somma di esigenze contraddittorie, essendo l'adempimento di una condizione vincolato immediatamente all'adempimento della condizione opposta. Il processo di scambio delle merci deve essere sia lo svolgimento sia la soluzione di queste contraddizioni che in esso non possono tuttavia essere espresse in questo modo semplice. Abbiamo solo osservato come le merci stesse sono riferite reciprocamente l'una all'altra come valori d'uso, cioè come le merci entro il processo di scambio si presentano come valori d'uso. Il valore di scambio invece, come lo abbiamo considerato sin qui, era presente nella nostra astrazione soltanto, o, se si vuole, nell'astrazione del singolo possessore di merce che ha in magazzino la merce come valore d'uso e l'ha sulla coscienza come valore di scambio. Ma le merci stesse entro il processo di scambio devono esistere l'una per l'altra non soltanto come valori d'uso, bensì come valori di scambio, e questa loro esistenza apparirà come la loro propria relazione reciproca. La difficoltà in cui subito abbiamo inciampato era questa: per potersi esprimere come valore d'uso, come lavoro oggettivato, la merce deve prima essere alienata come valore d'uso, dev'essere spacciata a qualcuno, mentre la sua alienazione come valore d'uso presuppone viceversa la sua esistenza come valore di scambio. Ma poniamo che questa difficoltà sia risolta. Poniamo che la merce si sia disfatta del proprio particolare valore d'uso e alienandolo abbia adempiuto la condizione materiale di essere lavoro socialmente utile invece che lavoro particolare di un uomo singolo per se stesso. Così dovrà poi, nel processo di scambio, come valore di scambio diventare equivalente generale, tempo di lavoro generale oggettivato, per le altre merci ed in tal modo acquisire non più soltanto l'effetto limitato di un particolare valore d'uso, bensì l'immediata capacità di essere espressa in tutti i valori d'uso quali suoi equivalenti. Ma ogni merce è la merce che in questo modo, mediante l'alienazione del proprio particolare valore d'uso, deve presentarsi come materializzazione diretta del tempo di lavoro generale. Ma d'altra parte nel processo di scambio si trovano di fronte soltanto merci particolari, lavori di individui privati, incarnati in particolari valori d'uso. Lo stesso tempo di lavoro generale è un'astrazione che come tale non esiste per le merci. Le qualità fisiche necessarie della merce particolare, nella quale deve cristallizzarsi l'essere denaro di tutte le merci, per quanto derivino direttamente dalla natura del valore di scambio, sono la divisibilità a piacere, l'uniformità delle parti e la identicità in tutti gli esemplari di questa merce. Come materializzazione del tempo di lavoro generale, questa merce deve essere materializzazione uniforme e capace di esprimere differenze puramente quantitative. L'altra qualità necessaria è la durevolezza del suo valore d'uso poichè la merce deve durare entro il processo di scambio. I metalli nobili posseggono queste qualità in misura eminente. Siccome il denaro non è un prodotto di una riflessione o di un accordo, ma è formato quasi istintivamente nel processo di scambio, merci differenti più o meno inadatte, si sono alternate nella funzione di denaro. La necessità subentrante a un determinato grado dello sviluppo del processo di scambio, di distribuire polarmente sulle merci le determinazioni di valore di scambio e di valore d'uso in modo che una merce ad esempio figuri come mezzo di scambio, mentre l'altra è alienata come valore d'uso, comporta che dappertutto la merce o anche più merci del più generale valore d'uso abbiano in un primo momento per caso la funzione di denaro. Qualora non siano oggetto di un bisogno esistente direttamente, la loro esistenza come componente più importante della ricchezza dal punto di vista materiale, assicura ad esse un carattere più generale di quel che abbiano gli altri valori d'uso. Il commercio di scambio immediato, forma spontanea del processo di scambio, rappresenta piuttosto l'iniziale trasformazione dei valori d'uso in merci che non quella delle merci in denaro. Il valore di scambio non acquisisce forma libera, è bensì ancora vincolato direttamente al valore d'uso. Questo risulta in due modi. La produzione stessa in tutta la sua costruzione è diretta al valore d'uso, non al valore di scambio, ed è quindi soltanto per l'eccedenza sulla misura in cui i valori d'uso sono richiesti per il consumo, che essi cessano qui di essere valori d'uso e diventano mezzi di scambio, merce. D'altra parte, diventano propriamente merci solo entro i limiti del valore d'uso diretto, sia pure distribuito polarmente, cosicchè le merci da scambiarsi dai possessori devono essere per entrambi valori d'uso, ma ognuna di esse dovrà essere valore d'uso per il suo nonpossessore. In realtà, il processo di scambio delle merci in origine non si presenta in seno alle comunità naturali e spontanee, bensì là dove queste finiscono, ai loro confini, nei pochi punti in cui entrano in contatto con altre comunità. Qui ha inizio il commercio di scambio e da qui si ripercuote sull'interno della comunità, con un'azione disgregatrice. I particolari valori d'uso che nel commercio di scambio fra le diverse comunità diventano merci, come lo schiavo, il bestiame, i metalli, costituiscono quindi per lo più il primo denaro in seno alle comunità stesse. Abbiamo visto come il valore di scambio di una merce si esprima come valore di scambio in un grado tanto più elevato quanto più lunga è la serie dei suoi equivalenti o quanto maggiore è la sfera dello scambio per quella merce. La graduale estensione del commercio di scambio, l'aumento degli scambi e la moltiplicazione delle merci entranti nel commercio di scambio, evolvono quindi la merce in quanto valore di scambio, sollecitano la formazione del denaro e esplicano con ciò un'azione dissolvitrice sul commercio di scambio diretto. Gli economisti sono soliti derivare il denaro dalle difficoltà esterne in cui si imbatte il commercio di scambio ampliatosi, ma così facendo dimenticano che queste difficoltà derivano dallo sviluppo del valore di scambio e quindi risalgono al lavoro sociale quale lavoro generale. Per esempio: le merci, in qualità di valori d'uso, non sono divisibili a piacere, come devono esserlo in qualità di valori di scambio. Oppure, la merce di A può essere valore d'uso per B, mentre la merce di B non è valore d'uso per A. Oppure, i possessori delle merci possono aver bisogno delle loro merci indivisibili, da scambiarsi a vicenda, in proporzioni di valore ineguali. In altre parole, con il pretesto di considerare il commercio di scambio semplice, gli economisti si rendono conto di certi lati della contraddizione avvolta nell'esistenza della merce come unità immediata di valore d'uso e valore di scambio. D'altra parte tengono fermo, coerentemente, al commercio di scambio come forma adeguata del processo di scambio delle merci, il quale sarebbe semplicemente legato a certi disagi tecnici pei quali il denaro sarebbe una via d'uscita intelligentemente escogitata. Da questo punto di vista, del tutto superficiale, un intelligente economista inglese ha quindi sostenuto giustamente che il denaro è uno strumento puramente materiale, come una nave o una macchina a vapore, ma non è l'espressione di un rapporto di produzione sociale e quindi non è una categoria economica. Soltanto abusivamente è trattato quindi nella economia politica, la quale infatti non ha nulla in comune con la tecnologia. Nel mondo delle merci è presupposta una sviluppata divisione del lavoro, ossia quest'ultima si esprime, piuttosto, direttamente nella molteplicità dei valori d'uso che si stanno dinanzi come merci particolari e nei quali sono incorporati modi di lavoro altrettanto molteplici. La divisione del lavoro, in quanto totalità di tutti i modi particolari dell'occupazione produttiva, è la figura complessiva del lavoro solidale considerato nel suo lato materiale, considerato come lavoro che produce valori d'uso. Ma come tale la divisione del lavoro esiste, dal punto di vista delle merci e entro il processo di scambio, soltanto nel suo risultato, nella particolarizzazione delle merci stesse. Lo scambio delle merci è il processo entro il quale il ricambio sociale, ossia lo scambio dei particolari prodotti di individui privati, è allo stesso tempo creazione di determinati rapporti della produzione sociale, nei quali gli individui entrano in questo ricambio. Le relazioni progressive fra le merci nei confronti dell'una con l'altra si cristallizzano come determinazioni differenziate dell'equivalente generale, e in tal modo il processo di scambio è allo stesso tempo processo di formazione del denaro. L'insieme di questo processo, che appare come il decorso di processi differenti, è la circolazione. Tale analisi venne ripresa da Marx nel Capitale. A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia, scrisse nel Capitale. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Finché è valore d'uso, non c'è nulla di misterioso in essa, sia che la si consideri dal punto di vista che soddisfa, con le sue qualità, bisogni umani, sia che riceva tali qualità soltanto come prodotto di lavoro umano. E' chiaro come la luce del sole che l'uomo con la sua attività cambia in maniera utile a se stesso le forme dei materiali naturali. P. es. quando se ne fa un tavolo, la forma del legno viene trasformata. Ciò non di meno, il tavolo rimane legno, cosa sensibile e ordinaria. Ma appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare. Dunque, il carattere mistico della merce non sorge dal suo valore d'uso. E nemmeno sorge dal contenuto delle determinazioni di valore. Poiché: in primo luogo, per quanto differenti possano essere i lavori utili o le operosità produttive, è verità fisiologica ch'essi sono funzioni dell'organismo umano, e che tutte tali funzioni, quale si sia il loro contenuto e la loro forma, sono essenzialmente dispendio di cervello, nervi, muscoli, organi sensoriali, ecc. umani. In secondo luogo, per quel che sta alla base della determinazione della grandezza di valore, cioè la durata temporale di quel dispendio, ossia la quantità del lavoro: la quantità del lavoro è distinguibile dalla qualità in maniera addirittura tangibile. In nessuna situazione il tempo di lavoro che costa la produzione dei mezzi di sussistenza ha potuto non gli uomini, benché tale interessamento non sia uniforme nei vari gradi di sviluppo. Infine, appena gli uomini lavorano in una qualsiasi maniera l'uno per l'altro, il loro lavoro riceve anche una forma sociale. Di dove sorge dunque il carattere enigmatico del prodotto di lavoro appena assume forma di merce? Evidentemente, proprio da tale forma. L'eguaglianza dei lavori umani riceve la forma reale di eguale oggettività di valore dei prodotti del lavoro, la misura del dispendio di forza-lavoro umana mediante la sua durata temporale riceve la forma di grandezza di valore dei prodotti del lavoro, ed infine i rapporti fra i produttori, nei quali si attuano quelle determinazioni sociali dei loro lavori, ricevono la forma d'un rapporto sociale dei prodotti del lavoro. L'arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi rispecchia anche il rapporto sociale fra . Ci si ricorda che la Cina e i tavolini cominciarono a ballare quando tutto il resto del mondo sembrava fermo – pour encourager les autres. . Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili cioè cose sociali. Proprio come l'impressione luminosa di una cosa sul nervo ottico non si presenta come stimolo soggettivo del nervo ottico stesso, ma quale forma oggettiva di una cosa al di fuori dell'occhio. Ma nel fenomeno della vista si ha realmente la proiezione di luce da una cosa, l'oggetto esterno, su un'altra cosa, l'occhio: è un rapporto fisico fra cose fisiche. Invece la forma di merce e il rapporto di valore dei prodotti di lavoro nel quale essa si presenta non ha assolutamente nulla a che fare con la loro natura fisica e con le relazioni fra cosa e cosa che ne derivano. Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi. Quindi, per trovare un'analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che s'appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci. Come l'analisi precedente ha già dimostrato, tale carattere feticistico del mondo delle merci sorge dal carattere sociale peculiare del lavoro che produce merci. Gli oggetti d'uso diventano merci, in genere, soltanto perché sono prodotti di lavori privati, eseguiti indipendentemente l'uno dall'altro. Il complesso di tali lavori privati costituisce il lavoro sociale complessivo. Poiché i produttori entrano in contatto sociale soltanto mediante lo scambio dei prodotti del loro lavoro, anche i caratteri specificamente sociali dei loro lavori privati appaiono soltanto all'interno di tale scambio. Ossia, i lavori privati effettuano di fatto la loro qualità di articolazioni del lavoro complessivo sociale mediante le relazioni nelle quali lo scambio pone i prodotti del lavoro e, attraverso i prodotti stessi, i produttori. Quindi a questi ultimi le relazioni sociali dei loro lavori privati appaiono come quel che sono, cioè, non come rapporti immediatamente sociali fra persone nei loro stessi lavori, ma anzi, come rapporti materiali fra persone e rapporti sociali fra le cose. Solo all'interno dello scambio reciproco i prodotti di lavoro ricevono un'oggettività di valore socialmente eguale, separata dalla loro oggettività d'uso, materialmente differente. Questa scissione del prodotto del lavoro in cosa utile e cosa di valore si effettua praticamente soltanto appena lo scambio ha acquistato estensione e importanza sufficienti affinchè cose utili vengano prodotte per lo scambio, vale a dire affinché nella loro stessa produzione venga tenuto conto del carattere di valore delle cose. Da questo momento in poi i lavori privati dei produttori ricevono di fatto un duplice carattere sociale. Da un lato, come lavori utili determinati, debbono soddisfare un determinato bisogno sociale, e far buona prova di sè come articolazioni del lavoro complessivo, del sistema naturale spontaneo della divisione sociale del lavoro; dall'altro lato, essi soddisfano soltanto i molteplici bisogni dei loro produttori, in quanto ogni lavoro privato, utile e particolare è scambiabile con ogni altro genere utile di lavoro privato, e quindi gli è equiparato. L'eguaglianza di lavori differenti può consistere soltanto in un far astrazione dalla loro reale diseguaglianza, nel ridurli al carattere comune che essi posseggono, di dispendio di forza-lavoro umana, di lavoro astrattamente umano. Il cervello dei produttori privati rispecchia a sua volta questo duplice carattere sociale dei loro lavori privati, nelle forme che appaiono nel commercio pratico, nello scambio dei prodotti, quindi rispecchia il carattere socialmente utile dei loro lavori privati, in questa forma: il prodotto del lavoro deve essere utile, e utile per altri, e rispecchia il carattere sociale dell'eguaglianza dei lavori di genere differente nella forma del carattere comune di valore di quelle cose materialmente differenti che sono i prodotti del lavoro. Gli uomini dunque riferiscono l'uno all'altro i prodotti del loro lavoro come valori, non certo per il fatto che queste cose contino per loro soltanto come puri involucri materiali di lavoro umano omogeneo. Viceversa. Gli uomini equiparano l'un con l'altro i loro differenti lavori come lavoro umano, equiparando l'uno con l'altro, come valori, nello scambio, i prodotti eterogenei. Non sanno di far ciò, ma lo fanno. Quindi il valore non porta scritto in fronte quel che è. Anzi, il valore trasforma ogni prodotto del lavoro in un geroglifico sociale. In seguito, gli uomini cercano di decifrare il senso del geroglifico, cercano di penetrare l'arcano del loro proprio prodotto sociale, poiché la determinazione degli oggetti d'uso come valori è loro prodotto sociale quanto il linguaggio. La tarda scoperta scientifica che i prodotti di lavoro, in quanto son valori, sono soltanto espressioni materiali del lavoro umano speso nella loro produzione, fa epoca nella storia dello sviluppo dell'umanità, ma non disperde affatto la parvenza oggettiva dei carattere sociale del lavoro. Quel che è valido soltanto per questa particolare forma di produzione, la produzione delle merci, cioè che il carattere specificamente sociale dei lavori privati indipendenti l'uno dall'altro consiste nella loro eguaglianza come lavoro umano e assume la forma del carattere di valore dei prodotti di lavoro, appare cosa definitiva, tanto prima che dopo di quella scoperta, a coloro che rimangono impigliati nei rapporti della produzione di merci: cosa definitiva come il fatto che la scomposizione scientifica dell'aria nei suoi elementi ha lasciato sussistere nella fisica l'atmosfera come forma corporea.” Implicazioni teoriche e politiche. Come emerge dalle parole di Marx, ciò che distingue in modo radicale il pensiero di Marx da quello dei neoclassici, compreso il nostro attuale presidente del consiglio, è che mentre per gli economisti neoclassici il capitale è un insieme di mezzi di produzione oppure una somma di denaro, per Marx il capitale è prima di tutto un rapporto sociale. Ne deriva che non è possibile al cuna riforma dall'interno del capitalismo finché non sarà abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione e scambio. Keynes e la fine del lasciar fare. The disposition towards public affairs, scrisse Keynes nel 1926 nel saggio La fine del lasciar fare, which we conveniently sum up as individualism and laissez-faire, drew its sustenance from many different rivulets of thought and springs of feeling. For more than a hundred years our philosophers ruled us because, by a miracle, they nearly all agreed or seem to agree on this one thing. We do not dance even yet to a new tune. But a change is in the air. We hear but indistinctly what were once the clearest and most distinguishable voices which have ever instructed political mankind. The orchestra of diverse instruments, the chorus of articulate sound, is receding at last into the distance. At the end of the seventeenth century the divine right of monarchs gave place to natural liberty and to the compact, and the divine right of the church to the principle of toleration, and to the view that a church is 'a voluntary society of men', coming together, in a way which is 'absolutely free and spontaneous' (Locke, A Letter Concerning Toleration). Fifty years later the divine origin and absolute voice of duty gave place to the calculations of utility. In the hands of Locke and Hume these doctrines founded Individualism. The compact presumed rights in the individual; the new ethics, being no more than a scientific study of the consequences of rational self-love, placed the individual at the centre. 'The sole trouble Virtue demands', said Hume, 'is that of just Calculation, and a steady preference of the greater Happiness.' (An Enquiry Concerning the Principles of Morals, section LX). These ideas accorded with the practical notions of conservatives and of lawyers. They furnished a satisfactory intellectual foundation to the rights of property and to the liberty of the individual in possession to do what he liked with himself and with his own. This was one of the contributions of the eighteenth century to the air we still breathe. The purpose of promoting the individual was to depose the monarch and the church; the effect - through the new ethical significance attributed to contract - was to buttress property and prescriptions. But it was not long before the claims of society raised themselves anew against the individual. Paley and Bentham accepted utilitarian hedonism from the hands of Hume and his predecessors, but enlarged it into social utility. ('I omit' says Archdeacon Paley, 'much usual declamation upon the dignity and capacity of our nature, the superiority of the soul to the body, of the rational to the animal part of our constitution; upon the worthiness, refinement, and delicacy of some satisfactions, and the meanness, grossness, and sensuality of others: because I hold that pleasures differ in nothing but in continuance and intensity' - Principles of Moral and Political Philosophy, Book 1, chap. 6). Rousseau took the Social Contract from Locke and drew out of it the General Will. In each case the transition was made by virtue of the new emphasis laid on equality. 