Presentazione Quattro amici giovanissimi, due

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Presentazione Quattro amici giovanissimi, due
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Presentazione
Quattro amici giovanissimi, due coppie, si trovano coinvolti
in una goliardica intesa ludica, in un alternarsi di giochi amorosi che col tempo diventa un pericoloso vizio, e che, senza che se
ne rendano conto, alla fine prende loro la mano.
Fra di essi emerge la differente natura di ciascuno, e la diversità delle note caratteriali li conduce a inaspettate reazioni, delle
quali non sempre essi sono coscienti.
Col tempo questo iter li trascina in uno strano e perverso
rapporto che da gioco diventa ambigua complicità, sino a una
estrema conclusione finale inattesa... tanto drammatica, quanto
misteriosa.
Altri segnali inspiegabili e larvati segreti affiorano durante
la narrazione dei fatti, aggiungendo sconcerto e dubbi nell’accertamento della verità.
Scritta come su due linee di uno stesso binario, la trama,
unica, è raccontata contemporaneamente da una voce narrante
che accompagna il personaggio centrale dall’infanzia sino alla
fine del racconto (corsivo), e da un io narrante (l’autore), presente e partecipe di tutta la storia (tondo).
Edizione a cura di
Cinzia Console
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Questi due racconti in parallelo, scritti nei due diversi
caratteri di stampa, illustrano profondamente l’andamento e
le prospettive dello stesso evento, puntualizzando le contraddizioni razionali che si pone un osservatore (il lettore),
coinvolto anche lui, così, nel cercare di comprendere la
verità.
La narrazione tutta, segue attentamente la logica e la psicologia di ognuno dei quattro personaggi, connotandosi sempre di
un fondo altamente erotico che li accomuna.
Alla Robin Edizioni srl sono riservati i diritti di sfruttamento
e la proprietà esclusiva del marchio BdV
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Il libero arbitrio del caso
L’Agenzia FALCUSSTAMPA – promozione letteraria – attraverso
messaggi stampa e contatti e-mail, informa e ragguaglia una vasta lista
di associati ed altre agenzie, sulle iniziative editoriali in corso e sulla
produzione di autori qualificati che hanno già edito, o non ancora, sul
mercato Italiano.
Essa si avvale di format essenzialmente informatici interattivi di
tipo ludico: concorsi o scambi culturali, inchieste, ricerche, confronti e
competizioni fra gli appassionati della lettura e della scrittura.
Per quanto riguarda la promozione e la diffusione letteraria, utilizza diverse formule che coinvolgono e compartecipano oltre chi ama
leggere o chi ama scrivere, anche le differenti branche legate alle attività del settore.
I nostri club di lettori ci forniscono le opinioni ed i trend sulle preferenze ed i gusti delle varie tipologie di acquirenti del libro e ci aiutano ad individuare gli strumenti ed i canali più idonei.
Collaboriamo e lavoriamo in simbiosi con molti portali di cultura e
di interesse artistico e librario.
Anche questo testo è stato lanciato e pubblicato attraverso Internet
per sondarne sia il possibile market che la critica, e saggiare le preferenze espresse dal variegato mondo dei lettori.
Il suo finale è stato proposto in diverse soluzioni ed infine elaborato, nella sua versione definitiva, attraverso un concorso seguito da circa
1300 iscritti.
Anche la parte grafica ispirata ai fatti salienti e ai personaggi del
romanzo è stata realizzata e suggerita da diversi artisti, che abbiamo
coinvolto in una gara selettiva.
Ringraziamo anche alcuni portali che hanno collaborato pubblicando le varie fasi di sviluppo di tutto questo lavoro, ed in particolare
“www.pennadoca.net.”
Vincitrice per il miglior finale è la signora Nicoletta Retico di
Colonna (Roma).
Vincitrice per la grafica ispirata al romanzo è la signora Tati Simmi
di Olevano Romano.
Premiate con partecipazione ai diritti d’autore.
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A Napoli spesso la gente di sentimento, cioè quelli che
sono molto attenti alla vita e alle sue connessioni con il prossimo (effetti, suggestioni, influenze), comunicano agli altri
questa loro umana preoccupazione (quasi scusandosene), col
prendersi il capo fra le mani e dicendo: “Quant’è complicato
campare” (letter. Che ce’ vo’ pe’ campa’).
Con questo alludono non solo ai problemi personali in cui
incappano, per malasorte o per errore, ma anche alle implicazioni dovute al fraintendimento o alle distrazioni degli
altri, con i quali si sentono coinvolti, perciò, da un superiore
comune destino che li affratella.
