Tondelli, Palandri e gli anni Settanta

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Tondelli, Palandri e gli anni Settanta
Tondelli, Palandri e gli anni Settanta:
così lontani, così vicini
di Sciltian Gastaldi
Lo studioso appassionato di letteratura italiana del XX secolo si è imbattuto assai spesso in
ricerche che legano le opere d’esordio di Enrico Palandri e Pier Vittorio Tondelli da un punto di
vista linguistico e generazionale, mentre le dividono nettamente sul piano dei contenuti. Il
Boccalone1 di Palandri, secondo la critica marxista e cattolica, sarebbe un esempio di quella
letteratura politicamente impegnata che si inserisce in un filone vasto e importante della
produzione culturale italiana del dopoguerra. Ci riferiamo alla produzione che va dalla letteratura
della Resistenza fino ai testi degli anni Settanta di Nanni Balestrini, Oriana Fallaci, Marco
Lombardo Radice e Lidia Ravera, considerati come strumento essenziale di quell’egemonia
culturale di cui il Partito Comunista Italiano doveva preoccuparsi secondo i quaderni di Antonio
Gramsci. Sempre secondo la critica marxista e quella cattolica, gli Altri libertini di Tondelli
sarebbero invece ascrivibili alla cosiddetta letteratura del disimpegno, vale a dire quella
produzione letteraria (che i marxisti disprezzavano come “borghese” e “conservatrice”, mentre i
cattolici difendevano) che non era interessata alle “magnifiche e progressive sorti” della
rivoluzione comunista per lasciare invece spazio ai sentimenti e ai rapporti interpersonali.
Oppure, come nel caso di Guareschi, quella letteratura leggera se non proprio umoristica, che
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Palandri, Enrico. Boccalone. Storia vera piena di bugie. Milano: Edizioni L’erba voglio, 1979. (Nuova edizione:
Milano: Bompiani, 1980, 1997). Da qui in avanti abbreviato come “B”.
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Seminario Tondelli, nona edizione, Correggio, Palazzo dei Principi, 11 dicembre 2009.
Intervento di Sciltian Gastaldi :Tondelli, Palandri e gli anni Settanta : così lontani, così vicini.
puntava alla riduzione macchiettistica delle parti in campo. Una dicotomia divenuta classica,
questa tra impegno e sentimento, che fu in grado di dividere per mezzo secolo non solo il campo
critico-letterario ma proprio l’intera sfera culturale italiana. Questo studio si propone da un lato di
contestare la collocazione di Pier Vittorio Tondelli nel campo della letteratura disimpegnata toutcourt, in particolare per quanto riguarda il suo libro d’esordio, ma non solo; dall’altro di dare
un’interpretazione meno politicizzata del Boccalone di Palandri.
Boccalone e Altri libertini2 condividono il periodo storico di gestazione, il biennio 1978-79,
l’età giovane dei loro autori (entrambi esordienti a 24 anni), la data di pubblicazione: il 1979-80 e
anche l’ambientazione, in un’Emilia di fine anni Settanta. La questione anagrafica e
generazionale, come vedremo nelle pagine che seguono, ha un peso determinante nel delineare
una comune fisionomia culturale. Tanto Boccalone quanto Altri libertini sono, secondo questo
studio, uno specchio degli anni Settanta appena trascorsi e si inseriscono perfettamente al termine
del “decennio di piombo” portandone per altro alla ribalta temi analoghi, primo fra tutti lo
scontro generazionale e il bisogno giovanile d’evasione e di rottura rispetto allo status quo. Per
usare le parole assai ficcanti e ahinoi attuali del Palandri critico maturo:
Al centro dello scontro generazionale degli anni settanta c’erano secondo me proprio queste due
visioni: una, ancorata nella Chiesa cattolica e nella conservazione almeno nominale di un’idea di
società guidata dall’autorità morale della religione, che si schierò contro il divorzio, la
contraccezione e l’aborto e che aveva ampia rappresentanza politica. L’altra, che cresceva in
un’area di dissenso dalla Chiesa, dai principali partiti e alla fine anche dai gruppi più piccoli perché
la sua vera vocazione era l’individualismo protestante, il costituirsi come liberi pensatori (in Italia
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Tondelli, Pier Vittorio. Altri libertini. Milano: Feltrinelli, 1980, 1987. Da qui in avanti abbreviato come “AL”.