'Locke applies his Social Contract to modify the natural equality of mankind, so far as that phrase implies equality of property or even of privilege, in consideration of general security. In Rousseau's version equality is not only the starting-point but the goal.' (Leslie Stephen, English Thought in the Eighteenth Century, II, 192). Paley and Bentham reached the same destination, but by different routes. Paley avoided an egoistic conclusion to his hedonism by a God from the machine. 'Virtue', he says, 'is the doing good to mankind, in obedience to the will of God, and for the sake of everlasting happiness' - in this way bringing I and others to a parity. Bentham reached the same result by pure reason. There is no rational ground, he argued, for preferring the happiness of one individual, even oneself, to that of any other. Hence the greatest happiness of the greatest number is the sole rational object of conduct - taking utility from Hume, but forgetting that sage man's corollary: 'Tis not contrary to reason to prefer the destruction of the whole world to the scratching of my finger.' 'Tis not contrary to reason for me to choose my total ruin to prevent the least uneasiness of an Indian, or person totally unknown to me ... Reason is and ought only to be the slave of the passions, and can never pretend to any other office than to serve and obey them.' Rousseau derived equality from the state of nature, Paley from the will of God, Bentham from a mathematical law of indifference. Equality and altruism had thus entered political philosophy, and from Rousseau and Bentham sprang both democracy and utilitarian socialism. This is the second current - sprang from long-dead controversies, and carried on its way by long-exploded sophistries - which still permeates our atmosphere of thought but it did not drive out the former current. It mixed with it. The early nineteenth century performed the miraculous union. It harmonised the conservative individualism of Locke, Hume, Johnson, and Burke with the socialism and democratic egalitarianism of Rousseau, Paley, Bentham, and Godwin. (Godwin carried laissez-faire so far that he thought all government an evil, in which Bentham almost agreed with him. The doctrine of equality becomes with him one of extreme individualism, verging on anarchy. 'The universal exercise of private judgement' he says, 'is a doctrine so unspeakably beautiful that the true politician will certainly feel infinite reluctance in admitting the idea of interfering with it' - see Leslie Stephen, op. cit. II, 277). Nevertheless, that age would have been hard put to it to achieve this harmony of opposites if it had not been for the economists, who sprang into prominence just at the right moment. The idea of a divine harmony between private advantage and the public good is already apparent in Paley. But it was the economists who gave the notion a good scientific basis. Suppose that by the working of natural laws individuals pursuing their own interests with enlightenment in condition of freedom always tend to promote the general interest at the same time! Our philosophical difficulties are resolved-at least for the practical man, who can then concentrate his efforts on securing the necessary conditions of freedom. To the philosophical doctrine that the government has no right to interfere, and the divine that it has no need to interfere, there is added a scientific proof that its interference is inexpedient. This is the third current of thought, just discoverable in Adam Smith, who was ready in the main to allow the public good to rest on 'the natural effort of every individual to better his own condition', but not fully and selfconsciously developed until the nineteenth century begins. The principle of laissez-faire had arrived to harmonise individualism and socialism, and to make at one Hume's egoism with the greatest good of the greatest number. The political philosopher could retire in favour of the business man - for the latter could attain the philosopher's summum bonum by just pursuing his own private profit. Yet some other ingredients were needed to complete the pudding. First the corruption and incompetence of eighteenth-century government, many legacies of which survived into the nineteenth. The individualism of the political philosophers pointed to laissezfaire. The divine or scientific harmony (as the case might be) between private interest and public advantage pointed to laissez-faire. But above all, the ineptitude of public administrators strongly prejudiced the practical man in favour of laissez-faire - a sentiment which has by no means disappeared. Almost everything which the State did in the eighteenth century in excess of its minimum functions was, or seemed, injurious or unsuccessful. On the other hand, material progress between 1750 and 1850 came from individual initiative, and owed almost nothing to the directive influence of organised society as a whole. Thus practical experience reinforced a priori reasonings. The philosophers and the economists told us that for sundry deep reasons unfettered private enterprise would promote the greatest good of the whole. What could suit the business man better? And could a practical observer, looking about him, deny that the blessings of improvement which distinguished the age he lived in were traceable to the activities of individuals 'on the make'? Thus the ground was fertile for a doctrine that, whether on divine, natural, or scientific grounds, state action should be narrowly confined and economic life left, unregulated so far as may be, to the skill and good sense of individual citizens actuated by the admirable motive of trying to get on in the world. By the time that the influence of Paley and his like was waning, the innovations of Darwin were shaking the foundations of belief. Nothing could seem more opposed than the old doctrine and the new - the doctrine which looked on the world as the work of the divine watchmaker and the doctrine which seemed to draw all things out of Chance, Chaos, and Old Time. But at this one point the new ideas bolstered up the old. The economists were teaching that wealth, commerce, and machinery were the children of free competition - that free competition built London. But the Darwinians could go one better than that - free competition had built man. The human eye was no longer the demonstration of design, miraculously contriving all things for the best; it was the supreme achievement of chance, operating under conditions of free competition and laissez-faire. The principle of the survival of the fittest could be regarded as a vast generalisation of the Ricardian economics. Socialist interferences became, in the light of this grander synthesis, not merely inexpedient, but impious, as calculated to retard the onward movement of the mighty process by which we ourselves had risen like Aphrodite out of the primeval slime of ocean. Therefore I trace the peculiar unity of the everyday political philosophy of the nineteenth century to the success with which it harmonised diversified and warring schools and united all good things to a single end. Hume and Paley, Burke and Rousseau, Godwin and Malthus, Cobbett and Huskisson, Bentham and Coleridge, Darwin and the Bishop of Oxford, were all, it was discovered, preaching practically the same thing - individualism and laissez-faire. This was the Church of England and those her apostles, whilst the company of the economists were there to prove that the least deviation into impiety involved financial ruin. These reasons and this atmosphere are the explanations, we know it or not - and most of us in these degenerate days are largely ignorant in the matter - why we feel such a strong bias in favour of laissez-faire, and why state action to regulate the value of money, or the course of investment, or the population, provokes such passionate suspicions in many upright breasts. We have not read these authors; we should consider their arguments preposterous if they were to fall into our hands. Nevertheless we should not, I fancy, think as we do, if Hobbes, Locke, Hume, Rousseau, Paley, Adam Smith, Bentham, and Miss Martineau had not thought and written as they did. A study of the history of opinion is a necessary preliminary to the emancipation of the mind. I do not know which makes a man more conservative - to know nothing but the present, or nothing but the pas I have said that it was the economists who furnished the scientific by which the practical man could solve the contradiction between egoism and socialism which emerged out of the philosophising of the eighteenth century and the decay of revealed religion. But having said this for shortness' sake, I hasten to qualify it. This is what the economists are supposed to have said. No such doctrine is really to be found in the writings of the greatest authorities. It is what the popularisers and the vulgarisers said. It is what the Utilitarians, who admitted Hume's egoism and Bentham's egalitarianism at the same time, were driven to believe in, if they were to effect a synthesis. (One can sympathise with the view of Coleridge, as summarised by Leslie Stephen, that 'the Utilitarians destroyed every element of cohesion, made Society a struggle of selfish interests, and struck at the very roots of all order, patriotism, poetry, and religion'). The language of the economists lent itself to the laissez-faire interpretation. But the popularity of the doctrine must be laid at the door of the political philosophers of the day, whom it happened to suit, rather than of the political economists. The maxim laissez-nous faire is traditionally attributed to the merchant Legendre addressing Colbert some time towards the end of the seventeenth century. ('Que faut-il faire pour vous aider?' asked Colbert. 'Nous laisser faire' answered Legendre). But there is no doubt the first writer to use the phrase, and to use it in clear association with the doctrine, is the Marquis d'Argenson about 1751. (For the history of the phrase, see Oncken, 'Die Maxime Laissez faire et laissez-passer' from whom most of the following quotations are taken. The claims of the Marquis d'Argenson were overlooked until Oncken put them forward, partly because the relevant passages published during his lifetime were anonymous - Journal Oeconomique, 1751 and partly because his works were not published in full - though probably passed privately from hand to hand during his lifetime - until 1858 - Mémoires et Journal inédit du Marquis d'Argenson) The Marquis was the first man to wax passionate on the economic advantages of governments leaving trade alone. To govern better, he said, one must govern less. ('Pour gouverner mieux, il faudrait gouverner moins.') The true cause of the decline of our manufactures, he declared, is the protection we have given to them. ('On ne peut dire autant de nos fabriques: la vraie cause de leur déclin, c'est la protection outrée qu'on leur accorde.') 'Laissez faire, telle devrait être la devise de toute puissance publique, depuis que le monde est civilisé.' 'Détestable principe que celui de ne vouloir grandeur que par l'abaissement de nos voisins! Il n'y a que la méchanceté et la malignité du coeur de satisfaites dans ce principe, et l'intérêt y est opposé. Laissez faire, morbleu! Laissez faire!!' Here we have the economic doctrine of laissez-faire, with its most fervent expression in free trade, fully clothed. The phrases and the idea must have passed current in Paris from that time on. But they were slow to establish themselves in literature; and the tradition associating with them the physiocrats, and particularly de Gournay and Quesnay, finds little support in the writings of this school, though they were, of course, proponents of the essential harmony of social and individual interests. The phrase laissez-faire is not to be found in the works of Adam Smith, of Ricardo, or of Malthus. Even the idea is not present in a dogmatic form in any of these authors. Adam Smith, of course, was a Free Trader and an opponent of many eighteenth-century restrictions on trade. But his attitude towards the Navigation Acts and the usury laws shows that he was not dogmatic. Even his famous passage about 'the invisible hand' reflects the philosophy which we associate with Paley rather than the economic dogma of laissez-faire. As Sidgwick and Cliff Leslie have pointed out, Adam Smith's advocacy of the 'obvious and simple system of natural liberty' is derived from his theistic and optimistic view of the order of the world as set forth in his Theory of Moral Sentiments, rather than any proposition of political economy proper. (Sidgwick, Principles of Political Economy, p. 20). The phrase laissez-faire was, I think, first brought into popular usage in England by a well-known passage of Dr Franklin's. (Bentham uses the expression 'laissez-nous faire' Works, p. 440). It is not, indeed, until we come to the later works of Bentham - who was not an economist at all - that we discover the rule of laissez-faire, in the shape in which our grandfathers knew it, adapted into the service of the Utilitarian philosophy. For example in A Manual of Political Economy, (written in 1793, a chapter published in the Bibliothèque Britannique in 1798, and the whole first printed in Bowring's edition of this Works - 1843) he writes: 'The general rule is that nothing ought to be done or attempted by government; the motto or watchword of government, on these occasions, ought to be - Be quiet ... The request which agriculture, manufacturers, and commerce present to governments is as modest and reasonable as that which Diogenes made to Alexander: Stand out of my sunshine.' From this time on it was the political campaign for free trade, the influence of the socalled Manchester School and of the Benthamite Utilitarians, the utterances of secondary economic authorities and the education stories of Miss Martineau and Mrs Marcet, that fixed laissez-faire in the popular mind as the practical conclusion of orthodox political economy - with this great difference, that the Malthusian view of population having been accepted in the meantime by this same school of thought, the optimistic laissezfaire of the last half of the eighteenth century gives place to the pessimistic laissez-faire of the last half of the nineteenth century. (Cf. Sidgwick, op. cit. p. 22: 'Even those economists, who adhered in the main to Adam Smith's limitations of the sphere of government, enforced these limitations sadly rather than triumphantly; not as admirers of the social order at present resulting from"'natural liberty", but as convinced that it is at least preferable to any artificial order that government might be able to substitute for it.') In Mrs Marcet's Conversations on Political Economy (1817), Caroline stands out as long as she can in favour of controlling the expenditure of the rich. But by page 418 she has to admit defeat: CAROLINE. The more I learn upon this subject, the more I feel convinced that the interests of nations, as well as those of individuals, so far from being opposed to each other, are in the most perfect unison. MRS B. Liberal and enlarged views will always lead to similar conclusions, and teach us to cherish sentiments of universal benevolence towards each other; hence the superiority of science over mere practical knowledge. By 1850 the Easy Lessons for the Use of Young People, by Archbishop Whately, which the Society for Promoting Christian Knowledge was distributing wholesale, do not admit even of those doubts which Mrs B. allowed Caroline occasionally to entertain. 'More harm than good is likely to be done' the little book concludes, 'by almost any interference of Government with men's money transactions, whether letting and leasing, or buying and selling of any kind.' True liberty is 'that every man should be left free to dispose of his own property, his own time, and strength, and skill, in whatever way he himself may think fit, provided he does no wrong to his neighbours'. In short, the dogma had got hold of the educational machine; it had become a copybook maxim. The political philosophy, which the seventeenth and eighteenth centuries had forged in order to throw down kings and prelates, had been made milk for babes, and had literally entered the nursery. Finally, in the works of Bastiat we reach the most extravagant and rhapsodical expression of the political economist's religion. In his Harmonies Économiques, I undertake [he says] to demonstrate the Harmony of those laws of Providence which govern human society. What makes these laws harmonious and not discordant is, that all principles, all motives, all springs of action, all interests, co-operate towards a grand final result ... And that result is, the indefinite approximation of all classes towards a level, which is always rising; in other words, the equalisation of individuals in the general amelioration. And when, like other priests, he drafts his Credo, it runs as follows: I believe that He who has arranged the material universe has not withheld His regard from the arrangements of the social world. I believe that He has combined and caused to move in harmony free agents as well as inert molecules ... I believe that the invincible social tendency is a constant approximation of men towards a common moral, intellectual, and physical level, with at the same time, a progressive and indefinite elevation of that level. I believe that all that is necessary to the gradual and peaceful development of humanity is that its tendencies should not be disturbed, nor have the liberty of their movements destroyed. From the time of John Stuart Mill, economists of authority have been in strong reaction against all such ideas. 'Scarcely a single English economist of repute', as Professor Cannan has expressed it, 'will join in a frontal attack upon Socialism in general,' though, as he also adds, 'nearly every economist, whether of repute or not, is always ready to pick holes in most socialistic proposals'. (Theories of Production and Distribution, p. 494). Economists no longer have any link with the theological or political philosophies out of which the dogma of social harmony was born, and their scientific analysis leads them to no such conclusions. Cairnes, in the introductory lecture on 'Political Economy and Laissez-faire', which he delivered at University College, London, in 1870, was perhaps the first orthodox economist to deliver a frontal attack upon laissez-faire in general. 