Rwanda, come lavarsi l`anima

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Rwanda, come lavarsi l`anima
Rwanda, come lavarsi l’anima
I cento giorni della vergogna
Per cento giorni, dal 6 Aprile al 16 luglio del 1994, i demoni hanno posseduto il Rwanda. In cento
giorni furono massacrate 1.000. 000 di persone, circa un sesto della popolazione del Paese. Un
milione di morti in cento giorni significano 7 morti al minuto, per ogni minuto, per ogni ora, per
ogni giorno. Numeri terribili, macabri, impressionanti, che ci danno solo una vaga idea dell’orrore
che sconvolse il Paese tra l’ignobile indifferenza del mondo. Il Rwanda è un Paese fatto di sangue ,
lotte, massacri, genocidi. Fa parte della loro storia, della loro anima. Al primo genocidio perpetrato
nel 1959, nel quale gli Hutu massacrarono circa 100.000 Tutsi, costringendo il resto della
popolazione ad un esodo di massa verso l’Uganda ed il Burundi, seguì un secondo genocidio nel
1964 ed una lista di massacri consumati con impressionante regolarità. Ottobre 1990, gennaio 1991,
febbraio 1991, marzo 1992, agosto 1992, gennaio 1993 e febbraio 1994 sono tutte date di morte e
sangue.
Questa non è Africa
Atterriamo all’aeroporto di Kigali già a notte fonda. L’aeroporto è deserto, ci siamo solo noi, ma
non per questo le operazioni di visto e di sbarco dei bagagli sono più veloci. Nonostante tutto però
l’aerostazione non è il solito scalcinato, maleodorante e lercio aeroporto africano. È una struttura
piuttosto vecchia e modesta, ma tutto appare lindo e perfettamente ordinato. Avevo già sentito
parlare del Rwanda come “la Svizzera d’Africa” e di Kigali, come del suo fiore all’occhiello. Ero
curioso di verificare. Usciamo, e dopo essere stati immersi per una buona mezz’ora nella tipica
bolgia africana di rito ad ogni arrivo, partiamo pressati in una dozzina in pulmino che avrebbe la
capienza per circa la metà di quelli che siamo. Fortunatamente Kigali, pur essendo sulla linea
dell’equatore, con i suoi 1567 metri di altitudine, gode di un clima temperato e sempre ventilato,
possiamo quindi anche sopportare di essere in 12 in un pulmino da 6 e, per giunta, senza
climatizzazione. La città si sviluppa su un infinita serie di colline, come del resto tutto il Paese, che
per questo viene appunto chiamato “il Paese delle mille colline”. Kigali è pulitissima, tanto pulita
ed ordinata da far impallidire persino la Svizzera. Tanto pulita ed ordinata da non sembrare
nemmeno Africa. Strade linde, aiuole e giardini curatissimi, nemmeno l’ombra di una carta gettata
a terra, in aeroporto ci avevano addirittura vietato d’introdurre sacchetti di plastica che in Rwanda
sono severamente vietati. Persino le bidonville che sorgono ai piedi delle colline del centro, nella
loro povertà, sono pulitissime ed ordinate. Eppure qui siamo in un Paese poverissimo, confinante
con altri Paesi altrettanto poveri. Siamo, come in Bénin, nella Repubblica Centrafricana, in Burkina
Faso, in Gambia, in un angolo di mondo dove Dio sembra aver perso la sua misericordia. Andando
in giro per il mondo, in Africa, in Brasile, in Argentina, ho imparato che la povertà non si coniuga
mai con la pulizia, l’ordine, il rispetto dell’ambiente. E’ una legge naturale delle cose. Dove si
muore di fame non si va tanto per il sottile, non ci si può preoccupare dell’immondizia agli angoli
delle strade. Qui è diverso, addirittura contrario. Mohamed, il mio amico medico, che conosce un
po’ il Rwanda per il fatto di esserci già stato un paio di volte, mi dice che ogni primo sabato del
mese tutta la popolazione è mobilitata in massa per pulire le strade della città. L’autista del pulmino
conferma, il giorno dopo me lo confermeranno in molti. Tutto questo mi suona strano, ormai
conosco l’Africa, sono convinto che debba esserci una motivazione che vada al di là della semplice
coscienza ecologica che peraltro sicuramente i Rwandesi posseggono. Sono sicuro che la vera
ragione, al momento, mi sfugga. Arriviamo in albergo, il Kigali Serena Hotel, un albergo di
superlusso come spesso se ne trovano in Africa, che fa a pugni con tutto quello che resta fuori dai
suoi cancelli.
