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2011 Anno 10 n. 1 Trimestrale € 8
Conflitti
rivista italiana di ricerca e formazione psicopedagogica
La
resistenza
della
nave
Editoriale
pagine 1 e 2
Resistere!
di Daniele Novara
Dossier
pagine 5- 18
Elettricità dentro,
Elettricità fuori
Focus
pagine 19 - 22
Le botte ai figli
Strumenti
pagine 28 - 31
Conversazione
maieutica e
Costituzione
Sul campo
pagine 32 - 34
Razzismo e
conformismo
Si può
resistere
all’invasione
degli eserciti,
ma non
all’invasione
delle idee.
V. Hugo
Poste Italiane Spa. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 2 DCB/Gorizia Tassa riscossa. Primo trimestre 2011
Conflitti Focus
Ti meno per ripetere la crudeltà
di chi mi ha preceduto.
Ma ho paura di me stesso!
di Paola Scalari
Tra le pareti domestiche si consumano molti delitti. E se uccide più
la famiglia che la mafia, dissemina
più violenza la vita domestica che
la corrotta società post moderna.
Troppo spesso i bambini assistono
alle scenate di madri infelici e alle
sfuriate di padri scontrosi. Troppi
coniugi immaturi si demoliscono
con parole aggressive e con gesti
umilianti di fronte a figli attoniti,
impauriti, rabbiosi.
Assistita o subita, la relazione violenta entra nella mente dei piccoli
annichilendo il senso della solidarietà umana, disorganizzando la
vita psichica, violando il valore del
legame.
Una coppia che non si rispetta finisce per picchiare anche la prole.
Il dare sberle è un linguaggio del
corpo a corpo appreso nelle rispettive famiglie d’origine. L’elargire ceffoni è dunque un modo di comunicare che si rinnova di generazione in
generazione. Quasi sempre al di là
della volontà. È il mondo emotivo
che fa da padrone.
Il genitore rivive il trauma subito. La
situazione relazionale fa riemergere l’angoscia dell’impotenza. Un
bambino che sfibra, ossessiona, disobbedisce sollecita il puer interno
ferito rimasto sopito nel genitore,
figlio impotente. Lo risveglia. Lo ridesta. Lo riporta dentro all’antica
storia familiare che lo ha visto sottomesso, umiliato, percosso.
Il bambino maltrattato di un tempo
ora però può ribellarsi. Può difendersi. Può avere una rivincita. E la
mano - un tempo inutile perché
inoffensiva- , ora si scaglia contro il
copro del figlio con tutta la sua potenza.
La rabbia compressa esplode, deflagra, inonda l’ambiente.
Gli arti si alzano e colpiscono, colpiscono, colpiscono. Percuotono e
scalciano tanto quanto avrebbero
voluto poter fare durante la propria
infanzia.
Quel genitore che picchia è in realtà
un bambino vessato, malmenato,
tartassato.
Madri e padri, per educare, usano le
botte come armi poiché su di loro
sono state, un tempo, duramente
puntate.
Si sa che la violenza non genera che
altra violenza. Brutalità agita e subita. Struttura sadica o masochista.
Modo di essere sempre aggressivo.
Fermare questo uso improprio dei
metodi correttivi è dunque un’impresa culturale a vasto raggio che richiede luoghi formativi dove qualcuno si possa prendere cura della
sofferenza intergenerazionale sia
che essa sfoci nella passività del genitore che subisce il figlio tiranno
sia che arrivi, all’opposto, alla sottomissione del bambino tramite la
tortura che genera paura.
Questo non giustifica madri e padri
violenti, bensì li richiama alla necessità di lasciarsi aiutare.
Non è la volontà di tenere le mani a
posto quella che manca, ma se il
genitore non percorre un cammino
che rivisiti il trauma le sue mani non
stanno al loro posto.
Rita è una giovane donna denunciata da una vicina di casa per aver
picchiato ripetutamente la figlia di
undici anni. La bambina ha confermato i fatti incresciosi alle maestre
e a una psicologa. Alcuni reperti del
pronto soccorso dimostrano che nel
passato la ragazza ha subito anche
delle lesioni gravi, ora viste come di
dubbia natura.
Una sera i carabinieri si presentano
a casa di Rita e Giacomo. Prendono
in custodia Elisa, la figlia maltrattata. La casa rimane vuota. La signora è disperata. Vuole suicidarsi.
Il marito la accompagna da me su indicazione di una collega.
La signora piange e nega i fatti. Sa
solo ripetere: “Senza Elisa la mia
vita non ha alcun senso. Io voglio
morire, voglio morire, presto morirò.
