le 120 ore di didattica frontale e la ricerca universitaria

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le 120 ore di didattica frontale e la ricerca universitaria
LE 120 ORE DI DIDATTICA FRONTALE E
LA RICERCA UNIVERSITARIA
Giuseppe Cocorullo
Professore
Università della Calabria, Arcavacata di Rende
e-mail: [email protected]
I.
IL DELIBERATO SULLE 120 ORE
mesi la definizione del numero di
Nore diultimi
didattica frontale che un professore
EGLI
universitario è tenuto a garantire ha stimolato
un’accesa discussione in Ateneo. Nei Consigli di
Facoltà e nel Senato Accademico il confronto
sulla questione è stato serrato e, dopo essere
anche approdato sulla stampa, sembra aver
trovato una soluzione di compromesso in un
deliberato del Senato che accogliendo la prassi
corrente di attribuire al professore universitario
l’obbligo di tenere almeno un corso, sancisce al
contempo che solo l’impegno prestato oltre le
120 ore di didattica frontale sarà gratificato da
un corrispettivo economico. Il deliberato,
inoltre, prevede un inusuale meccanismo di
premialità che tende ad attribuire maggiori
risorse economiche a quelle facoltà in cui la
media dei professori si accollerà un carico
didattico superiore a 120 ore e che, ovviamente,
penalizzerà le facoltà in cui si registrerà una
situazione opposta. Nel seguito di questo
intervento cercherò di fornire i riferimenti
legislativi che regolamentano diritti e doveri dei
docenti e svilupperò alcuni aspetti della vicenda
che, ritengo, possano costituire la base di una
più ampia e consapevole riflessione sul lavoro
del professore universitario e sulla missione
dell’università.
II. LE NORME SULLO STATO GIURIDICO
Nel
richiamare
le
norme
che
attualmente
definiscono lo stato giuridico dei professori
universitari, è opportuno sottolineare che a
deciderne diritti e doveri non è, come
generalmente accade per il pubblico impiego, una
controparte amministrativa delegata a trattare con
le rappresentanze sindacali il rinnovo di un
contratto di lavoro, ma che il “datore di lavoro”
del professore universitario è, per consolidata
interpretazione del dettato costituzionale, il
Parlamento della Repubblica. In altri termini, la
definizione dei compiti e delle attribuzioni dei
professori universitari non ricade nell’autonomia
deliberativa dei Senati Accademici ma in quella
del Senato della Repubblica.
Ciò premesso, il carico di didattica frontale dei
professori universitari, era, fino al 2005,
incontestabilmente regolato dall'articolo 6 della
legge 18 marzo 1958, n. 311 che imponeva ai
docenti: "l'obbligo di dedicare al proprio
insegnamento, sotto forma sia di lezioni
cattedratiche, sia di esercitazioni di seminario, di
laboratorio o di clinica, tante ore settimanali
quante la natura e la estensione dell'insegnamento
richiedono e sono tenuti ad impartire le lezioni
settimanali in non meno di tre giorni distinti". Da
tale norma deriva l’uso adottato nei decenni
passati dalla stragrande maggioranza degli atenei
e dallo stesso ministero di concretizzare il carico
di didattica frontale in 60/70 ore.
Con il successivo D.P.R. n. 382 del 1980 viene
definito in 350 ore il complessivo impegno
didattico (lezioni, seminari, esami, ricevimento,
tesi, ecc…) cui è tenuto un professore
universitario.
La
legge
370/1999
introduce,
poi,
l’incentivazione dell’impegno didattico dei
professori universitari. L’art. 4 della legge dispone
la creazione di un apposito fondo destinato a
“premiare” professori che dedicano più di “120 ore
a lezioni, esercitazioni, seminari nonché ulteriori e
specifici impegni orari per l'orientamento,
l'assistenza e il tutorato, la programmazione e
l'organizzazione
didattica,
l'accertamento
dell'apprendimento”. Nessun nuovo obbligo per i
docenti viene quindi introdotto dalla citata legge e,
soprattutto, l’istituto della supplenza o
dell’affidamento non viene in alcun modo ad
essere sostituito dall’incentivo. Per inciso, gli
Atenei utilizzarono talmente male il meccanismo
degli incentivi da indurre il Parlamento ad abolirne,
nel 2003, il finanziamento.
