SOCIOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE

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SOCIOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE
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TIMONE
213/4
ELEMENTI di
SOCIOLOGIA
DELLA
COMUNICAZIONE
• Basi, modelli e scenari
della comunicazione
• Teorie più diffuse
• Evoluzioni tecnologiche
dei nuovi media
SIMONE
EDIZIONI
®
Gruppo Editoriale Esselibri - Simone
Estratto della pubblicazione
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Tutti i diritti di sfruttamento economico dell’opera appartengono alla Esselibri S.p.A.
(art. 64, D.Lgs. 10-2-2005, n. 30)
Di particolare interesse per i lettori di questo volume segnaliamo:
213/1 - Storia del pensiero sociologico
213/2 - Sociologia generale. Nozioni essenziali
213/3 - Sociologia dei processi culturali
213/5 - Elementi di sociologia politica
213/6 - Elementi di politica sociale
SC6 (cat. Ellissi)
- Teoria dei media digitali
MC11 (cat. Ellissi) - La comunicazione
Direzione e coordinamento Gianni Quinto
Testo a cura di Gianluca Miligi
Il catalogo aggiornato è consultabile sul sito Internet: www.simone.it
ove è anche possibile scaricare alcune pagine saggio dei testi pubblicati
Finito di stampare nel mese di febbraio 2009
dall’Officina Grafica Iride - Via Prov.le Arzano-Casandrino, VII Trav., 24 - Arzano (NA)
per conto della Esselibri S.p.A. - Via F. Russo, 33/D - 80123 - (Na)
Grafica di copertina a cura di Giuseppe Ragno
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PREMESSA
Questa sintesi è dedicata agli studenti dei corsi di Laurea in Sociologia e
in Scienze della comunicazione, oltre che di tutte le discipline in cui sia
prevista l’analisi della dimensione linguistico-comunicativa (Filosofia, Lettere, Scienze della Formazione). Vengono tracciate le linee storiche della
disciplina, articolate attorno agli autori, ai concetti e alle correnti principali
che ne hanno determinato lo sviluppo e la collocazione istituzionale. Si è
mirato quindi a chiarire i fondamenti che stanno alla base dei più incisivi
modelli concettuali di cui si sono servite le teorie della comunicazione nel
loro percorso teorico e a definire contestualmente il pensiero e le opere degli studiosi che, di questo corpus concettuale, hanno determinato la genesi.
Vengono affrontati, in ordine: il concetto e i modelli della comunicazione in generale; i vari approcci (semiotico, matematico, relazionale, pragmatico); la nascita e lo sviluppo della comunicazione di massa; le principali
ipotesi sociologiche sui media (teoria critica, funzionalismo, massmediologia, teoria dei sistemi) e infine la rivoluzione culturale rappresentata dall’avvento delle nuove tecnologie (telematica, cyberspazio, rete internet, globalizzazione).
Chiude il volume un sintetico ma esauriente glossario dei termini specifici delle scienze sociali.
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CAPITOLO PRIMO
LE BASI DELLA COMUNICAZIONE
Sommario: 1. Considerazioni generali sul concetto di comunicazione. - 2. La struttura della comunicazione. - 3. La comunicazione interpersonale.
1. CONSIDERAZIONI GENERALI SUL CONCETTO DI ‘COMUNICAZIONE’
Quello della comunicazione può essere definito il fenomeno originario
della coesistenza, delle relazioni e interazioni umane ed è quindi antico quanto
la civiltà stessa dell’uomo. È diventato, specialmente nell’ultimo secolo,
sempre più esteso, multidimensionale e complesso, ed è oggetto di studio di
diverse, spesso convergenti, discipline. Data l’ampiezza semantica del termine “comunicazione”, è necessario chiedersi innanzi tutto quale sia il significato del termine stesso, per vedere poi in cosa essa consiste e come si
presenta la comunicazione, e in seguito indagare direttamente la sua diversificata dimensione sociologica.
Dal punto di vista terminologico, la parola latina communicatio (in inglese communication, in francese comunication) deriva da cum, ‘con’, e munus, ‘dono’: esprime, si può dire,
una particolare forma di “donazione”, il “mettere a parte” altri di qualcosa che si ha. Evidentemente in questa nozione è centrale il concetto di partecipazione, che, ad esempio, si
esplicita chiaramente nella lingua tedesca nel vocabolo Mitteilung, il quale può essere
tradotto, letteralmente, più che con “comunicazione”, con “compartecipazione” (da Mit,
“con”, e Teil, “parte”). In origine ‘communico’ — da cui nella lingua latina il sostantivo
communio e l’aggettivo communis — significa complessivamente mettere qualcosa in
comune con qualcuno: nel senso di “condividere qualcosa” l’accento è posto primariamente sul contenuto comunicato. Per ulteriore caratterizzazione semantica, dall’originario
e imprescindibile senso statico di condivisione si approda a una concezione che ne evidenzia invece il significato ‘dinamico’ di trasmissione di informazioni-messaggi. In generale,
la comunicazione implica insieme anche l’istituzione o il riconoscimento di uno spazio
comune (di relazione tra i comunicanti), in cui il qualcosa stesso viene, appunto, trasmesso,
comunicato.
Da un punto di vista psicologico, nella dimensione dell’intersoggettività,
si può intendere la comunicazione piuttosto come “uno scambio interattivo
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Capitolo Primo
osservabile fra due o più partecipanti, dotato di intenzionalità reciproca e di
un certo livello di consapevolezza, in grado di far condividere un determinato
significato sulla base di sistemi simbolici e convenzionali di significazione e
di segnalazione secondo la cultura di riferimento” (L. ANOLLI).
La comunicazione è, come accennato, intrinsecamente congiunta al concetto di relazione, secondo due possibili sensi:
a) s’inscrive e si attua in una relazione sociale;
b) è essa stessa ciò che stabilisce, o rafforza, una relazione di carattere
psicologico-sociale.
Questi due sensi non sono reciprocamente esclusivi ma interconnessi e
complementari; la comunicazione avviene in uno specifico e preesistente
contesto sociale e lo sviluppa, all’insegna di un’idea di comunicazione che
pone l’accento sui soggetti in essa cooperanti (“metter in comune con qualcuno”).
