144_152_dossier_ART09

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DOSSIER
viaggio nel tempo
testata europeo
Un caldo ringraziamento alla direzione de L’EUROPEO e alla RCS per
averci concesso di ripubblicare un
reportage sull’URSS della grande
scrittrice Anna Maria Ortese. Dopo il
suo viaggio, nel 1954, la Ortese pubblicò sull’EUROPEO una serie di
articoli che contribuirono a far conosce in Italia un Paese fino ad allora
molto poco conosciuto.
east ha voluto ripercorrere questa lettura accompagnandola con le le bellissime immagini di un grande della
fotografia, Henri-Cartier-Bresson
(© Contrasto_Henri Cartier-Bresson / Magnum).
Negli anni Cinquanta, CartierBresson fu il primo fotografo
occidentale a essere ammesso
nel Paese dei soviet
1954: l’URSS
vista da una scrittrice
di Anna Maria Ortese
Io cerco cuori non pieni di politica. Altri hanno raccontato tutto quel che
avevano visto, sentito, toccato di là dalla cortina di ferro: a me nell’uomo
interessava l’uomo, e nella donna la donna
Da Praga al confine sovietico ci sono circa 18 ore di treno, ma non ho
avuto modo di controllarlo e neppure posso citare i nomi delle località
per cui sono passata, perché durante tutto il mio viaggio non ho mai
avuto a disposizione un orologio né una carta geografica. Io non ho mai
saputo con esattezza né l’ora né il luogo. Partita da Praga dopo colazione, su un treno abbastanza affollato, l’indomani mattina ero al confine.
Il viaggio, a causa del maltempo, fu uno dei più bizzarri e penosi. Ci
furono due soste in aperta campagna, sotto una pioggia torrenziale:
l’acqua non veniva giù a fili, ma a secchi, e in una di quelle soste bisognò cambiare treno, perché quello di Praga s’era guastato. Qui, in una
terza classe stipata di gente modesta, contadini e soldati, i finestrini
erano aperti e le nuvole nere, lacerate da grandi zete di fuoco, sembravano opprimerci, ma nessuna di quelle persone mostrava di accorgersene. I loro volti erano, o sembravano, indifferenti a qualsiasi minaccia
di fastidio o disagio, e tanto meno commossi davanti allo spettacolo
delle forze naturali; molti, anzi, sporgevano addirittura il viso dal finestrino, come se in quell’orribile campagna brillasse il sole.
Mi si guardava poco e, dirò, forse per educazione, si evitava quasi di
guardarmi. Salvo una coppia di giovanetti, che nello scendere dal treno,
a una delle tante fermate (il treno era una specie di accelerato), mi si
accostò e strinse con particolare forza le mani, nessuno, durante il tragitto, mi rivolse mai la parola. Verso le sei, benché fossimo appena al
30 giugno, era già notte, e il boato continuo del tuono si mescolava al
frastuono sotterraneo del treno. Consumate in qualche stazione delle
bevande color rosa, contenute in bicchieri di cartone, tutti, contadini e
soldati, cominciarono a dormire. Io non avevo più con me nessuna
provvista, e cominciai a desiderare in maniera spasmodica dell’acqua.
Più tardi desiderai del caffè, più tardi ancora del cognac. Poi desiderai
una coperta, perché il freddo era intenso, ma per tutta la sera e la notte
e poi la mattina seguente non ebbi mai né acqua, né caffè, né una
coperta, né alcun altro conforto, salvo quello che dirò ora.
Il confine, senza stazione
Avevo trascorso tutta la notte seduta su un angolo del sedile di legno,
circondata da soldati giovani e trasandati che dormivano uno sulle
ginocchia dell’altro, sfiniti dal sonno. Intorno al treno c’era stata, tutta
notte, una nuvola rossa, che non sapevo a cosa attribuire: elettricità,
riverbero della tempesta, scintille? I finestrini erano rimasti sempre
aperti, e quella nuvola era quasi dentro. Mescolata al buio della notte,
agli scoppi delle folgori, al freddo e alla luce vacillante di una lampadina, quella specie di nebulosa rossastra sembrava viva. Le mie forze se
ne andavano pian piano, fissandola, mentre pensavo vagamente
all’Italia e al sole, quando a un tratto (può darsi che io mi fossi finalmente addormentata e risvegliata) non la vidi più. Era quasi giorno.
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Neppure i soldati e i contadini c’erano più. Il treno era freddo, sporco,
deserto.
Salirono a una fermata, ma non c’era ombra di stazione, due tipi, e
dopo una leggera esitazione vennero a sedersi di fronte a me. Uno era
giovane, l’altro più anziano, e parlavano fitto fitto in una lingua che mi
sembrava vicina alla francese. Supposi che fossero minatori, senza dubbio operai, ma di che nazionalità lo ignoro. Ed ecco il più giovane, ch’era smilzo e biondo, con una faccia dolcissima, e batteva i denti, posa gli
occhi celesti e grandi sul mio sacco di tela abbandonato in un angolo.
