estratto Del Corno - Liceo Classico Dettori

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estratto Del Corno - Liceo Classico Dettori
IL TEATRO DEI GRECI
L'evento teatrale
L'invenzione del teatro rappresenta uno degli apporti più importanti trasmessi dall'antica Grecia alla
civiltà europea. Di questo momento archetipico è sopravvissuto un insieme di opere sufficiente per formarsi
un'idea relativamente adeguata della loro portata artistica e concettuale. Questi drammi vengono tuttora
messi in scena, seppure in una forma che risente dei radicali mutamenti intervenuti nella prassi teatrale a
distanza di millenni; ma la loro diffusione attuale dipende in massima parte dalla lettura.
Il pubblico e la fruizione diretta
Tuttavia un'esauriente comprensione del testo drammatico non può prescindere dalla conoscenza dei
significati e delle modalità che erano pertinenti alla rappresentazione antica. Tutto ciò si collega con un
complesso di condizionamenti, a cui gli autori adattavano la composizione delle proprie opere, sia per
quanto riguarda le situazioni pratiche dell'evento teatrale, sia dal punto di vista più generale del rapporto con
il pubblico e con le sue attese. Un primo aspetto di questo rapporto - comunque intrinseco alla natura del
teatro, e per un altro verso condiviso da ogni manifestazione letteraria della Grecia arcaica - si definisce
attraverso due caratteristiche fondamentali: il teatro si rivolge a una collettività e non al singolo individuo;
inoltre presuppone una fruizione diretta del testo, fondata su un'esperienza visiva-auditiva, anziché mediata
attraverso la lettura.
Le valenze dell’esperienza teatrale
D'altro lato, all'esperienza teatrale dei Greci era inerente una serie di valenze specifiche, le quali non
trovano confronto nel teatro di età più recenti, che ha assunto una finalità spettacolare pressoché esclusiva, e
nel migliore dei casi è considerato come un fatto eminentemente artistico. Ma nelle fasi più creative della
civiltà ellenica il momento estetico investe globalmente ogni aspetto dell'esistenza; e sarebbe improprio
attribuire ai risultati poetici della tragedia greca, che pure furono altissimi, un significato autonomo ed
esclusivo, trascurando altre funzioni che erano originariamente connaturate all'occasione teatrale. Queste
funzioni sono per buona parte connesse con gli specifici statuti della città che fu la sede unica in cui il teatro
greco raggiunse una forma e una produttività originali e universali: Atene.
Un fenomeno religioso
Qui, fin dai suoi primordi, la rappresentazione teatrale fu un fenomeno anzitutto religioso, che aveva
luogo nel contesto delle celebrazioni festive in onore del dio Dioniso. In origine, i Greci a teatro sentivano
non soltanto di assistere a uno spettacolo, quanto soprattutto di partecipare a un rito. Quest'intensa
consapevolezza della sua valenza religiosa esercitava un influsso determinante anche nella composizione del
dramma: in genere i soggetti tragici sono ispirati al mito, ossia rappresentano episodi appartenenti alla storia
sacra del popolo greco; e la tragedia tende a configurarsi come un esempio divino, quando non come
un'indagine sulla problematica natura della divinità.
Un momento politico
In secondo luogo, gli spettacoli teatrali erano anche un fatto politico di grande rilievo. La loro
organizzazione era gestita dallo stato, ma l'interesse della collettività per il teatro andava oltre la portata di
questo fatto. Esso si spiega in parte con la funzione educativa, che i Greci ritenevano in genere connaturata
alla manifestazione artistica; ma trova la sua ragione primaria nella struttura politica di Atene durante il V
sec. a.C. Grazie ad essa, una comunità di uomini liberi era solidalmente partecipe e responsabile di ogni potere nel governo della città. In quest'autentica democrazia la rappresentazione teatrale costituiva
un'occasione esemplare di esperienza e di vita collettive, che l'organismo stesso del dramma rispecchia nella
stretta interrelazione dei piani in cui agiscono l'eroe e il coro, ossia l'individuo e la comunità.