'The maxim of laissezfaire', he declared, 'has no scientific basis whatever, but is at best a mere handy rule of practice.' (Cairnes well described the' prevailing notion' in the following passage from the same lecture: 'The prevailing notion is that P.E. [note: Political Economy] undertakes to show that wealth may be most rapidly accumulated and most fairly distributed; that is to say, that human well-being may be most effectually promoted by the simple process of leaving people to themselves; leaving individuals, that is to say, to follow the promptings of self-interest, unrestrained either by State or by the public opinion, so long as they abstain from force and fraud. This is the doctrine commonly known as laissezfaire; and accordingly political economy is, I think, very generally regarded as a sort of scientific rendering of this maxim - a vindication of freedom of individual enterprise and of contract as the one and sufficient solution of all industrial problems.') This, for fifty years past, has been the view of all leading economists. Some of the most important work of Alfred Marshall - to take one instance - was directed to the elucidation of the leading cases in which private interest and social interest are not harmonious. Nevertheless, the guarded and undogmatic attitude of the best economists has not prevailed against the general opinion that an individualistic laissez-faire is both what they ought to teach and what in fact they do teach. Economists, like other scientists, have chosen the hypothesis from which they set out, and which they offer to beginners because it is the simplest, and not because it is the nearest to the facts. Partly for this reason, but partly, I admit, because they have been biased by the traditions of the subject, they have begun by assuming a state of affairs where the ideal distribution of productive resources can be brought about through individuals acting independently by the method of trial and error in such a way that those individuals who move in the right direction will destroy by competition those who move in the wrong direction. This implies that there must be no mercy or protection for those who embark their capital or their labour in the wrong direction. It is a method of bringing the most successful profit-makers to the top by a ruthless struggle for survival, which selects the most efficient by the bankruptcy of the less efficient. It does not count the cost of the struggle, but looks only to the benefits of the final result which are assumed to be permanent. The object of life being to crop the leaves off the branches up to the greatest possible height, the likeliest way of achieving this end is to leave the giraffes with the longest necks to starve out those whose necks are shorter. Corresponding to this method of attaining the ideal distribution of the instruments of production between different purposes, there is a similar assumption as to how to attain the distribution of what is available for consumption. In the first place, each individual will discover what amongst the possible objects of consumption he wants most by the method of trial and error 'at the margin', and in this way not only will each consumer come to distribute his consumption most advantageously, but each object of consumption will find its way into the mouth of the consumer whose relish for it is greatest compared with that of the others, because that consumer will outbid the rest. Thus, if only we leave the giraffes to themselves, (1) the maximum quantity of leaves will be cropped because the giraffes with the longest necks will, by dint of starving out the others, get nearest to the trees; (2) each giraffe will make for the leaves which he finds most succulent amongst those in reach; and (3) the giraffes whose relish for a given leaf is greatest will crane most to reach it. In this way more and juicier leaves will be swallowed, and each individual leaf will reach the throat which thinks it deserves most effort. This assumption, however, of conditions where unhindered natural selection leads to progress, is only one of the two provisional assumptions which, taken as literal truth, have become the twin buttresses of laissez-faire. The other one is the efficacy, and indeed the necessity, of the opportunity for unlimited private money-making as an incentive to maximum effort. Profit accrues, under laissez-faire, to the individual who, whether by skill or good fortune, is found with his productive resources in the right place at the right time. A system which allows the skilful or fortunate individual to reap the whole fruits of this conjuncture evidently offers an immense incentive to the practice of the art of being in the right place at the right time. Thus one of the most powerful of human motives, namely the love of money, is harnessed to the task of distributing economic resources in the way best calculated to increase wealth. The parallelism between economic laissez-faire and Darwinianism, already briefly noted, is now seen, as Herbert Spencer was foremost to recognise, to be very close indeed. Darwin invoked sexual love, acting through sexual selection, as an adjutant to natural selection by competition, to direct evolution along lines which should be desirable as well as effective, so the individualist invokes the love of money, acting through the pursuit of profit, as an adjutant to natural selection, to bring about the production on the greatest possible scale of what is most strongly desired as measured by exchange value. The beauty and the simplicity of such a theory are so great that it is easy to forget that it follows not from the actual facts, but from an incomplete hypothesis introduced for the sake of simplicity. Apart from other objections to be mentioned later, the conclusion that individuals acting independently for their own advantage will produce the greatest aggregate of wealth, depends on a variety of unreal assumptions to the effect that the processes of production and consumption are in no way organic, that there exists a sufficient foreknowledge of conditions and requirements, and that there are adequate opportunities of obtaining this foreknowledge. For economists generally reserve for a later stage of their argument the complications which arise - (1) when the efficient units of production are large relatively to the units of consumption, (2) when overhead costs or joint costs are present, (3) when internal economies tend to the aggregation of production, (4) when the time required for adjustments is long, (5) when ignorance prevails over knowledge and (6) when monopolies and combinations interfere with equality in bargaining - they reserve, that is to say, for a later stage their analysis of the actual facts. Moreover, many of those who recognise that the simplified hypothesis does not accurately correspond to fact conclude nevertheless that it does 'represent what is 'natural' and therefore ideal. They regard the simplified hypothesis as health, and the further complications as disease. Yet besides this question of fact there are other considerations, familiar enough, which rightly bring into the calculation the cost and character of the competitive struggle itself, and the tendency for wealth to be distributed where it is not appreciated most. If we have the welfare of the giraffes at heart, we must not overlook the sufferings of the shorter necks who are starved out, or the sweet leaves which fall to the ground and are trampled underfoot in the struggle, or the overfeeding of the long-necked ones, or the evil look of anxiety or struggling greediness which overcasts the mild faces of the herd. But the principles of laissez-faire have had other allies besides economic textbooks. It must be admitted that they have been confirmed in the minds of sound thinkers and the reasonable public by the poor quality of the opponent proposals - protectionism on one hand, and Marxian socialism on the other. Yet these doctrines are both characterised, not only or chiefly by their infringing the general presumption in favour of laissez-faire, but by mere logical fallacy. Both are examples of poor thinking, of inability to analyse a process and follow it out to its conclusion. The arguments against them, though reinforced by the principle of laissez-faire, do not strictly require it. Of the two, protectionism is at least plausible, and the forces making for its popularity are nothing to wonder at. But Marxian socialism must always remain a portent to the historians of opinion - how a doctrine so illogical and so dull can have exercised so powerful and enduring an influence over the minds of men and, through them, the events of history. At any rate, the obvious scientific deficiencies of these two schools greatly contributed to the prestige and authority of nineteenth-century laissez-faire. Nor has the most notable divergence into centralised social action on a great scale - the conduct of the late war - encouraged reformers or dispelled old-fashioned prejudices. There is much to be said, it is true, on both sides. War experience in the organisation of socialised production has left some near observers optimistically anxious to repeat it in peace conditions. War socialism unquestionably achieved a production of wealth on a scale far greater than we ever knew in peace, for though the goods and services delivered were destined for immediate and fruitless extinction, none the less they were wealth. Nevertheless, the dissipation of effort was also prodigious, and the atmosphere of waste and not counting the cost was disgusting to any thrifty or provident spirit. Finally, individualism and laissez-faire could not, in spite of their deep roots in the political and moral philosophies of the late eighteenth and early nineteenth centuries, have secured their lasting hold over the conduct of public affairs, if it had not been for their conformity with the needs and wishes of the business world of the day. They gave full scope to our erstwhile heroes, the great business men. 'At least one-half of the best ability in the Western world,' Marshall used to say, 'is engaged in business.' A great part of 'the higher imagination' of the age was thus employed. It was on the activities of these men that our hopes of progress were centred. Men of this class (Marshall wrote in The Social Possibilities of Economic Chivalry, Economic Journal, XVII, 1907 - 9) live in constantly shifting visions, fashioned in their own brains, of various routes to their desired end; of the difficulties which Nature will oppose to them on each route, and of the contrivances by which they hope to get the better of her opposition. This imagination gains little credit with the people, because it is not allowed to run riot; its strength is disciplined by a stronger will; and its highest glory is to have attained great ends by means so simple that no one will know, and none but experts will even guess, how a dozen other expedients, each suggesting as much brilliancy to the hasty observer, were set aside in favour of it. The imagination of such a man is employed, like that of the master chess-player, in forecasting the obstacles which may be opposed to the successful issue of his far-reaching projects, and constantly rejecting brilliant suggestions because he has pictured to himself the counter-strokes to them. His strong nervous force is at the opposite extreme of human nature from that nervous irresponsibility which conceives hasty Utopian schemes, and which is rather to be compared to the bold facility of a weak player, who will speedily solve the most difficult chess problem by taking on himself to move the black men as well as the white. This is a fine picture of the great captain of industry, the master-individualist, who serves us in serving himself, just, as any other artist does. Yet this one, in his turn, is becoming a tarnished idol. We grow more doubtful whether it is he who will lead us into paradise by the hand. These many elements have contributed to the current intellectual bias, the mental makeup, the orthodoxy of the day. The compelling force of many of the original reasons has disappeared but, as usual, the vitality of the conclusions outlasts them. To suggest social action for the public good to the City of London is like discussing the Origin of Species with a bishop sixty years ago. The first reaction is not intellectual, but moral. An orthodoxy is in question, and the more persuasive the arguments the graver the offence. Nevertheless, venturing into the den of the lethargic monster, at any rate I have traced his claims and pedigree so as to show that he has ruled over us rather by hereditary right than by personal merit. IV Let us clear from the ground the metaphysical or general principles upon which, from time to time, laissez-faire has been founded. It is not true that individuals possess a prescriptive 'natural liberty' in their economic activities. There is no 'compact' conferring perpetual rights on those who Have or on those who Acquire. The world is not so governed from above that private and social interest always coincide. It is not so managed here below that in practice they coincide. It is not a correct deduction from the principles of economics that enlightened self-interest always operates in the public interest. Nor is it true that self-interest generally is enlightened; more often individuals acting separately to promote their own ends are too ignorant or too weak to attain even these. Experience does not show that individuals, when they make up a social unit, are always less clear-sighted than when they act separately. We cannot therefore settle on abstract grounds, but must handle on its merits in detail what Burke termed 'one of the finest problems in legislation, namely, to determine what the State ought to take upon itself to direct by the public wisdom, and what it ought to leave, with as little interference as possible, to individual exertion.' (Quoted by McCulloch in his Principles of Political Economy). We have to discriminate between what Bentham, in his forgotten but useful nomenclature, used to term Agenda and NonAgenda, and to do this without Bentham's prior presumption that interference is, at the same time, 'generally needless' and 'generally pernicious.' (Bentham's Manual of Political Economy, published posthumously, in Bowring's edition - 1843). Perhaps the chief task of economists at this hour is to distinguish afresh the Agenda of government from the Non-Agenda; and the companion task of politics is to devise forms of government within a democracy which shall be capable of accomplishing the Agenda. I will illustrate what I have in mind by two examples. (1) I believe that in many cases the ideal size for the unit of control and organisation lies somewhere between the individual and the modern State. I suggest, therefore, that progress lies in the growth and the recognition of semi-autonomous bodies within the State - bodies whose criterion of action within their own field is solely the public good as they understand it, and from whose deliberations motives of private advantage are excluded, though some place it may still be necessary to leave, until the ambit of men's altruism grows wider, to the separate advantage of particular groups, classes, or faculties - bodies which in the ordinary course of affairs are mainly autonomous within their prescribed limitations, but are subject in the last resort to the sovereignty of the democracy expressed through Parliament. I propose a return, it may be said, towards medieval conceptions of separate autonomies. But, in England at any rate, corporations are a mode of government which has never ceased to be important and is sympathetic to our institutions. It is easy to give examples, from what already exists, of separate autonomies which have attained or are approaching the mode I designate - the universities, the Bank of England, the Port of London Authority, even perhaps the railway companies. In Germany there are doubtless analogous instances. But more interesting than these is the trend of joint stock institutions, when they have reached a certain age and size, to approximate to the status of public corporations rather than that of individualistic private enterprise. One of the most interesting and unnoticed developments of recent decades has been the tendency of big enterprise to socialise itself. A point arrives in the growth of a big institution - particularly a big railway or big public utility enterprise, but also a big bank or a big insurance company - at which the owners of the capital, i.e. its shareholders, are almost entirely dissociated from the management, with the result that the direct personal interest of the latter in the making of great profit becomes quite secondary. When this stage is reached, the general stability and reputation of the institution are the more considered by the management than the maximum of profit for the shareholders. The shareholders must be satisfied by conventionally adequate dividends; but once this is secured, the direct interest of the management often consists in avoiding criticism from the public and from the customers of the concern. This is particularly the case if their great size or semi-monopolistic position renders them conspicuous in the public eye and vulnerable to public attack. The extreme instance, perhaps, of this tendency in the case of an institution, theoretically the unrestricted property of private persons, is the Bank of England. It is almost true to say that there is no class of persons in the kingdom of whom the Governor of the Bank of England thinks less when he decides on his policy than of his shareholders. Their rights, in excess of their conventional dividend, have already sunk to the neighbourhood of zero. But the same thing is partly true of many other big institutions. They are, as time goes on, socialising themselves. Not that this is unmixed gain. The same causes promote conservatism and a waning of enterprise. In fact, we already have in these cases many of the faults as well as the advantages of State Socialism. Nevertheless, we see here, I think, a natural line of evolution. The battle of Socialism against unlimited private profit is being won in detail hour by hour. In these particular fields - it remains acute elsewhere - this is no longer the pressing problem. There is, for instance, no so-called important political question so really unimportant, so irrelevant to the reorganisation of the economic life of Great Britain, as the nationalisation of the railways. It is true that many big undertakings, particularly public utility enterprises and other business requiring a large fixed capital, still need to be semi-socialised. But we must keep our minds flexible regarding the forms of this semi-socialism. We must take full advantage of the natural tendencies of the day, and we must probably prefer semiautonomous corporations to organs of the central government for which ministers of State are directly responsible. I criticise doctrinaire State Socialism, not because it seeks to engage men's altruistic impulses in the service of society, or because it departs from laissez-faire, or because it takes away from man's natural liberty to make a million, or because it has courage for bold experiments. All these things I applaude. I criticise it because it misses the significance of what is actually happening; because it is, in fact, little better than a dusty survival of a plan to meet the problems of fifty years ago, based on a misunderstanding of what someone said a hundred years ago. Nineteenth-century State Socialism sprang from Bentham, free competition, etc., and is in some respects a clearer, in some respects a more muddled version of just the same philosophy as underlies nineteenth-century individualism. Both equally laid all their stress on freedom, the one negatively to avoid limitations on existing freedom, the other positively to destroy natural or acquired monopolies. They are different reactions to the same intellectual atmosphere. (2) I come next to a criterion of Agenda which is particularly relevant to what it is urgent and desirable to do in the near future. We must aim at separating those services which are technically social from those which are technically individual. The most important Agenda of the State relate not to those activities which private individuals are already fulfilling, but to those functions which fall outside the sphere of the individual, to those decisions which are made by no one if the State does not make them. The important thing for government is not to do things which individuals are doing already, and to do them a little better or a little worse; but to do those things which at present are not done at all. It is not within the scope of my purpose on this occasion to develop practical policies. I limit myself, therefore, to naming some instances of what I mean from amongst those problems about which I happen to have thought most. Many of the greatest economic evils of our time are the fruits of risk, uncertainty, and ignorance. It is because particular individuals, fortunate in situation or in abilities, are able to take advantage of uncertainty and ignorance, and also because for the same reason big business is often a lottery, that great inequalities of wealth come about; and these same factors are also the cause of the unemployment of labour, or the disappointment of reasonable business expectations, and of the impairment of efficiency and production. Yet the cure lies outside the operations of individuals; it may even be to the interest of individuals to aggravate the disease. I believe that the cure for these things is partly to be sought in the deliberate control of the currency and of credit by a central institution, and partly in the collection and dissemination on a great scale of data relating to the business situation, including the full publicity, by law if necessary, of all business facts which it is useful to know. These measures would involve society in exercising directive intelligence through some appropriate organ of action over many of the inner intricacies of private business, yet it would leave private initiative and enterprise unhindered. Even if these measures prove insufficient, nevertheless, they will furnish us with better knowledge than we have now for taking the next step. My second example relates to savings and investment. I believe that some coordinated act of intelligent judgement is required as to the scale on which it is desirable that the community as a whole should save, the scale on which these savings should go abroad in the form of foreign investments, and whether the