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espressione non a caso usata spesso ironicamente), persone che non si identificarono con nessuna
comunità. (…) Pier era all’inizio una voce che nasceva da lì. Situazione molto contraddittoria,
perché se la Chiesa ufficiale era a destra, alcuni antichi nervi molto profondi del cristianesimo,
soprattutto della tradizione francescana e pauperista, attecchivano benissimo nel movimento. Il ’68
ha nel cuore la Lettera a una professoressa di don Milani. (…) Da ragazzo aveva frequentato
l’associazionismo cattolico e poi aree del movimento, il pentolone in cui ribollono non solo gli
anni settanta3.
L’evasione di cui ha dunque bisogno questa generazione di nuovi giovani gioco-forza
contestatari può e deve essere fisica, attraverso il mito del viaggio in auto lungo una “autobahn”
verso nord o verso la Spagna, ma è un’evasione che può e deve essere soprattutto psicologica,
attraverso dei rapporti d’amicizia e d’amore quasi morbosi nella loro presenza totalizzante;
un’evasione che può declinarsi anche attraverso comportamenti autolesionistici, come
l’assunzione di eroina e altre droghe sintetiche. Già questa prima affermazione si pone in
contrasto con quanto diversi critici hanno scritto riguardo all’esordio di Tondelli. Per questi
critici, molti dei quali appartenenti al Gruppo 63 e i cui testi furono pubblicati su Linea d’Ombra,
su Quaderni piacentini e su Ombre rosse, l’autore di Correggio è sin dall’esordio il cantore del
disimpegno e degli anni Ottanta, considerati implicitamente “anni di merda4” per citare un
famoso saggio del giornalista Olivero Beha, nei quali a farla da padrone sono lo yuppismo, il
reagan-thathcerismo, il materialismo e la fine del comunismo. Non è questo il luogo dove
riflettere sui pregiudizi che diversi esponenti del Gruppo 63 nutrivano nei confronti degli scrittori
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Palandri, Enrico. Pier. Tondelli e la generazione. Roma-Bari: Laterza, 2005, 31-32. D’ora in avanti abbreviato
come “P”.
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Beha, Oliviero. Anni di merda. Notizie dal fronte del disagio italiano. Napoli: Pironti Editore, 1993.
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degli anni Ottanta in generale e su Tondelli in particolare. Possiamo però affermare che in Altri
libertini è invece presente una dimensione politica molto forte, a fronte di un’assenza di
affiliazione partitica o movimentistica da parte tanto dei suoi personaggi quanto del suo autore. E
la fisionomia politica di questo libro a dire il vero fu notata per primo non da un critico, bensì da
chi sarebbe diventato uno dei più famosi uomini politici italiani, Massimo D’Alema, al quale nel
1980 L’Espresso chiese un commento sui romanzi definiti “giovanili” del decennio appena
concluso. D’Alema, allora segretario della Federazione giovani comunisti italiani, in poche righe
coglie l’essenza di Altri libertini rovesciando il tavolo della critica letteraria marxista:
Devo dire con sincerità che lessi con fastidio “Porci con le ali” e che non riuscii a finire
“Boccalone”. Invece “Altri libertini” di Pier Vittorio Tondelli mi sembra un libro da leggere.
Intendiamoci, non come “testimonianza” del mondo giovanile. È fin troppo facile vedere che ciò
che si rispecchia in queste pagine non è tutto il mondo dei giovani. Ma proprio perché siamo di
fronte a un prodotto “colto”, non improvvisato, ed esplicitamente e con ricercatezza “letterario”, il
messaggio che trasmette colpisce più a fondo. (…) Un’ultima notazione che spero non espressa per
deformazione professionale. “Altri libertini” è un romanzo “politico”. Se non altro perché
l’esperienza giovanile che racconta svela una “mancanza” di politica, o se si preferisce, una crisi
della politica. Si dirà che l’immagine della società e del popolo dell’Emilia che ne viene fuori è
ingiusta. Lo penso anche io. Ma non respingerei comunque il valore di denuncia che il libro
assume5.
In cosa consiste l’aspetto politico di Altri libertini, notato anche da D’Alema? Anzitutto
occorre considerare il contenuto del libro. Tondelli con la sua raccolta di racconti si pone come il
cantore degli emarginati: che siano omosessuali, drogati, pusher, barboni, studenti spiantati,
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D’Alema, Massimo. “Ma non sono tutti così”. L’Espresso 10 febbraio 1980.