Un principio, molto importante, avanzato da Paul Watzlawick, è che
«È impossibile non comunicare, non esiste un comportamento che non sia
comunicativo». Come sostiene lo psicologo d’origine austriaca, infatti, parlare o restare in silenzio, tutto comunica, tutto crea un rapporto fra il
soggetto e l’ambiente sociale, quindi con gli altri soggetti. Ogni comportamento è in sé stesso comunicativo — persino isolarsi dagli altri, un comportamento definibile ‘negativo’ — ed è impossibile pensare di avere un
non-comportamento: la comunicazione si rivela in ultima analisi come
l’orizzonte, in quanto tale intrascendibile, dell’essere e agire umani.
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Cosa indica il termine comunicazione dal punto di vista storico?
Dal punto di vista storico, invece, bisogna ricordare come il termine inglese communication
designi in un primo tempo propriamente l’atto del comunicare, mentre in seguito primariamente l’oggetto dell’atto del mettere in comune, fino a giungere, all’incirca nel XVII secolo, a
designare il mezzo attraverso il quale avviene la comunicazione: ‘mezzo’ in questo caso è un
termine astratto usato per indicare vie di transito, canali, strade, ferrovie.
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Per chiudere queste rapide considerazioni generali, si può concepire la
comunicazione come svolgentesi lungo due assi fondamentali o secondo
una doppia relazione: l’uno verticale, relativo al rapporto tra “messaggio” e
contenuti del mondo o del pensiero; l’altro orizzontale, quello più propriamente comunicativo, concernente la relazione che s’instaura tra produttori
e destinatari del messaggio (U. VOLLI).
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Le basi della comunicazione
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2. LA STRUTTURA DELLA COMUNICAZIONE
A) I fattori strutturali
Per quanto riguarda la configurazione o struttura elementare della comunicazione, essa comprende — l’esistenza di diversi fattori:
a) un emittente: la “fonte”, il produttore di un messaggio;
b) un messaggio (un segno, un testo ecc.): l’“oggetto di scambio” dell’atto
comunicativo; al riguardo, si può anche isolare, come fattore autonomo,
il contenuto del messaggio stesso;
c) un destinatario del messaggio: il soggetto cui deve pervenire il messaggio, qualificato spesso anche come ricevente. Le due definizioni non
coincidono però totalmente, in quanto l’atto di ricezione del messaggio
può effettivamente avvenire o, al contrario, fallire. Il destinatario diventa di fatto “ricevente” nel momento in cui effettivamente recepisce e
comprende il messaggio: è possibile però che il messaggio ricevuto differisca da quello inviato, differenza che si determina in base al livello di
attenzione ma soprattutto in rapporto ai criteri di selezione, decodifica e
interpretazione (come vedremo) usati, consapevolmente o meno, dal ricevente. Il processo della comunicazione comporta anche che il ricevente rimandi un altro segnale, con cui rende noto che il messaggio è stato
(o non è stato) ricevuto e compreso.
Questa configurazione “astratta” e minimale, a tre fattori, viene poi approfondita e complicata nel quadro delle diverse teorie comunicazionali, innanzitutto con la messa in evidenza di altri decisivi elementi-fattori
intermedi, in primo luogo di:
d) un mezzo (medium) o canale: ciò entro cui e in virtù del quale viene
trasmesso il messaggio. Il mezzo-canale può essere perciò, più precisamente, inteso sia come “ciò che sta in mezzo” sia come “ciò che media”,
mediazione che determina in atto la comunicazione. Si può però utilmente distinguere il mezzo dal canale, fermo rimanendo che un termine
rimanda all’altro, nel senso che il mezzo è definibile come il canale attraverso il quale passa o transita il messaggio, mentre il canale come il
“mezzo o apparato fisico-tecnologico” che questo transito effettua;
e) un codice e, eventualmente, dei “sottocodici”. (avviene in un determinato (f) contesto o situazione). Un “codice” è un sistema di segni e
regole di utilizzo dei segni usato nel processo comunicativo. Si assume
in linea di principio come conditio sine qua non della effettiva riuscita
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Capitolo Primo
dello scambio comunicativo che l’emittente e il destinatario condividano il medesimo codice e ad esso si riferiscano nella composizione e
nella comprensione del messaggio. Quindi il messaggio della comunicazione, il suo contenuto, è elaborato dal lato dell’emittente mediante
una codifica: consiste in “una sequenza di segni o segnali risultante da
operazioni di selezione e di combinazione sulla base di un codice”. Schematicamente, all’emissione del messaggio corrisponde poi, come aspetto complementare della comunicazione, una (adeguata o meno) de-codifica da parte del destinatario;
f) un contesto o situazione, cioè una dimensione linguistica, cognitiva e
culturale che funziona come quadro di riferimento comune, senza cui
qualsiasi comunicazione sarebbe soggetta a continui rischi di fraintendimento.
Sempre riguardo il messaggio, si possono individuare due distinti livelli di caratterizzazione: il contenuto referenziale o denotativo, a che cosa si riferisce il messaggio — un fatto,
un oggetto, uno stato di cose, il contesto reale ecc. —, e il livello connotativo, genericamente il “modo” in cui esso viene presentato. Molto di quanto visto in termini di fattori e
funzioni è ricompreso nel modello comunicazionale di Roman Jakobson (1963), che si è
imposto nel tempo come un imprescindibile riferimento (v. cap. 2.2.A).