Quando la mente genera i demoni
Il mattino dopo parto per il Kigali Genocide Memorial, il luogo della memoria del genocidio del
1994. Kennedy, il mio autista , 30 anni, Tutsi, mi dice che all’epoca del genocidio, di cui peraltro
non ricorda nemmeno bene la data, aveva 11 anni e che in quei dannati 100 giorni perse la madre ed
un fratellino uccisi dai machete degli Utu. Ma me lo dice in modo freddo e distaccato, come se la
cosa non lo riguardasse orami più. Traspare solamente un minimo di acredine, ma niente di più,
quando dice che i responsabili dei massacri sono rimasti per la maggior parte impuniti. Cominciamo
a parlare della sua vita. Mi dice che è uno studente universitario iscritto alla facoltà di economia e
commercio ma che per pagarsi gli studi è costretto a fare l’autista. Parla un francese stentato, si
giustifica dicendo che ormai in Rwanda il francese è stato soppiantato dall’inglese e che
all’università i corsi sono tutti in lingua anglosassone. Proviamo con quella: livello più disastroso
del francese. Mi chiedo come faccia a seguire i corsi universitari. Il Rwanda dopo il genocidio, in
cui la Francia è stata pesantemente implicata – tanto è vero che circolano insistenti voci sul fatto
che, all’epoca, il governo francese di Mitterrand abbia comperato in Cina e spedito direttamente in
Rwanda 5000 machete – sta praticamente abolendo l’uso della lingua francese nell’intero Paese.
Alla fine del 2008 il governo ha infatti annunciato il passaggio dell'intero sistema scolastico ed
universitario dal francese all'inglese. Il problema è che la sostituzione linguistica con l’inglese non è
affatto facile e, di fatto, si sta rischiando, soprattutto tra i ceti più poveri e meno scolarizzati della
popolazione, di ritornare all’uso della lingua locale, il Kinyawanda, e tagliarsi così ancor più fuori
dal mondo. Un po’ la stessa cosa che stanno facendo le nuove generazioni algerine, che rifiutano di
imparare il francese, senza però nemmeno pensare all’alternativa dell’inglese. Il risultato sarà che
tra due o tre generazioni in Algeria non si parlerà che l’arabo. Un po’poco per confrontarsi con il
resto del mondo. Arriviamo sulla cima della collina dove sorge il Kigali Genocide Memorial, una
vasta area completamente recintata dove, prima di entrare, vieni perquisito da capo a piedi. La
perquisizione è una costante del Rwanda, aeroporti, alberghi, musei, ospedali, stadi sono tutti
rigidamente controllati. Chiedo a Kennedy il perché di tutto questo rigore, mi risponde che la
tensione nel Paese è sempre molto alta e la paura degli attentati non è mai scesa al di sotto del
livello di guardia. Arriviamo al Memorial Building, dove una guida, gentilissima, mi dice che la
visita è completamente gratuita ma per fotografare occorre pagare 20 dollari americani, per una
guida sonora altri 15 e per un ora di vista guidata addirittura 100. Opto per guida sonora e
fotografie, anche se il tutto mi sembra francamente esagerato. Dopo pochi minuti capirò anche il
perché. Il Genocide Memorial è molto frequentato e dal momento che i suoi spazi, soprattutto
quelli interni, non sono poi molto ampi, tutta la visita si svolge in modo un po’ “accalcato”. Il
percorso di visita consigliato su di un’apposita mappa che ti viene consegnata all’entrata, comincia
