lo stretto necessario - Comune di Corte Franca

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lo stretto necessario - Comune di Corte Franca
LO STRETTO NECESSARIO
Villa San Giovanni-Messina. Sembra l'annuncio di una partita, invece è il nome di una partenza. È
un senso stretto nella mente, un viaggio di costa e di frontiera, un viaggio di tempo al ritmo
misterioso e quasi gutturale del mare. E' un transito di destini umidi e di ricordi secchi su traversine
spaccate dal sole e dalla solitudine ripetitiva di cicale ferroviarie, di attese in silenzi che evocano la
notte e che assomigliano ai sogni. A Villa si ferma la corsa di un'Italia stretta che, come dice bene
Erri De Luca, sembra un molo naturale, un braccio di terra gettato dalle Alpi europee in mezzo al
Mediterraneo. Nella stazione di Villa arriva il locomotore caldo che sembra abbia la faccia di un
cane stanco e assetato, giunto a casa, a fine percorso. Sulla ciotola. Consegna il treno a un'avventura
che è ferma come in ascolto precario con le carrozze che ospitano passi sul legno sordo dei corridoi
e voci di attesa, piccole apprensioni di ritardi e di scambi lenti da percorrere sulla linea nuova,
evocata ma quasi immaginaria. Quella che lascia la terra sicura ma ormai sempre più scarsa e senza
orizzonte se non quello marino. Una terra che, come fosse disperata o impazzita o priva di ulteriori
risorse, si affida all'acqua. Una ferrovia che, senza più gallerie e curve e Calabrie, diventa da adesso
in poi sublimata: sublime e marina. Ora come allora.
Ignazio era stato bambino, figlio di militare di stanza lontano da casa e privo di voglia di guidare e
di patente necessaria, soldato con nostalgia antica africana non percorribile e una più presentabile
sicula per parenti e familiari d’origine. La partenza ferroviaria del viaggio estivo e lunghissimo
aveva per lui il profumo dell’attesa scandita dal ritmo contato delle settimane, dei giorni, persino
delle ore e dei minuti per quel fischio con paletta verde e cappello rosso e visiera delle 7,41 del
tredici di luglio, domenica o giovedì o qualunque altra cosa che fosse per andare giù, giù nell’isola
più in giù di tutto, terra di quel padre triste e severo e alto ora in fremente attesa prima di alzare il
finestrino di littorina partita assolata, diesel e rumorosa che speriamo arrivi in tempo per la
coincidenza e faccia fermate veloci sulla vecchia tratta a binario unico che ad ogni fischio si teme
una frenata brusca che stavolta non c’è e si va veloci in questa mattina eccitata con le siepi e tutto
questo verde di foglie che attraversiamo, che lasciamo qui con il fiume imponente e già lontano e la
staccionata bianca che sa di campagna, di dialetto e di biciclette dimenticate sul muretto e di scuola
già finita da un pezzo per questa mattina che non arrivava mai e che ora è qui che scorre lenta ed è
giusto che sia lenta, per questo viaggio immenso che duri per tutto il tempo senza perdere nemmeno
una goccia di istante.
E non c’è gente che tenga, non c’è controllore che guardi questo biglietto lenzuolo di militare del
sud in ferie con figli annessi, non c’è valigia che tenga sulla retina panciuta, non c’è la prima
pisciata che tenga in toelette bianca dove non toccare niente, mi raccomando, dove non c’è nessuna
pipì da fare ma solo vedere le traversine ed i sassi chiari di binario in fondo al water senza fondo col
rumore di viaggio che viene su mentre lo specchio testimonia come sempre e come adesso che il
tempo è arrivato, che ci ha raggiunto finalmente e se schiacci il pedale esce l’acqua nel lavandino
che è in viaggio con te, che è ferrovia come te, che è partito come te, dopo il fischio di quell'arbitro
con il cappello rosso e la visiera da poliziotto.
Eccolo il viaggio, ecco la ferrovia col suo inconfondibile aroma di velocità possente e relativa,
intrisa del lontanissimo odore di carbone per locomotiva, di pensilina di cemento e ferro battuto, di
binario lucido su traversina di legno molto scheggiato, di fari gialli notturni col terzo occhio in
fronte, di panchina assolata ed eccessiva quasi inutile, di semaforo altissimo e rosso silenzioso e
non promettente, di ponti bruni di ferro incrociato e di stazioni velocissime preannunciate da
improvvisi scambi di binari e da rumori generatori di ulteriori binari che poi vengono riassorbiti
richiudendo il paesaggio che torna a fuggire, di un altrove quasi disperato o quasi disperso in viaggi
antichi di treni per il sud affollati e puzzoni con Bologna caldissima e Firenze vuota con
marciapiede infinito solcato da ferite di rotaia lenta e di bar ambulanti spinti a mano e voce per
acqua minerale in bottiglie bambine e cestini misteriosi e panini e aranciata in bicchiere di carta che
sa di carta, di treni incrociati come macchie di tuono furente in direzione contraria come per un
ritorno improvviso, come se il mare e il suo tesoro misterioso non fossero di là, da questa parte
giusta.