B) Dimensioni del fenomeno comunicazionale
Sempre su un piano generale, in ogni comunicazione possono essere
colti altri due aspetti: l’uno informativo, l’altro relazionale. Il primo si riferisce al senso letterale di un messaggio, all’informazione che questo veicola; il secondo concerne la rilevanza sociale di un atto comunicativo, dipendente dai significati impliciti del messaggio, tra cui i riferimenti a un immaginario comune, a particolare esperienze o conoscenze condivise dai soggetti comunicanti. In quest’ottica si delinea utilmente il seguente schema:
Aspetti informativi della comunicazione
Aspetti relazionali della comunicazione
Sapere esplicito/formalizzato
Fonti riconosciute di legittimità
Universalità
Sapere tacito
Contesti, pratiche e usi
Particolarità, Situazionalità (Situatedness)
Analogamente, e con una connotazione più antropologica, la comunicazione può essere distinta in comunicazione trasmissiva e comunicazione
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Le basi della comunicazione
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rituale, a seconda che sia predominante il passaggio di determinate informazioni o il consolidamento attivo di determinati legami sociali. Nel rituale si manifesta perciò un’intenzione precomunicativa o ultracomunicativa in quanto la comunicazione è legata all’obiettivo di effettuare uno “scambio” che esplicita e rafforza un sistema simbolico, di valori, su cui vi è un
mutuo accordo: il rituale favorisce, contemporaneamente, la progressiva costruzione di una realtà condivisa e di un’identità collettiva (ha una forte
valenza comunitaria).
Una questione teorica, invece, la cui risposta diversifica gli approcci dell’analisi comunicazionale, è ben illustrata dal filosofo del linguaggio e della comunicazione Paolo Virno: egli
sostiene che la comunicazione, in tal caso linguistica, è per sua natura (potenzialmente)
intersoggettiva, cioè sussiste prima della formazione di veri e propri “soggetti”: è quindi
“di tutti e di nessuno” e in essa primeggia l’anonimo “si”: “si parla”. È inizialmente stato
soprattutto lo psicologo russo Lev S. Vygotskij (1934) a sottolineare il carattere preindividuale, o immediatamente sociale, della locuzione umana: l’uso della parola, in principio, è
interpsichico, pubblico, condiviso, impersonale. All’opposto di quanto riteneva il biologo e psicologo Jean Piaget, il padre dell’epistemologia genetica non si tratta di superare
un’originaria condizione “autistica”, cioè iperindividuale, sulla strada di una progressiva
socializzazione; al contrario, il fulcro dell’ontogenesi (analizzando in primo luogo lo sviluppo del pensiero infantile) consiste, per Vygotskij, nel passaggio da un’originaria e
totale socialità all’individuazione del soggetto parlante.
Per quanto concerne le diverse tipologie di comunicazione, in particolare dal punto di vista della specifica interazione che si configura nella comunicazione stessa, seguendo J.B. Thompson si possono distinguere tre livelli o modalità:
1) “faccia a faccia” (interpersonale): sua caratteristica fondamentale è la
compresenza, ossia il sistema di riferimento spazio-temporale condiviso tra i comunicanti; la direzione è verso altri soggetti particolari;
2) interazione mediata: c’è separazione dei contesti, accessibilità estesa
nel tempo e nello spazio, e la direzione è verso altri soggetti particolari;
3) quasi-interazione mediata: c’è separazione dei contesti, accessibilità
estesa nel tempo e nello spazio, e la direzione è verso un insieme indefinito di destinatari potenziali.
In seguito si vedranno da vicino queste tre modalità alla luce di diverse
teorie della comunicazione e degli sviluppi delle nuove tecnologie.
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Capitolo Primo
3. LA COMUNICAZIONE INTERPERSONALE
Il linea di principio si tratta di una comunicazione a carattere lineare e
simmetrico (e complementare). Una “linea diretta” congiunge i comunicanti: entrambi rivestono i ruoli di emittente e di ricevente.
La prima e più antica — si può anche dire “antropologicamente originaria” — dimensione della comunicazione interpersonale è quello che viene
definita “faccia a faccia” (face to face) e che avviene per il tramite di un
linguaggio: linguaggio del corpo mimico-gestuale, linguaggio puramente
vocale consistente nell’emissione di suoni o segnali sonori, linguaggio condiviso con il mondo animale, verbale orale, verbale scritto. Ricordiamo soltanto la svolta epocale avvenuta con il passaggio dall’oralità alla scrittura,
passaggio cruciale in quanto con quest’ultima si genera un differimento spaziale e temporale della comunicazione (condotto all’estremo dall’invenzione della stampa).
Ogni forma di linguaggio co-incide sul concreto processo della comunicazione interpersonale. Nel caso del linguaggio gestuale e puramente vocale agisce in primo piano l’elemento della “fisicità”, e si delinea così una
comunicazione di natura immediata: non esiste un “mezzo” altro rispetto
alla dinamica espressiva del corpo medesimo; per altro verso, si può però
anche parlare di espressione comunicativa “mediante” il corpo; il termine
“mediante” indica il farsi “mezzo” di quest’ultimo per la traduzione visibile
di determinati stati psichico-emozionali. Il dato irriducibile è il contatto tra
gli individui che stabiliscono questo tipo di relazione comunicativa (più specificamente, la reciproca visibilità). Nel quadro di una comunicazione “faccia a faccia”, ruoli importanti sono rivestiti dalla prossemica, ossia dall’analisi
della disposizione dei corpi-interlocutori nello spazio, e dalla cinesica, che
si occupa dei movimenti che accompagnano e “potenziano” la comunicazione: sono tutti fattori, non verbali, molto rilevanti poiché interferiscono
direttamente sui meccanismi di codifica e decodifica (e di feedback): «Quando la gente emette suoni e ascolta, muove e guarda, tocca e sente, emette e
riceve odori ecc., tutte queste cose sono combinate in vario modo così da
prender parte al sistema comunicativo» (R. BIRDWHISTELL).
Si può ribadire che non vi è relazione-interazione tra individui che non consista in una
forma di comunicazione, anche in casi estremi: nella massima “vicinanza” nell’atto sessuale o, all’opposto, nel caso di due persone poste l’una di fronte all’altra in uno stato di
silenzio e immobilità: si può infatti interpretare quest’ultima situazione in termini pura-
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Le basi della comunicazione
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mente negativi, ossia come comunicazione della volontà di ‘non comunicare’, (questo
essendone il paradossale messaggio). Oppure: l’apparente non-comunicazione può essere
indice di uno stato di sorpresa o di paura al cospetto della presenza dell’altro, stato che
rappresenta però una sorta di “messaggio involontario”. Questo campo paralinguistico, in
senso ampio “comportamentale”, della comunicazione, viene preso a oggetto da studio di
diverse discipline, in primo luogo psicologia, antropologia e etnologia.
