le 120 ore di didattica frontale e la ricerca universitaria
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le 120 ore di didattica frontale e la ricerca universitaria
LE 120 ORE DI DIDATTICA FRONTALE E LA RICERCA UNIVERSITARIA Giuseppe Cocorullo Professore Università della Calabria, Arcavacata di Rende e-mail: [email protected] I. IL DELIBERATO SULLE 120 ORE mesi la definizione del numero di Nore diultimi didattica frontale che un professore EGLI universitario è tenuto a garantire ha stimolato un’accesa discussione in Ateneo. Nei Consigli di Facoltà e nel Senato Accademico il confronto sulla questione è stato serrato e, dopo essere anche approdato sulla stampa, sembra aver trovato una soluzione di compromesso in un deliberato del Senato che accogliendo la prassi corrente di attribuire al professore universitario l’obbligo di tenere almeno un corso, sancisce al contempo che solo l’impegno prestato oltre le 120 ore di didattica frontale sarà gratificato da un corrispettivo economico. Il deliberato, inoltre, prevede un inusuale meccanismo di premialità che tende ad attribuire maggiori risorse economiche a quelle facoltà in cui la media dei professori si accollerà un carico didattico superiore a 120 ore e che, ovviamente, penalizzerà le facoltà in cui si registrerà una situazione opposta. Nel seguito di questo intervento cercherò di fornire i riferimenti legislativi che regolamentano diritti e doveri dei docenti e svilupperò alcuni aspetti della vicenda che, ritengo, possano costituire la base di una più ampia e consapevole riflessione sul lavoro del professore universitario e sulla missione dell’università. II. LE NORME SULLO STATO GIURIDICO Nel richiamare le norme che attualmente definiscono lo stato giuridico dei professori universitari, è opportuno sottolineare che a deciderne diritti e doveri non è, come generalmente accade per il pubblico impiego, una controparte amministrativa delegata a trattare con le rappresentanze sindacali il rinnovo di un contratto di lavoro, ma che il “datore di lavoro” del professore universitario è, per consolidata interpretazione del dettato costituzionale, il Parlamento della Repubblica. In altri termini, la definizione dei compiti e delle attribuzioni dei professori universitari non ricade nell’autonomia deliberativa dei Senati Accademici ma in quella del Senato della Repubblica. Ciò premesso, il carico di didattica frontale dei professori universitari, era, fino al 2005, incontestabilmente regolato dall'articolo 6 della legge 18 marzo 1958, n. 311 che imponeva ai docenti: "l'obbligo di dedicare al proprio insegnamento, sotto forma sia di lezioni cattedratiche, sia di esercitazioni di seminario, di laboratorio o di clinica, tante ore settimanali quante la natura e la estensione dell'insegnamento richiedono e sono tenuti ad impartire le lezioni settimanali in non meno di tre giorni distinti". Da tale norma deriva l’uso adottato nei decenni passati dalla stragrande maggioranza degli atenei e dallo stesso ministero di concretizzare il carico di didattica frontale in 60/70 ore. Con il successivo D.P.R. n. 382 del 1980 viene definito in 350 ore il complessivo impegno didattico (lezioni, seminari, esami, ricevimento, tesi, ecc…) cui è tenuto un professore universitario. La legge 370/1999 introduce, poi, l’incentivazione dell’impegno didattico dei professori universitari. L’art. 4 della legge dispone la creazione di un apposito fondo destinato a “premiare” professori che dedicano più di “120 ore a lezioni, esercitazioni, seminari nonché ulteriori e specifici impegni orari per l'orientamento, l'assistenza e il tutorato, la programmazione e l'organizzazione didattica, l'accertamento dell'apprendimento”. Nessun nuovo obbligo per i docenti viene quindi introdotto dalla citata legge e, soprattutto, l’istituto della supplenza o dell’affidamento non viene in alcun modo ad essere sostituito dall’incentivo. Per inciso, gli Atenei utilizzarono talmente male il meccanismo degli incentivi da indurre il Parlamento ad abolirne, nel 2003, il finanziamento. Giungiamo infine al 2005, anno in cui una legge, costituita da un unico articolo e 25 commi, la 230, stabilisce al comma 16 che: “Resta fermo, secondo l'attuale struttura retributiva, il trattamento economico