Dunque non c’è mai un tono di rimprovero, nemmeno se
avvertite di esser voi, in alcuni casi, la causa di questa iattura.
Quelli più maliziosi possono usare questa frase, magari
prima di fregarvi, per attutire la loro responsabilità causata
da una imprescindibile necessità di sopravvivenza. È comunque una gentile attenzione nei vostri riguardi della quale è
sempre d’uopo essere grati e comprensivi.
Per applicarla infine in senso lato, si può considerare questa espressione come un generico stare in guardia e una constatazione che comunque in giro ci sono tanti di quei fattori
che ti complicano l’esistenza ché, anche se non ne hai assolutamente alcuna colpa, non te li sei cercati tu, e nemmeno li
potevi prevedere, pure non ti devi mai sorprendere o avvilire
perché in quel “Ché” c’è anche un po’ la mano di Dio.
Capite come è vasta la saggezza dei napoletani?
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FRANCESCO FALCONE
Detto questo, tutto può succedere...
Successe così che a Corradino toccarono in sorte alcune
cose, certe belle e certe orribili, ma che col comune intendimento del “destino” non hanno nessuna coerente attinenza.
Dunque campare è difficile, quasi un gioco di bussolotti,
e c’è poco da raccontare sull’inevitabilità delle conseguenze
tra cause ed effetti, che dovrebbe spiegare il fato di ognuno
di noi; i napoletani si sono sfogati da tempo e lungamente per
illustrare ai Buddisti che, oltre alle “conseguenze delle azioni”, c’è anche il “caso” (caos?) che ti “fotte” (anch’esso termine importantissimo e dai tanti sfumati significati).
Così Corradino diventò il classico esempio di quando il
caso decide per te, e si arroga il diritto di farti fare la fine che
vuole, e se ne fotte se te lo meriti o no!
Corradino in avvio non pareva fosse partito male, e le sue
piccole intemperanze non erano granchè nella contabilità
della vita.
Non ci fu potenza superiore, però, tra tutte quelle predicate e credute, che avesse potuto, poi, muovere concretamente un dito per aiutarlo, e lo strafottente “caso” fece sempre quello che gli parve utile e divertente fare in barba alle
“potenze superiori”.
Cosicché, quando sarete informati sulle vicissitudini di
Corradino, converrete con me, che il libero arbitrio esiste, ma
sta anche in mano al caos...
Dagli indumenti arrotolati sulla spalliera del letto,
lasciati da Mà, Corradino capì che non era ancora giorno, o
almeno non era ancora quella parte del giorno in cui il giorno vero inizia e la casa si anima e tutti rincominciano la loro
attività quotidiana e, tanto per ricominciare, Amed porta il
bricco colmo di caffè caldo sul vimini dove ci sono già le
tazze pronte per la colazione, i cestini con la frutta, e la
papaia già affettata aspetta lì, rosata, e le banane e i mango
mescolano il loro profumo.
Attorno, allora, gli insetti cominciano con un ronzio ininterrotto la loro fitta, faticosa, bella e misteriosa giornata!
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La lunga marcia delle cimici
Un po’ di luce però filtrava già dalle stuoie che proteggevano le finestre e ciò significava che tutto questo, se pure
non era ancora giunto, sarebbe apparso molto presto.
Questa era l’ora più bella della giornata, proprio quando a lui capitava di svegliarsi un po’ prima degli altri, e
quando il silenzio e il fresco della alba, umida e brumosa, si
stempera nel tepore del primissimo sole africano.
I raggi a quell’ora si infilano come inaspettati a invadere tutto dal basso, prima radenti ai cespugli e alla corta
vegetazione, per poi risalire verso l’alto, scacciando le
ombre annidate sotto gli alberi altissimi e robusti.
E mentre le ombre si diluiscono e si frantumano fra le
foglie, i brusii e i rumori della foresta prendono il loro posto,
rivelando un operoso risveglio brulicante.
FRANCESCO FALCONE
CORRADINO, E... L’INFERNALE JET-SET
L’apertura di questo rituale mattutino era sempre dolce,
perché in quella luce particolare il fruscio era sommesso e
discretissimo, e lo si avvertiva prima fra le ciglia socchiuse
più che con qualunque altro senso.
E fra le ciglia socchiuse in quei momenti si annidavano
sempre le più belle fantasie.
La durata di questo intervallo era talvolta troppo breve e
Corradino lo rimpiangeva.
Mai lo lasciavano abbastanza oziare in solitario con il
suo fantasticare al mattino, in quel momento che preferiva.
“Mà” lo chiamava: “Couragin, sveglia, Couragin!!