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giovani in cerca di un senso, il fuoco del libro è tutto spostato su chi si trova ai margini della
società dell’epoca e ne è anzi respinto con fastidio e ignominia. Uscendo dal campo della critica
letteraria, possiamo supporre che se Altri libertini fosse uscito oggi, nella tristissima Italia del
2009, avrebbe parlato di zingari, romeni, marocchini, precari, disoccupati, nuovi poveri e ancora
di omosessuali, che sembrano essere l’unica minoranza sempre invisibile e ai margini della
società italiana.
Tornando all’analisi del testo tondelliano, Postoristoro, il primo racconto di Altri libertini, si
apre come una discesa dantesca agli inferi, ricca solo di “dannati”, aggettivo ripetuto quattro
volte nella novella, passando da un personaggio miserabile all’altro in una spirale in cui l’unico
elemento che chi scrive non riesce a vedere è proprio quella “tensione di salvezza” su cui ha
insistito in modo esagerato e partigiano la critica cattolica e gesuitica (o per lo meno, quella
cattolica e gesuitica postuma a Tondelli, poiché quella a lui coeva è stata impegnata a
squalificarlo come scrittore e a etichettarlo come “luridamente blasfemo”). Ecco quindi, in
ordine, Giusy, che “arriva ogni giorno, puntuale come una maledizione saltellando sui tacchi e
spidocchiandosi la lunga coda di capelli che alle volte nasconde nel cuffietto peruviano” (AL 10);
da notare che si tratta di un personaggio maschile presentato con un nomignolo abitualmente
femminile e associato col genere femminile sia nella similitudine che nella descrizione fisica
della “lunga coda di capelli” e nell’indumento dei “tacchi”. Poi abbiamo un barbone che “mangia
una crosta di grana con del pane attendo a non disperdere neanche una briciola della sua cena”
(AL 11). Abbiamo poi l’entrata in scena del celebre personaggio di Bibo, il drogato marcio che è
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l’unico descritto non dalla voce narrante ma direttamente dalla sua parlata infarcita di bestemmie
e di esclamazioni (AL 12). E poi ancora la descrizione di Molly (AL 13), una seconda barbona di
sessant’anni, Johnny, il pusher, l’unico ben vestito “con il suo Burberrys sfarfagliante” (AL 17),
quindi Liza “proprio odore di checca sfranta” (AL 19), la Vanina “che è una ragazzona di
vent’anni ma gliene daresti cinquanta forse più, la faresti lì lì per la sepoltura” (AL 21). Quindi “i
terroni” col “Salvino capobanda, che è confinato qui al nord, fetente mafioso” (AL 21). E questo
è il “popolo del Postoristoro” (AL 21), un popolo in cui perfino il coro è composto da “studenti
brufolosi che vengono dalla campagna alle scuole professionali qui in città e c’hanno le gambe
curve e tozze e i fianchi larghi” (AL 10). Un’umanità così reietta e laida da far accapponare la
pelle, che trova poi il suo ambiente ideale, non a caso, nel cesso della stazione. Qui il Bibo, in
crisi d’astinenza, non riesce più a controllare lo sfintere e “immerda” anche Rino (AL 31),
l’ultimo disperato della combriccola, fondamentale sostegno per poter finalmente iniettare
l’eroina nell’unica vena non rotta rimasta al Bibo, sul sesso: “Dentro l’ago, zac.” (AL 33) e non è
necessario nemmeno il punto esclamativo per rendere l’idea. Sono questi gli anti-eroi che aprono
la letteratura tondelliana, anti-eroi visti come blasfemi e maledetti dalla critica cattolica coeva
all’uscita del libro, e oggi sollevati al rango di redenti verso la speranza di salvezza. È però vero
che Tondelli ama questi anti-eroi e sa renderli in un modo così vivido e privo di giudizio morale
che il lettore non può non affezionarsi anche al più laido e sfortunato di loro. Tondelli, in altre
parole, cerca di suscitare empatia nel lettore, e ci riesce proprio attraverso il raccontare la misera
quotidianità dei suoi personaggi dannati e reietti. Ci riesce in Mimi e istrioni, con le Splash “i
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rifiùt ed Réz”, ci riesce in Viaggio, raccontando il desiderio di una comitiva di amici di scoprire
l’Europa e di andare oltre i confini piatti della loro provincia emiliana, ci riesce perfino in Senso
contrario, il racconto più breve e forse meno riuscito, facendoci provare simpatia per una
giovanissima marchetta di nome Lucio, capitata nell’automobile sbagliata. Tondelli mostra poi
tutto il suo talento nel racconto che dà il titolo alla raccolta, dove l’omosessualità dei personaggi
è presentata in un modo ridanciano, quotidiano, scontato, autoironico e divertito, ben lontano dai
drammi psicologici di Testori, dal senso di vergogna di Saba, dalla condizione di condanna di
Pasolini e anche dalla dimensione religiosa di Còccioli - pure molto più vicino all’autore di
Correggio rispetto agli altri nomi citati - se pensiamo per esempio che il personaggio dell’io
narrante racconta di convincere il resto della sua comitiva ad andare a vedere al cinema
Sebastiane, di Derek Jarman, e di venirsi addosso durante la scena del martirio, “come un
pippaiolo” (AL 149).