Eccolo il transito verticale e italico che sembra imperverso come questo tempo notturno sottile
figlio di lampo fuggito e di tuono atteso temuto invano, figlio di questo viaggio non utile ma
inevitabile come un'infanzia troppo lunga, una vacanza dell’essere, un naso appiccicato a un
finestrino laterale sudicio di estate in transito prolungato, di scompartimento di prima classe
semivuoto con tendina di drappo pesantissimo con asola rotta apposta per spiare la notte che
viaggia, che si fa vedere spiata spinta via tra luci lontane e lente e pali velocissimi che non puoi
contarli, che puoi ritmarli tra ecchimosi di ricordi quasi spariti e felicità compresse quasi
inverosimili di scene rubate al padre che dorme, forse, in questo scompartimento che taglia la notte
e il corridoio di questo treno di punta e appuntito verso sud sudato e immaginato, verso punta di
terra estrema dove il binario finisce sull’attracco navale trainato da locomotore incandescente e
veloce scuro che, stando verso la coda, lo vedi in curva favorevole e lo senti tirare di sforzo in curva
contraria.
Si è lasciata Napoli da un po’ di tempo e il corridoio è vuoto di questa prima classe che scivola
sicura e irresistibile come la voglia proibita di abbassare il finestrino e sporgere la testa al vento
forte e guardare di nascosto avanti senza poter respirare e tornare dentro prima che si desti l’ira di
quel padre rilassato. Si è lasciato tutto in quel passato, ricettacolo di ogni cosa vissuta già prima di
immaginarla, come questo piacere rubato e provato, vissuto e non cancellabile di guance fredde
ghiacciate e occhi coraggiosi arrossati contro il vento e una velocità necessaria che altrimenti non si
arriva più e il tempo scorre tra ricordi fermi e ombre che si spostano.
Gli arancini di riso e il vento dell’alba dal sole più giallo che ci sia e che sferza questa traversata
lenta di stretto e di terra lacerata e allontanata da un sorriso e da un capriccio accontentato in un
dialetto impossibile, in una lingua immediata ma incomprensibile. Con il treno giù, spezzato in tre
nella pancia di questa nave ferroviaria che era ancora buio quando di nascosto, molto lentamente,
ha accolto un convoglio troppo lungo accompagnato dentro, spinto piano da tender giallo con
tettuccio arancione, come un veloce garzone biondo e maglietta scanzonata, a condurre una sorta di
danza calabro-sessuale tra ferrovia e marina, tra treno e nave con lei che a ogni manovra sembra si
laceri e si tenda fino a farsi toccare i respingenti in fondo gustosi e tesi come papille sensibili e
vogliose. Non era stata annunciata nessuna partenza: il treno, quasi come dimenticato, è scivolato
via da quella stazione di estrema terra senza alcun rumore e la cadenza sui raccordi quasi inesistenti
di rotaie che sembrano inesorabili e misteriose picchetta il tempo che ormai è in gola come
un'emozione sconosciuta. Come uno scivolamento di memoria. Ed ecco l'antro del viaggio, la porta
del sogno, il luogo oscuro e bellissimo del transito tra terre: ecco il tempo bambino con gli occhi
spalancati e la voce impossibile da uscire. Il treno entra con tutta la lentezza dei ricordi e la fragilità
di capricci lontanissimi, oramai non più comprimibili. Ecco la festa sottile mozzafiato delle
manovre per questo difficile viaggio su binari di stiva, su rotaie marittime, su vagoni marinai. Tre
spezzoni di convoglio e tre colpi lenti e dolcissimi prima di partire e poter i viaggiatori guizzanti e
un po' schizzati scendere a toccare questa vagina bianchissima e salire in infinita scala di tubo e
sughero, irrequieta e stanca come la notte insonne, spiata, segreta e incancellabile che gli brucerà gli
occhi fino a quando sarà vecchio e imbecille, e salire fino al vento sferzante di questo mare di terra
che sembra un viale d’arrivo e che toglie il respiro e le parole.
Presto si partirà da Messina, col treno che correrà anche su questa nuova terra strana piena di foglie
con le spine a di puzza di stalla dimenticata aperta e di acqua poca, terra di rigagnoli centrali in
strade gialle come pesche avanzate, prive di rumore ma anche di musica, strade prive di gioia e di
sorriso. Traboccanti di silenzi bianchissimi, fermi e feroci, di ombre di case non finite, di vita in
perenne costruzione ancora dimenticata e di voci altissime come se fossero tutti lontani, come se le
cose da dire fossero tutte strazianti o pungenti di rimprovero, come se l’esistere facesse rabbia,
come se il sorridere coprisse un rancore esistito da sempre. Uno svantaggio incolmabile e non
previsto, inesauribile produttore di recriminazioni intime, di tagli visibili sull’epidermide e su
questa giornata che attraversa Milazzo e Cefalù verso Porticello e Ficarazzi tra costa vuota e
campagna aspra e pelata come queste montagne prive di mistero e che accompagnano lo sguardo
come se tutto fosse lontano. Come se tutto fosse risolto altrove.
Allora come ora, siamo sulla nave del sogno, bianca e immensa come una madre antica e buona.
L'odore di nafta ferroviaria e di motori sudati e palombari si mescola mentre si scende su un treno
che sembra addormentato come un bagaglio e che viaggia senza fare il viaggio, che scivola da
fermo, protetto da questo immenso bastimento bucherellato di oblò che speriamo ci metta una vita
ad attraversare lo spicchio azzurro strettissimo tra mete lontanissime, che speriamo solchi quasi
immobile e imponente questo mare di nessuno allargato da una scia regale che si faccia immensa
allontanando l'arrivo e i suoi inganni veri. Rendendo Messina perfino immaginaria