Alzati! E rideva tanto, con le palme bianche che annodavano i suoi capelli crespi e neri.
Ma “Mà” non era nel suo letto in quel momento, né d’altra parte il giorno, quello vero, era ancora cominciato.
I bisbigli erano alle porte, anche questo si capiva chiaramente, e lui si era destato appena un passo prima di tutto
questo.
“Mà”, arrivava ora, però da sinistra, dal corridoio, dalle
stanze interne.
Nel silenzio assoluto si percepivano i suoi movimenti
come quelli di un uccello fra i cespugli.
Prudenti, ma a scatti.
Nel riquadro della porta che comunicava con la stanza di
Mà, Corradino inquadrava bene il suo letto vuoto, il suo
batik a terra, caduto forse dalla spalliera o buttato nella fretta ai piedi del letto
Ma lei dunque non era a destra dove era la stanza con le
docce, Mà veniva da sinistra, e questo significava qualcosa
di diverso.
Quando finalmente la vide al centro del riquadro, passò
rapida in punta di piedi e, nel suo bianco camicione di cotone, apparve segreta come una veloce nuvola all’alba.
Sono tristi le nuvole che arrivano correndo già all’alba.
Poi restano a minacciare l’intera giornata perché di solito, a quell’ora, subito si ammucchiano una sull’altra, peggiorando il tuo umore magari senza una ragione precisa.
Una sensazione sgradevole pervadeva Couragin; in parte
sapeva perché, in parte no.
Mà si nascondeva nella camera delle docce, senza prima
chiamare: “Couragin, sveglia, Couragin! Devi aprire gli
occhi con me, alzarti con me, perché appena sveglia sei tu la
prima cosa di cui mi occupo!”
Era convenuto, e Mà lo aveva abituato così.
Questo sfuggire alle consuetudini, questo suo nuovo
“fare” qualcosa a sua insaputa, curando in punta di piedi
che lui non ne venisse al corrente, era più sospetto e fastidioso di quelle nuvole all’alba.
Non si abbandonò, perciò, a fantasticare come faceva al
solito a ciglia socchiuse, ma tra le ciglia aspettò vigile, e
attese il seguito, sinché la doccia non terminò.
Quando Mà riapparve a capo del suo letto presso il batik
arrotolato nel fondo, lasciò cadere la tovaglia di spugna e
rimase ferma per qualche istante, scrutando verso il
Corradino dalle ciglia socchiuse.
Era giovane, alta e scura, con i fianchi segnati e i seni
alti e robusti.
I suoi capezzoli grossi e neri erano allungati e Corradino
li ricordava così, o era certo di ricordarli così quando lei,
tanti anni prima, glieli aveva dati a succhiare con quel saporino un po’ salato.
Couragin strinse i pugni come quando li affondava nelle
sue mammelle gonfie e morbide.
Sentì una specie di languore e avrebbe voluto ora alzarsi
e andare di corsa ad abbracciarle.
Ma non lo fece, perché si senti confuso.
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CORRADINO, E... L’INFERNALE JET-SET
Giustamente; perché quelle non erano le mammelle che
lui aveva succhiato.
Mà si chinò e lui la spiò: si accovacciò in un modo che
gli apparve sgraziato, raccolse il batik avvolgendolo lentamente sul suo corpo.
Poi i primissimi brusii fecero la loro comparsa nel chiarore che ora avanzava e Mà finalmente lo chiamò:
“Couragin, amour, petit Couragin... reveille toi!”
Lo scarabeo-cervo che era chiuso nel barattolo sul suo
comodino parve muoversi pigramente, si girò verso di lui e
le lunghe antenne si mossero su e giù lentamente per salutarlo.
Cercò di risalire arrampicandosi sul vetro, ma slittò e
rimase molto afflitto fra i sassetti sul fondo, prigioniero,
mentre Corradino gli parlava già di un imminente trasferimento nelle collezioni di coleotteri alloggiate nella lussuosa
teca nella verandina coperta, di fronte al parco, con vista
sulla fitta vegetazione da cui provenivano.
Questa teca provocava lo stupore e il ribrezzo della esile
signora Mouton, che però non rinunciava mai a soffermarsi,
rabbrividendo con brevi gridolini, a indicare gli ultimi repellenti arrivi di pelossisimi bruchi e di ragni, la cui anomala
immobilità quasi la ipnotizzava.
Corradino con molto orgoglio illustrava sempre nomi e
particolarità degli abitanti della sua raccolta personale, specie durante i cocktail che si svolgevano nella veranda e nel
giardino e che suo padre organizzava per il suo diletto personale oltre che per l’onore e la gloria della Nazione
Italiana Imperiale!