Dinanzi a un simile contesto, non stupisce che Altri libertini dovette affrontare nell’Italia del
1980 un processo per blasfemia e vilipendio della religione cattolica, e questo forse anche a
prescindere dalla famosa questione delle bestemmie e del cosiddetto linguaggio parlato,
inevitabilmente volgare proprio in quanto parlato. L’operazione politico-letteraria tentata e
riuscita da Tondelli è dunque quella di dare alle stampe l’immagine di un’Italia diversa da quella
che fino ad allora era stata considerata rispettabile e degna di attenzione letteraria. Era l’Italia
delle minoranze, di chi è di solito combattuto dalle istituzioni tramite l’indifferenza e l’ignoranza
prima ancora che la repressione, come è rimasto chiaro per gli omosessuali perfino sotto il
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ventennio fascista e come, è ancora oggi. Dando voce a queste minoranze, lo scrittore emiliano
compiva dunque un atto pienamente e fortemente politico e stupisce semmai come la critica
marxista, su Tondelli più ottusa del solito, non abbia saputo cogliere, all’epoca e in seguito, i
semi di una presa di posizione così radicale in nuce. Presa di posizione invece ben colta dal
Palandri critico, che ancora scrive acutamente:
Pier nei suoi primi libri era uno squarcio di questo mondo altro, dove gli spinelli non erano
considerati droghe e dove gli omosessuali non erano diversi, dove nulla era considerato
trasgressivo perché il rifiuto della norma rendeva insensato il concetto stesso di trasgressione. (P,
34)
Noi in realtà pensiamo che questa considerazione non valga solo per “i primi libri” dell’autore
di Correggio, ma sia leggibile in controluce per tutta la sua opera e in particolare in Camere
separate, dove addirittura la situazione patologica di invisibilità giuridico-sociale della coppia
gay è espressa in modo esplicito in più punti del romanzo. Ma, per soffermarci solo sui due libri
d’esordio di Palandri e Tondelli, se Altri libertini è stato dunque ingiustamente letto dalla
maggior parte della critica come un esempio di disimpegno, d’altro canto ci sentiamo d’avanzare
un dubbio sulla dimensione pan-politica di Boccalone. Il lavoro di Palandri è - ci pare sopra ogni
altra cosa - il racconto di un’adolescenziale storia d’amore, quella del personaggio Enrico
Palandri per la sua fidanzata dell’epoca, Anna B. Un’interpretazione del resto condivisa dallo
stesso Tondelli, quando recensì nel 1979 il libro del coetaneo:
L'
azione del libro si situa a ridosso del marzo del 1977, dei mesi della rivolta creativa, dei carri
armati inviati a presidiare la cittadella universitaria, della latitanza di Bifo e del trasversalismo,
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dell’assedio di Radio Alice. Episodi che di Boccalone costituiscono lo sfondo e lo scenario
principale, come nelle tavole di Andrea Pazienza. Ma Boccalone è soprattutto una storia d'
amore,
prima ancora che di crisi politica, la storia di come un innamoramento possa far scoppiare i propri
equilibri, creare intensità nuove6.