Giungiamo infine al 2005, anno in cui una
legge, costituita da un unico articolo e 25 commi,
la 230, stabilisce al comma 16 che: “Resta fermo,
secondo
l'attuale
struttura
retributiva,
il
trattamento economico dei professori universitari
articolato secondo il regime prescelto a tempo
pieno ovvero a tempo definito. Tale trattamento
e'
correlato all'espletamento delle attività
scientifiche e all'impegno per le altre attività,
fissato per il rapporto a tempo pieno in non meno
di 350 ore annue di didattica, di cui 120 di
didattica frontale… Le ore di didattica
frontale
possono
variare
sulla
base
dell'organizzazione didattica e della specificità e
della diversità dei settori scientifico-disciplinari
e del rapporto docenti-studenti, sulla base di
parametri definiti con decreto del Ministro
dell'istruzione, dell'università e della ricerca”.
E’ sulla base di quanto disposto da questo
comma che, negli anni a seguire, si svilupperà in
vari atenei il tentativo di imporre a tutti i professori
in servizio, non solo ai nuovi assunti, un carico
didattico che, allo stato, è mediamente equivalente
alla responsabilità di tre corsi..
In questa sede non entrerò nel merito del
confronto che oppone i fautori dell’applicabilità
indiscriminata di quanto disposto dalla legge 230 a
quelli che, me compreso, ritengono che ciò non sia
affatto scontato. La questione riguarderà, semmai,
Tribunali Amministrativi e Consiglio di Stato. Qui
mi preme, invece, approfondire altri problemi, ben
più importanti, che la vicenda 120 ore mette in
luce;
problemi
che
se
non
saranno
consapevolmente affrontati e risolti finiranno, alla
lunga, per minare in maniera definitiva quanto di
buono il nostro sistema universitario ancora
presenta.
III.
QUANTO LAVORA UN PROFESSORE
UNIVERSITARIO ?
L’attività del professore universitario si
configura, come ben sappiamo, nello svolgimento
di due funzioni primarie, ricerca e didattica.
Compiti che, al di fuori degli atenei, vengono
svolti in maniera separata: l’insegnamento nelle
scuole o negli istituti di alta cultura, la ricerca
negli enti di ricerca. E’ solo nell’Università che vi
è inscindibile coincidenza, nella figura del
professore universitario, fra chi trasmette la
conoscenza e chi i confini della conoscenza
provvede a farli avanzare. Non è quindi una
bizzarria, nel valutare l’impegno lavorativo del
professore universitario, tener conto dell’impegno
richiesto dallo svolgimento delle attività di
ricerca. Già, ma come si computa questo tempo?