Tra le caratteristiche fondamentali o costanti della comunicazione e dell’interazione interpersonale “faccia a faccia” mediante qualsiasi forma di
linguaggio c’è l’identità di spazio e di tempo (variabile 1), quindi condivisione di luogo e simultaneità, tra i soggetti comunicanti. Essa, più concretamente, “comporta un breve periodo di tempo, una limitata estensione di
spazio e abbraccia quegli eventi che, una volta iniziati, debbono arrivare a
conclusione. L’argomento è costituito da quella classe di eventi che si verificano durante una compresenza e per virtù di una compresenza” (E. GOFFMAN). Le variabili dello spazio e del tempo sono assolutamente determinanti: ciò verrà potentemente in luce con l’avvento epocale delle telecomunicazioni, ossia delle comunicazioni “a distanza”, che, si pensi solo al telefono, si svolgono in modalità analoga e praticamente in simultaneità, ma
superano il limite della necessaria coincidenza spaziale degli interlocutori.
La comunicazione mediante il linguaggio verbale si configura essenzialmente come dialogo (il suffisso dia, in greco, significa “attraverso” o “fra”),
come un logos-discorso che si sviluppa attraverso la trasmissione di messaggi
da un polo soggettivo all’altro della relazione comunicativa. Su questo piano
emerge come fondamentale il fatto che i ruoli o posizioni dell’emittente e del
destinatario-ricevente sono interscambiabili (di qui il senso della “simmetria”). Si costruisce con il dialogo un processo comunicativo bidirezionale,
così caratterizzato secondo la variabile (2) della direzione: l’emittente A emette
un messaggio in direzione di B, che a sua volta risponde ri-emettendo un
nuovo messaggio (B diviene in atto “emittente”) in direzione di A (che diviene in atto “ricevente”): questo è lo schema elementare — pensabile anche in
termini di circolarità — dell’interlocuzione e del dialogo, il livello più alto e
complesso della comunicazione interpersonale.
Sono stati Martin Buber in filosofia e Émile Benveniste in linguistica a sottolineare la
struttura dialogica della comunicazione, che si articola sempre su due grandi vettori del linguaggio complementari ed eterogenei: quello della prima e seconda persona verbale, che dal
parlante va verso l’ascoltatore e torna da questi a lui (asse io-tu), e quello della terza persona
che congiunge invece gli interlocutori all’oggetto del loro discorso (io-lui/ciò) (U. VOLLI).
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Capitolo Primo
Si può però pensare anche ad un tipo di comunicazione “faccia a faccia”
unidirezionale, quindi, non in senso stretto, dialogica, come, ad esempio,
una lezione o un comizio in cui i ruoli di emittente e destinatario-ricevente
rimangono fissi e non interscambiabili. Nel caso della lezione, inoltre, c’è
quella individuale, che prevede un docente e un discente o allievo, e quella
collettiva, come le lezioni scolastiche e universitarie, con un insegnante che
invece si rivolge a un pubblico di studenti. Questi sono quindi casi di comunicazioni tradizionali interpersonali, unidirezionali, rispettivamente — è una
distinzione importante — del tipo da “uno a uno” (one-to-many) e da “uno
a molti” (many-to-many), modalità che caratterizza, come vedremo, le comunicazioni di massa (radio, cinema, televisione ecc.).
Oltre a quelle già evidenziate dello spazio-tempo e della direzione, introduciamo così la terza variabile strutturale, la quantità, che insieme alle
prime contribuisce a differenziare le tipologie della comunicazione; tutte e
tre le variabili assumeranno nuovi valori-configurazioni con la nascita dell’universo delle telecomunicazioni mediali e in particolare con lo sviluppo
dei nuovi media digitali.
Estratto della pubblicazione
CAPITOLO SECONDO
I MODELLI DELLA COMUNICAZIONE
Sommario: 1. Considerazioni generali. - 2. L’approccio semiotico. - 3. Teorie ‘standard’: modello matematico-cibernetico e modello di Jakobson. - 4. L’approccio relazionale tra pragmatica e psicologia. -5. Critiche all’interpretazione “meccanicistica”.
1. CONSIDERAZIONI GENERALI
Esistono diversi approcci in base ai quali si elaborano modelli sulla struttura e il funzionamento della comunicazione interpersonale attraverso il linguaggio in generale, e verbale in particolare; questo linguaggio, che attua le
massime potenzialità comunicative della mente umana, è quello espresso
nella varietà delle lingue naturali e presenta dei caratteri comuni peculiari
tra cui l’arbitrarietà, la sistematicità, la linearità, il carattere “discreto”.
Esamineremo nelle linee essenziali l’approccio semiotico o semiologico (i cui rappresentanti principali sono il filosofo americano C.S. Peirce, il
linguista svizzero F. de Saussure e il semiologo francese R. Barthes), che
costituisce una base feconda per approfondire molti aspetti della comunicazione, per presentare poi i due modelli “classici” della comunicazione, quello
di matematico-cibernetico di Shannon e Weaver (1948) e quello di Jakobson (1963); successivamente verranno presentati i contributi dell’approccio
pragmatico (Austin, Searle), pragmatico-relazionale (Watzlawick), psicologico-relazionale (Bateson), per concludere con alcune critiche, da posizioni diverse, alla lettura in chiave “meccanicistica” del processo della
comunicazione.
2. L’APPROCCIO SEMIOTICO
Per esporre questo tipo di approccio, è utile riferirsi preliminarmente a
una precisazione di Paolo Fabbri, noto studioso italiano di semiotica, secondo cui, per stabilire se la semiotica faccia o meno parte delle discipline
che s’interessano di comunicazione, bisogna chiarire come si definisce la
comunicazione. Se la comunicazione è intesa come capacità dei linguaggi
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Capitolo Secondo
di costruire e veicolare significati, allora la comunicazione può interessare
la semiotica. Se la comunicazione, invece, è definita in termini di tipo informazionale, cioè come meccanismi di comunicazione, nei termini d’ottimizzazione del segnale e sprovvista di soggetti competenti, dotati di capacità di costruire, trasformare e trasmettere il significato, non c’è alcuno spazio
per la riflessione semiotica. In ogni caso, la semiotica deve tenere presente
non solo il contenuto rappresentativo dei segni, ma anche la sostanza espressiva attraverso cui i segni sono comunicati. Da questo punto di vista la
semiotica è una disciplina che considera la comunicazione come una delle
sue componenti.