present organisation of the investment market distributes savings along the most nationally productive channels. I do not think that these matters should be left entirely to the chances of private judgement and private profits, as they are at present. My third example concerns population. The time has already come when each country needs a considered national policy about what size of population, whether larger or smaller than at present or the same, is most expedient. And having settled this policy, we must take steps to carry it into operation. The time may arrive a little later when the community as a whole must pay attention to the innate quality as well as to the mere numbers of its future members. These reflections have been directed towards possible improvements in the technique of modern capitalism by the agency of collective action. There is nothing in them which is seriously incompatible with what seems to me to be the essential characteristic of capitalism, namely the dependence upon an intense appeal to the money-making and money-loving instincts of individuals as the main motive force of the economic machine. Nor must I, so near to my end, stray towards other fields. Nevertheless, I may do well to remind you, in conclusion, that the fiercest contests and the most deeply felt divisions of opinion are likely to be waged in the coming years not round technical questions, where the arguments on either side are mainly economic, but round those which, for want of better words, may be called psychological or, perhaps, moral. In Europe, or at least in some parts of Europe - but not, I think, in the United States of America - there is a latent reaction, somewhat widespread, against basing society to the extent that we do upon fostering, encouraging, and protecting the money-motives of individuals. A preference for arranging our affairs in such a way as to appeal to the money-motive as little as possible, rather than as much as possible, need not be entirely a priori, but may be based on the comparison of experiences. Different persons, according to their choice of profession, find the money-motive playing a large or a small part in their daily lives, and historians can tell us about other phases of social organisation in which this motive has played a much smaller part than it does now. Most religions and most philosophies deprecate, to say the least of it, a way of life mainly influenced by considerations of personal money profit. On the other hand, most men today reject ascetic notions and do not doubt the real advantages of wealth. Moreover, it seems obvious to them that one cannot do without the money-motive, and that, apart from certain admitted abuses, it does its job well. In the result the average man averts his attention from the problem, and has no clear idea what he really thinks and feels about the whole confounded matter. Confusion of thought and feeling leads to confusion of speech. Many people, who are really objecting to capitalism as a way of life, argue as though they were objecting to it on the ground of its inefficiency in attaining its own objects. Contrariwise, devotees of capitalism are often unduly conservative, and reject reforms in its technique, which might really strengthen and preserve it, for fear that they may prove to be first steps away from capitalism itself. Nevertheless, a time may be coming when we shall get clearer than at present as to when we are talking about capitalism as an efficient or inefficient technique, and when we are talking about it as desirable or objectionable in itself. For my part I think that capitalism, wisely managed, can probably be made more efficient for attaining economic ends than any alternative system yet in sight, but that in itself it is in many ways extremely objectionable. Our problem is to work out a social organisation which shall be as efficient as possible without offending our notions of a satisfactory way of life. The next step forward must come, not from political agitation or premature experiments, but from thought. We need by an effort of the mind to elucidate our own feelings. At present our sympathy and our judgement are liable to be on different sides, which is a painful and paralysing state of mind. In the field of action reformers will not be successful until they can steadily pursue a clear and definite object with their intellects and their feelings in tune. There is no party in the world at present which appears to me to be pursuing right aims by right methods. Material poverty provides the incentive to change precisely in situations where there is very little margin for experiments. Material prosperity removes the incentive just when it might be safe to take a chance. Europe lacks the means, America the will, to make a move. We need a new set of convictions which spring naturally from a candid examination of our own inner feelings in relation to the outside facts. In Teoria generale, egli partì dalla critica della teoria neoclassica dell'occupazione dimostrando che l'aggiustamento non avveniva dal lato dei salari, ma dal lato degli investimenti. In altre parole, se c'era disoccupazione, ciò non dipendeva dal fatto che i salari fossero tenuti troppo alti dall'azione dei sindacati, ma dal fatto che era venuto meno l'incentivo a investire a causa d'una flessione dell'efficienza marginale del capitale. We take as given the existing skill and quantity of available labour, the existing quality and quantity of available equipment, the existing technique, the degree of competition, the tastes and habits of the consumer, the disutility of different intensifies of labour and of the activities of supervision and organisation, as well as the social structure including the forces, other than our variables set forth below, which determine the distribution of the national income. This does not mean that we assume these factors to be constant; but merely that, in this place and context, we are not considering or taking into account the effects and consequences of changes in them. Our independent variables are, in the first instance, the propensity to consume, the schedule of the marginal efficiency of capital and the rate of interest, though, as we have already seen, these are capable of further analysis. Our dependent variables are the volume of employment and the national income (or national dividend) measured in wage-units. The factors, which we have taken as given, influence our independent variables, but do not completely determine them. For example, the schedule of the marginal efficiency of capital depends partly on the existing quantity of equipment which is one of the given factors, but partly on the state of long-term expectation which cannot be inferred from the given factors. But there are certain other elements which the given factors determine so completely that we can treat these derivatives as being themselves given. For example, the given factors allow us to infer what level of national income measured in terms of the wage-unit will correspond to any given level of employment; so that, within the economic framework which we take as given, the national income depends on the volume of employment, i.e. on the quantity of effort currently devoted to production, in the sense that there is a unique correlation between the two.[1] Furthermore, they allow us to infer the shape of the aggregate supply functions, which embody the physical conditions of supply, for different types of products; — that is to say, the quantity of employment which will be devoted to production corresponding to any given level of effective demand measured in terms of wage-units. Finally, they furnish us with the supply function of labour (or effort); so that they tell us inter alia at what point the employment function[2] for labour as a whole will cease to be elastic. The schedule of the marginal efficiency of capital depends, however, partly on the given factors and partly on the prospective yield of capital-assets of different kinds; whilst the rate of interest depends partly on the state of liquiditypreference (i.e. on the liquidity function) and partly on the quantity of money measured in terms of wage-units. Thus we can sometimes regard our ultimate independent variables as consisting of (1) the three fundamental psychological factors, namely, the psychological propensity to consume, the psychological attitude to liquidity and the psychological expectation of future yield from capital-assets, (2) the wage-unit as determined by the bargains reached between employers and employed, and (3) the quantity of money as determined by the action of the central bank; so that, if we take as given the factors specified above, these variables determine the national income (or dividend) and the quantity of employment. But these again would be capable of being subjected to further analysis, and are not, so to speak, our ultimate atomic independent elements. The division of the determinants of the economic system into the two groups of given factors and independent variables is, of course, quite arbitrary from any absolute standpoint. The division must be made entirely on the basis of experience, so as to correspond on the one hand to the factors in which the changes seem to be so slow or so little relevant as to have only a small and comparatively negligible short-term influence on our quaesitum; and on the other hand to those factors in which the changes are found in practice to exercise a dominant influence on our quaesitum. Our present object is to discover what determines at any time the national income of a given economic system and (which is almost the same thing) the amount of its employment; which means in a study so complex as economics, in which we cannot hope to make completely accurate generalisations, the factors whose changes mainly determine our quaesitum. Our final task might be to select those variables which can be deliberately controlled or managed by central authority in the kind of system in which we actually live. Let us now attempt to summarise the argument of the previous chapters; taking the factors in the reverse order to that in which we have introduced them. There will be an inducement to push the rate of new investment to the point which forces the supply-price of each type of capital-asset to a figure which, taken in conjunction with its prospective yield, brings the marginal efficiency of capital in general to approximate equality with the rate of interest. That is to say, the physical conditions of supply in the capital-goods industries, the state of confidence concerning the prospective yield, the psychological attitude to liquidity and the quantity of money (preferably calculated in terms of wage-units) determine, between them, the rate of new investment. But an increase (or decrease) in the rate of investment will have to carry with it an increase (or decrease) in the rate of consumption; because the behaviour of the public is, in general, of such a character that they are only willing to widen (or narrow) the gap between their income and their consumption if their income is being increased (or diminished). That is to say, changes in the rate of consumption are, in general, in the same direction (though smaller in amount) as changes in the rate of income. The relation between the increment of consumption which has to accompany a given increment of saving is given by the marginal propensity to consume. The ratio, thus determined, between an increment of investment and the corresponding increment of aggregate income, both measured in wage-units, is given by the investment multiplier. Finally, if we assume (as a first approximation) that the employment multiplier is equal to the investment multiplier, we can, by applying the multiplier to the increment (or decrement) in the rate of investment brought about by the factors first described, infer the increment of employment. An increment (or decrement) of employment is liable, however, to raise (or lower) the schedule of liquidity-preference; there being three ways in which it will tend to increase the demand for money, inasmuch as the value of output will rise when employment increases even if the wage-unit and prices (in terms of the wage-unit) are unchanged, but, in addition, the wage-unit itself will tend to rise as employment improves, and the increase in output will be accompanied by a rise of prices (in terms of the wage-unit) owing to increasing cost in the short period. Thus the position of equilibrium will be influenced by these repercussions; and there are other repercussions also. Moreover, there is not one of the above factors which is not liable to change without much warning, and sometimes substantially. Hence the extreme complexity of the actual course of events. Nevertheless, these seem to be the factors which it is useful and convenient to isolate. If we examine any actual problem along the lines of the above schematism, we shall find it more manageable; and our practical intuition (which can take account of a more detailed complex of facts than can be treated on general principles) will be offered a less intractable material upon which to work. The above is a summary of the General Theory. But the actual phenomena of the economic system are also coloured by certain special characteristics of the propensity to consume, the schedule of the marginal efficiency of capital and the rate of interest, about which we can safely generalise from experience, but which are not logically necessary. In particular, it is an outstanding characteristic of the economic system in which we live that, whilst it is subject to severe fluctuations in respect of output and employment, it is not violently unstable. Indeed it seems capable of remaining in a chronic condition of sub-normal activity for a considerable period without any marked tendency either towards recovery or towards complete collapse. Moreover, the evidence indicates that full, or even approximately full, employment is of rare and short-lived occurrence. Fluctuations may start briskly but seem to wear themselves out before they have proceeded to great extremes, and an intermediate situation which is neither desperate nor satisfactory is our normal lot. It is upon the fact that fluctuations tend to wear themselves out before proceeding to extremes and eventually to reverse themselves, that the theory of business cycles having a regular phase has been founded. The same thing is true of prices, which, in response to an initiating cause of disturbance, seem to be able to find a level at which they can remain, for the time being, moderately stable. Now, since these facts of experience do not follow of logical necessity, one must suppose that the environment and the psychological propensities of the modern world must be of such a character as to produce these results. It is, therefore, useful to consider what hypothetical psychological propensities would lead to a stable system; and, then, whether these propensities can be plausibly ascribed, on our general knowledge of contemporary human nature, to the world in which we live. The conditions of stability which the foregoing analysis suggests to us as capable of explaining the observed results are the following: (i) The marginal propensity to consume is such that, when the output of a given community increases (or decreases) because more (or less) employment is being applied to its capital equipment, the multiplier relating the two is greater than unity but not very large. (ii) When there is a change in the prospective yield of capital or in the rate of interest, the schedule of the marginal efficiency of capital will be such that the change in new investment will not be in great disproportion to the change in the former ; i.e. moderate changes in the prospective yield of capital or in the rate of interest will not be associated with very great changes in the rate of investment. (iii) When there is a change in employment, money-wages tend to change in the same direction as, but not in great disproportion to, the change in employment; i.e. moderate changes in employment are not associated with very great chances in money-wages. This is a condition of the stability of prices rather than of employment. (iv) We may add a fourth condition, which provides not so much for the stability of the system as for the tendency of a fluctuation in one direction to reverse itself in due course; namely, that a rate of investment, higher (or lower) than prevailed formerly, begins to react unfavourably (or favourably) on the marginal efficiency of capital if it is continued for a period which, measured in years, is not very large. (i) Our first condition of stability, namely, that the multiplier, whilst greater than unity, is not very great, is highly plausible as a psychological characteristic of human nature. As real income increases, both the pressure of present needs diminishes and the margin over the established standard of life is increased; and as real income diminishes the opposite is true. Thus it is natural — at any rate on the average of the community — that current consumption should be expanded when employment increases) but by less than the full increment of real income; and that it should be diminished when employment diminishes, but by less than the full decrement of real income. Moreover, what is true of the average of individuals is likely to be also true of governments especially in an age when a progressive increase of unemployment will usually force the State to provide relief out of borrowed funds. But whether or not this psychological law strikes the reader as plausible a priori, it is certain that experience would be extremely different from what it is if the law did not hold. For in that case an increase of investment, however small, would set moving a cumulative increase of effective demand until a position of full employment had been reached; while a decrease of investment would set moving a cumulative decrease of effective demand until no one at all was employed. Yet experience shows that we are generally in an intermediate position. It is not impossible that there may be a range within which instability does in fact prevail. But, if so, it is probably a narrow one, outside of which in either direction our psychological law must unquestionably hold good. Furthermore, it is also evident that the multiplier, though exceeding unity, is not, in normal circumstances, enormously large. For, if it were, a given change in the rate of investment would involve a great change (limited only by full or zero employment) in the rate of consumption. (ii) Whilst our first condition provides that a moderate change in the rate of investment will not involve an indefinitely great change in the demand for consumption-goods our second condition provides that a moderate change in the prospective yield of capital-assets or in the rate of interest will not involve an indefinitely great change in the rate of investment. This is likely to be the case owing to the increasing cost of producing a greatly enlarged output from the existing equipment. If, indeed, we start from a position where there are very large surplus resources for the production of capital-assets, there may be considerable instability within a certain range; but this will cease to hold good as soon as the surplus is being largely utilised. Moreover, this condition sets a limit to the instability resulting from rapid changes in the prospective yield of capital-assets due to sharp fluctuations in business psychology or to epoch-making inventions — though more, perhaps, in the upward than in the downward direction. (iii) Our third condition accords with our experience of human nature. For although the struggle for money-wages is, as we have pointed out above, essentially a struggle to maintain a high relative wage, this struggle is likely, as employment increases, to be intensified in each individual case both because the bargaining position of the worker is improved and because the diminished marginal utility of his wage and his improved financial margin make him readier to run risks. Yet, all the same, these motives will operate within limits, and workers will not seek a much greater money-wage when employment improves or allow a very great reduction rather than suffer any unemployment at all. But here again, whether or not this conclusion is plausible a priori, experience shows that some such psychological law must actually hold. For if competition