dei professori universitari articolato secondo il regime prescelto a tempo pieno ovvero a tempo definito. Tale trattamento e' correlato all'espletamento delle attività scientifiche e all'impegno per le altre attività, fissato per il rapporto a tempo pieno in non meno di 350 ore annue di didattica, di cui 120 di didattica frontale… Le ore di didattica frontale possono variare sulla base dell'organizzazione didattica e della specificità e della diversità dei settori scientifico-disciplinari e del rapporto docenti-studenti, sulla base di parametri definiti con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca”. E’ sulla base di quanto disposto da questo comma che, negli anni a seguire, si svilupperà in vari atenei il tentativo di imporre a tutti i professori in servizio, non solo ai nuovi assunti, un carico didattico che, allo stato, è mediamente equivalente alla responsabilità di tre corsi.. In questa sede non entrerò nel merito del confronto che oppone i fautori dell’applicabilità indiscriminata di quanto disposto dalla legge 230 a quelli che, me compreso, ritengono che ciò non sia affatto scontato. La questione riguarderà, semmai, Tribunali Amministrativi e Consiglio di Stato. Qui mi preme, invece, approfondire altri problemi, ben più importanti, che la vicenda 120 ore mette in luce; problemi che se non saranno consapevolmente affrontati e risolti finiranno, alla lunga, per minare in maniera definitiva quanto di buono il nostro sistema universitario ancora presenta. III. QUANTO LAVORA UN PROFESSORE UNIVERSITARIO ? L’attività del professore universitario si configura, come ben sappiamo, nello svolgimento di due funzioni primarie, ricerca e didattica. Compiti che, al di fuori degli atenei, vengono svolti in maniera separata: l’insegnamento nelle scuole o negli istituti di alta cultura, la ricerca negli enti di ricerca. E’ solo nell’Università che vi è inscindibile coincidenza, nella figura del professore universitario, fra chi trasmette la conoscenza e chi i confini della conoscenza provvede a farli avanzare. Non è quindi una bizzarria, nel valutare l’impegno lavorativo del professore universitario, tener conto dell’impegno richiesto dallo svolgimento delle attività di ricerca. Già, ma come si computa questo tempo? Mentre per le attività didattiche la legislazione ineviquocabilmente determina in 350 ore il complessivo impegno cui è tenuto il professore universitario, la verifica dell’attività di ricerca è invece affidata, così come nel resto del mondo, ad una valutazione qualitativa e quantitativa della produttività scientifica, produttività che in genere viene “misurata” in termini di pubblicazioni scientifiche. Ora, la carriera media del professore nell'università italiana dal dottorato, all'assegno, al conseguimento dei ruoli di ricercatore, ricercatore confermato, associato, associato confermato, straordinario, ordinario comporta otto livelli di successive valutazioni dell’attività scientifica svolta, che coprono un arco medio di venticinque, trent'anni. In aggiunta, ogni qualvolta partecipa a bandi per l’attribuzione competitiva di fondi di ricerca deve dimostrare ad una commissione di anonimi esperti di essere scientificamente attivo nel settore. Quindi, la carriera del professore universitario medio è scandita da frequenti momenti di valutazione della sua attività di ricerca che, come, ricordato, generalmente si estrinseca attraverso la pubblicazione dei risultati del suo lavoro su riviste scientifiche internazionali. Pubblicare su riviste internazionali, riviste che basano prestigio e tiratura sulla qualità dei lavori che ospitano, significa entrare in diretta concorrenza con ricercatori giapponesi, indiani, statunitensi, tedeschi, con il mondo globalizzato della ricerca, insomma. Fare ricerca di qualità internazionale (non importa se di tipo tecnico-scientifico o giuridico-umanistico) richiede intensa applicazione e continuità d’impegno, non deve perciò stupire che il Parlamento abbia da sempre sancito come prevalente l’impegno che il professore universitario deve dedicare alla ricerca rispetto a quello che egli è tenuto a riservare alla didattica, contenendo quest’ultimo in 350 ore. Con riferimento alla situazione ante riforma degli ordinamenti didattici, cioè