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Come possiamo definire esattamente la semiotica?
La semiotica o teoria dei segni (dal greco semêion, segno) è un campo di studio, secondo
un’essenziale definizione di Umberto Eco, «che ha a che fare con qualsiasi cosa possa essere
assunta come segno. È ‘segno’ ogni cosa che possa essere assunta come sostituto significante
di qualcosa d’altro. Questo qualcosa d’altro non deve necessariamente esistere, né deve sussistere di fatto al momento in cui il segno sta in luogo di esso». Nella massima generalità, il
segno si presenta quindi come “qualcosa che sta per qualcos’altro”: secondo la definizione
agostiniana è aliquid che stat pro aliquo. Un elemento discriminante, che consente di delimitare il terreno della semiotica e separarlo da quello dell’indagine psicologica, è che la semiotica
«rifiuta di legare il problema della significazione del senso articolato a un’intenzione esplicita
di trasmettere un messaggio» (J.-M. FLOCH).
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A) C. S. Peirce: la nascita della semiotica
Charles Sanders Peirce (1839-1914), filosofo e logico statunitense, può
a buon diritto essere considerato il fondatore della semiotica, anche se
importanti contributi a essa furono dati dal filosofo inglese John Locke
(1632-1704) nel Saggio sull’intelletto umano e, in epoca contemporanea,
dal linguista svizzero Ferdinand de Saussure. Nella concezione peirceana, tutte le cose si risolvono in “segni” o, meglio, si rivelano essere segni; la
semiotica, al di là di questa assunzione fondamentale, si sviluppa intorno a
una definizione del segno in cui ne viene messa in luce la peculiare struttura
triadica: «Un segno o representamen, è qualcosa che sta nei confronti di
qualcuno, per qualche altra cosa in qualche rispetto o capacità». Il segno sta
per qualcosa che è il suo oggetto, in altre parole rinvia ad un “significato”, a
ciò che esso significa o “rappresenta” in quanto oggetto. Inoltre sta per quell’oggetto non in tutti i rispetti ma in riferimento a una “specie di idea” che
Peirce ha chiamato il fondamento [ground] del segno; il terzo elemento è
I modelli della comunicazione
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l’interpretante, che mette in relazione i primi due in quanto concretamente
collega il segno all’oggetto-significato. L’interpretante, «ciò che il segno
produce nella quasi mente che è l’interprete», non coincide però con il singolo interprete, con colui che riceve il segno, ma piuttosto è un “sistema”
costituito di segni-rapporti che definisce una determinata cultura o “visione
del mondo”: in questo modo è garanzia della validità del segno anche in
assenza di un interprete (una forma simile a quella delineata da Peirce si
ritrova per molti versi nel cosiddetto Triangolo di Ogden e Richards in cui
ricorrono i termini ‘simbolo’, ‘referenza’ [significato] e ‘referente’).
La ricerca semiotica mette in luce un fenomeno fondamentale, ossia il
processo aperto di significazione per cui il segno A è interpretato non da
una presunta mente ma da un altro segno B, che a sua volta è interpretato dal
segno C e così via: questa è la cosiddetta semiosi illimitata o infinita (seriosi = significazione e interpretazione). Anche l’interpretante è, quindi, un
segno il cui oggetto-significato è un segno interpretato. Peirce sostiene infatti che “Tutto il pensiero è un segno e partecipa essenzialmente della natura del linguaggio”, e stabilisce una complessa e articolata classificazione
dei segni per definirne natura e funzioni. Il segno può essere considerato in
sé stesso, in rapporto all’oggetto e in rapporto all’interpretante. In rapporto
all’oggetto — questo è un aspetto rilevante della sua teoria — Peirce distingue l’icona, che ha una “somiglianza” di struttura, di forma, con l’oggetto
di riferimento (ad es. un’immagine mentale, un quadro, un diagramma, una
metafora); l’indice, che convoglia l’attenzione su un oggetto per mezzo di
un “impulso cieco” o reazione irriflessa, per esempio di una deduzione logica, di un’inferenza da un “indizio” o suscitando un determinato comportamento; infine il simbolo, che ha natura convenzionale (una legge, un racconto, un’istituzione). In relazione all’interpretante, invece, il segno può
essere considerato una funzione proposizionale oppure un termine all’interno di un enunciato-definizione, che ne rappresenta il “riempimento”; da
ultimo, il segno è costituito da un argomento (sillogismo).
La concezione di Peirce apre la strada anche a quella di stampo “pragmatista”, in particolare per la sua tesi secondo cui «Non c’è distinzione di
significato così sottile che non consista in una possibile differenza pratica»:
il significato di una cosa, concepibile solo in relazione all’uomo, consiste
sostanzialmente nell’insieme delle disposizioni ad agire che tale cosa suscita o produce.
Estratto della pubblicazione
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Capitolo Secondo
B) F. de Saussure: la linguistica semiologica
Figura centrale delle moderna linguistica e dell’approccio semiotico è
Ferdinand de Saussure (1857-1913), studioso svizzero autore di un fondamentale e famoso Corso di linguistica generale (1916, testo basato su corsi
di lezioni universitarie). Come egli puntualmente afferma, «Si può concepire una scienza che studia la vita dei segni nel quadro della vita sociale»;
questa è, appunto, la semiotica o, più precisamente, nella terminologia saussuriana, la semiologia.
La semiologia può essere considerata una teoria generale della ricerca
sui fenomeni di comunicazione visti come elaborazione di messaggi sulla
base di codici convenzionati come sistemi di segni (U. ECO, La struttura
assente). E il più importante tra i sistemi di segni esprimenti delle idee è la
lingua; al riguardo per Saussure, è una distinzione molto importante, la
lingua non si confonde con linguaggio: essa infatti non ne è che una determinata parte, quantunque essenziale. La lingua è al tempo stesso un prodotto sociale della facoltà del linguaggio e un insieme di convenzioni necessarie che il corpo sociale adotta per consentire l’esercizio di tale facoltà negli
individui. «Preso nella sua totalità, il linguaggio è multiforme ed eteroclito;
a cavallo di parecchi campi, nello stesso tempo fisico, fisiologico, psichico,
esso appartiene anche al dominio individuale e al dominio sociale; non si
lascia classificare in alcuna categoria di fatti umani, poiché non si sa come
enucleare la sua unità».