between unemployed workers always led to a very great reduction of the moneywage, there would be a violent instability in the price-level. Moreover, there might be no position of stable equilibrium except in conditions consistent with full employment; since the wage-unit might have to fall without limit until it reached a point where the effect of the abundance of money in terms of the wageunit on the rate of interest was sufficient to restore a level of full employment. At no other point could there be a resting-place. (iv) Our fourth condition, which is a condition not so much of stability as of alternate recession and recovery, is merely based on the presumption that capitalassets are of various ages, wear out with time and are not all very long-lived; so that if the rate of investment falls below a certain minimum level, it is merely a question of time (failing large fluctuations in other factors) before the marginal efficiency of capital rises sufficiently to bring about a recovery of investment above this minimum. And similarly, of course, if investment rises to a higher figure than formerly, it is only a question of time before the marginal efficiency of capital falls sufficiently to bring about a recession unless there are compensating changes in other factors. For this reason, even those degrees of recovery and recession, which can occur within the limitations set by our other conditions of stability, will be likely, if they persist for a sufficient length of time and are not interfered with by changes in the other factors, to cause a reverse movement in the opposite direction, until the same forces as before again reverse the direction. Thus our four conditions together are adequate to explain the outstanding features of our actual experience; — namely, that we oscillate, avoiding the gravest extremes of fluctuation in employment and in prices in both directions, round an intermediate position appreciably below full employment and appreciably above the minimum employment a decline below which would endanger life. But we must not conclude that the mean position thus determined by “natural” tendencies, namely, by those tendencies which are likely to persist, failing measures expressly designed to correct them, is, therefore, established by laws of necessity. The unimpeded rule of the above conditions is a fact of observation concerning the world as it is or has been, and not a necessary principle which cannot be changed. Il capitale. Il capitale è l'opera più famosa di Marx e anche la più controversa. "Il capitale" è sempre stato letto, infatti, come un libro di economia nel quale Marx analizza il processo di accumulazione del capitale. In realtà, "Il capitale" è un libro di filosofia costruito attorno a quella che Il'enkov chiamò la dialettica dell'astratto e del concreto. Come Marx scrisse infatti nella "Einleintung", "il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni e unità del molteplice". E' per questo motivo, notò Marx, che esso appare nel pensiero come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza, benché sia l'effettivo punto di partenza. Ed è per questo motivo, spiegò Marx, che Hegel cadde nell'illusione di concepire il reale come il risultato del pensiero automoventesi, del pensiero che abbraccia e approfondisce sé in se stesso, mentre il metodo di salire dall'astratto al concreto è solo il modo il cui il pensiero si appropria del concreto. In altre parole, Marx, dopo aver svelato in "Critica della filosofia hegelana del diritto pubblico" quello che Della Volpe chiamò il falso mobile della dialettica hegeliana, si propose di rimettere la dialettica hegeliana con i piedi per terra. Ovvero, per usare le parole di Marx, di isolare il nucleo razionale dentro il guscio mistico della dialettica hegeliana. "Il capitale" rappresenta il tentativo operato da Marx in questo senso. Ne è uscita un'opera ponderosa e di difficile lettura a causa del linguaggio spesso astruso e oscuro usato da Marx, il quale non era un economista ma era un filosofo laureatosi con una tesi sulle filosofie di Democrito e di Epicuro. Scopo di "Il capitale" era quello di fornire alla classe operaia l'arma per combattere la borghesia nel campo della teoria. Come Marx aveva scritto infatti in "Critica della filosofia del diritto di Hegel", se è vero che una potenza materiale può essere abbattuta soltanto da un'altra potenza materiale, è anche vero che la teoria diventa forza materiale non appena penetra fra le masse. "Il capitale" venne pubblicato nel 1867, solo alcuni anni prima della pubblicazione di "Teoria dell'economia politica" di Jevons la quale inaugurò la cosiddetta "rivoluzione marginalista che getttò alle ortiche la teoria del valore-lavoro sulla quale era stato costruito "Il capitale" e propose una nuova teoria del valore basata sul concetto di utilità. Secondo la teoria del valore-lavoro, i beni avevano valore in quanto prodotti del lavoro umano e il tempo di lavoro impiegato nella loro produzione era la misura del loro valore. Come Marx aveva infatti scritto in "Per la critica dell'economia politica", il valore d'uso è la base materiale in cui si presenta il valore di scambio, la cui misura è il tempo di lavoro socialmente necessario a produrre una merce. Secondo la nuova teoria, i beni avevano valore, come scrisse Wicksell, "soltanto in virtù della loro utilità, vale a dire, del godimento e della soddisfazione che ci danno, oppure, della quantità di pena e disagio dalla quale ci liberano". In tale contesto, il lavoro era considerato come un bene qualsiasi e il lavoratore era considerato un imprenditore di se stesso che prendeva le proprie decisioni riguardanti il bene che possedeva in base ad un calcolo di utilità e di disutilità, ovvero, di soddisfazione e disagio. La questione è di grande importanza. La teoria del valore-lavoro e la teoria del valore basata sull'utilità esprimevano due differenti visioni del mondo che caratterizzarono due epoche: l'epoca del ascesa della borghesia e l'epoca del trionfo della borghesia. In questo quadro, "Il capitale appartiene al novero delle grandi opere classiche come "La ricchezza delle nazioni" e i "Principi di economia " di Ricardo. Per Marx, il capitalismo è una formazione economico-sociale storica. Esso è apparso in una certa epoca della storia ed è destinato, a causa delle proprie contraddizioni interne, a lasciare posto ad un'altra e superiore formazione economico-sociale. "Il capitale" è dedicato all'analisi delle suddette contraddizioni e all'enunciazione di tre grandi leggi: la legge della proletarizzazione crescente dei ceti medi, la legge dell'immiserimento crescente del proletariato, la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. In termini formali, se C= capitale costante V=salari S=plusvalore q=composizione organica del capitale= C/V s=saggio di sfruttamento =S/V p= S/C+V=saggio di profitto vediamo che, rimanendo costante il saggio di sfruttamento s, p diminuisce all'aumentare di q, ovvero p=s/1-q L'errore di Marx consistette nel mantenere s costante, laddove è evidente che nel corso del processo di accumulazione non aumenta solo la dotazione di capitale, ma aumenta anche la produttività del lavoro, ovvero, quello che Marx chiamò saggio di sfruttamento s. In questo quadro, vanno inserite le altre due grandi leggi marxiane: la legge dell'impoverimento crescente della classe operaia, la legge della proletarizzazione crescente dei ceti medi. Ora, non occorre ricordare che nessuna di queste leggi è andata a fagiolo. Il motivo è da rintracciarsi nel fatto che il capitalismo ha dimostrato una capacità di rinnovamento che Marx no aveva nemmeno sospettato. Non solo, nel conto va messo anche l'effetto che la nascita e lo sviluppo delle organizzazioni operaie hanno avuto sull'evoluzione politica dei paesi capitalistici avanzati che permise l'introduzione di nuove leggi a protezione dei lavoratori, l'introduzione delle assicurazioni sociali e così via, fino alla creazione del moderno stato sciale. A questo punto, qualcuno potrebbe chiedere per quale motivo dovremmo leggere un'opera che è stata così gravemente contraddetta dai fatti. A tale domanda si può rispondere in due modi. O nel modo di chi intende salvare “Il capitale” a tutti i costi come hanno fatto numerosi marxisti cercando di riformulare, spesso in modo immaginoso, le equazioni di Marx; oppure si può rifare a ritroso il percorso fatto da Marx per giungere alla stesura di “Il capitale” e scoprire l'attualità dell'opera di Marx. Per capire “Il capitale” occorre partire dalla fine, dal terzo libro di “Il capitale” e precisamente dalle pagine in cui Marx affronta il problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione. Tale problema non venne risolto da Marx. Marxisti e critici di Marx hanno tentato di risolverlo per via matematica. In realtà nella mancata soluzione del problema è nascosto il motivo dell'attualità dell'opera di Marx. Nella mancata soluzione del problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione sta il segreto della crisi del capitalismo, la ragione per la quale ad un certo punto il processo di accumulazione si interrompe e scoppia la crisi. Gli analisti finanziari parlano di “fondamentali”. Marx parlava di valori. Il problema di fondo è il medesimo e medesimo è anche l'effetto ultimo. In questo contesto, diventa fondamentale l'analisi marxiana del denaro esposta nei “Lineamenti fondamentali d'una critica dell'economia politica” Come scrisse infatti Marx, “ciò che rende particolarmente difficile la comprensione del denaro nella sua determinazione di denaro è che qui un rapporto sociale, una determinata relazione fra individui si presenta come metallo, come pietra, come oggetto puramente materiale esterno ad essi, il quale come tale viene trovato in natura e nel quale non resta più da distinguere , dalla sua esistenza naturale, neppure una determinazione formale”. Oggi le banche hanno sostituito la natura e l'oro è stato sostituito dai derivati. Come dire che il processo di alienazione si è ulteriormente perfezionato fino a trasformare la realtà in feticcio: che esattamente ciò che Marx voleva dire in “Il capitale”. In tal senso, “I capitale” chiude un percorso di ricerca iniziato con i “Manoscritti economico-filosofici” del 1844, dove Marx elabora il concetto di alienazione capitalistica. “Questo fatto, scrisse Marx, non esprime altro che questo: che l'oggetto, prodotto del lavoro, prodotto suo, sorge di fronte al lavoro come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, che si è fatto oggettivo: è l'oggettivazione del lavoro” che diventa “espropriazione dell'operaio, come alienazione”. Ciò significa, come scrisse Marx nei “Lineamenti” che “nessuna forma di lavoro salariato, sebbene possa eliminare gli inconvenienti dell'altra, può eliminare gli inconvenienti del lavoro salariato stesso”, vale a dire l'alienazione del lavoratore nel prodotto del suo lavoro. Solo l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione potrà fare una cosa del genere. Ciò non avverrà per una decisione dall'alto, ma sarà il punto di arrivo di un lungo processo storico che creerà le basi per il superamento della proprietà privata dei mezzi di produzione e scambio. Questo fatto comporterà il superamento della vecchia forma di calcolo economico fondato sul principio della massimizzazione del profitto e darà vita ad una nuova forma di calcolo economico fondato sulla ricerca del benessere collettivo. Molte sono state le critiche rivolte all'opera di Marx. Quella più interessante è stata mossa da Baran e da Sweezy in “Il capitale monopolistico”. Secondo i due economisti marxisti americani, “l'analisi marxista del capitalismo, in fondo riposa ancora sul presupposto di un'economia concorrenziale.” In altre parole, secondo Baran e Sweezy, è assente in Marx un'analisi della società per azioni gigante che costituisce oggi il nerbo del capitalismo contemporaneo. L'analisi del modus operandi della società per azioni gigante porta Baran e Sweezy a abbandonare la teoria del valore-lavoro di Marx e a sostituire alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto con la legge della tendenza del surplus economico effettivo ad aumentare, in virtù delle pratiche monopolistiche messe in atto dalla società per azioni gigante che la porta ad accumulare un eccesso di capacità produttiva. Baran e Sweezy basano la loro analisi sui dati contenuti nel rapporto del Kefauver Commitee sull'industria dell'auto. Secondo tale rapporto presentato nel 1957, la General Motors produsse nel 1957 3,4 milioni di automobili da essa vendute ad un prezzo medio di 2213 dollari l'una. I costi variabili ammontarono a 1350 dollari l'una, lasciando 863 dollari per spese generali e profitti. Le spese generali ammontarono a 1870 milioni di dollari, le quali, ripartite fra tutte le automobili prodotte, produssero profitti per 313 dollari ad automobile. Il “punto di rottura”, corrispondente ad un profitto pari a zero, era stato calcolato nel 65% delle vendite del 1957. La tendenza del surplus economico effettivo ad aumentare poneva il problema del suo assorbimento che veniva risolto attraverso il consumo dei capitalisti, la promozione delle vendite, le spese militari, gli investimenti esteri, in una parola, attraverso le tradizionali pratiche imperialistiche. Tali pratiche erano state studiate da Lenin in “Imperialismo fase suprema del capitalismo”. Nella sua opera pubblicata nel nell'aprile del 1917, Lenin notava che “la concorrenza si trasforma in monopolio. Ne risulta un immenso processo di socializzazione della produzione. In particolare, si socializza il processo dei miglioramenti e delle invenzioni tecniche.... Viene socializzata la produzione ma l'appropriazione dei prodotti rimane privata.” Nello stesso tempo, notava Lenin, “si sviluppa, per così dire, un'unione personale tra banca e le maggiori imprese industriali mediante il possesso di azioni o l'entrata degli uomini delle banche nei consigli di amministrazione delle imprese industriali”,. L'unione personale delle banche con l'industria è completata dall'unione personale di entrambe con il governo. Ciò, notava Lenin, portandoci ai nostri giorni, ha favorito, da un lato, la fusione, se non la simbiosi, del capitale bancario col capitale industriale, e dall'altro lato al trasformarsi delle banche in istituzioni veramente di carattere universale. Dal punto di vista teorico, come aveva spiegato Hilferding in “il capitale finanziario”, l'avvento del capitale finanziario aveva portato ad una rottura del processo D-M-M'-D' e alla creazione di un nuovo ramo D-D' che rappresentava il processo in base al quale il denaro si auto-valorizzava in virtù della sola speculazione finanziaria che generava un nuovo genere di crisi di carattere finanziario destinata a trasformarsi in crisi bancaria ed industriale n virtù degli stretti collegamenti esistenti tra banca e industria. Il modello neokeynesiano. L'applicazione concreta delle tesi di Keynes non si ebbe immediatamente, con il cosiddetto New Deal Rooseveltiano, ma molto più tardi, nel secondo dopoguerra. In effetti, le idee keynesiane cominciarono ad essere sostenute con vigore e convinzione solo alla fine della seconda guerra mondiale, e finirono per essere accettate ed applicate solo negli anni ’60, quando la loro affermazione intellettuale si accompagnò ad una diminuita opposizione all’interventismo da parte della classe politica e degli uomini di affari. Nel frattempo, la leadership economica e politica era passata dall’Europa agli Stati Uniti. A partire dal secondo dopoguerra, quasi tutti gli sviluppi teorici dell’analisi keynesiana avvengono ad opera di economisti americani. Nell’immediato dopoguerra, gli ostacoli all’accettazione delle idee keynesiane erano molteplici: la tradizionale mentalità ciclica (i cicli facevano parte dell’ordine naturale delle cose ed erano perciò ineliminabili); il pregiudizio della derivata prima (se la direzione del cambiamento era positiva, ed il reddito continuava a crescere, ciò era sufficiente ac acquietare l’opinione pubblica); l’ipotesi di disoccupazione strutturale (per cui la disoccupazione era dovuta alle caratteristiche specifiche del mercato del lavoro e non ad una insufficienza della AD); il principio della sana finanza ortodossa, per cui il bilancio pubblico doveva essere rigorosamente in pareggio. La conquista del primato ideologico da parte della teoria neokeynesiana e la conseguente investitura ufficiale come corrente di pensiero dominante avvenne nei primi anni ’60 negli Stati Uniti con l’Amministrazione Kennedy, la quale propose un programma di politica economica decisamente innovativo, ispirato dall’impostazione teorica della cosiddetta New Economics. Tale denominazione voleva sottolineare il fatto che essa rappresentava un nuovo approccio alla macroeconomia, diverso dall’ortodossia neoclassica. Nella realtà, però, la base teorica della New Economics era un compromesso tra la Teoria Generale di Keynes e la stessa Teoria Neoclassica, presto denominata in letteratura con il termine “Sintesi neoclassica di Keynes”. Tale sintesi era di natura sia positiva, con riferimento alla teoria, sia normativo, con riferimento alla politica economica. 1. La sintesi nel campo dell’analisi teorica. Nonostante i principi ispiratori e le finalità della New Economics fossero tipicamente keynesiani, lo schema di base era decisamente mutato rispetto a quello della Teoria Generale. In particolare i nessi causali keynesiani, riconducibili allo schema: M i I Y N P L L EMC PmaC,G W Y sono giustificati dal rilievo attribuito al tempo storico, alle aspettative ed alle difformi velocità di aggiustamento dei vari mercati. Tali nessi vengono eliminati dal modello della sintesi neoclassica, a favore di uno schema di equilibrio generale in cui si cerca la combinazione di Y e di i in grado di eguagliare domanda e offerta su entrambi i mercati dei beni e della moneta. Tale modello è dovuto ai contributi di Hicks, Hansen, Modigliani e Patinkin, ed è noto in letteratura con il nome di MODELLO IS-LM. Questo schema, in generale, rappresenta una pesante deviazione dal pensiero keynesiano, in quanto il ruolo del tempo storico viene eliminato, le aspettative vengono esogenizzate, e le diverse velocità di aggiustamento sui vari mercati sono eliminate, pur accettando la possibilità che le curve IS-LM, che restano indipendenti, possano subire spostamenti. Il modello si caratterizza per il sistema di equazioni simultanee: IS: Y = C(Y,T,R) + I(i) + G LM: M/P = L(Y,i,R) La IS è costituita dal luogo delle coppie (Y,i) per cui il mercato dei beni è in equilibrio, mentre la LM è costituita dal luogo delle coppie (Y,i) per cui il mercato della moneta è in equilibrio. Nel modello la ricchezza (R) è costituita sia dalla componente finanziaria (M+B)/P, sia dalla componente reale Kq, dove K è lo stock di capitale e q è il rapporto fra il valore di mercato e il costo di riproduzione dei beni capitali. Si suppone inoltre che allo stock di capitale corrisponda un analogo valore delle azioni emesse. Nello schema IS-LM la flessibilità di prezzi e salari è teoricamente in grado di riportare il sistema al livello di piena occupazione. Infatti, in presenza di disoccupazione, se cadono i salari monetari, cadranno anche i prezzi, con un conseguente spostamento verso destra sia della IS (a causa dell’aumento dei saldi di cassa reali e conseguentemente dei consumi) sia della LM (a causa dell’aumento dell’offerta reale di moneta). Il processo descritto è necessariamente convergente una volta esclusi i possibili effetti destabilizzanti di cambiamenti nelle aspettative o della deflazione sui debiti delle imprese. In conclusione, pertanto, con la New Economics la rigidità del salario monetario W torna ad essere la causa di fondo della disoccupazione (proprio come nella teoria neoclassica), nonostante si riconosca che dal punto di vista pratico il processo riequilibratore automatico sia lento ed oneroso. 