La cerniera si era guastata. Lui vede questo, gli occhi, che scintillano di
continuo, con una luce di fiume, una grazia infantile, m’interrogano:
può provarsi ad aggiustare la cerniera? Faccio sì col capo. Prende il
sacco, e le sue mani scure e delicate lavorano febbrilmente intorno alla
cerniera, fin quando non è aggiustata. Mi riconsegna il sacco sorridendo.
Poco dopo, a un’altra fermata, il giovane e il suo compagno scompaiono. Dico scompaiono perché è ancora il crepuscolo, è l’ora fredda e torbida che precede l’alba, e non posso dire di aver notato chiaramente i
loro passi e i volti. So che la cerniera è aggiustata, sono sola, e il treno
corre adesso verso la frontiera sovietica. Distinguo qualcuno, in fondo
al corridoio, non so se sia un giovane o un vecchio, una donna o un
uomo. È un essere piccolo, grigio. Affacciato al finestrino, col viso rivolto alla pianura pallida e asciutta, probabilmente credendosi solo,
fischietta monotonamente qualche cosa. Non c’è nessun dubbio, sono
le note della Paloma di Yradier. All’alba, questa semplice ombra, con
ogni probabilità ombra di operaio, canta: “Si a tu ventana“ molto sommessamente.
“Habla usted español?“
Il treno si fermò ancora. Questo era il confine. Era giorno, ormai, e questo era il confine. Non posso descrivere esattamente il luogo, perché ero
molto turbata, ed esso mi si presentò confusamente: un pezzo di campagna nera d’acqua, lucida d’acqua, di binari neri; in alto, un cielo ancora ingombro di nuvole, ma non così nere, e già lontane. Un po’ di sole.
Un ufficiale sovietico, grasso e accuratamente vestito, guardava sorridendo verso il treno.
Misi giù il bagaglio e scesi. L’ufficiale mi si accostò, gli mostrai il lasciapassare avuto a Praga e, in francese, gli domandai dove fosse il treno
per Mosca. M’indicò una fila di vagoni, mezzo chilometro più in là. Io
battevo i denti, come il giovane del treno mezz’ora prima, perché questo era un momento che avrebbe commosso persone anche più sane di
me, e mi guardavo intorno cercando con lo sguardo chi potesse aiutarmi a portare il bagaglio. Ma "è inutile", mi parve leggere negli occhi
sorridenti dell’ufficiale, "non c’è nessuno, bisogna fare da sé". Mi pareva che non ce l’avrei fatta neppure a camminare da sola, tuttavia presi
le valigie e mi avviai in quella direzione. Misi dieci minuti buoni a raggiungere questo treno, e intanto il cielo si era nuovamente oscurato e
qualche goccia ricominciava a cadere. Feci appena in tempo a salire, che
sentii uno scoppio di tuono, e di nuovo pioveva per tutta la campagna.
Tutta notte mi ero confortata aspettando questo momento: sul treno
per Mosca avrei trovato divani, tendine, vetri chiusi, gente più socievole e, soprattutto, un buffet dove avrei bevuto qualcosa di caldo.
Perciò, vedendo questo scompartimento gelido, chiaro, dalle pareti laccate di celeste, con quattro tavole nude disposte a coppia una sopra l’altra, trovandomi in questa specie di ambulatorio viaggiante, e assolutamente deserto, la mia fiducia subì un duro colpo. Un odore violento, tra
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di latrina e di medicinale, invadeva tutto il treno, e m’impediva di respirare. Mi sedetti in un angolo e cercai i fiammiferi e le sigarette. Dopo
cinque minuti, il cielo era completamente nero, la pioggia cadeva a
rovesci, e le folgori si abbattevano dovunque, in un fragore orrendo,
continuo. Mi domandavo se non avevo sbagliato treno, e altre cose. In
quel punto, nel rumore sempre più assordante e nella luce sempre più
fioca, si fecero vivi dei passi, delle voci. Alcuni uomini della polizia
entrarono nello scompartimento. Accennarono un saluto impacciato,
circondandomi. Porsi i miei documenti, anch’io impacciata. Mi sentivo
male e temevo ch’essi dessero a questo malessere una diversa interpretazione.
Scorsero quelle carte sorridendo. Alla fine, un giovane che non avevo
visto prima, di statura media, vestito in borghese, molto pallido, uscì
dal gruppo e mi si sedé accanto. Aveva occhiali leggeri, dove gli occhi
splendevano di una luce cupa, e un viso dai contorni taglienti, molto
serio. Mi rivolse la parola in inglese e in tedesco, e io non risposi.