Il sottotitolo del romanzo di Palandri, che è ripetuto all’interno del racconto come una sorta di
mantra, recita inoltre “storia vera piena di bugie” e ricorda da vicino l’incipit del leggendario
sedicenne creato da Salinger, Holden Caulfield, quando esordisce nel terzo capitolo “I’m the
most terrific liar you ever saw in your life”7 e che nella traduzione italiana suona come “Io sono il
più fenomenale bugiardo che abbiate mai incontrato”. Il Palandri scrittore vuole soprattutto
raccontare di se stesso, del suo mondo bolognese, della sua comitiva di amici che lui indica
spesso con l’altro nome-mantra “il collettivo”, che ha un suo preciso corrispettivo nel vocabolario
tondelliano in “la fauna”, un termine quello di Palandri che sembra quasi spogliato dalla sua
accezione politica per diventare appunto un sinonimo di “comitiva”, di “gruppo di amici”. E
Palandri, comprensibilmente, vuole raccontare di sé e del suo mondo sotto una luce calda e
buona. Dunque il suo personaggio alter-ego, per il quale non adotta nemmeno il principio
mimetico elementare del cambio del nome, è proprio il classico bravo ragazzo: fidanzato
innamorato marcio, studente universitario che dà esami, attento lettore di giornali, bravo figlio
che cerca di conservare un canale comunicativo con dei genitori non troppo recettivi se non
proprio ostili. Un bravo ragazzo così come lo era il giovane Holden, e in Enrico troviamo tanto
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7
Tondelli, Pier Vittorio. “Enrico Palandri”. Un weekend postmoderno. Milano: Bompiani, 1991, 213-215.
Salinger, Jerome David. The Catcher in the Rye. New York: Little, Brown and Company, 1952.
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profumo di rivoluzione quanta ne possiamo trovare nel personaggio di Salinger o nell’Anonimo
lombardo di Arbasino, o nel Tom Sawyer di Mark Twain. Sono tutti personaggi “per bene”,
spesso ingenui, e quando si mostrano furbi non lo fanno mai con malizia. L’Enrico di Boccalone
è, per l’appunto, un “boccalone”, cioè un credulone, un sempliciotto, un adolescente che perde la
testa per la sua prima ragazza e la pone al centro del suo universo, senza più capirci nulla: “Con
anna [sic] ho creduto di poter dimenticare quante cose accadono in un momento, e di essere
legato al mondo, rapito con tutto me stesso in un sogno che non ha conosciuto contorni” (B 8) e
ancora: “con anna [sic] tutto era dimenticato, senza neppure rendermi conto, dimenticavo tutto”
(B 31). Una storia d’amore adolescenziale, dicevamo, che di quella fase della vita ha le tinte forti
e facilmente scoloribili, se è vero che a un certo punto l’acquisto di “un paio di stivali di cuoio
spagnolo” (B 91-92), citazione dylaniana resa anche esplicita con la trascrizione sulla pagina
dell’intero testo tradotto, mette in crisi, almeno temporalmente, questa relazione così assoluta.
Ma leggendo Boccalone ci rendiamo conto che lo scapestrato Enrico non ha davvero una forte
dimensione politica, se escludiamo il fatto di essere cosciente di vivere in un periodo storico cupo
e intenso, quale il ’77 bolognese. Un periodo che però non può non affrontare con tutta la
leggerezza e la superficialità dei suoi ventuno anni, anche a costo di mancare di rispetto nei
confronti degli adulti e di chi fa politica o lavora. Addirittura, Enrico ha nei confronti di ogni
mestiere un chiaro disprezzo, esplicitato tanto nel testo quanto nella postfazione del 1988. Solo
per citare l’esempio più famoso di questo disprezzo, all’inizio del romanzo Enrico si prende burla
di un lavoratore della mensa universitaria al quale aveva chiesto, ironicamente, di avere una
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seconda arancia, essendo questo lavoratore “uno introdotto nell’ambiente”. Solo che il lavoratore
non afferra il livello ironico di Enrico, che dopotutto è uno studente universitario che si fa bello
del suo piano intellettuale, e quando lo avvicina per esaudire la sua richiesta, vantandosi
discretamente della propria entratura nell’ingranaggio del sistema-mensa, suscita in Enrico una
risata sincera e irrefrenabile, che prende lo spazio di un’intera pagina e mezza, al punto da urtare
la suscettibilità del lavoratore:
“sa, non lo dico per fare il vanitoso, ma se vuole un’arancia posso vedere di fare qualcosa, io
conosco tutti qui dentro…”
Quando l’ho visto dietro di me parlare in questo tono della mia arancia, di cui mi era anche passata
la voglia, sarà per la sua faccia simpatica e il buon umore orgoglioso che veniva fuori dalla voce e
da tutta la persona, sarà per l’antipatia che provo da marzo per i lavoratori onesti, sono scoppiato in
una risata fragorosa: ridevo a crepapelle. allora [sic] lui si fece serio e cominciò a dire:
“guardi che sono un lavoratore, io non vengo qui per farmi prendere in giro, vengo qui per
lavorare, chi crede di essere per ridermi in faccia a quel modo?”