2. La sintesi sul terreno della politica economica Mentre l’equilibrio di sottoccupazione keynesiano costituisce un’impossibilità (e una contraddizione) logica in presenza di W e P flessibili, per cui, secondo la sintesi neoclassica, la teoria di Keynes è teoricamente erronea, dal punto di vista operativo essa si presenta invece utile nel suggerire provvedimenti in grado di raggiungere più rapidamente il livello di piena occupazione. In effetti lo strumento più appropriato a tale fine è la politica fiscale, che consente di stimolare direttamente e con effetti più potenti la AD. Rispetto alla possibilità di utilizzare la politica economica al fine di raggiungere il pieno impiego, le argomentazioni neokeynesiane possono essere distinte in due fasi cronologicamente successive, a seconda delle ipotesi avanzate sulla pendenza relativa delle curve IS e LM. I FASE: IL FISCALISMO KEYNESIANO (ANNI ‘50) In una prima fase, corrispondente agli anni ’50, la teoria neokeynesiana viene identifica con una posizione di tipo “fiscalista” (sulla base delle considerazioni che si illustreranno tra poco). In tale prospettiva le tesi di Keynes vengono interpretate in senso statico: l’investimento, poco sensibile al tasso di interesse, determina una IS rigida; mentre la domanda di moneta, molto sensibile al tasso di interesse, dà origine ad una LM elastica. L’inclinazione relativa delle curve IS e LM, corrispondenti a questa visione originaria dei neokeynesiani nei primi anni ’50, è rappresentata nella figura 1. A causa della configurazione delle due curve, ne consegue che spostamenti della IS, generati da shock della AD o da politiche fiscali governativi, generano ampie fluttuazioni del reddito. A motivo del fatto che la LM è molto piatta, inoltre, il moltiplicatore effettivo del reddito non è di molto inferiore a quello potenziale ed il fenomeno del crowding-out, pur presente ed inevitabile, è abbastanza limitato. Per contro, nello stesso schema, la politica monetaria non è quasi per nulla efficace: la scarsa pendenza della curva fa sì infatti che incrementi anche notevoli dell’offerta di moneta generino variazioni limitate dei tassi di interesse; queste ultime, poi, a motivo della rigidità della IS, hanno scarsi effetti sull’investimento. Di qui il significato del termine “fiscalismo”, attribuito alle prime versioni della New Economics degli anni ’50: nel modello rappresentato dalla fig. 1, la politica monetaria è praticamente inefficace, mentre la politica fiscale è molto potente. Volendo estremizzarne le conclusioni, si potrebbe in effetti affermare che “solo la politica fiscale conta, mentre la moneta non conta”. Fig. 1. Politica fiscale e shock della AD nel modello keynesiano “fiscalista” i LM IS IS’ Y* Y II FASE: IL MODELLO GENERALE DI CONSENSO (ANNI ‘60) A seguito delle critiche monetariste al modello fiscalista (che saranno esaminate nel prossimo capitolo), l’originario punto di vista neokeynesiano muta sensibilmente, con il risultato di produrre un modello di consenso la cui struttura di fondo diventa accettabile tanto dai monetaristi quanto dai keynesiani. Questo modello di consenso è il tradizionale modello IS-LM dei libri di testo, dove, rispetto alla versione fiscalista originaria, sono mutate le pendenze relative delle due curve: la IS è meno rigida, la LM è meno elastica. Tali modifiche sottendono una rivalutazione del ruolo della politica monetaria, negato negli anni ’50. Con l’accettazione del modello di consenso si aprono però nuove prospettive nella gestione della politica economica: tanto la politica monetaria quanto quella fiscale possono infatti essere adottate per raggiungere Y*, adottando un “policy mix” che consente di ottenere più obiettivi, con diverse strutture della AD. In effetti, avendo a disposizione due strumenti (politica monetaria e politica fiscale), risulta riduttivo puntare ad un solo obiettivo (il pieno impiego), ma diventa ragionevole perseguire obiettivi più ambiziosi quali: un obiettivo statico: la piena occupazione; un obiettivo dinamico: la crescita economica. In particolare, il primo obiettivo è facilmente raggiungibile, tramite diverse combinazioni di politica monetaria e fiscale, mentre per ottenere il secondo occorre favorire un uso più intenso della politica monetaria, volto a stimolare una maggiore accumulazione di capitale, essendo g = g(I). La combinazione ottimale della politica monetaria e fiscale, ovvero il policy mix di lungo periodo ideale per ottenere i due obiettivi del pieno impiego e della crescita, è mostrato nella figura 2. Come si può osservare, mentre il pieno impiego può essere ottenuto sia con una politica monetaria espansiva ed una concomitante politica fiscale restrittiva (punto A) o con una combinazione esattamente opposta (punto B), solo la prima combinazione consente di stimolare la crescita, tramite tassi di interesse bassi e perciò investimenti elevati. Fig. 2. Il “policy mix” ideale di lungo periodo i LM LM’ B A IS’ IS Y* Y È appena il caso di osservare che, in un mondo dominato dalla guerra fredda, ed in cui la supremazia tecnologica degli Stati Uniti era stata messa in dubbio dai successi spaziali sovietici, i Consiglieri economici neokeynesiani di Kennedy suggerirono al Presidente la combinazione corrispondente al punto A: una strategia che si rivelò in seguito vincente, grazie al recupero della superiorità tecnologica americana, che si finì con lo stimolare. Il policy mix ideale di lungo periodo sopra illustrato appare del resto coerente con la logica della sintesi neoclassica: nel breve periodo qualsiasi manovra della AD è utile per neutralizzare scostamenti di Y da Y*; ma nel lungo periodo rimangono valide le indicazioni neoclassiche sui fattori determinanti il tasso di crescita del sistema economico, ovvero maggiori dotazioni di fattori produttivi (lavoro e capitale) e ritmo del progresso tecnologico. Il policy mix precedentemente discusso riguarda la combinazione ottimale di politica monetaria e fiscale in un’ottica di lungo periodo. Anche nel breve periodo tuttavia è possibile sostenere l’esistenza di un policy mix ottimale. In particolare, i sostenitori della New Economics ritenevano possibile una stabilizzazione completa delle fluttuazioni cicliche, attraverso un FINE TUNING degli strumenti disponibili. L’esistenza di stabilizzatori automatici, proposti dagli stessi economisti keynesiani, serviva a smussare le fluttuazioni, ma essi non erano tuttavia sufficienti a stabilizzare completamente l’economia, continuamente sottoposta a shock di AD esogeni. In particolare gli stabilizzatori automatici potevano ridurre l’ampiezza ma non la durata delle fluttuazioni; inoltre gli shock esogeni potevano essere particolarmente accentuati. Si suggerivano quindi politiche discrezionali di stabilizzazione anticiclica, le quali, come si osserverà fra poco, implicavano un policy mix di breve periodo ben preciso. Vale la pena di osservare peraltro come con la New Economics si registra in tal modo un ulteriore allontanamento rispetto alla posizione originaria di Keynes: il problema non è più raggiungere N*, ma piuttosto quello di ridurre le fluttuazioni di Y intorno a Y*. La politica economica assume così caratteristiche ed obiettivi di “STABILIZZAZIONE”, ovvero ci si propone di minimizzare σ 2Y , inteso come minimizzazione dell’ampiezza e della durata delle fluttuazioni cicliche intorno al reddito potenziale o di pieno impiego. Nell’affrontare gli shock di breve periodo, però, gli strumenti di politica fiscale e monetaria non hanno lo stesso ruolo: la politica monetaria ha effetti asimmetrici, e risulta quindi più utile ed efficace, oltre che rapida, nel reprimere eventuali boom inflazionistici; la politica fiscale, invece, è più idonea ad affrontare situazioni di temporanea depressione, quando le aspettative sono pessimistiche, mettendo in moto effetti moltiplicativi sulla AD. Rispetto a Keynes, infine, la New Economics si contraddistingue per l’enfasi posta sulla tassazione, piuttosto che sulla sola spesa pubblica, come strumento di bilancio: se lo scopo delle autorità di Governo è quello di stabilizzare il reddito, cambiamenti del regime fiscale, soprattutto se di carattere temporaneo, modificano la convenienza temporale a consumare, e diventano un importante strumento di fine tuning. L’uso della tassazione, anziché della spesa pubblica, non implica possibili contrasti tra interessi privati e pubblici, impliciti nelle decisioni di spesa. Essa lascia inoltre pienamente nelle mani dei privati, tramite l’aumento del reddito disponibile e dei consumi, lo stimolo ad aumentare produzione ed occupazione. Dal punto di vista dell’uso della tassazione, vale la pena tuttavia di osservare che il suo moltiplicatore, peraltro negativo, è inferiore, in valore assoluto, a quello della spesa pubblica diretta, ovvero della spesa per acquisto di beni e servizi: ciò è dovuto al fatto che mentre tale tipo di spesa aumenta la domanda direttamente, mettendo quindi in moto l’operare del moltiplicatore dei consumi, la tassazione influisce anzitutto sul reddito disponibile, e solo tramite questo, sulla spesa per consumi, e quindi indirettamente sulla domanda aggregata. Se per esempio la tassazione è di tipo lump-sum, e la propensione marginale al consumo è pari a c, il moltiplicatore della spesa pubblica diretta sarà 1/(1c), mentre quello della tassazione sarà –c/(1-c). Naturalmente se la spesa pubblica è di tipo per trasferimenti (pensioni, sussidi, pagamenti di interessi, ecc.), il suo moltiplicatore sarà analogo a quello della tassazione, ovvero pari a c/(1-c). L’esistenza di moltiplicatori difformi per la spesa pubblica e la tassazione consente di attribuire un ulteriore grado di flessibilità alla politica fiscale. Si immagini infatti di aumentare la spesa pubblica diretta e la tassazione di uno stesso ammontare: G=T, di modo che la misura sia ininfluente sul bilancio dello Stato, che non muta (per questo si parla di bilancio in pareggio). A motivo della difformità dei moltiplicatori, la misura non avrà effetti nulli sul reddito, ma anzi quest’ultimo aumenterà nella stessa misura in cui sono aumentate tasse e spese, per cui avremo: YG=T (per cui potremo parlare di “moltiplicatore del bilancio in pareggio”). Questo risultato appare in contrasto con l’ortodossia tradizionale, secondo la quale qualsiasi manovra di bilancio in pareggio sarebbe ininfluente sul livello della produzione. Dal punto di vista pratico, inoltre, la manovra si presenta utile perché aumenta gli strumenti a disposizione delle autorità, consentendo inoltre di utilizzare una manovra che si sottrae alla critica di generare indesiderati disavanzi di bilancio. Gli insegnamenti fiscali keynesiani sopra illustrati furono messi in pratica dalla Amministrazioni Kennedy e Johnson nei primi anni ’60: robusti tagli fiscali permisero di contrastare la diminuzione spontanea della domanda che avrebbe generato effetti negativi su reddito e occupazione. IL MODELLO MUNDELL-FLEMING (ANNI ‘60) Con l’aumentare delle transazioni di beni, servizi e capitali con il resto del mondo, nel corso degli anni ’60 diventava necessario considerare esplicitamente le caratteristiche di un’economia aperta; ciò ha importanti conseguenze per l’uso più appropriato degli strumenti di politica economica per fini alternativi. In un’economia aperta, l’obiettivo esterno è rappresentato dall’equilibrio della Bilancia dei Pagamenti (BP), così definibile: BP = BPC+MC = NX(Y,E)+K(i-i*- Ė e ) = X(E)-EM(Y,E)+K(i-i*- Ė e ) La bilancia dei pagamenti sarà pertanto in equilibrio se: BP = X(E)-EM(Y,E)+K(i-i*- Ė e ) = 0 Il modello elaborato negli anni ‘60 da Mundell e Fleming ha per oggetto l’uso appropriato della politica monetaria e politica fiscale in una economia aperta: a seconda del regime di cambi vigente, il modello suggerisce la combinazione ottimale degli strumenti di politica economica per il raggiungimento dell’obiettivo interno (il pieno impiego) e di quello esterno (l’equilibrio della bilancia dei pagamenti). Tale combinazione ottimale finisce per dipendere in maniera fondamentale dal sistema monetario di riferimento, ovvero dal fatto che si operi in regime di cambi fissi o flessibili. CAMBI FISSI Se i cambi sono fissi, E è dato (ed inoltre Ė e =0), per cui l’equazione BP = 0 individua tutte le coppie (Y,i) in grado di assicurare l’equilibrio esterno; tale equazione quindi può essere introdotta come e equazione aggiuntiva, nello schema IS-LM, come scheda BP. Il nuovo sistema è ora costituito da tre equazioni (IS,LM,BP) e da due incognite (Y,i); esso risulta così sovradeterminato: un’ulteriore variabile deve allora risultare endogena; come si vedrà tra poco, ciò implica che uno strumento non è più sotto il controllo delle autorità. La BP è positivamente inclinata, e si assume essere più piatta rispetto alla LM. Infatti la pendenza della LM dipende dalla sostituibilità tra moneta e titoli, cioè tra attività finanziarie con liquidità e scadenze diverse; la pendenza della BP dipende invece dalla sostituibilità tra attività finanziarie nazionali ed estere, e quindi tra attività finanziarie con scadenze simili: in mercati dei capitali sviluppati, la sostituibilità è maggiore nella BP che nella LM, per cui la BP è più piatta della LM. Fig. 3. Il modello Mundell-Fleming i LM BP IS Y* Y A) Manovra di politica monetaria Consideriamo ora, nel modello Mundell-Fleming, gli effetti di una politica monetaria espansiva. Le conseguenze di tale manovra sono illustrate nella figura 4. Fig. 4. La politica monetaria in cambi fissi i LM LM’ BP E E’ IS Y* Y Il punto E rappresenta una situazione di equilibrio iniziale simultaneo sui mercati della moneta, dei beni e dei cambi. Una espansione monetaria in un’economia chiusa porterebbe il sistema da E ad E’, posizione che implica un deficit di BP (una caduta del tasso di interesse genera movimenti di capitale in uscita); pertanto la posizione E’ non è di equilibrio stabile. Lo squilibrio di BP in regime di cambi fissi genera un deflusso di moneta corrispondente alla riduzione delle riserve ufficiali. Essendo ∆ M s = ∆ M I + BP (componente interna + componente esterna), le autorità, a fronte dello squilibrio di BP, hanno due alternative: sterilizzare il deflusso di moneta mediante ∆ M I >0; in tal caso, però, la BP rimarrebbe perennemente in passivo e le riserve diminuirebbero continuamente fino ad arrivare ad una situazione insostenibile; seguire la regola aurea di Wicksell, cioè tenere costante M I e lasciare che ∆ M s segua BP. In tal caso il deflusso di valuta riduce l’offerta complessiva di moneta e riporta il sistema in E. Se ne conclude che in cambi fissi LA POLITICA MONETARIA E’ COMPLETAMENTE INEFFICACE: l’offerta di moneta è subordinata all’equilibrio esterno; reddito e tassi di interesse sono determinati dall’incontro tra la IS e la BP. La terza incognita del sistema deve essere M s , che diventa variabile endogena. Si ha dunque un sistema di tre equazioni (IS,LM,BP) e tre incognite (Y, i, M). B) Manovra di politica fiscale Consideriamo ora, nel modello Mundell-Fleming, gli effetti di una politica fiscale espansiva. Le conseguenze di tale manovra sono illustrate nella figura 5. Per raggiungere Y* è sufficiente implementare una espansione fiscale tale da portare la IS in IS’ (molto meno che in economia chiusa, dove sarebbe necessario far spostare la IS più a destra e in alto, fino ad intersecare la LM al livello di reddito di pieno impiego). Si passa così dal punto di equilibrio E al punto di equilibrio E’; qui si ha un surplus di BP, il quale, sulla base dei meccanismi esposti in precedenza, sposta la LM fino a raggiungere l’equilibrio esterno (ed interno) in E’’. Se ne conclude che LA POLITICA FISCALE E’ MOLTO PIÙ EFFICACE CHE IN ECONOMIA CHIUSA; qualora la BP fosse piatta essa sarebbe addirittura PIENAMENTE EFFICACE, in quanto l’invarianza del tasso di interesse non determinerebbe alcun effetto di crowding-out. Fig. 5. La politica fiscale in cambi fissi i LM LM’ E’ BP E’’ E IS’ IS Y* Y Sulla base della discussione precedente, si ricavano le seguenti conclusioni: In cambi fissi una corretta assegnazione degli strumenti agli obiettivi prevede che la politica monetaria sia impiegata per raggiungere l’equilibrio esterno, mentre la politica fiscale sia impiegata per raggiungere l’equilibrio interno. CAMBI FLESSIBILI In un regime di cambi flessibili le conclusioni precedenti vengono totalmente rovesciate. C) Manovra di politica monetaria Cominciamo a considerare gli effetti di una politica monetaria espansiva, le cui conseguenze sono illustrate nella figura 6. Per raggiungere Y* è sufficiente una espansione monetaria da LM a LM’ (molto meno che in economia chiusa, dove era necessario spostare la LM a destra e verso il basso fino a intersecare la IS al livello di pieno impiego). In seguito alla manovra, e alla conseguente riduzione di i, la BP va inizialmente in deficit (punto E’) ed il cambio si svaluta. Sotto la validità della condizione di Mashall-Lerner ( η x + η m > 1 ), la IS si sposta a destra e contemporaneamente la BP si sposta in basso (in quanto se E si svaluta è sufficiente un i inferiore per tenere in equilibrio la BP); ciò condurrà al raggiungimento della posizione di equilibrio finale E’’. Qualora la condizione di Marshall-Lerner non valesse, si genererebbe un effetto perverso di ∆ E su NX. Infatti si ha: NX=X-EM. Qualora E si svaluti, aumenta X e si riduce M, ma E sale, con un effetto finale perverso sulla BP se la condizione di Marshall-Lerner non risulta valida. La condizione è quindi necessaria. Fig. 6. La politica monetaria in cambi flessibili i LM LM’ BP (E) BP’ (E) E E’ E’’ IS’ (E) IS (E) Y* Y Si ottiene così la conclusione che in regime di cambi flessibili i movimenti del cambio ripristinano automaticamente l’equilibrio esterno, per cui la politica monetaria diventa di nuovo libera da condizionamenti e può essere utilizzata per l’equilibrio interno; in particolare, come già sottolineato, la politica monetaria è più efficace che in un’economia chiusa. In particolare, se la BP fosse piatta, la politica monetaria sarebbe pienamente efficace, con una variazione del reddito pari al prodotto della variazione dell’offerta di moneta per la sua velocità di circolazione (immutata, perché i è costante). D) Manovra di politica fiscale Fig. 7. La politica fiscale in cambi flessibili i LM E’ BP’ E’’ BP E IS’ IS’’ IS Y* Y Un’espansione fiscale consistente in uno spostamento della IS da Is a IS’ porterebbe il sistema in E’, dove si raggiungerebbe il pieno impiego Y*. In tale situazione, tuttavia, la BP è in surplus: il cambio allora si rivaluta, facendo tornare indietro la IS; contemporaneamente la BP si sposta verso l’alto. Il sistema quindi si sposta in un punto come E’’. L’efficacia della politica fiscale è ridotta. Qualora la BP fosse piatta, la politica fiscale sarebbe addirittura completamente inefficace. Sulla base della discussione precedente, si ricavano le seguenti conclusioni: In cambi flessibili, la corretta assegnazione degli strumenti agli obiettivi prevede che la politica monetaria sia occupi dell’obiettivo interno, dato che l’obiettivo esterno, cioè l’equilibrio della bilancia dei pagamenti è già assicurato dalla flessibilità dei cambi. CONCLUSIONI GENERALI DEL MODELLO DI MUNDELL E FLEMING Come correttamente sottolineato da Tobin, cambi fissi, mobilità dei capitali e politiche economiche nazionali indipendenti costituiscono un terzetto incoerente. Benché ciascun elemento della triade sia di per sé stesso desiderabile, tuttavia nella pratica una condizione deve essere abbandonata affinché il sistema sia consistente. 1. Se non si vuole rinunciare allo strumento della politica monetaria, si deve necessariamente passare ad un sistema di cambi flessibili: in questo modo si otterrebbero tre equazioni, tre variabili endogene e tre obiettivi. In effetti questo è l’orientamento prevalente a livello mondiale dove i rapporti di cambio tra le monete sono flessibili. 