“Habla usted español?“ Risposi che lo parlavo. Il dialogo che seguì fu
pressappoco questo: “Per quali motivi viene nell’Unione Sovietica?“
“Faccio parte di una delegazione.“ “E dov’è questa delegazione?“
“Partiva questa mattina da Praga“ “Una delegazione italiana?“ “Sì“ “E
lei, perché non è partita con gli altri?“ “Non volevo andare in aereo.“
“Per quale motivo?“ “Ho paura.“
Come disinteressati, gli altri uomini della polizia si allontanarono. Li
vedevo di spalle nel corridoio. Il giovane mi guardò pensieroso attraverso gli occhiali. “È la prima volta che viene in Urss?“ “Sì.“ “Non ha
parenti… qualche amico, quassù?“ “Nessuno.“ “Ha con sé pietre preziose?“ “No, non ho pietre preziose.“ “Denaro?“
Tolsi dalla borsetta alcuni pezzi di carta, tra corone e scellini, e li posai
sul tavolino. “Non ho denaro… salvo questo“, dissi nervosamente. Un
fulmine scoppiò quasi sul treno. “Nessun rublo?“
Si fermò, con la mano sui biglietti, guardandomi freddamente.
“Nessun rublo?“ “Ho paura“, dissi. "E ‘di che’ ha paura?“
Disse questo sottovoce, ma fermo, senza togliermi gli occhi dal viso.
“Questi scoppi“, dissi debolmente. “Non sopporto.“ Vidi il suo braccio
allungarsi verso la tendina, e tirarla. La sua voce, quando parlò, era
mutata. Non più calda, ma neppure ostile. Direi intelligente. “Anche
mia madre“, disse, “teme i fulmini. Posso capire.“
Non parlò, per qualche momento. Mi porse una sigaretta e rimase un
po’ in silenzio accanto a me, aspettando che mi calmassi, ora guardando la tendina, ora, pensosamente, le pareti metalliche dello scompartimento. Egli sembrava triste, come, da quel momento, mi sembrarono
tristi tutti i migliori uomini sovietici. Sembrava chiuso in un pensiero
dal quale era impossibile uscire.
“La lluvia está calmando“, disse a un tratto.
Non tuonava più tanto. Riprendemmo il dialogo, ma per poco. Mi
porse un modulo redatto in varie lingue, tra cui lo spagnolo, e mi pregò
di riempirlo. Scrivevo e, intanto, egli mi guardava: non sapevo se quello sguardo fosse solo burocratico, o anche umano. Certo, passavano là
dentro parole di cui egli non era neppure cosciente. Alla fine: “Tornerò
più tardi e l’accompagnerò al ristorante“, mi disse alzandosi. “Dovrà
anche cambiare treno. Questo non è il suo. Il suo è migliore.“ “Grazie.
E starà molto prima di tornare?“
“Sì. Ma fra due ore sarò di nuovo qui.“
Non so ancora in che modo riuscii a passare quelle due ore. Alla fine,
tremavo senza sosta, fitto fitto, e battevo i denti. Quando l’interprete
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riapparve non lo vidi subito.
“Usted abbia la gentilezza di seguirmi“, mi disse.
Indossava una mantellina nera, d’incerata.
“Usted non ha impermeabile?“ Era preoccupato.
“Non m’importa della pioggia“, dissi.
Del resto, piovigginava. Percorremmo 300 o 400 metri nella campagna
deserta, ma ormai pacificata sotto il cielo che si era schiarito. In un edificio basso, che al mattino avevo appena intravisto, c’era il ristorante.
Ricordo un certo traffico di persone, che per altro non mi guardavano
affatto. L’interno dell’edificio era messo come un’abitazione, con vecchi
ritratti alle pareti, fotografie incorniciate alla buona. Si sentiva un
odore di verdure bollite. Nelle fotografie c’erano Lenin, Stalin, Gorki.
Entrammo in una saletta riservata, l’interprete mi fece sedere a un
tavolino rotondo innanzi alla finestra, e sedette a sua volta di fronte a
me, scusandosi se non mi faceva compagnia a tavola. Comparve una
bionda alta, dall’aria molto piacevole e buona, che mi servì con premura e gentilezza. Ogni tanto, alle spalle dell’impiegato, mi gettava un
fuggevole sorriso, da donna. Ebbi un bicchiere di vino alto 10 centimetri, di un colore giallo fumoso: bastò un sorso a darmi un senso di
fuoco, di luce. Feci mettere il resto in una boccetta per servirmene
durante il viaggio.
Ormai stavo già meglio. Mi giunsero dall’esterno, attraverso la finestra, le note di alcune canzoni patriottiche trasmesse dalla radio. Il
senso era di violenza e bellezza, e nel fondo un ritornello, come un pensiero ossesso che non aveva da fare con quella gioia, sembrava esprimere la desolazione di una solitudine e uno spazio difficili da superare.