Più precisamente, nell’accezione saussuriana, la lingua (langue) è un sistema (differenziale) di segni arbitrari-convenzionali che rappresenta «la parte sociale del linguaggio, esterna
all’individuo, che da solo non può né crearla né modificarla, essa esiste solo in virtù di una
specie di contratto stipulato fra i membri della comunità» (Corso). Si delinea una fondamentale distinzione o dicotomia tra la langue e la parole, quest’ultima indicando
l’“individualità assoluta, irripetibile, del singolo atto linguistico”: “Separando la lingua
dalla parole, si separa a un sol tempo: 1. ciò che è sociale da ciò che è individuale; 2. ciò
che è essenziale da ciò che è più o meno accidentale”. Le due coordinate essenziali nello
studio della lingua sono quella della sincronia, mediante cui si studia la lingua come un
sistema ‘in un dato momento’, e quella della diacronia, in cui lingua viene considerata
come un sistema che si modifica nel tempo, “attraverso un certo periodo”.
Il nucleo della semiologia è costituito, come detto, dal concetto di segno, il quale consiste nel legame che unisce un significante a un significato: non una cosa e un nome, ma un concetto e un’immagine acustica. “Il
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segno linguistico è arbitrario”, un’altra tesi fondamentale di Saussure. Detto in altri termini, il segno è costituito da una equivalenza puramente convenzionale, appunto arbitraria, tra un ‘espressione’ e un ‘contenuto’ (ad es.
il concetto di “libro” può essere espresso di volta in volta dal termine inglese book, da quello francese livre e così via). Nella sua peculiare fisionomia,
il segno è oppositivo, cioè si distingue dagli altri segni solo per differenza:
il segno X è tale in quanto non corrisponde ad alcun altro segno del sistema
di comunicazione di riferimento. In ciò si palesa un aspetto decisivo della
teoria di Saussure, quello che egli definisce ‘principio fondamentale della
semiologia’ o della lingua considerata regolarmente e sincronicamente come
“lingua”, quindi come sistema compiuto autoconsistente e non in senso evolutivo, come risultato di stati precedenti.
«Nella lingua non vi sono se non differenze. Di più: una differenza suppone in generale dei
termini positivi tra i quali essa si stabilisce; ma nella lingua non vi sono se che differenze
senza termini positivi. Si prenda il significante o il significato, la lingua non comporta né
delle idee né dei suoni che preesistano al sistema linguistico, ma soltanto delle differenze
concettuali e delle differenze foniche uscite da questo sistema» (SAUSSURE).
Ma la rilevazione dell’intrinseco carattere negativo nella lingua è vero
relativamente, solo cioè riguardo il significante e il significato presi separatamente, i quali non hanno una realtà in sé, un sostrato per la loro esistenza al di fuori delle loro reciproche differenze: invece «dal momento che si
considera il segno nella sua totalità, ci si trova in presenza di una cosa positiva nel suo ordine», che rappresenta, sincronicamente, un determinato termine come un elemento inserito e funzionante all’interno di un determinato
sistema-lingua.
Da ricordare che la concezione saussuriana ha fornito implicitamente le
base teorica alla “corrente” dello strutturalismo (molto importante in linguistica, filosofia e antropologia) mediante l’idea della lingua come «un
sistema [o ‘struttura’] in cui tutti i termini sono solidali tra loro, e il valore
dell’uno risulta soltanto dalla presenza simultanea degli altri» (SAUSSURE).
C) R. Barthes: il primato della significazione
Secondo Roland Barthes, saggista, critico letterario e linguista, la semiologia (Elementi di semiologia) ha per oggetto tutti i sistemi di segni, —
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Capitolo Secondo
immagini, gesti, suoni ecc., — e di significazioni. Il semiologo francese
teorizza che, si parli di segnali, indice, icona, simbolo, piuttosto che di ‘segno’, si può individuare una struttura comune consistente formalmente in
una relazione e due relata che si articola e differenzia in base alla coppia
binaria presenza/assenza: 1) la relazione implica o non implica la rappresentazione psichica di uno dei relata; 2) la relazione implica o non implica
un’analogia tra i relata; 3) la connessione tra due relata (lo stimolo e la
risposta) è immediata o non lo è; 4) i relata coincidono esattamente, o
viceversa uno “sopravanza” l’altro; 5) la relazione implica o non implica
un rapporto esistenziale con colui che ne fa uso.
La significazione può essere concepita essenzialmente come un processo; in sé, è l’atto che unisce il significante e il significato, atto il cui prodotto
è il segno, i cui due relata sono il significato e il significante. Con una certa
analogia con la concezione saussuriana, i due assi fondamentali del linguaggio sono il sistema, ossia il campo associativo di termini (virtuali), e il
sintagma (molto simile alla natura della parole), consistente nella combinazione varia di segni. Altri elementi-chiave nella teoria barthesiana sono i
concetti di denotazione e di connotazione: in particolare, un sistema connotato è un sistema il cui piano di ‘espressione’ (quello del significante) è
esso stesso costituito da un sistema di significazione; il metalinguaggio è in
questa prospettiva un sistema in cui il piano del contenuto (significato) è
esso stesso costituito da un sistema di significazione.
In sintesi, nel quadro complessivo della linguistica semiotica, lo studio del rapporto dei
segni individua le seguenti “dimensioni”: la sintassi = rapporto dei segni con altri segni
(concerne, in ambito più strettamente comunicazionale, la trasmissione dell’informazione), la semantica = rapporto del segno con gli oggetti (si occupa, in altri termini, del significato) e la pragmatica = rapporto del segno con i parlanti.