Mentre per le attività didattiche la legislazione
ineviquocabilmente determina in 350 ore il
complessivo impegno cui è tenuto il professore
universitario, la verifica dell’attività di ricerca è
invece affidata, così come nel resto del mondo, ad
una valutazione qualitativa e quantitativa della
produttività scientifica, produttività che in genere
viene “misurata” in termini di pubblicazioni
scientifiche. Ora, la carriera media del professore
nell'università italiana dal dottorato, all'assegno,
al conseguimento dei ruoli di ricercatore,
ricercatore confermato, associato, associato
confermato, straordinario, ordinario comporta
otto livelli di successive valutazioni dell’attività
scientifica svolta, che coprono un arco medio di
venticinque, trent'anni. In aggiunta, ogni
qualvolta partecipa a bandi per l’attribuzione
competitiva di fondi di ricerca deve dimostrare ad
una commissione di anonimi esperti di essere
scientificamente attivo nel settore. Quindi, la
carriera del professore universitario medio è
scandita da frequenti momenti di valutazione
della sua attività di ricerca che, come, ricordato,
generalmente
si
estrinseca
attraverso
la
pubblicazione dei risultati del suo lavoro su riviste
scientifiche internazionali. Pubblicare su riviste
internazionali, riviste che basano prestigio e tiratura
sulla qualità dei lavori che ospitano, significa
entrare in diretta concorrenza con ricercatori
giapponesi, indiani, statunitensi, tedeschi, con il
mondo globalizzato della ricerca, insomma. Fare
ricerca di qualità internazionale (non importa se di
tipo tecnico-scientifico o giuridico-umanistico)
richiede intensa applicazione e continuità
d’impegno, non deve perciò stupire che il
Parlamento abbia da sempre sancito come
prevalente l’impegno che il professore
universitario deve dedicare alla ricerca rispetto
a quello che egli è tenuto a riservare alla
didattica, contenendo quest’ultimo in 350 ore.
Con riferimento alla situazione ante riforma degli
ordinamenti didattici, cioè fino al 2000, si può
stimare che complessivamente, fra didattica e
ricerca il professore universitario, mediamente,
dedicasse al lavoro circa 1600 ore all’anno, con il
20-25% di queste riservate alla didattica. A partire
dal 2000, con l’attivazione dei nuovi ordinamenti
didattici universitari ai sensi della L. 509/1999, la
ripartizione
dell’impegno
del
professore
universitario si modifica sostanzialmente.
IV. I GUADAGNI DEL PROFESSORE UNIVERSITARIO
La carriera universitaria vede come primo
periodo retribuito il percorso del dottorato di
ricerca: circa € 800 al mese per almeno tre anni
(una disposizione della scorsa finanziaria dovrebbe
elevare il corrispettivo a € 1000, ma non è ancora
attuata e comunque vale per il futuro, qui tentiamo
di analizzare la condizione economica della media
dei professori universitari). Il gradino successivo,
cui mediamente si accede(va) a 5-6 anni dalla
laurea dopo un periodo post dottorato di ulteriore
precariato sottoretribuito a circa € 1000 al mese, è
quello di ricercatore. Il ruolo di ricercatore, a cui
mediamente si arriva intorno ai 34 anni, vede una
retribuzione d’ingresso di circa € 1100. A fine
carriera il professore universitario può arrivare a
guadagnare circa € 4.600 mensili netti [1], ma non
tutti i docenti arrivano al livello di ordinario e
soprattutto non tutti accedono alla fascia di
ordinario in età tale (40 anni) da garantire un
simile livello retributivo a fine carriera (un
recente decreto legge, peraltro, ne propone una
riduzione a € 3.700 [2] ).
Poiché, come è umano, la maggioranza dei
lettori non universitari farà attenzione non tanto al
basso livello della retribuzione in ingresso quanto
all’elevato (se paragonato agli stipendi delle
carriere impiegatizie) stipendio finale, è forse più
opportuno, per capire quanto in effetti
guadagnano gli universitari, riferirsi al reddito
cumulato che nello svolgersi di una carriera
lavorativa media il professore universitario riesce
a raggranellare e compararlo con quello che, ad
esempio, un laureato della triennale porta a casa
dopo una vita lavorativa spesa in una
grande/media azienda operante in settori ad alta
tecnologia. Propongo quindi alla vostra attenzione
la storia (in termini di reddito lordo annuo) di due
giovani, Gianni e Pinotto, che, conseguita la
laurea triennale, abbracciano strade diverse.
Ambedue brillanti, capaci, lavoratori, scelgono
l'uno, Gianni, di proseguire gli studi iscrivendosi
alla laurea specialistica, l'altro, Pinotto, di
accettare l'offerta di lavoro di una multinazionale
operante nel settore dell'informatica. Il confronto
viene sviluppato ipotizzando una carriera più
veloce della media per Gianni (l’universitario) e
solo una media per Pinotto (in questo non
facendogli giustizia, in quanto, come detto in
premessa Pinotto è persona in gamba tanto quanto
Gianni).