fino al 2000, si può stimare che complessivamente, fra didattica e ricerca il professore universitario, mediamente, dedicasse al lavoro circa 1600 ore all’anno, con il 20-25% di queste riservate alla didattica. A partire dal 2000, con l’attivazione dei nuovi ordinamenti didattici universitari ai sensi della L. 509/1999, la ripartizione dell’impegno del professore universitario si modifica sostanzialmente. IV. I GUADAGNI DEL PROFESSORE UNIVERSITARIO La carriera universitaria vede come primo periodo retribuito il percorso del dottorato di ricerca: circa € 800 al mese per almeno tre anni (una disposizione della scorsa finanziaria dovrebbe elevare il corrispettivo a € 1000, ma non è ancora attuata e comunque vale per il futuro, qui tentiamo di analizzare la condizione economica della media dei professori universitari). Il gradino successivo, cui mediamente si accede(va) a 5-6 anni dalla laurea dopo un periodo post dottorato di ulteriore precariato sottoretribuito a circa € 1000 al mese, è quello di ricercatore. Il ruolo di ricercatore, a cui mediamente si arriva intorno ai 34 anni, vede una retribuzione d’ingresso di circa € 1100. A fine carriera il professore universitario può arrivare a guadagnare circa € 4.600 mensili netti [1], ma non tutti i docenti arrivano al livello di ordinario e soprattutto non tutti accedono alla fascia di ordinario in età tale (40 anni) da garantire un simile livello retributivo a fine carriera (un recente decreto legge, peraltro, ne propone una riduzione a € 3.700 [2] ). Poiché, come è umano, la maggioranza dei lettori non universitari farà attenzione non tanto al basso livello della retribuzione in ingresso quanto all’elevato (se paragonato agli stipendi delle carriere impiegatizie) stipendio finale, è forse più opportuno, per capire quanto in effetti guadagnano gli universitari, riferirsi al reddito cumulato che nello svolgersi di una carriera lavorativa media il professore universitario riesce a raggranellare e compararlo con quello che, ad esempio, un laureato della triennale porta a casa dopo una vita lavorativa spesa in una grande/media azienda operante in settori ad alta tecnologia. Propongo quindi alla vostra attenzione la storia (in termini di reddito lordo annuo) di due giovani, Gianni e Pinotto, che, conseguita la laurea triennale, abbracciano strade diverse. Ambedue brillanti, capaci, lavoratori, scelgono l'uno, Gianni, di proseguire gli studi iscrivendosi alla laurea specialistica, l'altro, Pinotto, di accettare l'offerta di lavoro di una multinazionale operante nel settore dell'informatica. Il confronto viene sviluppato ipotizzando una carriera più veloce della media per Gianni (l’universitario) e solo una media per Pinotto (in questo non facendogli giustizia, in quanto, come detto in premessa Pinotto è persona in gamba tanto quanto Gianni). La carriera di Gianni inizia - ovviamente - con un reddito lordo negativo (8.200 euro annui). E' quanto la famiglia di Gianni sborsa (per tutte le tipologie di spesa, compreso il vestiario) per mantenere il figlio agli studi (circa 500 euro netti al mese). I dati economici per Gianni sono ricavati dalle precise tabelle retributive elaborate dal prof. Pagliarini [1], quelli anagrafici sono forniti da uno studio del MIUR-CNVSU [3] e del collega Paolo Rossi dell’Università di Pisa[4]. Per l’andamento delle retribuzioni di Pinotto la fonte è il rapporto sulle retribuzioni dei professionisti ICT della OD&M Consulting [5]. La carriera di Gianni è supposta "ideale": nessuna interruzione nel tipico sviluppo dell' avanzamento professionale dell'universitario, appena si laurea trova una borsa di dottorato ad aspettarlo, al termine della borsa post-doc è subito pronto il posto di ricercatore, ecc. L’età (30) a cui Gianni entra nel ruolo di ricercatore è di circa 5 anni più bassa della media (35), di 4 per il passaggio ad associato e di 2 per quella ad ordinario. E' probabile che la tabella che presento sia afflitta da qualche errore, e vi prego di segnalarli, ma sono convinto che eventuali inesattezze non pregiudichino in misura significativa il dato principale che emerge dal confronto: la relativamente elevata retribuzione dell’ultima parte della carriera universitaria non compensa i bassi redditi percepiti per