con le tombe del genocidio e prosegue con i giardini delle memorie, per continuare poi all’interno
del centro e concludersi con una serie d’installazioni audiovisive, molto belle anche se
profondamente scioccanti, sul genocidio. Il centro memoriale è nato nel 1999, quando si iniziò la
sua costruzione a seguito della decisione del comune di Kigali di fornire un luogo di sepoltura
dignitoso per più di un milione di Tutzi e Hutu moderati che morirono durante il genocidio del
1994. Nel 2001 ebbe inizio la sepoltura delle vittime ed il centro venne ufficialmente aperto al
pubblico nell’aprile del 2004, in occasione del decimo anniversario del genocidio. Il suo
completamento fu reso possibile grazie all’impegno della Aegist Trust, un organizzazione
britannica impegnata nella lotta contro i genocidi del mondo, del Comune di Kigali e dall’appoggio
di numerosi governi ed organizzazioni non governative internazionali. Il centro è gestito
direttamente dalla Aegist Trust, per cui ora mi spiego i suoi prezzi salati. Indubbiamente un bel
business, credo uno dei migliori in un Paese così povero. In ogni caso la versione “umanitaria”
vuole che la Aegist Trust sia stata fondata da due fratelli, Steven e James Smith che dopo aver
visitato in giovane età il museo dell’olocausto di Advascene, in Israele, ed essere stati
profondamente toccati dall’esperienza, al loro ritorno nell’Inghilterra convertirono il complesso
colonico dei loro genitori nel museo dell’olocausto del Regno Unito. Steve e James, orami
probabilmente diventati uomini di affari, anche se in un ambito non proprio ortodosso, incontrarono
nel 2001 l’allora sindaco di Kigali ed in collaborazione con il comune riuscirono a trovare i
2.000.000 di dollari necessari a costruire il memoriale.
Iniziando il percorso la prima tappa che segna l’ingresso al memoriale di Kigali è la fontana del
genocidio. La fiamma che si trova al centro della fontana resta accesa da aprile a luglio, ossia
durante i 100 giorni di lutto nazionale annuale. Nella tradizione Ruandese il fuoco è simbolo di
morte e di lutto ed è qui è messo in antitesi con la vita rappresentata dall’acqua. Due elefanti posti
ai lati della fontana simboleggiano la memoria. In molte culture, non solamente africane, gli
elefanti, noti per la loro memoria, ne sono diventati il simbolo. Proseguo arrivando alle fosse
comuni che sono disposte lungo tre file principali. Dall’inizio del processo di sepoltura partito nel
2001 si stima che più di 250.000 vittime del genocidio siano state sepolte qui . Ogni anno centinaia
e centinaia di resti, riesumati da tutto il Paese e provenienti da tombe anonime, vengono portati al
Kigali Memorial per essere sepolti. Tutte queste vittime sono la vera ed ultima realtà del genocidio
ed aiutano a comprendere la portata dell’orrore che ha segnato questi luoghi nel 1994. Risalgo una
ripida scalinata per iniziare la visita dei giardini. I giardini sono miseri ma il loro valore simbolico è
elevatissimo.
Il primo è il giardino dei bambini , interamente circondato da alberi da frutto per ricordare che i
bambini sono il frutto del mondo. Si commemorano qui i bambini vittime del genocidio ed i
Ruandesi qui ricordano e perpetuano la speranza riposta nelle generazioni future del Paese.