La carriera di Gianni inizia - ovviamente - con
un reddito lordo negativo (8.200 euro annui). E'
quanto la famiglia di Gianni sborsa (per tutte le
tipologie di spesa, compreso il vestiario) per
mantenere il figlio agli studi (circa 500 euro netti
al mese). I dati economici per Gianni sono
ricavati dalle precise tabelle retributive elaborate
dal prof. Pagliarini [1], quelli anagrafici sono
forniti da uno studio del MIUR-CNVSU [3] e del
collega Paolo Rossi dell’Università di Pisa[4]. Per
l’andamento delle retribuzioni di Pinotto la fonte
è il rapporto sulle retribuzioni dei professionisti
ICT della OD&M Consulting [5]. La carriera di
Gianni è supposta "ideale": nessuna interruzione
nel tipico sviluppo dell' avanzamento professionale
dell'universitario, appena si laurea trova una borsa
di dottorato ad aspettarlo, al termine della borsa
post-doc è subito pronto il posto di ricercatore, ecc.
L’età (30) a cui Gianni entra nel ruolo di ricercatore
è di circa 5 anni più bassa della media (35), di 4 per
il passaggio ad associato e di 2 per quella ad
ordinario. E' probabile che la tabella che presento
sia afflitta da qualche errore, e vi prego di
segnalarli, ma sono convinto che eventuali
inesattezze non pregiudichino in misura
significativa il dato principale che emerge dal
confronto: la relativamente elevata retribuzione
dell’ultima parte della carriera universitaria non
compensa i bassi redditi percepiti per oltre metà
della vita lavorativa. Inoltre, il regime a basso
reddito, incide pesantemente sulle disponibilità
economiche in un momento della vita in cui esse
sono più necessarie: intorno ai 30-40 anni, in
genere, si mette su famiglia, si hanno dei figli, si
vorrebbe acquistare una casa.
CARRIERE A CONFRONTO
Gianni
età
Pinotto
Reddito cumulato
lordo (€)
30 38.400
differenziale
174.000
135.600
40 340.320 618.000
277.680
50 858.159 1.200.000 341.841
L’anno di
riferimento per
calcolo delle
retribuzioni è il
2005.
Laurea triennale a
23 anni, Gianni
prosegue gli studi,
Pinotto inizia a
lavorare in
un'azienda ICT. A
30 anni Gianni
diventa ricercatore,
Pinotto quadro.
Gianni diventa
associato a 40 anni,
Pinotto prosegue la
sua carriera di
quadro
A 50 anni Gianni è
ordinario, a 65 avrà
la magra
soddisfazione di
registrare un
differenziale nullo
con Pinotto.
Il trattamento economico degli universitari
italiani appare, poi, ancora più penalizzante se
comparato con le retribuzioni percepite dai
ricercatori nei paesi con i quali spesso amiamo (a
parole) confrontarci. Un recente studio [6] della
Commissione Europea fornisce il desolante
quadro riportato nella seguente tabella:
Retribuzione annua lorda (€)
corretta per il potere d’acquisto
Nazione
per i ricercatori impegnati nelle
istituzioni universitarie.
Fonte: Commissione Europea
Israele
75.000
Olanda
65.923
Svizzera
62.337
Austria
62.069
Cipro
56.579
Francia
50.881
Regno Unito
50.310
Germania
45.893
Spagna
36.817
Italia
34.204
Turchia
30.539
India
45.207
Australia
62.342
USA
62.793
Eppure, anche da parte di alcuni colleghi, sento
un continuo parlare dei privilegi degli
universitari. Francamente, ritengo che un
professore che faccia bene il suo lavoro sia
sottopagato rispetto ai redditi che percepiscono
figure di analogo profilo, anche nel pubblico, non
solo nel privato. Ancor di più mi stupisce chi
pretende di misurare la prestazione resa dal
lavoratore intellettuale col conto del numero di
ore passate a scaldare una sedia, senza prendere
neppure in considerazione l'ipotesi che, forse, la
valutazione dei risultati è una metodologia che
meglio si adatta al caso. Se poi, il sistema di
valutazione non funziona, allora ci si sforzi di
renderlo efficace, ma non si peggiori
ulteriormente la situazione proponendo soluzioni
talmente rozze da essere peggiori del male che
intendono curare.