Era come qualcuno che invocasse il sole dal fondo dell’inverno, o uno
che piangesse in un giorno di festa. Guardai l’interprete: sembrava
assente.
Il mio sonno disperato
Poco dopo, ero di nuovo davanti al treno. Avevo avuto assegnato un
lettino nello scompartimento già occupato dai coniugi Lucia e Nicola
Ivanovic, che viaggiavano in compagnia di un loro cugino, ma queste
notizie le seppi dopo. Il mio bagaglio era già sistemato. Dal finestrino,
guardavo la campagna rasa e triste e, sul marciapiede, immobile, il giovane con gli occhiali.
“La ringrazio molto… davvero… Lei è stato molto gentile“, dissi.
Avrei voluto dire altre cose, queste erano abbastanza goffe, ma non ci
riuscivo. Avrei voluto dirgli che mi aveva colpito soprattutto la sua
educazione. Ebbe un breve sorriso.
“No hay de que.“
Il treno si muoveva. Egli rimase a fissarlo, sempre con quel debole sorriso. Poi improvvisamente volse le spalle e andò via.
Quel momento che l’interprete scomparve ai miei occhi, fu terribile.
Dietro i suoi occhiali, sotto i modi distanti, avevo sentito un uomo della
nostra Europa; avrebbe potuto essere un belga o un francese o anche
un tedesco del Sud; persona civile, forse non estranea agli studi. Mi
aveva nominato sua madre… Ora, con me, non c’era più nessuno, o mi
pareva. Alzando gli occhi scorsi per la prima volta, nel cielo illuminato
da fasci di sole, i corvi. La porta del mio scompartimento era lì vicino.
Entrai in fretta, spostai il bagaglio, e senza nemmeno gettare un’occhiata alla famiglia Ivanovic, mi gettai sul letto, mi tirai il cappotto fin
sulle orecchie e cercai di dormire.
Fosse effetto del vino o della stanchezza o di tutta quella somma di
emozioni, vi riuscii senza difficoltà. Credo di aver dormito molte ore,
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un sonno confuso e pesante, pieno di una soffocata disperazione.
Pensavo che non sarebbe passato meno di un mese prima del mio ritorno, e mi domandavo se sarei mai tornata: avrei potuto morire su quel
treno, per un motivo qualsiasi, e sarei stata abbandonata in una qualsiasi località dell’Ucraina. Nessuno mi conosceva: solo dopo molto
tempo la notizia sarebbe giunta in Italia.
Svegliandomi, e prima ancora di ricordarmi in quale luogo fossi, sentii
cantare dolcemente non in una lingua, ma in una melodia conosciuta.
Non mi sbagliavo, era proprio la prima edizione di Santa Lucia: “placida è l’onda, docile il vento“. Rimasi senza fiato, incantata. Che il treno
fosse tornato indietro? Subito dopo, quasi a confermarmi in questa
straordinaria impressione, ecco le note mutare, e la donna, perché era
una voce di donna, scoppiare nella gioia effervescente della più famosa
canzone di Di Giacomo.
Alzai la testa, ed ecco che cosa vidi.
Sdraiata mollemente sul lettuccio di fronte al mio, la signora Lucia
Ivanovic, facendosi vento con un cartone, cantava. Il suo volto soffice e
bianco, dall’ovale perfetto, era illuminato, è la giusta parola, da due
magnifici occhi neri, ridenti e ingenui, occhi di fanciulla più che di
donna. I suoi capelli neri erano sciolti e attraversavano come un serpe
d’inchiostro il cuscino. Era in sottoveste, con un asciugamano sul petto,
e da questo asciugamano veniva fuori un braccio rotondo e morbido di
un bianco latte. Non sembrava aver superato i 25 anni e, da quel che si
scorgeva sotto l’asciugamano, sembrava piuttosto formosa e apatica.
Seduto ai piedi del lettuccio, il signor Ivanovic, una specie di Cristo di
legno, magrissimo, con una faccia ornata di un lungo naso paziente, era
intento a cambiarsi un paio di calzini. Il cugino, di cui scorgevo le
gambe penzoloni dal lettuccio superiore al mio, era occupato invece a
leggere la “Pravda“. Sul tavolino fra i due letti, sotto il finestrino, era
collocato un vaso di vetro con tre o quattro rose rosse, già un po’ sciupate. Il finestrino era chiuso, e il sole, prossimo a tramontare sul filo
monotono della pianura, illuminava tutto: gli occhi neri della giovane,
le rose, la testa scarna e le spalle ricurve di Nicola Ivanovic, più un
pezzo della “Pravda“.
Mi domandavo in che mondo fossi.