Procedo nel percorso arrivando al giardino del fiore della vita, dedicato a tutte le donne del Ruanda,
donne del passato, del presente e del futuro. Il fiore della vita, nella tradizione Ruandese, è un
simbolo geometrico che qui si riflette nel disegno del giardino.. Un grande albero di acacia, che si
erge maestoso nel centro giardino sembra, con la sua ombra, assicurare un oasi di serenità e
protezione nel mezzo di questo luogo di tragedia.
Lascio il giardino dei bambini per arrivare a quello delle provincie del Rwanda. Le dieci provincie
del Paese al tempo del genocidio sono tutte rappresentate da piante tipiche del Rwanda e rinomate
per i loro usi tradizionali, tutte racchiuse a formare un esagono che simboleggia l’unità del Paese.
Dopo poche decine di metri, in effetti gli spazi sono piuttosto stretti, arrivo al giardino
dell’autodifesa. Nel giardino dell’autodifesa si trovano solo un gran numero di differenti varietà di
cactus . I cactus simboleggiano l’autodifesa che divenne l’unica possibilità di scampo per le vittime
designate del genocidio, quando la comunità internazionale non intervenne e la carneficina si svolse
nell’ ignobile indifferenza generale del mondo. Ancora pochi metri ed arrivo ai giardini delle rose
dedicati a tutte le vittime del genocidio. I cerchi geometrici invitano a muoversi tra le file di fiori
cercando d’indurre il visitatore a riflettere ed ammirare la bellezza di ogni rosa, bella ed unica
come ogni vita. Proseguendo arrivo al giardino dell’unità che rappresenta il Rwanda dei tempi
antichi, quando il Paese era unito ed in pace. Il disegno circolare del giardino, circondato da
magnifici banani, riprende la forma delle case tradizionali Rwandesi . Il giardino dell’unità è il
primo di tre giardini che ripercorrono la storia del Rwanda. Il ruscello che parte da qui scorre
attraverso gli altri giardini rappresentando il passaggio del tempo. L’acqua nel giardino dell’unità
scorre placidamente prima di cadere con una strapiombante cascata nel giardino della divisione che
rappresenta l’esplosione d’inaudita violenza e la follia collettiva che sconvolse la società
Ruandese durante il genocidio. L’acqua che scorre nel giardino dell’unità raggiunge il giardino
della divisione attraverso appunto una cascata per raffigurare la rovinosa caduta della società
Ruandese. L’acqua rompe il cerchio dell’unità per simboleggiare la rottura della pace e
dell’armonia dei tempi antichi. Diverse statue sono poste attorno al giardino, ognuna rivolta in una
direzione diversa lontana da quelle che la circondano per simboleggiare la profonda spaccatura che
si verificò nel Paese. La presenza degli elefanti ricorda, ancora una volta, che gli eventi di
quest’epoca non saranno mai dimenticati da coloro che li hanno vissuti. Proseguo sino ad arrivare al
“muro dei nomi”. Un lunghissimo muro in marmo nero su cui dovrebbero esserci circa 250.000
nomi, ossia tutti in nomi delle vittime seppellite nel Memorial Center. In effetti ve ne sono
solamente 1800. Un po’ pochi, mi viene il dubbio che il Centro di Documentazione non sia troppo
efficiente, ma in Africa non siamo in Europa, talvolta è difficile conoscere il nome dei vivi,
figuriamoci dei morti. Arrivo poi ad una delle ultime tappe del percorso esterno: il giardino della
riconciliazione che simboleggia la ricostruzione del Paese. Sono alla fine del percorso, l’ultima
tappa è la foresta della memoria , un luogo che con la pace trasmessa dalla maestosità della
vegetazione invita ad un ultima profonda riflessione prima di entrare all’interno del Memorial
Building.