V.
LA PRODUTTIVITÀ DEGLI UNIVERSITARI
Qual è la qualità del lavoro svolto dagli
universitari italiani ? A capirlo ci aiutano i dati
che periodicamente vengono forniti da autorevoli
organizzazioni internazionali. Partiamo allora da
quelli relativi all’efficienza del sistema
formativo: in un recente studio pubblicato
dall’OECD [7] viene rilevato l’enorme sforzo
compiuto dall’università italiana in questi ultimi
anni: il numero di studenti che in Italia
completano gli studi universitari, tab. III, è più
che raddoppiato nel volgere di 5 anni e
attualmente si colloca al di sopra della media
OECD. Tutto questo accade in un sistema paese
in cui non solo la spesa per studente negli atenei
pubblici, si badi bene, pubblici, è di gran lunga
inferiore a quella registrata nella gran parte dei
paesi industrializzati, tab. IV, ma anche la
percentuale statale di prodotto interno lordo
destinata alle istituzione universitarie è di gran
lunga più bassa, anche degli Stati Uniti, Tab. V.
In compenso, il rapporto studenti/docenti del
sistema universitario italiano è fra più elevati, tab.
VI.
E le attività di ricerca degli universitari italiani
come si collocano nel panorama internazionale?
Indicazioni al riguardo arrivano dal rapporto
2007 [8] della Commissione Europea, tab. VII, e
non classifica certo la ricerca italiana come di
serie B.
VI.
LA STAGIONE DELLO STUDENTE CLIENTE
La nuova legislazione sugli ordinamenti didattici
e le modalità di finanziamento agli atenei, basato
sostanzialmente sul solo numero degli studenti
iscritti, inducono le università ad una
moltiplicazione dell’offerta didattica rispetto al
periodo antecedente. Gli atenei si qualificano come
aziende ed il marketing compare nelle voci dei
bilanci universitari. Con l’arrivo del 3+2 lo studente
universitario da matricola, da iscritto cioè nel libro
maestro dove si registrano i nomi di coloro che
sono ammessi ad apprendere un’arte operando al
fianco dei maestri, diventa cliente da ossequiare,
riverire, cui dare sempre ragione. Da membro
novizio della comunità scientifica di cui accetta e
condivide principi e disciplina, lo studente ne
diventa estraneo; un cliente, che va blandito,
assecondato, vezzeggiato. Bisogna attirare
studenti, è questa la parola d’ordine che gira fra
gli atenei italiani. Le università, da luoghi di
maturazione
dello spirito critico, diventano
imprese il cui successo si misura nel numero di
clienti attirati. La qualità degli atenei viene
valutata, come per le aziende, in base alla
soddisfazione del cliente anziché sulla
qualificazione del corpo docente e sulla
disponibilità di strutture adeguate. Poiché
l’importante è indurre quanti più clienti possibile
all’acquisto del bene, poco interessa poi se esso è
inutile o in taluni casi dannoso, proliferano i corsi
di laurea dai nomi accattivanti ed attraenti,
l’offerta didattica si amplia eccessivamente e
diventa
completamente
scorrelata
dalla
disponibilità di un adeguato corpo docente.