2. Se si vuole mantenere un sistema di cambi fissi e continuare a realizzare tre obiettivi, bisogna introdurre un terzo strumento indipendente, come ad esempio: a) un sistema di crediti d’imposta legato alla realizzazione di programmi di investimento da parte delle imprese; ciò consentirebbe di aumentare il volume di investimenti spontaneo e stimolare la crescita; b) l’imposizione di una tassa (implicita o esplicita) sulla detenzione di attività finanziarie estere (ad esempio la cosidetta Tobin Tax), la quale ridurrebbe la sostituibilità tra attività finanziarie interne ed estere, spostando la BP e restituendo efficacia alla politica monetaria. Vale la pena di osservare che nell’UEM il problema del terzetto incoerente è stato risolto, con cambi fissi e perfetta mobilità di capitali, eliminando le sovranità nazionali nella conduzione della politica monetaria ed attribuendo alla BCE il compito di gestire la politica monetaria unica dell’Unione. UN NUOVO OBIETTIVO: IL CONTROLLO DELL’INFLAZIONE Verso la fine degli anni ’60 ai tradizionali obiettivi keynesiani in precedenza esaminati, se ne aggiunse un altro, costituito dall’opportunità di mantenere sotto controllo il tasso di inflazione. Il perseguimento di tale obiettivo risultava piuttosto complesso; anche perché era evidente la difficoltà di conciliarne il raggiungimento contestualmente a quello degli altri obiettivi, ed in particolare con quello della piena occupazione. Si poneva anzitutto un problema teorico: l’analisi di Keynes non conteneva una teoria specifica dell’inflazione; essa considerava piuttosto un apparato analitico di determinazione del livello dei prezzi, in base al quale questi dipendevano dal livello dei salari monetari e dal valore della produzione di equilibrio. Tale situazione era rimasta sostanzialmente invariata negli anni ’50, quando, sempre ad opera della Sintesi Neoclassica, il sistema keynesiano era stato ricondotto ad un’analisi in termini di ADAS in grado di determinare il valore di equilibrio di Y e P. In particolare, la scheda AD deriva dalla combinazione delle equazioni IS ed LM: Y = C(Y,T,R) + I(i) + G+NX(Yf,PfE/P) M/P = L(Y,i,R). Ricavando i dall’equilibrio tra domanda ed offerta di moneta, e sostituendo nella IS, si ottiene proprio la scheda AD: P = D (Y), D’(Y) < 0 La AD rappresenta il luogo delle coppie (Y,P) in grado di assicurare l’equilibrio reale e monetario. La posizione della curva dipende dalle grandezze esogene che influenzano consumi, investimenti ed esportazioni nette, nonché dagli strumenti di politica economica monetari e fiscali; la sua pendenza decrescente riflette l’elasticità dei consumi alla ricchezza, delle esportazioni nette alla competitività e degli investimenti rispetto al livello dei prezzi, ovvero l’elasticità della IS e della LM rispetto a i. La scheda AS viene invece derivata dalle ipotesi avanzate circa il funzionamento del mercato del lavoro e la determinazione dei prezzi da parte delle imprese. In particolare: si assume una tradizionale funzione di produzione Y = Y (N); si impone la condizione di massimizzazione dei profitti neoclassica, ovvero si suppone che le imprese eguaglino il salario reale alla produttività marginale del lavoro: W/P = Y’ (N); si suppone infine che i lavoratori chiedano un salario monetario crescente all’aumentare di N, ovvero: W = W°+W(N). Dalle tre condizioni deriva la formulazione della AS: P = S (Y), S’(Y) > 0 In effetti, dall’eguaglianza tra prezzo e ricavo marginale, sostituendo per il livello del salario monetario determinato dalla contrattazione sindacale, come sopra illustrato, avremo: W0 +W Y -1 ( Y ) W W°+W(N) P= = = . Y'(N) Y'(N) Y ' Y − 1 ( Y ) La scheda AS è inclinata positivamente perché si assumono rendimenti decrescenti e salari monetari crescenti al crescere di N. La stessa relazione, peraltro, può essere ottenuta con ipotesi diverse e aggiuntive: - metodo del mark-up nella fissazione di P; - strozzature nella AS; - influenza dei prodotti agricoli nell’indice di P (il cui livello cresce al crescere della produzione). Come raffinamento ulteriore si può ipotizzare che, mano a mano che ci si avvicina ad N*, i lavoratori intensifichino le loro rivendicazioni in termini di W monetari; in tal modo la AS risulta abbastanza piatta per bassi livelli di reddito diventando sempre più inclinata in corrispondenza di Y*, come nella figura 8. Fig. 8. Lo schema AS-AD P AD AS Y* Il punto di incontro AS-AD consente di individuare la coppia (Y,P) di equilibrio necessaria a identificare il livello di P che, inserito nello schema IS-LM, determina la posizione delle due curve (la IS e la LM infatti risultano parametriche rispetto ad un certo livello di prezzi), da cui derivare il tasso di interesse i compatibile con l’equilibrio generale. Lo schema AS-AD venne utilizzato negli anni ’50 per descrivere e discutere le cause ed i rimedi dell’inflazione. Esso consentiva di distinguere tra: INFLAZIONE DA DOMANDA Spostamenti a destra della AD, causati da incrementi dell’offerta di moneta, della spesa pubblica, del consumo autonomo, degli investimenti, o delle esportazioni nette; l’inflazione da domanda genera un aumento del livello dei prezzi che si accompagna ad una variazione positiva del reddito, come si può osservare nella figura 9. Fig. 9. L’inflazione da domanda nello schema AS-AD P AD’ AS AD Y Y’ Y* INFLAZIONE DA COSTI Essa è conseguente ad innalzamenti della curva AS dovuti ad incrementi di W superiori a quelli della produttività o, in un modello più generale, ad aumenti dei prezzi delle materie prime importate o del livello del mark-up. Nel caso di inflazione da costi, come si può facilmente osservare dalla figura 10, la crescita dei prezzi si accompagna ad una caduta del livello del reddito. La cura dell’inflazione da costi è quindi particolarmente difficile, generando un dilemma di politica economica: se si vuole mantenere invariato il livello di reddito di partenza, bisognerà aumentare la AD, ma ciò genererà un ulteriore aumento di P; se invece si vuole mantenere la stabilità dei prezzi, occorrerà ridurre la AD, ma ciò determinerà una ulteriore caduta di Y, tanto più pronunciata quanto più la AS è piatta. Fig. 10. L’inflazione da domanda nello schema AS-AD P AS’ AS AD Y’ Y Y* CASO ESTREMO Qualora la AS abbia una forma ad L rovesciata (se ad esempio la produttività del lavoro, i salari monetari ed il mark-up sono costanti fino al pieno utilizzo della capacità produttiva), spostamenti delle due curve non generano necessariamente gli effetti appena descritti. In particolare, dalla fig. 11, è facile verificare che: 1) spostamenti della AD producono variazioni positive nel reddito senza alcuna variazione di P fino a Y*; superato tale livello del reddito esse generano esclusivamente inflazione; 2) spostamenti della AS provocano sempre variazioni del livello dei prezzi pari alla traslazione della curva, indipendentemente dalla caduta nel livello di attività che peraltro si verifica sempre. Fig. 11. Il caso estremo di AS piatta AD’’ AD’ P AD AS’ AS AD Y’ Y Y* Si deve inoltre osservare che l’intersezione tra la IS e la LM a sinistra del livello di reddito di pieno impiego era un risultato che apparteneva alla prima fase della teoria neokeynesiana. Con l’affermazione della sintesi neoclassica, l’intersezione tra la AS e la AD normalmente avviene, come mostra la fig. 12, a livello di pieno impiego, pur essendo possibili nel breve periodo scostamenti da tale posizione in seguito a shock di domanda o di offerta. Fig. 12. Lo schema AS-AD della sintesi neoclassica P AD AS Y* Nello schema AS-AD, uno spostamento della AD o della AS sono peraltro in grado di spiegare solo una variazione “una tantum” del livello dei prezzi, la quale necessariamente si arresta una volta raggiunto il nuovo livello di equilibrio. Nella realtà l’inflazione è un processo dinamico di crescita persistente dei prezzi, compatibile con lo schema AS-AD solo ammettendo che le curve traslino continuamente nel tempo. Ciò può essere concepibile per spostamenti della AD in seguito ad espansioni ripetute della quantità di moneta, mentre è più difficile da ipotizzare nel caso di una politica fiscale espansiva, che dovrebbe comportare disavanzi sempre più elevati. Le stesse considerazioni risultano rafforzate se si considera la curva AS: variazioni reiterate del livello dei prezzi richiedono spostamenti ripetuti della curva verso l’alto, che si accompagnerebbero, in assenza di politiche accomodanti sulla AD, a continue riduzioni del reddito. In ogni caso bisognerebbe spiegare perché questi eventuali ripetuti spostamenti della AS verso l’alto di fatto si verificano. Un ulteriore problema pratico dello schema AS-AD concerneva la sua incapacità di fornire una spiegazione convincente al fenomeno concreto della STAGFLAZIONE, ovvero di una situazione in cui, a fronte di un tasso di inflazione positivo, il reddito risultava stagnante. L’assenza di una correlazione tra tasso di inflazione e variazione del reddito si era presentato per la prima volta agli occhi degli economisti nella seconda metà degli anni ’60. I neokeynesiani, di fronte al fenomeno dell’inflazione, adottarono un nuovo apparato di riferimento, non più statico ma dinamico, grazie al contributo di Alban Phillips, il quale, in un famoso articolo del 1958 su Economica, aveva evidenziato, con riferimento all’esperienza del Regno Unito, l’esistenza di una relazione di lungo periodo tra il tasso di variazione dei salari monetari ed il tasso di disoccupazione, del tipo: W˙ = g (u ) g '(u ) < 0 , g ''(u ) > 0 Tale relazione empirica, rappresentata nella figura 13, era di forma inversa, non lineare, ma soprattutto stabile, per tutto il periodo di tempo considerato da Phillips (dal 1861 al 1957). Essendo una relazione solo di tipo empirico (“come un personaggio pirandelliano in cerca di autore”, secondo Tobin), essa stimolò successivamente una serie di contributi analitici volti a fornirle una razionalizzazione teorica. LIPSEY interpretò la relazione come risposta dei salari monetari ad un disequilibrio sul mercato del lavoro, misurato dall’eccesso di domanda sull’offerta, di cui il tasso di disoccupazione corrente rappresenta una proxy. In tal modo risulterebbe: ND − NS W˙ = f ; f(0)=0 NS f risulta essere una funzione non lineare e crescente rispetto all’eccesso di domanda di lavoro, ovvero decrescente rispetto al tasso di diccupazione. Fig. 13. La relazione di Phillips . W u SAMUELSON & SOLOW sostituirono, nella relazione originaria di Phillips, Ẇ con Ṗ , utilizzando implicitamente un metodo di formazione dei prezzi caratteristico dell’oligopolio e consistente nell’applicazione di un mark-up costante sul costo del lavoro. In particolare, in tal caso si ha: W (1 q) con a = produttività media del lavoro; a . . . . se q = q , allora P = W − a ; qualora a sia esogeno, tale grandezza può essere P ritenuta una costante. La relazione di Phillips può quindi essere trasformata nella più tradizionale curva di Phillips dei libri di testo, come nella figura 14, per cui: . P = f ( u) f ' ( u ) < 0, f '' ( u ) > 0 Fig. 14. La curva di Phillips secondo Samuelson-Solow Ṗ 5,5% u Le conseguenze ricavabili da questo nuovo strumento analitico furono diverse a seconda del punto di vista degli economisti: per gli ottimisti esisteva la possibilità di un menu di scelta che le autorità di politica economica potevano sfruttare; per i pessimisti invece sorgeva un dilemma di politica economica dovuto al TRADE-OFF tra inflazione e disoccupazione. In particolare, secondo le stime di Samuelson e Solow, solo accettando un u=5,5%, era possibile garantire un tasso di inflazione nullo. Il problema della scelta tra le infinite combinazioni tra inflazione e disoccupazione di fatto raggiungibili poteva peraltro essere risolto, come avevano mostrato Lipsey e lo stesso Samuelson, attraverso l’uso di FUNZIONE DEL BENESSERE SOCIALE di tipo bergsoniano, che tenesse conto del trade-off esistente tra i due obiettivi e della disutilità arrecata da entrambi. A seconda dei diversi orientamenti governativi si avrebbero diverse funzioni del benessere sociale, e quindi diverse strutture delle curve di indifferenza tra i due obiettivi delle autorità, con il . risultato di produrre diverse combinazioni ottimali tra P e u. In particolare autorità più avverse all’inflazione avrebbero scelto una combinazione di equilibrio caratterizzata da minore inflazione e maggiore disoccupazione, e viceversa nel caso contrario. L’evidenziazione dell’esistenza di un trade-off tra inflazione e disoccupazione portò altresì alla nascita di alcune controversie all’interno della scuola neokeynesiana. Per Modigliani non esisteva più un unico livello di pieno impiego, ma piuttosto un . insieme di possibili livelli di disoccupazione di equilibrio, ognuno associato ad un P diverso, con l’effetto di rendere obsoleto e indecifrabile lo stesso concetto keynesiano di “equilibrio di sottoccupazione”. Tobin invece era piuttosto preoccupato della possibilità di identificare il pieno impiego di Keynes con il tasso di disoccupazione, di natura frizionale e strutturale, . associato a P = 0, e della conseguente implicazione per cui le autorità dovevano necessariamente mirare a conseguire tale tasso di equilibrio da lui ritenuto troppo alto. . Secondo Tobin, in effetti, il tasso di disoccupazione corrispondente a P =0 era sistematicamente superiore a quello di pieno impiego. Ciò era dovuto al fatto che la curva di Phillips rappresentava il risultato di un’aggregazione a livello macroeconomico di funzioni di reazione di singoli mercati del lavoro, in stato di perenne disequilibrio stocastico. Essendo N D = N + V e N S = N + U (dove V rappresenta il numero di posti vacanti e U il numero di disoccupati), l’equilibrio sul mercato del lavoro prevede che sia N D = N S , e quindi U=V (come si può osservare, pertanto, l’equilibrio sul mercato del lavoro non implica una disoccupazione nulla, ma positiva; tale disoccupazione di equilibrio viene normalmente definita naturale ed il tasso di disoccupazione corrispondente è detto tasso naturale di disoccupazione.). In equilibrio, qualora il . mercato del lavoro fosse omogeneo, si avrebbe P =0. Poiché tuttavia il mercato del lavoro è disomogeneo, nel senso che è composto di tanti specifici mercati del lavoro settoriali, a livello aggregato può risultare U=V, compatibilmente con disequilibri specifici a livello disaggregato. Ad esempio, supponendo per semplicità l’esistenza di due singoli micromercati i e j (vedi fig. 15), sia: U i − Vi > 0 eccesso di offerta di lavoro (OA) sul mercato i e U j − V j < 0 eccesso di domanda di lavoro (OB) sul mercato j. Fig. 15. Il bias inflazionistico . W B O A U i − Vi Supponendo che i due mercati abbiano la stessa dimensione, la variazione dei . . salari media ( W ) del sistema è la media aritmetica delle singole variazioni W sui due mercati, ed è perciò maggiore di zero a causa della non linearità della curva di Phillips. Il sistema economico incorpora quindi quello che Tobin chiama un “bias”, ovvero un pregiudizio inflazionistico: quello che a livello aggregato appare come tasso di . disoccupazione naturale (u*), al quale dovrebbe corrispondere P =0, non è il tasso di disoccupazione naturale (sostanzialmente corrispondente al pieno impiego), ma un tasso di disoccupazione maggiore. Il livello di disoccupazione naturale è più basso del livello di disoccupazione cui corrisponde un’inflazione nulla. Per avere stabilità dei prezzi occorre dunque accettare un tasso di disoccupazione più alto di quello naturale, definito da Tobin NAIRU (Non Accelerating Inflation Rate of Unemployment). In particolare, il bias inflazionistico sarà tanto più elevato quanto maggiore è l’incertezza stocastica e la forza sindacale. L’esistenza di un bias inflazionistico, conseguenza della non linearità delle curve di Phillips e del fatto che l’equilibrio macroeconomico è compatibile con squilibri microeconomici sui vari mercati del lavoro specifici, giustifica l’obiettivo più ambizioso delle autorità di puntare ad un tasso di disoccupazione minore di quello compatibile con l’inflazione nulla, pari secondo Samuelson e Solow, al 5,5% (in particolare, si puntava al livello del 4%, come previsto dal programma iniziale della New Economics). Qualora, a motivo della pendenza della curva di Phillips, l’inflazione corrispondente al vero pieno impiego sia ritenuta troppo elevata, non rimarrebbe che ricorrere a forme dirette di controllo della dinamica di P e W. Secondo Tobin, in effetti, le autorità di politica economica, poste di fronte a tre obiettivi (stabilità dei prezzi, pieno impiego e assenza di controlli su P e W), potevano raggiungerne al massimo due (un altro esempio di terzetto inconsistente). CONCLUSIONE Nonostante le palesi deviazioni rispetto alla posizione teorica originaria di Keynes, il suo minore spirito critico e la fiducia incondizionata nella capacità delle autorità di politica economica di manovrare la AD per ottenere gli obiettivi desiderati, la New Economics ha avuto l’indubbio merito di essere riuscita a produrre quel radicale cambiamento intellettuale nei confronti dell’interventismo statale responsabile di un netto miglioramento nell’evoluzione di breve-medio periodo del sistema economico. Verso la fine degli anni ’60, però, le teoria keynesiana entrò definitivamente in crisi. Tale crisi era in particolare il risultato della presunta scomparsa della curva di Phillips e dell’incapacità di spiegare il fenomeno della stagflazione. In effetti, sul finire degli anni ’60, a seguito di una maggiore conflittualità sindacale, il tasso di crescita dei salari monetari aumentò notevolmente rispetto all’esperienza storica. I neokeynesiani spiegarono tale fenomeno con uno spostamento verso l’alto della curva di Phillips. Tale spiegazione tuttavia era carente, in quanto il requisito essenziale di un trade off tra inflazione e disoccupazione è la sua stabilità. Se la curva si sposta continuamente, essa è inutilizzabile come strumento di politica economica per le autorità di governo. Inoltre, dal punto di vista empirico, il trade off asserito dai keynesiani era incompatibile con il fenomeno della stagflazione, in quanto la nuova curva di Phillips avrebbe dovuto consentire alle autorità di spostarsi lungo di essa, riducendo il tasso di inflazione ma al costo di una maggiore disoccupazione. La realtà empirica, invece, sembrava indicare che lo stesso tasso di disoccupazione era compatibile con diversi livelli del tasso di inflazione, in maniera del tutto incoerente con la curva di Phillips. E così, proprio mentre Nixon si sbilanciava a dichiarare “siamo tutti keynesiani ora”, l’incapacità dei keynesiani di fornire una convincente spiegazione della stagflazione, e di fornire ricette di politica economica atte ad affrontarla, determinava la fine della supremazia intellettuale della New Economics, collegata alla cosiddetta rivoluzione keynesiana. I tempi erano maturi per una controrivoluzione, di natura monetarista, legata al nome del leader carismatico di tale scuola di pensiero, il Professor Milton Friedman dell’Università di Chicago. Sezione. Kalecki. Political Aspects of Full Employment1 Michal Kalecki 1. A solid majority of economists is now of the opinion that, even in a capitalist system, full employment may be secured by a government spending programme, provided there is in existence adequate plan to employ all existing labour power, and provided adequate supplies of necessary foreign raw-materials may be obtained in exchange for exports. If the government undertakes public investment (e.g. builds schools, hospitals, and highways) or subsidizes mass consumption (by family allowances, reduction of indirect taxation, or subsidies to keep down the prices of necessities), and if, moreover, this expenditure is financed by borrowing and not by taxation (which could affect adversely private investment and consumption), the effective demand for goods and services may be increased up to a point where full employment is achieved. Such government expenditure increases employment, be it noted, not only directly but indirectly as well, since the higher incomes caused by it result in a secondary increase in demand for consumer and investment goods. 2. It may be asked where the public will get the money to lend to the government if they do not curtail their investment and consumption. To understand this process it is best, I think, to imagine for a moment that the government pays its suppliers in government securities. The suppliers will, in general, not retain these securities but put them into circulation while buying other goods and services, and so on, until finally these securities will reach persons or firms which retain them as interest-yielding assets. In any period of time the total increase in government securities in the possession (transitory or final) of persons and firms will be equal to the goods and services sold to the government. Thus what the economy lends to the government are goods and services whose production is 'financed' by government securities. In reality the government pays for the services, not in securities, but in cash, but it simultaneously issues securities and so drains the cash off; and this is equivalent to the imaginary process described above. What happens, however, if the public is unwilling to absorb all the increase in government securities? It will offer them finally to banks to get cash (notes or deposits) in exchange. If the banks accept these offers, the rate of interest will be maintained. If not, the prices of securities will fall, which means a rise in the rate of interest, and this will encourage the public to hold more securities in relation to deposits. It follows that the rate of interest depends on banking policy, in particular on that of the central bank. If this policy aims at maintaining the rate of interest at a certain level, that may be easily achieved, however large the amount of government borrowing. Such was and is the position in the present war. In spite of astronomical budget deficits, the rate of interest has shown no rise since the beginning of 1940. 