3. TEORIE ‘STANDARD’: MODELLO MATEMATICO-CIBERNETICO E MODELLO DI JAKOBSON
A) Il modello matematico-cibernetico di Shannon e Weaver
Il nucleo di questa teoria è stato ripreso da quella che molti considerano
una ‘teoria standard’ della comunicazione. Il modello matematico-cibernetico è nato nei laboratori tecnici di ricerca della Bell’s Telephone Company
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per opera di Claude Shannon, un ingegnere, nell’immediato secondo dopoguerra. Shannon, nel noto libro Teoria matematica della comunicazione
(1949), scritto con Warren Weaver, precisa che l’ambivalente termine ‘comunicazione’ è usato in un senso molto ampio per comprendervi “tutti i
procedimenti attraverso i quali un pensiero può influenzarne un altro”.
Il modello informazionale — così definito in quanto incentrato sul concetto di trasmissione (o trasferimento) di informazione — teorizzato da
Shannon e Weaver vuole esplicitare il funzionamento del processo comunicativo sia che esso coinvolga a) due macchine, sia che si verifichi tra b) due
esseri umani, sia che c) relazioni una macchina e un essere umano. Gli
elementi fondamentali del “sistema generale di comunicazione” sono rappresentati, con le loro relazioni, dal seguente schema:
In ogni processo comunicativo, quindi, si dà una fonte o sorgente dell’informazione, che, attraverso un apparato trasmittente, emette un segnale, il quale transita attraverso un canale, passaggio o transito sempre soggetto al rischio di effetti di disturbo, di rumore; uscito dal canale il segnale
viene recepito da un ricevente che lo converte in un messaggio, come tale
viene compreso dal destinatario.
Uno degli aspetti caratterizzanti la teoria di Shannon e Weaver è l’aver
messo in evidenza l’importanza dei fattori di disturbo nel trasferimento-
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trasmissione di informazione — che è il “senso” della teoria —, ossia il
problema del rumore (da cui una “teoria del canale rumoroso”). Il processo
di comunicazione quindi, come il rotolare di un oggetto in terra, subisce
l’effetto di una sorta di “attrito” e possibili deviazioni di traiettoria a causa
dell’asperità del terreno, di interferenze di altri processi (cui si può ovviare
amplificando il processo fisico o facendo intervenire ripetizioni e altri dispositivi di ridondanza). La finalità operativa della comunicazione, secondo la teoria in questione, è allora quella di far passare attraverso il canale il
massimo di informazione, con la massima economia di tempo e energia, ma
con il minimo di distorsione del segnale-messaggio: obiettivo chiaro è l’ottimizzazione del rendimento informazionale.
Il riferimento al medesimo codice, da parte del trasmittente e del destinatario, è condizione
necessaria del prodursi di una comunicazione. Il codice è un sistema di regole che assegna
a dati segnali un determinato valore, se si tratta della comunicazione tra due macchine, e a
dati segni un determinato significato, se si tratta di comunicazione interpersonale. In relazione alla sua teoria, Shannon distingue il significato di un messaggio, il suo aspetto semantico, che può essere “irrilevante per una teoria dell’informazione”, dalla misura dell’informazione ricevibile quando un determinato messaggio, anche un singolo segnaleimpulso elettrico, viene selezionato dal complesso insieme di messaggi equiprobabili e
ricevuto. Il concetto di informazione è omologo a quello, in fisica, di entropia negativa, la
quale si esprime in termini delle varie probabilità che vari stati di un processo hanno di
verificarsi dopo che un certo altro stato si è verificato. In senso generale, un dato rilevante
della teoria, talvolta non adeguatamente valutato, è che l’informazione non un contenuto in
sé concluso, irrelato, «non riguarda tanto ciò che si dice effettivamente, quanto ciò che si
potrebbe dire. Cioè, l’informazione è una misura della libertà di scelta che si ha quando si
sceglie un messaggio».
B) Il modello di Jakobson
L’elaborazione teorica, in ambito sostanzialmente semiotico, più rilevante e feconda di un modello di comunicazione linguistica è quella offerta
dal linguista statunitense d’origine russa Roman Jakobson (1896-1982),
uno dei fondatori, nel 1926, dell’importante Circolo linguistico di Praga
(con, tra gli altri, Nikolaj Trubeckoj) e autore degli importanti Saggi di linguistica generale (1963). Jakobson riprende, integrando e riformulando,
alcuni presupposti della teoria precedente; egli accoglie, in particolare, la
definizione dell’informazione selettiva di un messaggio “come il numero
minimo di decisioni binarie che consentono al ricevente di ricostruire ciò
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che egli deve estrarre dal messaggio, sulla base dei dati che sono già a sua
disposizione”, a suo giudizio, una formula ben applicabile “al ruolo dei tratti distintivi nella comunicazione linguistica”. Nella concezione jakobsoniana l’attività comunicativa consiste perciò nella trasmissione di un contenuto semantico fisso tra due poli pre-definiti, incaricati di codificare e decodificare il contenuto secondo le restrizioni di un codice anch’esso fisso.
Jakobson ha voluto comunque costruire un modello della comunicazione che fosse completo: il linguaggio, perciò, deve essere studiato in tutta la
varietà dei suoi fattori, delle sue funzioni, e delle loro articolazioni. Per
tracciare l’insieme di queste funzioni risulta imprescindibile “una rassegna
sommaria dei fattori costitutivi di ogni processo linguistico, di ogni atto di
comunicazione verbale”. Il quadro minimo dei fattori del linguaggio verbale comunicativo prevede che vi sia un mittente che invia un messaggio ad
un destinatario. Ma questo, s’è visto, è soltanto lo scheletro della comunicazione, che non può rendere conto della sua intima struttura e del suo concreto funzionamento. Per Jakobson, infatti, è necessario mettere in evidenza altri fattori
«Per essere operante il messaggio richiede in primo luogo il riferimento a un contesto (il
“referente” secondo un’altra terminologia…), contesto che possa essere afferrato dal destinatario, o che si verbale, o suscettibile di verbalizzazione; in secondo luogo esige un codice
interamente, o almeno parzialmente, comune al mittente e al destinatario (o, in altri termini, al codificatore e al decodificatore del messaggio); infine un contatto, un canale fisico e
una connessione psicologica fra il mittente e il destinatario che consenta loro di stabilire e
di mantenere la comunicazione» (R. JAKOBSON, Saggi di linguistica generale).