Invero, anche tutte le altre svolazzanti signore color
pastello che gustavano i colorati vermut italiani lì dentro,
tutte con i loro guantini di filo bianco e i sandali con il laccetto e bottoncino laterale, o per noia o per benevolenza,
avevano dato almeno una volta, da sotto le cuffiette all’uncinetto o dai panama leggeri, un’occhiata alla brulicante
bacheca.
Ma solo l’esile signora Mouton in particolare, rilevò
Corradino, più delle altre sembrava sempre sorprendersi e
terrorizzarsi al goffo reagire degli insetti quando picchiava
col dito sul vetro della teca.
Si esprimeva allora con quei piccoli urletti acuti che
richiamavano l’attenzione degli altri invitati, che correvano
a rassicurare e rincuorare l’esile signora Mouton.
In effetti apparve ben presto chiaro a Corradino che questo meschino stratagemma serviva alla ridicola signora
solamente per attirare l’attenzione su di sé.
Attenzione particolarmente gradita quando si trattava
degli ospiti maschili del variegato corpo consolare che formava la colonia più interessante della etnia europea.
Capì come questi adulti utilizzassero vigliaccamente la
sua preziosa collezione per convenzione o per scopi personali.
E in particolare questa fragile signora Mouton, appena
raggiunta da un seducente salvatore, si disinteressava completamente dei poveri insetti che, richiamati e stimolati a dar
esibizione di sé, rimanevano appiccicati sul vetro, stupidamente disattesi.
Ora la delicata signora battendo le palpebre pesantemente mascarate, si occupava con mille moine solo del suo
attuale provvidenziale consolatore, allontanandosi discretamente nel parco.
Da quando essa aveva usato la stessa trappola persino
con suo padre, Corradino la aveva odiata, sentendo che tutta
la famiglia era stata da lei indegnamente ingannata.
E l’inganno lo faceva soffrire più di ogni altra cosa al
mondo.
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Quando lo aveva raccontato a Mà, lei aveva riso tanto;
lo consolava a modo suo, pizzicandogli la guancia:
Couragin, fantastica troppo... la povera Mouton, non ha nessuna malizia né intenzione di ingannarvi.
Gli insetti, tutti, brutti e schifosi che fossero, invece non
lo deludevano mai.
Qualcuno tentava sì, di scappare, ma in genere erano
sempre attenti a lui, e sinora nessuno aveva neppure tentato
di pungerlo.
Perché lui li capiva, li interpretava e sapeva come e
quando toccarli.
Quel mattino, armato di barattoli dal coperchio bucato,
progettò di recarsi lungo il fiume come faceva spesso, sino
alla segheria, e urlando avvisò Mà mentre si allontanava nel
viale.
La grossa bocca di Mà si schiuse in un largo sorriso e le
sue tumide labbra color melanzana ben aperte ulularono
anch’esse gioiose da lontano: “Couragin, va a prendere le
salamandre nel fiume? Couragin sarà molto attento?”
Mà, parlava nel suo curioso francese indigeno, sempre in
terza persona, quando si rivolgeva a lui, e se si raccontavano qualcosa pareva sempre parlassero di qualcuno assente,
o poco distante ad ascoltare.
Perciò le conversazioni tra loro prendevano sempre il
sapore di una favola narrata: “Stasera Mà avrà le salamandre e le punaises giganti della segheria!”
Risalì lungo il sentiero accosto al fiume, ci voleva più di
mezz’ora per raggiungere la ronzante segheria, e suo padre
non era mai contento che lui si avventurasse solo e così
distante.
Ma questi erano gli ultimi giorni di vacanza e sapeva che
erano trattati con particolare misericordia e meno divieti.
Fra poco avrebbe ricominciato i corsi presso
l’“Istituto latino di cultura e scienze”, che era un organismo frequentato solo dagli europei abbienti della colonia,
tenuto dal corpo insegnante del “Grenoble” di Parigi,
trasferitosi lì non si sa perché, con quali fini, né con quali
validi attestati per garantire un valido futuro ai suoi
discepoli.
Gran parte del tempo si trascorreva a leggere classici
della letteratura francese e a perfezionare la fonetica della
lingua.
Non sembrava fossero in grado di fare di più, ma la gente
ne diceva un gran bene, i loro allievi erano fieri e pareva
certo che le sue qualifiche ben presto sarebbero state equiparate a quelle dei migliori istituti scolastici europei.
D’altronde c’era poco altro da scegliere.