Carattere agonistico del fatto teatrale
Un terzo elemento tipico del fatto teatrale è il suo carattere agonistico. Era questo un aspetto strettamente
connaturato alla mentalità greca: basti ricordare l'importanza che veniva attribuita alle competizioni
sportive. Nella gara, inserita in un rituale divino e sancita da un esito pubblico, trovava un temperamento e
uno sfogo, oltre che una ratifica religiosa e civile, la competitività potenzialmente rovinosa che era
endemica nella società greca. In Atene si svolgeva un concorso tra gli autori delle opere rappresentate nelle
feste drammatiche. Un collegio di giudici, scelto in tutta la cittadinanza con un complicato sistema di
sorteggio che avrebbe dovuto escludere qualsiasi sospetto di parzialità, stabiliva fra i concorrenti una
graduatoria, in base alla quale si assegnavano dei premi. L'alto prestigio del successo costituiva un ulteriore
stimolo perché i poeti esprimessero nella loro opera i grandi temi che coinvolgevano la collettività nel
travaglio etico e speculativo in cui consiste il carattere primario del V secolo.
Rito, assemblea, gara
Il teatro era dunque l'ideale punto di fusione dei tre momenti: religioso, politico e agonistico. La
rappresentazione era al tempo stesso rito, assemblea e gara; e lo spettacolo non costituiva tanto il fine,
quanto la forma che assumeva questa complessa concezione. Il dramma greco risulta caratterizzato da una
potente impronta, che è al tempo stesso artistica e speculativa, nella quale si proietta l'intensa creatività mista
di fantasia e di riflessione che pervadeva la vita ateniese contemporanea. La comunità cittadina costituiva il
committente e il destinatario di questo messaggio; e il suo intervento alla festa teatrale rientra nelle
condizioni e nelle espressioni del carattere profondo dell'opera drammatica.
LA TRAGEDIA
Le origini della tragedia
Il cosiddetto problema delle origini della tragedia, che coinvolge come necessaria premessa quello dei
suoi precedenti, è una delle controversie cruciali della filologia classica; e non sembra ammettere una
soluzione certa, anche per la contraddittorietà delle fonti. Ma, forse, non ha tanto importanza ciò che esisteva
'prima' e che tuttavia non è ancora la tragedia, quanto ciò che venne dopo la prima tragedia. Questa costituì il
momento nativo ed esemplare di un genere letterario che ebbe una lunga evoluzione, e che peraltro in ogni
sua fase si richiamò alle caratteristiche per cui quel momento genetico si distingue dalle premesse che
l'avevano predisposto. Queste caratteristiche sono l'assunzione di un'identità alternativa, ossia propriamente
ed esclusivamente "teatrale" da parte dell'attore, la struttura dell'organismo drammatico, l'idea del tragico.
La prima tragedia e i caratteri del genere
Quale fu la prima tragedia, e quando fu rappresentata? La data intorno al 534 a.C, in cui Tespi avrebbe
messo in scena la prima rappresentazione tragica ad Atene, è evidentemente una convenzione, sia che riposi
o meno su una realtà storica. La prima tragedia si ha quando per la prima volta un uomo che espone una
storia esce dalla propria identità anagrafica e riveste quella di un personaggio del passato, storico o mitico
che sia. In tale nuova condizione, che è già quella dell'attore, egli si contrappone al coro, attraendo anche
questo fuori della sua identità - seppure più labile, perché in esso la collettività ha già assorbito l'individuo.
Accade così che, in una dimensione temporale che riassume il passato nel presente, l'attore e il coro si
propongano come protagonisti di una nuova realtà, la cui forza mimetica attira anche quanti vi assistono in
una partecipazione totale e immediata.
Grazie a questa trasformazione, che da individuale diviene collettiva, può prodursi il passaggio fondamentale
dal racconto all'azione, sì che l'evento non sia più narrato ma vissuto; e questo passaggio è l'operazione
magica, che dobbiamo considerare fra le componenti primarie del teatro. Presso i popoli primitivi sono
attestati analoghi rituali d'identificazione; ma ciò che distingue da essi lo sviluppo che conduce al teatro è il
fatto che in questo esista pur sempre una mediazione fra il racconto e l'azione, e che tale mediazione sia
comunque rappresentata dalla parola, che può articolarsi nel discorso o nel canto. E da questo punto di vista
che l'indagine sui precedenti mantiene soprattutto un senso: il genere letterario, tragedia o commedia che sia,
nasce come di norma dall'incrocio e dal riadattamento di altri generi. In seguito la storia del genere tragico (e
di quello comico) sperimenterà alcune invenzioni capitali, che incidono sulla struttura delle singole opere:
l'articolazione dell'azione attraverso i successivi interventi dell'attore; la scansione delle parti cantate e di
quelle recitate, distribuite lungo la sceneggiatura; l'introduzione di altri attori. Ma i connotati della tragedia
rimarranno quelli fissati dalla sua prima, fondamentale apparizione.