oltre metà della vita lavorativa. Inoltre, il regime a basso reddito, incide pesantemente sulle disponibilità economiche in un momento della vita in cui esse sono più necessarie: intorno ai 30-40 anni, in genere, si mette su famiglia, si hanno dei figli, si vorrebbe acquistare una casa. CARRIERE A CONFRONTO Gianni età Pinotto Reddito cumulato lordo (€) 30 38.400 differenziale 174.000 135.600 40 340.320 618.000 277.680 50 858.159 1.200.000 341.841 L’anno di riferimento per calcolo delle retribuzioni è il 2005. Laurea triennale a 23 anni, Gianni prosegue gli studi, Pinotto inizia a lavorare in un'azienda ICT. A 30 anni Gianni diventa ricercatore, Pinotto quadro. Gianni diventa associato a 40 anni, Pinotto prosegue la sua carriera di quadro A 50 anni Gianni è ordinario, a 65 avrà la magra soddisfazione di registrare un differenziale nullo con Pinotto. Il trattamento economico degli universitari italiani appare, poi, ancora più penalizzante se comparato con le retribuzioni percepite dai ricercatori nei paesi con i quali spesso amiamo (a parole) confrontarci. Un recente studio [6] della Commissione Europea fornisce il desolante quadro riportato nella seguente tabella: Retribuzione annua lorda (€) corretta per il potere d’acquisto Nazione per i ricercatori impegnati nelle istituzioni universitarie. Fonte: Commissione Europea Israele 75.000 Olanda 65.923 Svizzera 62.337 Austria 62.069 Cipro 56.579 Francia 50.881 Regno Unito 50.310 Germania 45.893 Spagna 36.817 Italia 34.204 Turchia 30.539 India 45.207 Australia 62.342 USA 62.793 Eppure, anche da parte di alcuni colleghi, sento un continuo parlare dei privilegi degli universitari. Francamente, ritengo che un professore che faccia bene il suo lavoro sia sottopagato rispetto ai redditi che percepiscono figure di analogo profilo, anche nel pubblico, non solo nel privato. Ancor di più mi stupisce chi pretende di misurare la prestazione resa dal lavoratore intellettuale col conto del numero di ore passate a scaldare una sedia, senza prendere neppure in considerazione l'ipotesi che, forse, la valutazione dei risultati è una metodologia che meglio si adatta al caso. Se poi, il sistema di valutazione non funziona, allora ci si sforzi di renderlo efficace, ma non si peggiori ulteriormente la situazione proponendo soluzioni talmente rozze da essere peggiori del male che intendono curare. V. LA PRODUTTIVITÀ DEGLI UNIVERSITARI Qual è la qualità del lavoro svolto dagli universitari italiani ? A capirlo ci aiutano i dati che periodicamente vengono forniti da autorevoli organizzazioni internazionali. Partiamo allora da quelli relativi all’efficienza del sistema formativo: in un recente studio pubblicato dall’OECD [7] viene rilevato l’enorme sforzo compiuto dall’università italiana in questi ultimi anni: il numero di studenti che in Italia completano gli studi universitari, tab. III, è più che raddoppiato nel volgere di 5 anni e attualmente si colloca al di sopra della media OECD. Tutto questo accade in un sistema paese in cui non solo la spesa per studente negli atenei pubblici, si badi bene, pubblici, è di gran lunga inferiore a quella registrata nella gran parte dei paesi industrializzati, tab. IV, ma anche la percentuale statale di prodotto interno lordo destinata alle istituzione universitarie è di gran lunga più bassa, anche degli Stati Uniti, Tab. V. In compenso, il rapporto studenti/docenti del sistema universitario italiano è fra più elevati, tab. VI. E le attività di ricerca degli universitari italiani come si collocano nel panorama internazionale? Indicazioni al riguardo arrivano dal rapporto 2007 [8] della Commissione Europea, tab. VII, e non classifica certo la ricerca italiana come di serie B. VI. LA STAGIONE DELLO STUDENTE CLIENTE La nuova legislazione sugli ordinamenti didattici e le modalità di finanziamento agli atenei, basato sostanzialmente sul solo numero degli studenti iscritti, inducono le università ad una moltiplicazione dell’offerta didattica rispetto al periodo antecedente. Gli atenei si qualificano come aziende ed il marketing compare nelle voci dei bilanci universitari. Con l’arrivo del 3+2 lo studente universitario da matricola, da iscritto cioè nel libro maestro dove si registrano i nomi di coloro che sono ammessi ad