Il centro si sviluppa su due piani circolari che permettono una visione completa di tutto il materiale
esposto. Fotografie, video con le testimonianze dei sopravvissuti o con le documentazioni delle
stragi, l’ossario, la testimonianza degli ultimi istanti di vita di centinaia di migliaia di vittime la cui
unica colpa è stata quella di appartenere all’etnia sbagliata, ti scaraventano negli inferi. Quello era
l’inferno, questo è l’inferno che deve rimanere nella memoria di tutti. La “stanza dei bambini”, tutta
dipinta in rosa, come nel nostro immaginario collettivo dovrebbero essere tutte le camerette di tutti
i bimbi del mondo, è il girone più profondo di questo inferno. Immagini di volti dolcissimi e
sorridenti sotto ad ognuna delle quali sono scritte sei lapidarie righe, l’ultima la più terribile.
Francine Murengezi Ingabire
Age: 12
Favourite food: eggs and chips
Favourite drink: milk and Fanta tropical
Best friend: her elder sister Claudette
Cause of death: hacked by machete
Ma il peggio, se peggio può esistere, deve ancora arrivare. La “sala dei genocidi” è un abissale
buco nero scavato nel girone più profondo degli inferi. Accanto a nomi noti ed immagini altrettanto
tristemente conosciute, come quelle di Auschwitz, Treblinka, Balika, della Cambogia di Pol Polt,
dell’Armenia al tempo dell’eccidio, tanti, tantissimi altri nomi di luoghi sconosciuti ed
impronunciabili come Abarokose, Imibare y’Abapfuye, Idini Rya Buda, Ubwicany, Ndengakamere,
Abaturage Bitwa Herero, Umubare W’Abapfaye, Ugahakana, Abantu Bishwe, accompagnati da
immagini di sangue massacri, morte, torture, perpetrati su popolazioni inermi e perlopiù composte
da donne, vecchi e bambini. Nel secolo scorso le vittime dei genocidi sono state 170.000.000.
Uomini, donne e bambini che non avevano altra colpa che quella di essere inermi, indifesi e di stare
dalla parte sbagliata in un momento storico altrettanto sbagliato. Esco dal Kigali Genocide
Memorial profondamente scosso e turbato, come raramente sono stato nella mia vita.
Anche i “bianchi” hanno pagato
Samir mi parla di un edificio non molto lontano dal nostro albergo, ancora crivellato di colpi di
mitragliatrice, ma non sa dirmi di più. La cosa mi incuriosisce e mi informo. In effetti, si tratta del
famoso “Camp Kigali”. Camp Kigali era un’installazione militare dove il 7 Aprile 1994 furono
massacrati dieci Caschi Blu belgi appartenenti al Contingente Nato di stanza in Rwanda. Il governo
Belga ha acquistato l’intera aerea, trasformandola in un museo alla memoria degli sfortunati soldati
belgi, forse gli unici bianchi che abbiano fatto le spese degli eccidi del 1994. Parto nel primo
pomeriggio, il mio secondo autista, Leonard, sembra saperne un po’ di più sul genocidio e
comunque mostra una coscienza nazionale un po’ più “viva” rispetto a quelle di Kennedy, che non
mi era sembrata invero un gran che, ed alla domanda “Sei Uto o Tutsi?” mi risponde fieramente e
senza indecisione : “Sono Rwandese”. Ottima risposta ad una pessima domanda. Arriviamo a Camp
Kigali che è ormai un dismesso campo militare in via di riconversione, ancora però presidiato da
un contingente di soldati che ci fanno entrare senza problemi. La caserma dove sono stati massacrati
i dieci Caschi Blu belgi è un basso e lungo edificio di colore azzurro, davanti al quale, nel piccolo
piazzale antistante, si ergono a memoria dieci stele di granito. I muri esterni sono crivellati da colpi
di mitragliatrice di grosso calibro. Nella prima stanza, quella del massacro, in un angolo si vedono
ancora i crateri delle due granate gettate all’interno dai soldati Utu che erano di stanza nelle caserme
attigue dello stesso campo e che, quel giorno, decisero il massacro. Nel frattempo era arrivata la