E lui nel frattempo riscuoteva molti encomi e attestati.
Il sibilo delle lame della “Congo bois S.A.”si faceva sentire nella boscaglia fitta, già da molto lontano, ed era un ottimo, indispensabile riferimento una volta lasciato il bordo del
fiume per prendere quella scorciatoia.
Senza un punto di riscontro nell’ultimo tratto, la vegetazione era talmente uniforme e compatta che solo una persona abituata ed esperta sarebbe stata capace di arrivare a
destinazione senza perdere l’orientamento.
Quella deviazione era d’altronde necessaria per evitare
di seguire tutta la larga ansa del fiume che in un certo punto,
abbassandosi, diventava paludosa e pericolosamente infestata.
Corradino conosceva ormai bene questi condizionamenti
e se non udiva chiaramente il sibilo a due toni delle lame che
rodevano i grossi tronchi, già prima di lasciare la riva del
fiume, mai più si sarebbe addentrato nell’intrico dal quale si
scorgeva a malapena persino il cielo.
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Appena l’anno precedente un’interruzione di corrente
improvvisa (cosa non rara) aveva arrestato le pulegge della
“Congo bois” e Corradino, ancora nella boscaglia, ricordava lo smarrimento e l’angoscia provata in quel momento.
Si era fermato subito, per fortuna e, con molto buon
senso, non si era spinto in ricerche o esplorazioni.
Dal rumore sapeva di essere giunto ormai vicinissimo
allo stabilimento quando, nel giro di pochi secondi, il furioso urlo delle seghe si era spento in un sordo borbottio asmatico.
Poi più nulla.
Si era trovato avvolto improvvisamente dalla vegetazione
muta e mai così tanto perdutamente solo.
Tenendo sempre d’occhio un fusto d’acacia particolarmente riconoscibile per la forma e la posizione, aveva tentato invano varie puntate nelle presumibili direzioni, ritornando sempre alla “posta” fissata, come si usa per non perdere
almeno l’ultimo punto certo.
Né valutazioni logiche né il labile ricordare la provenienza esatta dell’ultimo sibilo prodotto dalle macchine, era
stato sufficiente a indirizzarlo in alcun modo.
Più si dava da fare, più si agitava, più si sarebbe smarrito, lo sapeva.
Nessun rumore di trasporti, auto, e nessuna voce umana
arrivava nell’imbottitura in cui si era infilato.
Solamente, e non prima di mezz’ora dopo, un improvviso
scatenarsi dei motori lo aveva tirato fuori da quell’abisso di
sconforto e di paura in cui era piombato e, allungando appena la mano, allargando solo due rami, giusto alla sua destra,
a meno di trenta metri da lui scoprì la radura nella quale...
Ecco! Lì era il complesso di cemento, eternit e lamiere che
fischiava, strideva, ruggiva; lame e cinghie che ruotavano
furiosamente, lunghi tavoloni che sbucavano dall’interno
scivolando su rulli con sonori tonfi e sordi echi a non più di
trenta metri!!
...Mentre lui era quasi rassegnato ormai a passar la notte
lì o a sperare che qualcuno lo salvasse.
Lui non aveva raccontato a Mà l’avventura di Couragin,
né a nessun altro.
Era una storia paurosa e ridicola, ma anche foriera di
futuri presumibili divieti.
Nella segheria l’odore del legno tagliato di fresco lo estasiava con uno stimolo quasi di tipo papillare.
La linfa fresca che affiorava nel tessuto appena inciso
aveva un sentore attraente, pastoso, alimentare, saporito; la
resina era fragrante, aromatica in alcuni legni gommosi, e
gustosa anche al palato.
Della spezia appiccicosa dell’acacia gli piaceva fare palline dal gusto e dall’odore essenziale e rinfrescante.
Tutte le diverse qualità dei vari legni lo inebriavano e in
quella segheria anche i trucioli soffici e profumati, ammucchiati da un lato, rappresentavano un gioco attraente, saltandoci dentro dal poggetto, come in una piscina odorosa.
Mbomo, suo coetaneo, amava anche lui nascondersi tra i
trucioli e saltar fuori all’improvviso come in un’esplosione
di mille coriandoli.
Il padre di Mbomo, che sino all’anno prima aveva lavorato in villa da suo padre e ora era diventato uno dei capoturnisti della segheria, rideva da lontano coi suoi grandi
denti bianchi, coperto di segatura fine, fingendo ogni volta
di spaventarsi alle urla improvvise del figlio e di Couragin.
Si divertivano con così poco tutti, così, in quella segheria
e chissà perché Couragin era felice e si sentiva lì a casa sua
come in nessun altro posto.