La donna mi tolse d’imbarazzo. Smettendo di cantare, mi chiese garbatamente di che città ero: Napoli o Milano? Aveva visto una targhetta con la parola “Italia” sul mio bagaglio. Benché si esprimesse in russo,
io capivo perfettamente, come si capisce un sardo o un piemontese, in
certe situazioni, se il suo volto è espressivo. Dissi, pensando di farle piacere: Napoli.
“Bella, bellissima Napoli“, disse proprio così, erano le sole parole che
conosceva del nostro paese, e le pronunciò con un accento così inconfondibilmente italiano, e un sospiro tale, che ne rimasi sbalordita. Disse
ancora “canto“, e scoppiò a ridere con una soavità indicibile, divertita
dallo stupore che vedeva nei miei occhi. Tutto, in lei, aveva la grazia di
un bambino e la mollezza e la noncuranza di un animale. Nel cantare,
nel ridere, nel chiacchierare, non aveva fatto un gesto, quasi gliene
mancasse la forza, o lo ritenesse inutile. E ogni momento scoppiava di
nuovo a ridere. Un cupo brontolio da parte dell’Ivanovic mi fece capire che suo marito non apprezzava eccessivamente questa facilità d’essere. Egli dové farle qualche timido rimprovero, ed essa scoppiò ancora
a ridere. Improvvisamente mi indicò le rose. “Wien!“ disse. “Souvenir
Wien.“ E si alzò appena su col busto, nel dire questo nome, e i suoi
occhi mandarono un lampo. Come quelle rose fossero importanti per
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Lucia Ivanovic, lo capii solo due giorni dopo, all’alba della domenica in
cui dovevo arrivare a Mosca. Ma in questo frattempo erano accadute
altre cose per me ugualmente importanti.
Pietro Ilic, bello come un dio
Rianimata da questo incontro, la vitalità e dolcezza mediterranea
della donna, la mediocrità umana del marito, quel tanto di apolitico e
universale che avevo riscontrato nei miei vicini di letto, trovai il coraggio di uscire dallo scompartimento e cercare, in fondo a due o tre corridoi, il vagone ristorante. Entrandovi, ebbi l’impressione di capitare in
una trattoria di terz’ordine, piemontese o toscana. Modesti tavoli
coperti da una tovaglia ancor più modesta, erano affollati di soldati e
ufficiali con la famiglia. Si beveva, si chiacchierava. Una cameriera giovane e bruttina, con le gengive scoperte e uno sguardo pieno di gioia,
mi accompagna premurosamente a un posto libero, ripetendomi in
russo i nomi di questa o di quella pietanza, e accrescendo al massimo il
mio imbarazzo.Abbasso la testa, umiliata, e in quel punto una voce fresca e gradevole, alla mia sinistra, mi domanda in francese se può essermi utile. Alzo gli occhi: è una ragazza sui 22 anni, molto graziosa, con
due piccoli occhi vivaci e una fronte bianca e orgogliosa circondata da
una nube di riccioli chiari.
“Liza Varussin“, dice presentandosi. “Ho capito la sua nazionalità dall’accento. Ho amici italiani. Ecco mio marito, Sergio. E questo è Pietro
Ilic, nostro amico. Lei è sola?“
Risposi di sì. Subito dopo ero al loro tavolo.
Mi erano bastate poche occhiate a rendermi conto di tutto.
Questa era la più bella gente che avessi incontrato finora. Erano russi
fino alla radice dei capelli e, come gli Ivanovic, soltanto russi. Nulla del
controllo e del calore ghiacciato ch’era nella voce e negli occhi dell’interprete. Qui, il fuoco era liquido. La rivoluzione non era passata, non
era mai stata. C’era una specie di latente follia.
Lei aveva un corpo vigoroso e snodato, un bel collo, una pelle pura. Era
vestita con una vaga noncuranza, di roba fina. Il suo sguardo era liscio
come la seta, ma dietro si scorgevano continui lampi, come in un cielo
d’estate. Sergio Varussin (almeno così mi suonò il nome), il marito,
sembrava più piccolo di lei, era un giovane sui 30 anni, smilzo e, mi
parve, di una struttura perfetta. Era biondo, e il suo sorriso distaccato,
lontano.
Pietro Ilic era uno che sarebbe stato notato in una folla di cento giovani ufficiali ugualmente belli. Più che un giovane, era una specie di dio.
Il corpo era quello di un leone. La testa quella di un fanciullo. Aveva
una tale selva di capelli ricciuti e biondi, da dare fastidio. Sotto quei
capelli, la fronte era marmo. Sotto quel marmo, gli occhi di un azzurro cupo, velato come l’azzurro dei neonati, fissavano lontano, immobili e scoraggiati. Ilic era triste fino alle lacrime, e a quella tavola, in quella gaia riunione, questa era una cosa che sconvolgeva. Egli non si curava affatto di nascondere la sua tristezza. Io compresi solo due giorni più
tardi a che fosse dovuta.