3. It may be objected that government expenditure financed by borrowing will cause inflation. To this it may be replied that the effective demand created by the government acts like any other increase in demand. If labour, plants, and foreign raw materials are in ample supply, the increase in demand is met by an increase in production. But if the point of full employment of resources is reached and effective demand continues to increase, prices will rise so as to equilibrate the demand for and the supply of goods and services. (In the state of over-employment of resources such as we witness at present in the war economy, an inflationary rise in prices has been avoided only to the extent to which effective demand for consumer goods has been curtailed by rationing and direct taxation.) It follows that if the government intervention aims at achieving full employment but stops short of increasing effective demand over the full employment mark, there is no need to be afraid of inflation.2 II 2. The above is a very crude and incomplete statement of the economic doctrine of full employment. But it is, I think, sufficient to acquaint the reader with the essence of the doctrine and so enable him to follow the subsequent discussion of the political problems involved in the achievement of full employment. In should be first stated that, although most economists are now agreed that full employment may be achieved by government spending, this was by no means the case even in the recent past. Among the opposers of this doctrine there were (and still are) prominent so-called 'economic experts' closely connected with banking and industry. This suggests that there is a political background in the opposition to the full employment doctrine, even though the arguments advanced are economic. That is not to say that people who advance them do not believe in their economics, poor though this is. But obstinate ignorance is usually a manifestation of underlying political motives. There are, however, even more direct indications that a first-class political issue is at stake here. In the great depression in the 1930s, big business consistently opposed experiments for increasing employment by government spending in all countries, except Nazi Germany. This was to be clearly seen in the USA (opposition to the New Deal), in France (the Blum experiment), and in Germany before Hitler. The attitude is not easy to explain. Clearly, higher output and employment benefit not only workers but entrepreneurs as well, because the latter's profits rise. And the policy of full employment outlined above does not encroach upon profits because it does not involve any additional taxation. The entrepreneurs in the slump are longing for a boom; why do they not gladly accept the synthetic boom which the government is able to offer them? It is this difficult and fascinating question with which we intend to deal in this article. The reasons for the opposition of the 'industrial leaders' to full employment achieved by government spending may be subdivided into three categories: (i) dislike of government interference in the problem of employment as such; (ii) dislike of the direction of government spending (public investment and subsidizing consumption); (iii) dislike of the social and political changes resulting from the maintenance of full employment. We shall examine each of these three categories of objections to the government expansion policy in detail. 2. We shall deal first with the reluctance of the 'captains of industry' to accept government intervention in the matter of employment. Every widening of state activity is looked upon by business with suspicion, but the creation of employment by government spending has a special aspect which makes the opposition particularly intense. Under a laissez-faire system the level of employment depends to a great extent on the so-called state of confidence. If this deteriorates, private investment declines, which results in a fall of output and employment (both directly and through the secondary effect of the fall in incomes upon consumption and investment). This gives the capitalists a powerful indirect control over government policy: everything which may shake the state of confidence must be carefully avoided because it would cause an economic crisis. But once the government learns the trick of increasing employment by its own purchases, this powerful controlling device loses its effectiveness. Hence budget deficits necessary to carry out government intervention must be regarded as perilous. The social function of the doctrine of 'sound finance' is to make the level of employment dependent on the state of confidence. 3. The dislike of business leaders for a government spending policy grows even more acute when they come to consider the objects on which the money would be spent: public investment and subsidizing mass consumption. The economic principles of government intervention require that public investment should be confined to objects which do not compete with the equipment of private business (e.g. hospitals, schools, highways). Otherwise the profitability of private investment might be impaired, and the positive effect of public investment upon employment offset, by the negative effect of the decline in private investment. This conception suits the businessmen very well. But the scope for public investment of this type is rather narrow, and there is a danger that the government, in pursuing this policy, may eventually be tempted to nationalize transport or public utilities so as to gain a new sphere for investment.3 One might therefore expect business leaders and their experts to be more in favour of subsidising mass consumption (by means of family allowances, subsidies to keep down the prices of necessities, etc.) than of public investment; for by subsidizing consumption the government would not be embarking on any sort of enterprise. In practice, however, this is not the case. Indeed, subsidizing mass consumption is much more violently opposed by these experts than public investment. For here a moral principle of the highest importance is at stake. The fundamentals of capitalist ethics require that 'you shall earn your bread in sweat' -- unless you happen to have private means. 4. We have considered the political reasons for the opposition to the policy of creating employment by government spending. But even if this opposition were overcome -- as it may well be under the pressure of the masses -- the maintenance of full employment would cause social and political changes which would give a new impetus to the opposition of the business leaders. Indeed, under a regime of permanent full employment, the 'sack' would cease to play its role as a 'disciplinary measure. The social position of the boss would be undermined, and the self-assurance and class-consciousness of the working class would grow. Strikes for wage increases and improvements in conditions of work would create political tension. It is true that profits would be higher under a regime of full employment than they are on the average under laissez-faire, and even the rise in wage rates resulting from the stronger bargaining power of the workers is less likely to reduce profits than to increase prices, and thus adversely affects only the rentier interests. But 'discipline in the factories' and 'political stability' are more appreciated than profits by business leaders. Their class instinct tells them that lasting full employment is unsound from their point of view, and that unemployment is an integral part of the 'normal' capitalist system. III 1. One of the important functions of fascism, as typified by the Nazi system, was to remove capitalist objections to full employment. The dislike of government spending policy as such is overcome under fascism by the fact that the state machinery is under the direct control of a partnership of big business with fascism. The necessity for the myth of 'sound finance', which served to prevent the government from offsetting a confidence crisis by spending, is removed. In a democracy, one does not know what the next government will be like. Under fascism there is no next government. The dislike of government spending, whether on public investment or consumption, is overcome by concentrating government expenditure on armaments. Finally, 'discipline in the factories' and 'political stability' under full employment are maintained by the 'new order', which ranges from suppression of the trade unions to the concentration camp. Political pressure replaces the economic pressure of unemployment. 2. The fact that armaments are the backbone of the policy of fascist full employment has a profound influence upon that policy's economic character. Large-scale armaments are inseparable from the expansion of the armed forces and the preparation of plans for a war of conquest. They also induce competitive rearmament of other countries. This causes the main aim of spending to shift gradually from full employment to securing the maximum effect of rearmament. As a result, employment becomes 'over-full'. Not only is unemployment abolished, but an acute scarcity of labour prevails. Bottlenecks arise in every sphere, and these must be dealt with by the creation of a number of controls. Such an economy has many features of a planned economy, and is sometimes compared, rather ignorantly, with socialism. However, this type of planning is bound to appear whenever an economy sets itself a certain high target of production in a particular sphere, when it becomes a target economy of which the armament economy is a special case. An armament economy involves in particular the curtailment of consumption as compared with that which it could have been under full employment. The fascist system starts from the overcoming of unemployment, develops into an armament economy of scarcity, and ends inevitably in war. IV 1. What will be the practical outcome of the opposition to a policy of full employment by government spending in a capitalist democracy? We shall try to answer this question on the basis of the analysis of the reasons for this opposition given in section II. We argued there that we may expect the opposition of the leaders of industry on three planes: (i) opposition on principle to government spending based on a budget deficit; (ii) opposition to this spending being directed either towards public investment -which may foreshadow the intrusion of the state into the new spheres of economic activity -- or towards subsidizing mass consumption; (iii) opposition to maintaining full employment and not merely preventing deep and prolonged slumps. Now it must be recognized that the stage at which 'business leaders' could afford to be opposed to any kind of government intervention to alleviate a slump is more or less past. Three factors have contributed to this: (i) very full employment during the present war; (ii) development of the economic doctrine of full employment; (iii) partly as a result of these two factors, the slogan 'Unemployment never again' is now deeply rooted in the consciousness of the masses. This position is reflected in the recent pronouncements of the 'captains of industry' and their experts. The necessity that 'something must be done in the slump' is agreed; but the fight continues, firstly, as to what should be done in the slump (i.e. what should be the direction of government intervention) and secondly, that it should be done only in the slump (i.e. merely to alleviate slumps rather than to secure permanent full employment). 2. In current discussions of these problems there emerges time and again the conception of counteracting the slump by stimulating private investment. This may be done by lowering the rate of interest, by the reduction of income tax, or by subsidizing private investment directly in this or another form. That such a scheme should be attractive to business is not surprising. The entrepreneur remains the medium through which the intervention is conducted. If he does not feel confidence in the political situation, he will not be bribed into investment. And the intervention does not involve the government either in 'playing with' (public) investment or 'wasting money' on subsidizing consumption. It may be shown, however, that the stimulation of private investment does not provide an adequate method for preventing mass unemployment. There are two alternatives to be considered here. (i) The rate of interest or income tax (or both) is reduced sharply in the slump and increased in the boom. In this case, both the period and the amplitude of the business cycle will be reduced, but employment not only in the slump but even in the boom may be far from full, i.e. the average unemployment may be considerable, although its fluctuations will be less marked. (ii) The rate of interest or income tax is reduced in a slump but not increased in the subsequent boom. In this case the boom will last longer, but it must end in a new slump: one reduction in the rate of interest or income tax does not, of course, eliminate the forces which cause cyclical fluctuations in a capitalist economy. In the new slump it will be necessary to reduce the rate of interest or income tax again and so on. Thus in the not too remote future, the rate of interest would have to be negative and income tax would have to be replaced by an income subsidy. The same would arise if it were attempted to maintain full employment by stimulating private investment: the rate of interest and income tax would have to be reduced continuously.4 In addition to this fundamental weakness of combating unemployment by stimulating private investment, there is a practical difficulty. The reaction of the entrepreneurs to the measures described is uncertain. If the downswing is sharp, they may take a very pessimistic view of the future, and the reduction of the rate of interest or income tax may then for a long time have little or no effect upon investment, and thus upon the level of output and employment. 3. Even those who advocate stimulating private investment to counteract the slump frequently do not rely on it exclusively, but envisage that it should be associated with public investment. It looks at present as if business leaders and their experts (at least some of them) would tend to accept as a pis aller public investment financed by borrowing as a means of alleviating slumps. They seem, however, still to be consistently opposed to creating employment by subsidizing consumption and to maintaining full employment. This state of affairs is perhaps symptomatic of the future economic regime of capitalist democracies. In the slump, either under the pressure of the masses, or even without it, public investment financed by borrowing will be undertaken to prevent large-scale unemployment. But if attempts are made to apply this method in order to maintain the high level of employment reached in the subsequent boom, strong opposition by business leaders is likely to be encountered. As has already been argued, lasting full employment is not at all to their liking. The workers would 'get out of hand' and the 'captains of industry' would be anxious to 'teach them a lesson. Moreover, the price increase in the upswing is to the disadvantage of small and big rentiers, and makes them 'boom-tired.' In this situation a powerful alliance is likely to be formed between big business and rentier interests, and they would probably find more than one economist to declare that the situation was manifestly unsound. The pressure of all these forces, and in particular of big business -- as a rule influential in government departments -- would most probably induce the government to return to the orthodox policy of cutting down the budget deficit. A slump would follow in which government spending policy would again come into its own. This pattern of a political business cycle is not entirely conjectural; something very similar happened in the USA in 1937-8. The breakdown of the boom in the second half of 1937 was actually due to the drastic reduction of the budget deficit. On the other hand, in the acute slump that followed the government promptly reverted to a spending policy. The regime of the political business cycle would be an artificial restoration of the position as it existed in nineteenth-century capitalism. Full employment would be reached only at the top of the boom, but slumps would be relatively mild and short-lived. V 1. Should a progressive be satisfied with a regime of the political business cycle as described in the preceding section? I think he should oppose it on two grounds: (i) that it does not assure lasting full employment; (ii) that government intervention is tied to public investment and does not embrace subsidizing consumption. What the masses now ask for is not the mitigation of slumps but their total abolition. Nor should the resulting fuller utilization of resources be applied to unwanted public investment merely in order to provide work. The government spending programme should be devoted to public investment only to the extent to which such investment is actually needed. The rest of government spending necessary to maintain full employment should be used to subsidize consumption (through family allowances, old-age pensions, reduction in indirect taxation, and subsidizing necessities). Opponents of such government spending say that the government will then have nothing to show for their money. The reply is that the counterpart of this spending will be the higher standard of living of the masses. Is not this the purpose of all economic activity? 2. 'Full employment capitalism' will, of course, have to develop new social and political institutions which will reflect the increased power of the working class. If capitalism can adjust itself to full employment, a fundamental reform will have been incorporated in it. If not, it will show itself an outmoded system which must be scrapped. But perhaps the fight for full employment may lead to fascism? Perhaps capitalism will adjust itself to full employment in this way? This seems extremely unlikely. Fascism sprang up in Germany against a background of tremendous unemployment, and maintained itself in power through securing full employment while capitalist democracy failed to do so. The fight of the progressive forces for all employment is at the same time a way of preventing the recurrence of fascism. 1 This article corresponds roughly to a lecture given to the Marshall Society in Cambridge in the spring of 1942. 2 Another problem of a more technical nature is that of the national debt. If full employment is maintained by government spending financed by borrowing, the national debt will continuously increase. This need not, however, involve any disturbances in output and employment, if interest on the debt is financed by an annual capital tax. The current income, after payment of capital tax, of some capitalists will be lower and of some higher than if the national debt had not increased, but their aggregate income will remain unaltered and their aggregate consumption will not be likely to change significantly. Further, the inducement to invest in fixed capital is not affected by a capital tax because it is paid on any type of wealth. Whether an amount is held in cash or government securities or invested in building a factory, the same capital tax is paid on it and thus the comparative advantage is unchanged. And if investment is financed by loans it is clearly not affected by a capital tax because if does not mean an increase in wealth of the investing entrepreneur. Thus neither capitalist consumption nor investment is affected by the rise in the national debt if interest on it is financed by an annual capital tax. [See 'A Theory of Commodity, Income, and Capital Taxation'] 3 It should be noted here that investment in a nationalized industry can contribute to the solution of the problem of unemployment only if it is undertaken on principles different return than private enterprise, or it must deliberately time its investment so as to mitigate from those of private enterprise. The government must be satisfied with a lower net rate of slumps. 4 A rigorous demonstration of this is given in my article to be published in Oxford Economic Papers. [See 'Full Employment by Stimulating Private Investment?']