Su un altro piano, ognuno di questi sei diversi fattori, necessari in quanto tutti concorrono a strutturare in concreto la comunicazione verbale, è
collegato a una funzione linguistica specifica: una funzione emotiva relativa al mittente, una funzione referenziale in rapporto al contesto, una funzione poetica relativa alla produzione messaggio, una funzione fàtica legata al contatto, una funzione metalinguistica che si riferisce al codice e, infine, una funzione conativa , così detta tale in quanto relativa al conatus (impulso, desiderio, volontà) verso il destinatario. L’intera struttura di fenome-
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Capitolo Secondo
no linguistico-comunicativo, con le sue interne articolazioni, può essere
utilmente illustrato e riassunto nel seguente schema:
Il modello di Jakobson si è imposto come un punto di riferimento, anche
perché, pur con alcuni presupposti limitativi, contiene tutti gli elementichiave del fenomeno della comunicazione: essi sono stati poi analiticamente criticati, approfonditi, riformulati nelle loro interrelazioni, dalle teorie
successive.
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Che cos’è il codice?
Il codice, in astratto, è un sistema di regole che assegna a dati segnali/significante un determinato valore/significato. La nozione di ‘codice’ è comune sia alla teoria sulla comunicazione
linguistica di Jakobson sia a quella informazionale, di natura matematico-cibernetica, di Shannon e Weaver. In generale si può sottolineare come nello studio del fenomeno comunicativo sia
sempre presente una sorta di ambiguità, la quale riflette una delle ambivalenze del concetto
stesso di “comunicazione”: questa, infatti, può essere concepita, linearmente, in termini di a)
trasmissione-trasferimento di un’informazione tra due poli (“teoria informazionale”, v. modelli appena esaminati) oppure come b) trasformazione da un sistema all’altro, mediante un
codice.
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C) Il modello semiotico-informazionale
Un’interessante e complessa variante teorica rispetto ai modelli sopra
illustrati, è quella sviluppata originariamente dai semiologi italiani Umberto Eco e Paolo Fabbri (1965). La sostanziale differenza rispetto al modello
di Shannon e Weaver è la definizione di un concetto di codice e di ‘decodifica’ che non prevede più il destinatario come ricevente passivo ma lo riconosce come un polo comunicativo in grado di trasformare i contenuti co-
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municati. Il processo comunicativo si svolge in termini di procedure di significazione: il messaggio = significante + significato codificato dalla fonte-emittente perviene, come significante, al destinatario, il quale poi, utilizzando determinati codici, (ri)assegna al messaggio un significato. Si può
affermare che il messaggio, per un destinatario, umano acquista un significato e può avere molti sensi possibili: sul funzionamento della comunicazione intervengono quindi decisivi fattori semantici. In generale, la comunicazione non viene quindi concepita come un trasferimento di informazione ma come un processo di trasformazione da un sistema ad un altro: è
proprio il codice che garantisce la possibilità di tale trasformazione.
La comunicazione allora si configura per sua natura come un continuo
processo di riconoscimento e di attribuzione, di “contrattazione” di senso:
tutto ciò rientra nell’idea generale della comunicazione come negoziazione
(una sorta di “spazio semiotico aperto” nel quale possono prendere forma
variabili legate ai fattori di mediazione tra individuo e comunicazioni di
massa). Un aspetto importante della teoria è senz’altro l’aver messo in evidenza pluralità e articolazione dei codici (comprendenti diversi sottocodici) — «a seconda delle diverse situazioni storico-culturali, esiste una diversità di codici, ovvero di regole di competenza e di interpretazione» —, ma
soprattutto dell’esistenza di “difetti” di decodifica, della definizione di decodifica aberrante e della rilevanza delle “tattiche di decodifica” mediante
cui «il messaggio in quanto espressione non muta, ma il destinatario riscopre la sua libertà di risposta»: di qui il suggestivo concetto di “guerriglia
semiologica”.
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Anticipando il discorso sui mezzi di comunicazioni di massa, Eco, nel
quadro di un’“indagine semiologica del messaggio televisivo” (1965), ha
individuato quattro interessanti casi di incomprensione comunicativa, dipendenti da differenti fattori:
— incomprensione o rifiuto del massaggio per assenza di codice: il messaggio è un mero segnale fisico non decodificato o rumore;
— incomprensione o rifiuto del massaggio per disparità dei codici;
— incomprensione o rifiuto del massaggio per inferenze circostanziali: il
codice dell’emittente è compreso dal destinatario ma modellato sul proprio “orizzonte di attesa”;
— rifiuto del messaggio per delegittimazione dell’emittente: il codice dell’emittente è compreso dal destinatario ma il senso viene stravolto per
motivi ideologici.
Il modello semiotico-informazionale assume un rilevante valore euristico in quanto indica alla ricerca mediologica che è indispensabile comprendere nel campo di analisi il fattore-mediazione dei meccanismi comunicativi sulla produzione degli effetti macrosociali (v. Cap. 5), anche se esso è
stato più che altro utilizzato nei limiti degli studi sulla struttura comunicativa e sulla comprensibilità dei messaggi.
4. L’APPROCCIO RELAZIONALE TRA PRAGMATICA E PSICOLOGIA
A) Pragmatica del linguaggio: J. Austin e J. Searle
La concezione pragmatistica del linguaggio e della comunicazione umana
si occupa essenzialmente del comportamento dei parlanti e di tutte le sue
componenti: come si esplica la loro interazione comunicativa, come incide
in rapporto allo status degli interlocutori e al contesto. Il termine pràgma da
una parte può indicare l’“azione”, rivelando così una convergenza con praxis; ma — in greco — ta pragmata sono anche le “cose”, per cui in questo
senso la pragmatica concerne il rapporto con esse ossia con il contesto della
comunicazione. La dimensione pragmatica comunque è stata primariamente evidenziata e indagata da Charles W. Morris, che ha quindi impostato
questa “scienza della relazione dei segni con i loro interpreti”. In altri termini, la pragmatica rappresenta lo studio di ciò che viene detto in dipendenza
dal contesto in cui viene detto e agli effetti che produce.
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