Quando il sole diventò alto e cocente, il vecchio Mbomo
staccò la corrente. Le macchine mugolarono spegnendosi e
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il nero uomo impastato di sudore e polvere di legno dette fine
al I turno, al suo turno e a quello dei suoi operai, e ritornò
al villaggio sulla sua scassata e traballante Citroen, lungo la
carrabile che passava davanti alla villa di Couragin per
consegnarlo come d’abitudine a Mà.
La procace e formosa tata per la quale lui da tempo e in
segreto spasimava.
Anche quel giorno dal finestrino cercò di improvvisare
qualche battuta che facesse ridere quella bella nera appetitosa, e potesse così infilare almeno per un attimo lo sguardo
nella gola rosata che si spalancava larga e invitante nelle
sue fragorose risate.
Quelle mucose chiare e dischiuse gli facevano intravedere, immaginare altre sue alcove segrete, cariche di linfa,
umide e altrettanto calde e rosate... e per le quali lui
impazziva.
Una sezione del piccolo zoo fu dunque attrezzata solo per
esse, con ben esposto il loro biglietto da visita: “Emitteri
arborei”.
Couragin, anche lui soddisfatto per i suoi barattoli provvisti di punaises raccolte tra i tavoloni, si rese conto di quanto fosse bello vivere!
Le bestiole della segheria erano circolari e piatte, verde
bruno e di varie dimensioni. Due erano enormi.
Simpaticissime correvano e facevano capolino fra i trucioli
sul fondo del vaso, come se giocassero a nascondino.
Non avevano paura delle dita di Corradino, quando le
afferravano e anzi docilissime, quasi sentissero e capissero i
suoi ordini, giravano in tondo sul palmo della mano come se
stessero su di una giostra. Queste fortunate bestiole poi
erano nate e vivevano nella foresta calda e profumata, abitavano nei tronchi e si cibavano della saporita pasta degli
alberi.
Benedette da Dio, secondo Corradino facevano una vita
da pacchia!
La stagione umida era alle porte e le vacanze collegate a
essa erano alla fine.
Il caldo era afoso e appiccicoso; i primi violenti scrosci
tambureggiavano rumorosi sulle lamiere, di notte, e le pozzanghere larghe e melmose ovunque, ti obbligavano a larghi
giri, ma ti infangavano comunque i piedi.
Mà camminava scalza nel parco e, sotto la pensilina gocciolante, Corradino rileggeva ancora la storia della regina
Ginevra nel castello di Camelot.
Questa regina era come sua madre: bellissima, bionda e
dagli occhi cerulei, e come sua madre pareva si fosse invaghita di un altro uomo e forse era scappata con lui.
Non era ben chiaro come poi fosse finita la storia a
Camelot, né esattamente nemmeno quella di sua madre. Il
fatto certo era che un giorno sua madre era scomparsa e a
lui mancava tuttora.
Soffriva e la aspettava ancora e forse come il povero re
Artù disperava ormai di vederla di nuovo un giorno.
Questa storia che lo riempiva di angoscia, la leggeva
ogni tanto di nascosto, perché suo padre, quando lo aveva
scoperto a piangere con quella maledetta storia di abbandoni, gli aveva nascosto il libro (poi ritrovato) e fatto uno strano discorso.
Per molti anni aveva saputo che la sua mamma era morta
un brutto giorno, di malaria o d’altro, ma poi la storia non
aveva retto a lungo a tante contraddizioni.
La fotografia di lei nella stanza di suo padre mostrava
una donna ancora viva. Alcune volte qualcuno aveva parlato di lei, quando era partita. Altre volte era stata nominata;
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e poi non c’era nessuna tomba da nessuna parte. E nella sua
stanza la sua foto, ancora più viva, di lei che ridendo sollevava in aria Couragin, grande poco più di una pantofola
(era l’unica di loro insieme). Dopo quella era stato certamente abbandonato!
Alla fine di lei si evitò di parlare davanti a Corradino e
così il mistero fu ritenuto esorcizzato, secondo gli adulti...
Corradino non aveva mai elaborato questo lutto, lo aveva
rimosso; così collegato a tanti dubbi, pian piano aveva stabilito che Mà era sua madre.
Ormai da anni pervicacemente aveva stabilito così.
Perciò lui dunque ricordava anche come avesse succhiato il latte da Mà e persino il suo saporino. Cosicché ora Mà,
con tutto l’amore e la responsabilità di una madre, non lo
avrebbe più lasciato. Bisognava convincersene, pur se quella maledetta storia di Ginevra lo ricacciava nell’angoscia di
sempre.