Tra me e Liza cominciò un fitto colloquio. Ci aiutavano con dei bigliettini che poi passavamo tra qualche lieve risata sotto gli occhi dei due
ufficiali, ma debbo dire che Ilic vi posava appena lo sguardo.
Scoprimmo che avevamo molti gusti in comune. Non si parlò affatto
di ciò che io avrei trovato a Mosca, e nella Russia in genere. Liza, coi
due ufficiali, veniva da Berlino, dove il marito era di guarnigione, e si
disponeva, dopo due anni di lontananza, a trascorrere un breve periodo nella nativa Crimea. Fu portato dello champagne, si bevve e, in quel
punto, il sole ormai al tramonto, sul limite della pianura, dardeggiò per
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qualche minuto i suoi lunghi raggi nello scompartimento. Liza, Sergio
e Ilic mi parvero, avvolti in quella luce, incandescenti, erano straordinari e, fosse lo champagne o la stanchezza di tante emozioni, sentii i
miei occhi inumidirsi. Essi mi guardavano tutti con dolcezza, come se
in quella parte del tavolo, invece di una straniera, vi fosse una persona
nota e lungamente ricordata. Era una sensazione che dovevo provare
più volte, in Russia: fuori o dentro l’ideologia, non vi è nessuna barriera tra un cittadino russo e uno straniero. Si stabiliscono immediatamente, in ogni ambiente, intese tenere e strane, si masticano gli stessi
fili d’erba. Non ha importanza di che partito siete, ma come amate. Mi
sembrava impossibile e, intimamente, mi sentivo sconvolta. D’un tratto, però, nessuno di essi rise più, e Liza abbassò un volto tormentato,
mentre Ilic volgeva la bella testa lontano. Si fece un bizzarro silenzio.
Non mi fu consentito pagare il conto con i miei scontrini. Promisi a
Liza che l’indomani le avrei portato uno scialle veneziano, che avevo in
valigia, e turbata da quel silenzio mi ritirai nel mio scompartimento.
Qui, Lucia Ivanovic era sempre al medesimo posto. I suoi occhi neri
scintillavano nell’oscurità. Mi fece cenno, con un dito davanti alla
bocca, di parlare piano, e m’indicò con lo sguardo le cuccette superiori.
Sulla sua testa, Nicola Ivanovic russava.
Mosca si avvicina
Mi posi a letto, in silenzio; e quando credevo che già tutto fosse
tranquillo e che, fino a domani, non avrei comunicato più con nessuno,
qualcosa mi sfiorò e poi strinse la mano. Era qualcosa di grassoccio e di
soffice, la mano di Lucia Ivanovic. Essa tenne nella sua la mia mano, e
la dondolò un poco, coi dolci occhi pieni di felicità, come avrebbe fatto
una madre col suo bimbo.
L’indomani mattina era il 2 luglio. Svegliandomi vidi attraverso il finestrino un cielo calmo, coperto. Il fremito continuo del treno, quel tran
tran sotterraneo che faceva tremare senza sosta il lettino e vibrare
impercettibilmente le pareti, ogni oggetto, mi ricordarono ch’ero in
viaggio, che avevo varcato il confine sovietico e correvo adesso verso
Mosca. A questo pensiero, all’idea di trovarmi in territorio russo, nel
Paese delle cupole dorate e della rivoluzione socialista, provai non so
che turbamento indicibile, quasi fisico, e tutto il mio cuore gemé per un
attimo nel desiderio dell’Italia.
Per fortuna, questa vertigine passò subito. Successe nella mia testa un
silenzio inerte. In quel silenzio (solo per un momento, guardando il
finestrino, avevo aperto gli occhi, poi li avevo richiusi, e i miei vicini
dovevano essere convinti che io dormivo) sentii i coniugi Ivanovic discutere sottovoce. Non vi fu nessun dubbio, mentre osservavo tra le
ciglia il volto crucciato di Lucia, e lo vedevo rivolgersi a me e guardarmi come si guarda qualcosa che ci appartiene e che si sta difendendo,
che la discussione avesse per oggetto la eccessiva familiarità dimostratami dalla donna. Nicola Ivanovic rimproverava la moglie di quella
familiarità con una sconosciuta. Essa doveva rispondergli che non c’era
nulla di male, che infine dividevano lo stesso scompartimento, ed era
impossibile non parlarci. La diffidenza di quell’uomo, la sua ostilità non
mi fecero alcun male e neppure mi sorpresero, le trovavo naturali in un
uomo un po’ pavido e pieno di complessi; mi commosse invece la bontà
di Lucia e, strano, invece di acuire la mia tristezza, questo fatto parve
alleviarla.