VII. GLI ANNI DEL “SUPERLAVORO”
Della situazione descritta al precedente
paragrafo il professore universitario è al tempo
stesso vittima e responsabile. Responsabile
perché l’autonomia avrebbe consentito agli atenei
di gestire in maniera più sensata il varo dei nuovi
ordinamenti, vittima perché una distribuzione
delle risorse fondata essenzialmente sul numero
di studenti si è prestata ad un facile ricatto: caro
professore vuoi maggiori risorse per la tua
ricerca, vuoi avere opportunità di carriera?
Ebbene, datti da fare ad estendere e sostenere
l’offerta didattica! Di conseguenza, dal 2000 in
poi, l’impegno didattico richiesto al professore
universitario si è ampliato a dismisura. Le
canoniche 350 ore si sono più che raddoppiate.
Per convincersene basta tener presente che, nella
situazione attuale, un professore universitario è
mediamente responsabile di tre corsi per ognuno
dei quali è tenuto a garantire l’espletamento di
almeno 5 appelli annuali. Se frequentati da una
sessantina di studenti ognuno, la sola gestione
degli appelli d’esame dei corsi di titolarità
impegna il docente per quasi 350 ore, e questo
senza tener conto delle ore dedicate alla didattica
frontale. Aggiungiamo poi le ore da dedicare alle
sedute di laurea, il cui numero in seguito al 3+2 è
raddoppiato, alla supervisione dei laureandi e dei
dottorandi, ecc...: è facile constatare come tutti
questi impegni esauriscano ampiamente le 350 ore
(frontali o meno che siano) che i professori sono
tenuti, per legge, a dedicare alla didattica. In
effetti, con l’applicazione della L. 509/99, si è
determinato perlomeno un raddoppio del carico
didattico, raddoppio che ha significato un
incremento delle complessive ore lavorate perché,
nella maggior parte dei casi, il professore ha
preferito non intaccare il monte ore dedicato alla
ricerca. Si è così potuto osservare un progressivo
incremento del complessivo impegno dei professori
universitari che negli anni ha raggiunto e superato
le 2000 ore annue. Certo, non in tutti gli studi sono
rimaste accese le luci fino alle nove di sera ed oltre,
certo in qualche caso l’impegno si è addirittura
ridotto, ma, nella media, i professori che nello
svolgere una ricerca dignitosa trovano la ragione
d’essere della loro attività, hanno scelto di lavorare
di più. Gli anni passati sono stati quindi anni di
grande impegno e sacrificio personale per i
professori universitari; sono stati anche anni di
generosità, generosità, per altro, socialmente non
riconosciuta, sconosciuta alla pubblica opinione,
che ignora, ad esempio, la circostanza che vede il
professore universitario volontariamente accettare
una retribuzione che è meno di un terzo di quel
che la legge vigente prevede per gli incarichi di
affidamento o supplenza (art. 114, DPR 382/1980).
All'orizzonte si prospetta, poi, l'arrivo del
Nuovissimo Ordinamento, quello previsto dal DM
320 del 2004, che, per un lungo periodo transitorio,
comporterà un ulteriore aggravio degli impegni
didattici: agli esami del vecchio e nuovo
ordinamento si aggiungeranno quelli del
nuovissimo, in molti casi saranno svolti in
contemporanea corsi nuovi e meno nuovi, ecc.
Ritenere che questo “superlavoro” non dovuto
sia reiterabile all’infinito, per giunta senza alcun
riconoscimento sociale e retributivo, e che tutta
questa “sovraproduttività” non abbia alla lunga
conseguenze deleterie, difficilmente recuperabili,
sulla qualità dell’insegnamento e della ricerca
è, ad essere buoni, da sprovveduti. Spero ci si
renda conto che l’imposizione, più o meno
mascherata delle 120 ore, senza quei contrappesi
previsti dalla stessa legge che le ha introdotte,
avrà come effetto a lungo termine un irreversibile
dequalificazione di quello che, fino a poco tempo
fa
concepivamo
essere
l’insegnamento
universitario: inscindibile derivazione dello
svolgimento di una qualificata attività di ricerca.
VIII.