Quando compì i dodici anni, in quei giorni, si ritrovò in
una nuova situazione difficile.
La avvertì quasi di colpo, per quanto già una serie di
segnali si erano ammucchiati in lui da alcuni anni e premevano per rivelarsi.
Spiava la sera la sua Mà quando, prima di coricarsi, si
infilava sotto la doccia.
E questo gli procurava vergogna, emozione, rimorso,
curiosità, e piacere.
Uno strano piacere.
Cominciò a diventare geloso dei commenti e dell’intimità che il vecchio Mbomo si prendeva con la sua Mà quando,
arrivando con il vecchio catorcio, lei gli portava la brocca
col succo di frutta fresca per dissetarlo e ridere un po’
insieme.
Questo gli precluse spesso, in seguito, la gioia di andare
a gustare gli aromi della segheria e di tornare con lui a casa
cantando sul polverone.
Tante cose lo turbarono, mentre lui cresceva alto e snello, biondo e dagli occhi cerulei, bello come sua madre.
Ci furono delle cose che lo turbarono di più e altre cose
che furono prontamente soffocate, ma che gli fecero più
danno che se le avesse affrontate e magari lo avessero anche
travolto!
Altri pensieri si stavano formando in lui, e non c’era nessuno che glieli spiegasse, gli parlasse, gli facesse compagnia
nella testa, lì, dove ne aveva bisogno.
Mà lo adorava con tutta l’anima da sempre e a questo
punto forse anche questo divenne un altro bel guaio.
Couragin ora l’avrebbe voluta tutta per sé, sempre attenta a lui, come da quando era stata assunta; e ora che lui
diventava grandicello sembrava gliela volessero sottrarre
per destinarla ad altre occupazioni in villa.
Temeva che, crescendo ancora, gliela avrebbero portata
via del tutto. E rifiutava di crescere.
Questo tarlo cominciava a essere una fissazione, perché
Mà e i suoi insetti, sinora, erano stati tutto il suo mondo.
L’Istituto Grenoble gli procurava tanti libri e con essi
cominciò controvoglia a crescere, affannato, col fiato corto,
perché a questa crescita così veloce non era preparato.
Intanto si distaccava dai pensieri e dai giochi semplici di
quella solitaria vita in colonia che sinora lo avevano appagato.
Poi anche il suo fantasticare (abitudine mai dismessa)
era diventato più esigente ed era costretto a scivolare continuamente nel più facile sogno fantasioso, ancor più che nell’immaginazione di reali possibili eventi.
E questa attrazione dell’irreale lo isolava e diventava
alla fin fine quasi l’unico mondo vero e appagante per lui.
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Aveva letto, su di un almanacco, di un famoso circo di
pulci ammaestrate a Parigi.
Progettò, e si mise di buzzo buono, con le sue punaises
per allestire un numero da esibire nei grandi teatri europei,
e le bestiole sembravano essere docili e disponibili più di
quanto avesse mai sperato.
Era ormai arrivato a insegnar loro alcuni esercizi, così
che Spartacus e Julius (le più combattive e grandi) si incolonnassero con le sei più piccole in formazione decrescente e
così, in parata, facessero un giro intero nel largo vassoio di
vetro dei cocktails per poi distribuirsi immobili sui bordi.
Al rumore di un colpo di rametto sul bordo di vetro, si
scatenavano poi una sull’altra tutte insieme, in una specie di
curiosissima zuffa acrobatica, salendo sul dorso delle più
grandi e rotolando poi buffamente.
Per il vero, ben poco Corradino aveva loro seppur faticosamente insegnato, quanto piuttosto aveva scoperto per
caso questa istintiva loro predisposizione a tale esibizione,
attribuendosene poi il merito.
Nessuno spettacolo circense fu però mai attuato e presentato al pubblico perché il padre un giorno, venutone a
conoscenza, volle esaminare questo fenomeno del quale si
faceva un gran parlare in villa, tra la servitù e i boys.
Appena Couragin fece sfilare in ordine compatto le sue
bestiole nel vassoio, traendole dal box nel quale esse
attendevano in trepidazione, si scatenò un drammatico
imprevisto.
Il padre, pallidissimo, chiamò il giardiniere-domestico
Soussu perché afferrasse di gran corsa le cimici già pronte
allo spettacolo e le eliminasse immediatamente e nel modo
più rapido e totale, in quanto pericolosissimi insetti della
famiglia delle triotomine e portatrici del morbo detto “trepanosomiasi”.
Couragin non sapeva, non avrebbe mai immaginato, che
quelle cimici avevano ammazzato sua madre!