La rivelazione della dimensione tragica
Il quadro genetico della tragedia resterebbe tuttavia parziale, se non considerassimo tra le sue occasioni il
momento concettuale: quello in cui l'uomo si trova di fronte alla folgorante rivelazione della dimensione
tragica che è connaturata alla sua esistenza, allorché egli intuisce la legge di un contrasto insanabile,
comunque esso si manifesti, che mina alla base la vita umana. Questa scoperta trova nell'azione, ossia nel
dramma, il proprio naturale veicolo d'espressione: poiché l'azione trae origine dalla volontà, e da questa
egualmente trae origine il male di vivere. La tragedia nasce quando l'uomo scopre che nell'azione teatrale gli
è dato di vivere un'altra realtà, e che in questa realtà egli può manifestare la grande, terribile verità che gli si
è rivelata: che la vita umana è un inespiabile dolore.
Una volta che si risolva in questi termini l'origine della tragedia, i problemi relativi ai suoi precedenti si
riconducono al complesso delle circostanze esterne, che diedero una forma a quest'evento. Non si tratta
peraltro di un'indagine svuotata di valore. Il quadro che ne risulta può rivelare certi significati - concettuali,
tematici, strutturali - che conferirono un'impronta alla storia del genere: purché si rimanga consapevoli che
questi dati non si riferiscono a un'ipotetica 'prima tragedia', bensì a qualcosa di 'altro', più o meno precisato,
che venne anteriormente.
Le fonti sull’origine della tragedia
La più nota delle fonti intorno alla preistoria della tragedia è un passo della Poetica di Aristotele: qui è
detto che la tragedia sarebbe sorta dal ditirambo, più precisamente da coloro che lo guidavano (oƒ
™x£rcontej), i quali, a quanto s'interpreta solitamente dalla concisa notizia, si sarebbero contrapposti al coro
con un'embrionale funzione di attori. Quest'informazione è integrata da altre testimonianze, che si ottengono
combinando un passo di Erodoto con fonti di età più tarda: in queste notizie il lirico Arione è definito
inventore della tragedia e compositore di ditirambi che prendevano nome dal coro, e a lui risalirebbe
l'introduzione di satiri che «pronunciavano parole in metro» recitato, ossia giambico e trocaico, in
contrapposizione al canto. Abbiamo qui il ditirambo, ossia qualcosa di diverso dalla tragedia, poi la tragedia:
occorrerà limitarsi a considerare l'esecuzione di ditirambi come l'occasione esteriore per la nascita della
tragedia, ed avremo così una conferma del dato storico secondo cui la tragedia si sviluppò nell'ambito del
culto di Dioniso, al quale il ditirambo era consacrato.
In un secondo filone di fonti, tra cui particolarmente significativa è un'altra testimonianza erodotea, i "cori
tragici" appaiono originariamente adibiti a celebrare i patimenti (p£qea) di un eroe, e trasferiti solo in via
secondaria alla sfera dionisiaca. Anche questa notizia coincide con certi aspetti della tragedia, questa volta di
carattere tematico e strutturale: le tragedie giunte a noi rievocano le vicende di eroi, e soltanto le Baccanti
hanno Dioniso come protagonista (e anche fra quelle perdute sono rari i titoli dionisiaci); inoltre nella
struttura tragica riveste un ruolo organico il momento della lamentazione, in genere sulla morte di un
personaggio.
Queste due teorie sono state variamente interpretate, contrapposte e combinate dai moderni; ed altre ancora
ne sono state aggiunte, che riconducono le premesse della tragedia ai misteri, ai rituali della fecondazione, e
così via. Ma nella prospettiva che si è ritenuta più rispondente alla valutazione specificamente letteraria del
problema, non è necessario escludere l'una o l'altra di tali ipotesi, o conciliarle a vicenda: ditirambo e cori
eroici sono non più che i precedenti di qualcosa che è sostanzialmente diverso da essi, a cui queste forme
prestarono soltanto l'occasione, o i temi, o elementi della struttura.