La porta dello scompartimento si chiuse, lasciando sporgere la testa di
una inserviente che offriva tè e cioccolata calda.
Nicola Ivanovic acquistò tre bicchieri di cioccolata, contando il denaro
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in mano alla donna, e io, mentre salutavo Lucia, presi un bicchiere di
tè. (....)
Mi vestii in fretta, badando, come per tacito accordo aveva fatto ciascuno di noi, di svolgere tutta questa manovra al disotto del lenzuolo; alla
fine, infilate le scarpe, uscii nel corridoio per andare a lavarmi. Non
c’era molta gente, in corridoio, perché quasi tutti i passeggeri erano
ancora a letto. C’era un silenzio incredibile per una classe popolare,
come un’aria di domenica triste, in cui la gente si attarda nei letti niente affatto pensando, odorando l’aria pura che viene dai campi attraverso le finestre aperte. Quei visi, di uomini o donne, di vecchi o bambini,
che potevo intravedere qua e là, appoggiati sui cuscini, o il gomito sul
cuscino e la mano sotto la fronte, nell’altra mano un giornale ch’era
spesso la “Pravda“, quei visi, come quelli del treno di Praga, non esprimevano niente e, solitamente, mostravano d’ignorarmi, benché poi,
allontanandomi e guardando per caso di nuovo indietro, scorgessi alcune pupille in atto di fissarmi.
Se questo riserbo faceva parte della natura dei russi, era dovuto alla
nuova educazione, se esprimeva una esigenza naturale, o rappresentasse un lato provvisorio, della loro vita, io non avrei saputo dirlo. Vera
è una cosa: che le folle, durante il mio viaggio in quel territorio, le ho
viste sempre così: inerti, fredde, assorte. Erano come il mare guardato
da lontano: una linea morta, plumbea. Mi accostavo: ecco un fragore,
un movimento, una gioia. Ecco le onde. Il profondo mare dell’animo
russo da lontano è nemico. Da vicino, è fresco, colmo di suoni.
Il timore dell’ignoto
Riattraversando il corridoio, provai un vago malessere, e mi accorsi che faceva caldo e tutti i vetri erano accuratamente chiusi, essendo
questi treni attrezzati soprattutto per i lunghi viaggi invernali. Non
sapevo in che modo procurarmi un po’ d’aria e, dall’orrore che ciò non
fosse possibile, mi sentii la fronte diventare ghiaccia.
L’ufficiale calvo che avevo visto in corridoio svegliandomi, era ancora
lì. Comprese, dal modo con cui posavo la faccia sul vetro, che mi sentivo male, e accostandosi, molto cortesemente, manovrò una leva: una
striscia di vetro, nella parte superiore del finestrino, si staccò dal vetro
fisso, e cominciò a salire. Entrò l’aria, un filo di vento, l’odore della
terra: quanto mi bastava a riprendere vita.
Sotto il finestrino c’era un sedile di legno. Sedetti lì, con addosso uno
scoraggiamento confuso, dovuto alla mia salute malferma, e al timore
di questo ignoto in cui mi avventuravo. Lo sguardo dell’interprete era
stato umano; piena di grazia era quella giovane del popolo che cantava
per consolarmi, e squisitamente civili le maniere dei Varussin. Ma che
cosa c’era dietro tutto questo? Ricordavo tanti altri piccoli particolari: il
ragazzo e la fanciulla che, sul treno di Praga, non avevano mai lasciato
di guardarmi e, alla fine, mi avevano stretto con tanto amoroso calore
la mano; l’operaio che, all’alba, aveva voluto aggiustare la cerniera del
mio sacco, per dirmi con quel piccolo gesto che non temessi, avessi
fiducia, e la sua faccia dolcissima, gli occhi pieni di una luce di fiume.
Ecco ancora la donna del ristorante nella stazione di confine, che mi
sorride furtiva e dolce passando dietro la sedia dell’interprete; ecco
ancora il sorriso, pieno di una misteriosa gioia, della cameriera del
ristorante, così bruttina e così stranamente felice. Ma che cosa c’era dietro tutto questo? Da trent’anni io sentivo parlare della Russia come di
un paese spiritualmente spento, moralmente deserto, cupo, dove gli
uomini avevano praticamente ucciso tutto quanto riguardava il cielo,
dove della libertà individuale si era perduto ogni senso. Ed ecco, era
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DOSSIER
questo che mi stordiva: il non vedere alcun nesso tra queste asserzioni, tra la brutalità di cui si parlava e la bontà,
la bellezza morale, quello sfolgorio tranquillo che coglievo in tanti sguardi. Poco alla volta, mi persi in strani pensieri.