CONCLUSIONI
In Italia, fare ricerca, almeno la ricerca che non
si basa solo sulla disponibilità di un computer,
significa innanzitutto fare l'elettricista, l'idraulico,
lo sdoganatore, il traduttore, l'addetto agli acquisti
ed al magazzino, alcune volte anche il facchino. Il
ricercatore deve, poi, trovare il tempo e le forze
per conquistare l'attenzione, in concorrenza con il
mondo intero, di una qualche prestigiosa rivista
scientifica
e, necessariamente, procurarsi i
contratti per finanziarla, la ricerca. In un sistema
paese che da tempo, al di là delle dichiarazioni di
principio, non considera l’università come priorità
strategica (nei primi mesi del 2008 i fondi di
finanziamento al sistema universitario sono stati
decurtati per finanziare interventi a favore dei
camionisti, dell’Alitalia e del taglio dell’ICI), in
un paese dove è più facile vincere al
superenalotto che avere un tecnico di laboratorio,
condurre attività di ricerca di livello dignitoso è
sempre più difficile. Se poi consideriamo che le
attività svolte in una regione che è periferia
geografica ed economica dell’Europa richiedono
necessariamente
possibilità
di
frequenti
spostamenti in biblioteche, laboratori, musei non
disponibili in loco, non possiamo non riconoscere
che ottenere dei buoni risultati scientifici
all’Unical richieda più impegno di quanto non sia
richiesto a chi lavora, ad esempio, a Londra.
Aggiungiamo infine che da un po’ di tempo in
qua alcuni politici, ma anche professori che
hanno di fatto abbandonato le attività
propriamente universitarie per dedicarsi ad
altre più soddisfacenti occupazioni, iniziano a
guardarti con severità e sufficienza quando
scoprono che non hai la stessa produttività dei
colleghi dell’UCLA o del MIT, dimenticando, ma
più probabilmente ignorando, che la disponibilità di
bilancio annua dei due atenei statunitensi, che
insieme non accolgono più di 50.000
(cinquantamila) studenti, è pari all’intero
ammontare del finanziamento annuo su cui
possono far conto tutte le nostre università,
comprese le private. Queste difficoltà, sommate alle
problematiche esposte nei precedenti paragrafi
dovrebbero rendere consapevole chi occupa i
vertici delle strutture universitarie della situazione
non facile che sta vivendo chi, nell'università, cerca
di svolgere il proprio lavoro con coscienza.
L’indefinito protrarsi di uno stato d’emergenza
didattico non potrà che avere come conseguenza la
definitiva uscita dell’ateneo dal ruolo delle sedi
che, almeno potenzialmente, possono ambire a
contribuire al progresso del territorio attraverso lo
svolgimento di attività di ricerca di concreto valore,
Spero che sulla questione possa aprirsi un più
ampio dibattito in Ateneo.
Riferimenti
[1] http://xoomer.alice.it/alberto_pagliarini/, tabelle relative
all’anno 2005.
[2] Decreto-Legge 25 giugno 2008, n. 112, recante
disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della
finanza pubblica e la perequazione tributaria
[3] Settimo Rapporto sullo Stato del Sistema Universitario,
CNVSU, Ottobre 2006.
[4] “Matusa in Cattedra”, Paolo Rossi, ATHENET (Rivista
dell’Università di Pisa) n. 18, Dicembre 2006.
www.unipi.it/athenet/18/art7.htm.
[5] Le retribuzioni dei professionisti ICT: impiegati, quadri
e dirigenti. OD&M Consulting 2005; estratto reperibile
all’indirizzo: http www.shinynews.it/economy/0505retribuzioniIT_imp.shtml
[6] Remuneration of Researchers in the Public and Private
sectors, EUROPEAN COMMISSION, DG for Research,
aprile 2007
[7] OECD indicators, Education at a Glance 2007
[8] EUROPEAN COMMISSION, Directorate-General for
Research, Key Figures 2007
Tab. III
Tab. IV
Tab. V
Tab. VI
Tab. VII