custode, un enorme tipica donnona africana dall’altrettanto tipica andatura caracollante. Mi spiega
che, un primo soldato era stato ucciso proprio davanti alla porta della caserma e che, dopo aver
gettato all’interno le granate, gli Utu hanno finito gli altri nove membri del contingente a colpi di
machete. Sulla parete della stanza un enorme lavagna protetta da un vetro sulla quale sono riportate
le frasi dei familiari delle vittime. Moltissime quelle che addossano la responsabilità del massacro
all’inefficienza ed all’inettitudine del Lieutenat General Romero Dellaire, canadese comandante del
contingente dei Caschi Blu di stanza in Rwanda tra il 1993 ed il 1994. La principale accusa mossa a
Dellaire è stata quella di essere stato a conoscenza del fatto che un DC-8 francese era atterrato il 22
gennaio 1994 all’aeroporto di Kigali carico di munizioni, armi ed equipaggiamento destinati al
Rwandan Armed Force (FAR), il gruppo Hutu estremista armato controllato dall’allora Presidente
del Rwanda Juvénal Habyarimana. Dellaire non seppe imporsi, ed alla risposta che il sequestro
delle armi andava al di là del suo mandato ONU, obbedì rendendosi, in un certo qual modo,
complice del massacro che da lì a poco sarebbe avvenuto. Soluzione da “Ponzio Pilato” certamente
criticabile ma niente in confronto alle responsabilità del governo Francese dell’allora Presidente
Mitterrand. Dellaire, non prima di essere caduto in preda a post-traumatic stress disorder ed aver
tentato nel 2000 il suicidio con un mix di alcol ed anfetamine, è poi divenuto, nel marzo del 2005,
Senatore del Governo Canadese. Nella stanza adiacente a quella del massacro vi è un piccolo,
modesto museo. Mi chino a leggere il libro delle visite che viene poi regolarmente inviato al Musée
de Commandos di Flawinne in Belgio, presso il quartier generale del 2° Battaillon de Commandos,
l’unità alla quale appartenevano i militari trucidati. Tanti visitatori, tante riflessioni. I “Never again”
ed i “Plus jamais” si sprecano, ma non sono vuota retorica. Una frase tra tutte mi balza agli occhi:
“Fallait pas y aller, fallait pas partir”. Questa era, in fondo, la verità.
Come lavarsi l’anima
Sto per ripartire dal Paese delle mille colline, è il momento di riflettere, di cercare delle risposte
perlomeno ad alcune delle mille domande che mi sono posto da quando sono qui. Una tra tutte però,
sin da quando ho visitato la “sala dei genocidi” nel Kigali Genocid Memorial, mi assilla la mente
costantemente. Come nascono, quale è la genesi di questi terribili momenti di follia collettiva che
travolgono tutto e tutti in un indicibile spirale di odio, violenza e morte? E’ una verità assoluta il
fatto che la mente umana sia quella parte di noi che è più vicina a Dio oppure ai demoni. Qui ho
visto i demoni che la nostra mente può generare ma non sono riuscito a capirne il perché e la
ragione. Forse come ho letto a Camp Kigali il genocidio è figlio del razzismo, della dittatura,
dell’analfabetismo, della povertà, mentre il cammino verso la vita è fatto di giustizia sociale,
democrazia, educazione, tolleranza. Ma non sono sicuro che la risposta sia solo questa.
Probabilmente la Storia si ripete sempre perché nessuno ascolta la prima volta. Ma un altro dubbio
mi attanaglia l’anima, quando partendo osservo dall’alto per l’ultima volta questo verdissimo,
bellissimo e tragico Paese e cerco d’immaginare la tragedia del 1994 e le strade di Kigali, oggi così
linde e perfette, lorde di sangue: l’ordine, la pulizia quasi ossessiva del nuovo Rwanda, che mai
avevo visto altrove in Africa, non è forse il segno di un disperato ed irrinunciabile bisogno di lavarsi
l’anima?