Credo che la parola lavoratore sia stata decisiva: non riuscivo assolutamente a trattenermi, cercavo
di riassestarmi e lo guardavo in faccia per scusarmi, due o tre volte consecutive sono stato costretto
a constatare lo stato pietoso in cui mi trovavo. volevo [sic] por fine alla vicenda, ero anche disposto
a offrirgli del denaro purché si allontanasse; (B 21)
Questo genere di atteggiamento è poi ripudiato dal Palandri che scrive la postfazione del 1988,
o meglio è giustificato nel contesto del personaggio ventunenne e ripudiato dallo scrittore maturo.
In un altro passo del romanzo, quando Enrico viene a sapere dalla tv di casa (e sottolineo: lo
viene a sapere dalla televisione) che “un compagno di lotta continua a roma [sic]” è stato ucciso
dai carabinieri, la sua reazione è quella di rimanere senza parole perfino dinanzi alle crudeli
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parole del padre: “…..” condizione resa graficamente da una serie di cinque puntini tra virgolette
e poi esplicitata nel rigo sotto: “richiudo la bocca senza aver emesso alcun suono” (B 88-89). Un
po’ poco, per un personaggio che volesse proporsi come impegnato militante politico.
In conclusione, considerando la dichiarazione d’intenti di Palandri in La deriva romantica,
laddove sostiene “Io parto in ogni libro con grandi ambizioni teoriche, i libri che voglio scrivere,
prima di scriverli, mi sembra che affronteranno temi immensi, l’uomo di fronte alla storia, la
nostalgia della metafisica, l’uscita del tempo”8, letta alla luce della lunga e articolata postfazione
del 1988 (B 143-157), che è una vera e propria presa di distanza filosofica dall’opera prima,
possiamo dire che in Boccalone l’aspetto politico è secondario rispetto a quello sentimentale e
che la dirompenza e la freschezza di quest’opera riguarda soprattutto le tecniche linguistiche e di
personalissima punteggiatura (l’assenza di punti a fine periodo, la mancanza di maiuscole a inizio
frase, il veloce fluire dei pensieri e delle azioni dei personaggi come se si trovassero all’interno di
un contesto privo di cornice). Palandri, che sostiene di avere scritto il romanzo in una settimana e
poi di averlo dovuto riscrivere e limare a lungo con l’aiuto dell’editor Marco Leva, riesce in
Boccalone a dare un affresco di una Bologna giovanile e spensierata nonostante gli anni di
Piombo e i carriarmati per le strade. Un’operazione analoga a quella riuscita a Tondelli con Altri
libertini, ma la grande differenza tra le due opere è nel fatto che l’autore di Correggio fu in grado
di inserire nel suo affresco giovanile anche i colori della disperazione e del bisogno di un gruppo
di emarginati di evadere e di esprimersi contro un ambito sociale percepito come limitante nel
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Palandri, Enrico. La deriva romantica. Ipotesi sulla letteratura e sulla scrittura. Novara: Interlinea, 2002, 28.
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suo carattere provinciale e conformista. Proprio in questa presenza drammatica, del tutto assente
in Boccalone, e nel suo cozzare contro lo status quo conformista possiamo individuare l’aspetto
più propriamente politico dell’opera tondelliana. Un aspetto che potremmo definire neo-barocco
secondo la definizione data da Calabrese, oppure addirittura dadaista e che, in realtà, continuerà
lungo tutta la produzione dello scrittore di Correggio. Ecco che per raccontare un anno di vita
militare, ossia per descrivere un anno all’interno dell’istituzione più totalizzante che possa
esistere in un contesto sociale – quello di una caserma militare, secondo come rigidità solo al
carcere – Tondelli nel 1982 si diverte a creare una commistione dove tutto è interpretato
attraverso le lenti arcobaleno di un’omosessualità gioiosa, goliardica e spensierata o, al limite,
attraverso l’effetto analgesico delle droghe leggere e pesanti. Droga e omosessualità: quali
migliori armi dadaiste per raccontare la vita militare? Tondelli ci lascia una grande lezione di stile
per affrontare il grigiore (e il nero) dell’Italia di ieri, di oggi e di domani.
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