Stasera mi butto giù dal ponte”. Per
me non è facile accogliere così tanto
dolore, rabbia, paura, impotenza. La
legge ha fatto il suo corso e Rita si
sente senza parole, senza vita,
senza consistenza. È su questa rabbia per l’impossibilità di difendersi,
di portare il suo punto di vista, di affermare la sua versione dei fatti che
provo ad aprire un dialogo. Cerco di
Fermare questo uso improprio dei metodi correttivi è dunque
un’impresa culturale a vasto raggio che richiede luoghi formativi dove qualcuno si possa prendere cura della sofferenza intergenerazionale sia che essa sfoci nella passività del genitore
che subisce il figlio tiranno sia che arrivi, all’opposto, alla sottomissione del bambino tramite la tortura che genera paura.
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Conflitti Focus
parlare a quella donna che è spaventata dal non poter fare nulla per
vedersi restituire subito la figlia, ma
anche a quella bambina che, un
tempo, deve essersi disperata di
fronte a chi non la ascoltava. Ed è il
mio autentico partecipare al suo
dramma, pur raccontato inizialmente senza parole, che mette in
moto la relazione, che ridona a Rita
la fiducia di poter essere compresa.
Che la fa ancora sperare. Inizia la
consulenza.
Di seduta in seduta ricostruiamo
come le fosse insopportabile incontrare una Elisa che non la ascoltava.
Ogni disobbedienza andava dunque
punita. E più Elisa la provocava non
rassegnandosi più Rita doveva aumentare la dose di punizione. Furono prima sculaccioni, poi ceffoni,
dopo botte, infine sfregi con oggetti
contundenti i mezzi per farsi ascoltare.
Elisa non si piegava facilmente. La
madre doveva educarla. Con le punizioni corporali le insegnava le cose
giuste. Senza tollerare nessuna ribellione. Ogni trasgressione diventava una totale perdita di senso per
la mamma che lei voleva essere.
Non accettava di stare in una casa
disordinata come quella nella quale
era cresciuta. Non voleva una figlia
poco brava a scuola come era stata
lei stessa perché mai seguita nei
compiti. Non tollerava una ragaz-
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zina vestita in modo provocante, lei
che si era sentita apostrofare come
puttana da un padre irato quando, a
diciotto anni appena compiuti, era
scappata di casa per congiungersi
con l’attuale marito. Lei voleva
uscire dal suo passato di emarginazione e di trascuratezza. Lei avrebbe
vissuto una esistenza degna di essere chiamata vita e la figlia non
gliela poteva rovinare comportandosi male, facendo di malavoglia le
lezioni per casa, comperandosi dei
jeans stretti… Rita l’avrebbe raddrizzata. Nessuna empatia per Elisa.
Nemmeno nel lungo periodo durante il quale la minore è stata
ospite di una zia compassionevole
resasi disponibile ad accudirla affinché non finisse in una comunità.
Mi ci è voluta tanta empatia per aiutare questa donna violenta con la
figlia e con me. Infatti disattendeva
agli appuntamenti, non pagava le
sedute, esigeva continui scambi di
orario... insomma mi provocava
come fa ogni bambino maltrattato.
Mi ci è voluta tanta benevolenza per
ridarle la possibilità di identificarsi
con la sua bambina, riaccoglierla
poco a poco a casa, comprenderla
senza accusarla. Il percorso per
aprire un dialogo tra madre e figlia
dopo la frattura e la condanna penale è stato difficile, ma possibile.
Ora sono di nuovo insieme.
A un dramma venuto alla luce del
sole corrispondono migliaia di storie
terribili vissute nel privato delle
case. Riguardano genitori amorevoli
che esplodono improvvisamente facendo vivere al figlio un sentimento
di paura, terrore, angoscia poiché
ciò che gli sta accadendo non ha
senso. È la mancanza di significato
del gesto subito che rende insicuri.
È lo smarrimento per una ingiustizia
che riempie di rabbia. È la delusione
inferta da chi ti amava e amavi che
toglie ogni certezza.
Sono queste storie di madri qualsiasi ascoltate, vissute, patite nella
stanza di consultazione alla famiglia .
Brave madri. Mamme carnefici.
Donne vittime. Bambine rimaste irrisolte nel mondo interno e totalmente tristi e infelici nel mondo
esterno.
I padri vengono meno in consulenza
a raccontare le loro disavventure. La
loro violenza rimane più nascosta.
Ma conosco bene la sofferenza dei
loro figli. Sono dei giovani che arrivano da me smarriti, senza identità,
furiosi. Grumi di rabbia escono da
loro come lava incandescente. Lacrime e parole misurate curano le
ferite inferte da papà che perdendo
improvvisamente la testa hanno picchiato senza senno i figli. Papà infinitamente buoni che si trasformano
in padri indiavolati di fronte a un figlio che chiede di esistere. Papà
amorevoli che se viene ferito il loro
narcisismo annientano, distruggono
e cancellano - a suon di schiaffi - il figlio ribelle.
Sono storie tristi che però ci danno
la speranza di fermare la catena di
violenza fisica che, contrabbandata
impunemente da secoli come forma
educativa, ora deve essere definitivamente arrestata.
*Paola Scalari è psicologa psicotrerapeuta,
psicosocioanalista autrice con Francesco
Berto di Padri che amano troppo,
La Meridiana, 2009