Suo padre fece il grande errore di non ritenere utile in
quel momento precisare questo importante vitale dettaglio.
Lo fece molti anni dopo, quando era ormai troppo tardi e
il dramma non era più evitabile.
In quel momento l’austero, irreprensibile Taddeo
Correggio, severo funzionario dell’Impero Italiano, addetto
agli affari commerciali, quasi console in terra d’oltremare,
fracassò il cuore di Corradino, per una prima volta.
Talvolta essere un uomo di poche parole non è una virtù
e può cambiare il destino e la sorte di tante persone, e sembra incredibile che una tale inezia causi tante impreviste
conseguenze.
Le bestiole scoppiettarono e sfrigolarono per un attimo
fra le fiamme e una parte del mondo affettivo di Couragin,
devastato dalle lacrime, bruciò con esse.
Le brevi spiegazioni circa la pericolosità patologica che
le cimici rappresentavano, non furono nemmeno udite dalla
sconvolta creatura che in quel momento si sentì sola, sopraffatta da un padre prepotente e crudele che aveva ucciso i
suoi migliori amici.
Couragin si era rifugiato nella sua stanza in singhiozzi.
Mà lo raggiunse per cercare di consolare e mitigare questo suo ulteriore grande abbandono, ma anch’ella dopo
diverse valutazioni sul tipo d’intervento da attuare, sbagliò
completamente approccio e psicologicamente fu perciò
quasi associata alla crudeltà del padre nel giudizio di
Corradino.
La notte Couragin manifestò agitazione e smanie quasi
febbrili.
Certamente era in preda a incubi e ciò suggerì a Mà,
quella notte, di stargli più vicino.
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FRANCESCO FALCONE
CORRADINO, E... L’INFERNALE JET-SET
Fu così che la brava donna lo prese in braccio nel suo
letto, come faceva tanti anni prima, per non farlo sentire solo.
Corradino nell’inquieto dormiveglia si accorse dell’amore di Mà, sentì il suo corpo caldo e morbido che lo stringeva
e, nell’abisso di disperazione in cui era piombato, ebbe come
un brivido, un brevissimo sussulto e si bagnò.
Per la prima volta nella sua vita si bagnò con una donna!
La cosa fu talmente rapida e inaspettata che a mala pena
se ne rese conto, ma fu un altro avvenimento conseguente,
causato da quelle cimici, che lo marchiò per la vita.
Associò forse il dolore al sesso e l’emozione, così inconscia e profonda che ne derivò, lo confuse per sempre.
Mà fu molto discreta e molto attenta a non prenderlo più
nel suo letto. In parte si sentì turbata perché anche lei aveva
un suo imbarazzante segreto.
Circa un mese dopo Couragin, che aveva in parte accantonato il dolore per i suoi insetti perduti, dovette affrontare
un altro shock che gli procurò ancora più sbigottimento e
disperazione.
L’affetto che aveva per Mà non si era affievolito, per
quanto lei ragionevolmente avesse sostenuto le ragioni del
padre; anzi si era rafforzato, era diventato più esclusivo, più
esigente dopo quella drammatica nottata.
Quando Mà la sera tardi, in silenzio, sgusciava dal suo
batik colorato e, col suo corpo nero e la schiena arcuata, si
dirigeva verso le docce, gli appariva bella e irreale come
una vivente statua di mogano.
Conosceva quel legno scuro e ambrato e le sue venature,
come arterie brune, nei riflessi.
Aspettava che l’acqua finisse di scrosciare e lei, lucida e
tenebrosa, riappariva nel suo vano con i suoi seni poderosi e
il ventre levigato e accogliente che in un attimo spegneva nel
candore del suo camicione da notte.
Corradino in segreto la aspettava, la spiava ogni sera
così, in silenzio, combattendo talvolta contro il sonno che lo
assaliva.
Spesso lei si dirigeva poi verso la veranda per gustare
per un’ora il fresco tiraggio ventoso del fiume nel buio della
notte.
In una notte particolarmente afosa (e lui aveva ormai
quasi quattordici anni), decise dunque di raggiungerla sulla
veranda.
Nel coro dei ranocchi e dei grilli e di tutte le altre voci
notturne che popolavano la vegetazione attorno alla vasta
villa, lui trovò, silenziosa, la veranda vuota.
Scoprì dopo una lunga ricerca, lei, invece, nel letto di suo
padre.
Quello che spiando vide, che capì, che sentì nell’oscurità,
gli spezzò il cuore una seconda volta.
E stavolta lui pensò davvero di non voler sopravvivere.
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