apprendere un’arte operando al fianco dei maestri, diventa cliente da ossequiare, riverire, cui dare sempre ragione. Da membro novizio della comunità scientifica di cui accetta e condivide principi e disciplina, lo studente ne diventa estraneo; un cliente, che va blandito, assecondato, vezzeggiato. Bisogna attirare studenti, è questa la parola d’ordine che gira fra gli atenei italiani. Le università, da luoghi di maturazione dello spirito critico, diventano imprese il cui successo si misura nel numero di clienti attirati. La qualità degli atenei viene valutata, come per le aziende, in base alla soddisfazione del cliente anziché sulla qualificazione del corpo docente e sulla disponibilità di strutture adeguate. Poiché l’importante è indurre quanti più clienti possibile all’acquisto del bene, poco interessa poi se esso è inutile o in taluni casi dannoso, proliferano i corsi di laurea dai nomi accattivanti ed attraenti, l’offerta didattica si amplia eccessivamente e diventa completamente scorrelata dalla disponibilità di un adeguato corpo docente. VII. GLI ANNI DEL “SUPERLAVORO” Della situazione descritta al precedente paragrafo il professore universitario è al tempo stesso vittima e responsabile. Responsabile perché l’autonomia avrebbe consentito agli atenei di gestire in maniera più sensata il varo dei nuovi ordinamenti, vittima perché una distribuzione delle risorse fondata essenzialmente sul numero di studenti si è prestata ad un facile ricatto: caro professore vuoi maggiori risorse per la tua ricerca, vuoi avere opportunità di carriera? Ebbene, datti da fare ad estendere e sostenere l’offerta didattica! Di conseguenza, dal 2000 in poi, l’impegno didattico richiesto al professore universitario si è ampliato a dismisura. Le canoniche 350 ore si sono più che raddoppiate. Per convincersene basta tener presente che, nella situazione attuale, un professore universitario è mediamente responsabile di tre corsi per ognuno dei quali è tenuto a garantire l’espletamento di almeno 5 appelli annuali. Se frequentati da una sessantina di studenti ognuno, la sola gestione degli appelli d’esame dei corsi di titolarità impegna il docente per quasi 350 ore, e questo senza tener conto delle ore dedicate alla didattica frontale. Aggiungiamo poi le ore da dedicare alle sedute di laurea, il cui numero in seguito al 3+2 è raddoppiato, alla supervisione dei laureandi e dei dottorandi, ecc...: è facile constatare come tutti questi impegni esauriscano ampiamente le 350 ore (frontali o meno che siano) che i professori sono tenuti, per legge, a dedicare alla didattica. In effetti, con l’applicazione della L. 509/99, si è determinato perlomeno un raddoppio del carico didattico, raddoppio che ha significato un incremento delle complessive ore lavorate perché, nella maggior parte dei casi, il professore ha preferito non intaccare il monte ore dedicato alla ricerca. Si è così potuto osservare un progressivo incremento del complessivo impegno dei professori universitari che negli anni ha raggiunto e superato le 2000 ore annue. Certo, non in tutti gli studi sono rimaste accese le luci fino alle nove di sera ed oltre, certo in qualche caso l’impegno si è addirittura ridotto, ma, nella media, i professori che nello svolgere una ricerca dignitosa trovano la ragione d’essere della loro attività, hanno scelto di lavorare di più. Gli anni passati sono stati quindi anni di grande impegno e sacrificio personale per i professori universitari; sono stati anche anni di generosità, generosità, per altro, socialmente non riconosciuta, sconosciuta alla pubblica opinione, che ignora, ad esempio, la circostanza che vede il professore universitario volontariamente accettare una retribuzione che è meno di un terzo di quel che la legge vigente prevede per gli incarichi di affidamento o supplenza (art. 114, DPR 382/1980). All'orizzonte si prospetta, poi, l'arrivo del Nuovissimo Ordinamento, quello previsto dal DM 320 del 2004, che, per un lungo periodo transitorio, comporterà un ulteriore aggravio degli impegni didattici: agli esami del vecchio e nuovo ordinamento si aggiungeranno quelli del nuovissimo, in molti casi saranno svolti in contemporanea corsi nuovi e meno nuovi, ecc. Ritenere che questo “superlavoro” non dovuto sia