Mi tolse da questo stordimento la voce di Liza: “Come va? Avete dormito bene?“. “Benissimo, grazie.“ “Dovreste
venire a tavola, per favore. Sono già le dieci.“
Mi parve, se possibile, più alta. Ma l’abito era anche più sciupato e sul volto c’era una stanchezza leggermente più
accentuata di ieri sera. Gli occhi non mandavano lampi. Non sorrideva, eppure la sua voce educata mi parve anche
più amica mentre mormorava quelle poche parole. Mentre camminavamo, dirette al ristorante, lungo il corridoio,
Liza disse: “Tutti dormono, avete notato?“.
“Molti non dormono, ma sono rimasti a letto ugualmente.“
“È lo stesso. Stanno zitti e pensano. In questo modo riposano.“
“Pensate che siano tristi?“ chiesi involontariamente.
“E voi, pensate forse che io lo sia?“ disse Liza con un sorriso.
“No… non proprio“, dissi confusa. Il treno oscillava violentemente. “Venite… datemi la mano.“ Quando entrammo nel ristorante, in quel momento preciso, dal cielo coperto venne fuori un gran raggio e illuminò tutti i tavoli.
Vidi laggiù, al solito posto, Sergio Varussin e Pietro Ilic, già seduti. Alle loro spalle, due giovani in abiti civili e piuttosto eleganti, molto alti. A destra, a sinistra, avanti, indietro, a quei 15 o 20 tavolini, soldati e ufficiali sovietici, dall’aspetto curato e insieme modesto, donne e ragazze con qualche pretesa d’eleganza, come un cappellino ornato di
un nastro di velluto rosso, e, vestiti completamente di nero, due cinesi.
Pietro Ilic, che come ieri sera sedeva di fronte a me, mi parve per un momento più pacato. Qualcosa come un sorriso tremava nelle sue pupille azzurro cupo. Volgendosi a Liza mormorò alcune parole in russo, poi, come aspettando, guardò me.
“Pietro dice“, tradusse Liza, “che il sole è dolce anche in Russia, se il cuore è in pace.“ “Oh, sì!“ dissi commossa.
Liza ripeté a Pietro la mia esclamazione. L’ufficiale si rivolse ancora a Liza. Parlava con la dolcezza di una donna.
“Ilic spera“, disse Liza, “che questo sole vi accompagni fino a Mosca e poi durante tutto il tempo che rimarrete in
Russia e, tornando a casa, lo ritroviate sulla soglia della vostra casa.“ Queste parole produssero su di me un’impressione violenta. Non potei rispondere nulla e abbassai lo sguardo sul tavolo.
L’emozione di uno strano brindisi
Poco dopo, ecco ancora, davanti a me, una mano spingere un bicchiere di champagne. Lo sollevo con la mano incerta. Non ho mai bevuto a quest’ora del mattino, ma sento che qui tutto è possibile. Infine non sono sicura se questo vino sia solo champagne, o non, anche, sole. Vedo, in mezzo a un gran tremolio, gli occhi azzurri e gravi di Ilic
fissare ancora lontano, con quello sguardo da prigioniero, quella pura calma. Vedo gli occhi di Liza abbassarsi; quelli di Sergio guardare tranquillamente la tavola, e Liza, e il sole, con una freddezza non priva di comprensione e
pietà.
Il treno è fermo in mezzo a una campagna gialla. Nel cielo, qua e là delicatamente azzurro, volano bassi i corvi.
Sergio si curva in avanti sul tavolo e mormora qualche cosa a Liza. Liza traduce: “Sergio vi domanda se vi meravigliano molto questi corvi“.
“Sì. Mi sembrano incomprensibili. La natura appare pacata e materna, e questi corvi sembrano graffi sulla sua
fronte. Si direbbe che essa si tormenti per qualche cosa.“
Liza tradusse: Sergio ascoltò gentilmente, poi parlò, con un tono direi mondano, e Liza, esitando, tradusse ancora:
“Sergio dice che avete ragione. Il nostro Paese è pieno d’incognite, molte cose vi spaventeranno, ma egli è del parere di Pietro: il sole è dolce anche in Russia se il cuore è in pace“.
Dormii durante tutto il pomeriggio, ma dormii male (…).
In questo dormiveglia, tra immagini fuori del comune, che io tentavo di analizzare, in una disperata volontà di
riportarle alla nostra stretta misura occidentale, sentii che gli Ivanovic continuavano a discorrere. Lucia non rideva. Parlava turbata, come se qualcosa di spiacevole l’aspettasse a Mosca. Ma perché non pensava a questo già da ieri
sera? Perché, ieri sera, rideva così beatamente? Probabilmente rideva perché aveva cantato, e aveva cantato perché
era in pena per qualche cosa. Sì, doveva essere così.
Mi tirai su di colpo. Mi ero ricordata che avevo promesso a Liza di portarle lo scialle
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