reiterabile all’infinito, per giunta senza alcun riconoscimento sociale e retributivo, e che tutta questa “sovraproduttività” non abbia alla lunga conseguenze deleterie, difficilmente recuperabili, sulla qualità dell’insegnamento e della ricerca è, ad essere buoni, da sprovveduti. Spero ci si renda conto che l’imposizione, più o meno mascherata delle 120 ore, senza quei contrappesi previsti dalla stessa legge che le ha introdotte, avrà come effetto a lungo termine un irreversibile dequalificazione di quello che, fino a poco tempo fa concepivamo essere l’insegnamento universitario: inscindibile derivazione dello svolgimento di una qualificata attività di ricerca. VIII. CONCLUSIONI In Italia, fare ricerca, almeno la ricerca che non si basa solo sulla disponibilità di un computer, significa innanzitutto fare l'elettricista, l'idraulico, lo sdoganatore, il traduttore, l'addetto agli acquisti ed al magazzino, alcune volte anche il facchino. Il ricercatore deve, poi, trovare il tempo e le forze per conquistare l'attenzione, in concorrenza con il mondo intero, di una qualche prestigiosa rivista scientifica e, necessariamente, procurarsi i contratti per finanziarla, la ricerca. In un sistema paese che da tempo, al di là delle dichiarazioni di principio, non considera l’università come priorità strategica (nei primi mesi del 2008 i fondi di finanziamento al sistema universitario sono stati decurtati per finanziare interventi a favore dei camionisti, dell’Alitalia e del taglio dell’ICI), in un paese dove è più facile vincere al superenalotto che avere un tecnico di laboratorio, condurre attività di ricerca di livello dignitoso è sempre più difficile. Se poi consideriamo che le attività svolte in una regione che è periferia geografica ed economica dell’Europa richiedono necessariamente possibilità di frequenti spostamenti in biblioteche, laboratori, musei non disponibili in loco, non possiamo non riconoscere che ottenere dei buoni risultati scientifici all’Unical richieda più impegno di quanto non sia richiesto a chi lavora, ad esempio, a Londra. Aggiungiamo infine che da un po’ di tempo in qua alcuni politici, ma anche professori che hanno di fatto abbandonato le attività propriamente universitarie per dedicarsi ad altre più soddisfacenti occupazioni, iniziano a guardarti con severità e sufficienza quando scoprono che non hai la stessa produttività dei colleghi dell’UCLA o del MIT, dimenticando, ma più probabilmente ignorando, che la disponibilità di bilancio annua dei due atenei statunitensi, che insieme non accolgono più di 50.000 (cinquantamila) studenti, è pari all’intero ammontare del finanziamento annuo su cui possono far conto tutte le nostre università, comprese le private. Queste difficoltà, sommate alle problematiche esposte nei precedenti paragrafi dovrebbero rendere consapevole chi occupa i vertici delle strutture universitarie della situazione non facile che sta vivendo chi, nell'università, cerca di svolgere il proprio lavoro con coscienza. L’indefinito protrarsi di uno stato d’emergenza didattico non potrà che avere come conseguenza la definitiva uscita dell’ateneo dal ruolo delle sedi che, almeno potenzialmente, possono ambire a contribuire al progresso del territorio attraverso lo svolgimento di attività di ricerca di concreto valore, Spero che sulla questione possa aprirsi un più ampio dibattito in Ateneo. Riferimenti [1] http://xoomer.alice.it/alberto_pagliarini/, tabelle relative all’anno 2005. [2] Decreto-Legge 25 giugno 2008, n. 112, recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria [3] Settimo Rapporto sullo Stato del Sistema Universitario, CNVSU, Ottobre 2006. [4] “Matusa in Cattedra”, Paolo Rossi, ATHENET (Rivista dell’Università di Pisa) n. 18, Dicembre 2006. www.unipi.it/athenet/18/art7.htm. [5] Le retribuzioni dei professionisti ICT: impiegati, quadri e dirigenti. OD&M Consulting 2005; estratto reperibile all’indirizzo: http www.shinynews.it/economy/0505retribuzioniIT_imp.shtml [6] Remuneration of Researchers in the Public and Private sectors, EUROPEAN COMMISSION, DG for Research, aprile 2007 [7] OECD indicators, Education at a Glance 2007 [8] EUROPEAN COMMISSION, Directorate-General for Research, Key Figures 2007 Tab. III Tab. IV Tab. V Tab. VI Tab. VII