Altrettanto secondaria è la discordanza dei dati intorno alla localizzazione di questi primordi. Essi in genere
riportano la preistoria della tragedia all'ambiente dorico; e lo stesso Aristotele afferma che il nome dr©ma
deriva dalla circostanza che i Dori usavano il verbo dr©n, laddove gli Ateniesi dicevano pr£ttein («fare»,
«agire»). D'altra parte, lo sciovinismo ateniese pretendeva di rivendicare la tragedia come «antica invenzione
della città». La contraddizione si risolve negli stessi testi tragici: per gli autori del genere, la tragedia
appartiene esclusivamente ad Atene, nella forma e nell'ispirazione concettuale (anche se la lingua dei cori ha
una patina dorica, che comunque trova motivo dalla comune tradizione della lirica corale). Ancora una volta,
i precedenti si rivelano altro rispetto alla tragedia.
Significato di “tragedia” e “commedia”
La denominazione "dorica" dell'opera drammatica - sia o no attendibile la spiegazione che ne dà Aristotele attiene al suo carattere formale di storia di soggettivamente vissuta, anziché oggettivamente raccontata: essa
costituisce » dunque la definizione a posteriori di un organismo che ha già raggiunto la propria forma tipica
e distintiva. Ma qual è il significato dell'altra e più frequente denominazione, tragJd…a? Osserviamo
anzitutto che essa, in quanto complementare a kwmJd…a, costituisce una specificazione limitativa del fatto
teatrale, individuando uno dei due generi in cui esso si realizza in Atene. Questi generi ebbero un'origine
affatto diversa uno dall'altro, e furono accomunati solo in seguito nelle feste teatrali dionisiache, giungendo
poi a scambiarsi reciprocamente alcune caratteristiche di struttura; ed è verosimile che appunto in questa
sede si precisasse e si diffondesse l'opportunità delle due denominazioni contrapposte e complementari. Ma
la sostanziale diversità genetica delle due forme teatrali va tenuta presente nell'interpretare la valenza
etimologica dei due termini. L'interpretazione di kwmJd…a è, come vedremo, indiscutibile: «canto del
kîmoj», il corteggio dionisiaco che nella forma del genere comico ha lasciato tracce certe. Ma come si può
collegare il significato di tragJd…a alla tragedia, quale si presenta in età storica? La prima parte del nome
va messa in rapporto con tr£goj «capro»: altre ipotesi differenti, avanzate da antichi e moderni, non sono
che ingegnosi tentativi di eludere un mistero, che non si è in grado di risolvere. Nulla che abbia attinenza
esplicita e palese con il capro è rimasto nella tragedia; e dunque, come va interpretato il problematico
composto? Canto sul capro, l'animale-totem a cui sarebbe assimilato Dioniso; o canto per il capro, oggetto e
vittima di un rito agreste, quindi ancora di carattere dionisiaco, ed eventuale premio di un embrionale
certame poetico; oppure canto dei coreuti mascherati da capri, creature tipiche del corteggio di Dioniso:
queste, sia pure in modo schematizzato, sono le possibilità esegetiche che la critica preferisce percorrere.
Esse alludono di nuovo al medesimo ambito dionisiaco, a cui riportano le varie circostanze e testimonianze
relative alla tragedia che si sono viste: ma non riescono a trovare una motivazione nei caratteri intrinseci del
genere, né vicendevolmente la conferiscono ad essi.
Le prime fasi di un’evoluzione
L'ultima di tali ipotesi induce ad accennare a una serie di notizie attinenti non tanto alle origini, quanto
alle prime fasi del processo evolutivo della tragedia. Si è già detto che nelle feste teatrali ateniesi era
d'obbligo che ogni tetralogia tragica si concludesse con una singolare opera: il dramma satiresco. Era questo
un particolare genere di teatro, che metteva in scena storie mitiche in una trattazione burlesca, e che
prendeva nome dalla presenza fissa di un coro di satiri, creature semiferine del seguito di Dioniso. In modo
non del tutto chiaro, Aristotele mette in rapporto questo tipo di dramma con l'evoluzione storica della
tragedia stessa, la quale avrebbe raggiunto la dignità formale ad essa conveniente dopo inizi di tono
"satiresco" e comico. Altre fonti affermano invece che, in seguito alle proteste del pubblico ateniese per la
scomparsa dell'originario elemento dionisiaco dalla tragedia, sarebbe stata introdotta quest'appendice, in cui
tale elemento era appunto salvaguardato dall'impiego di un coro di satiri. Questa notizia presuppone pur
sempre un modello preesistente, che abbiamo già visto alluso nelle notizie relative ad Arione: un 'altro'
rispetto alla tragedia, su cui si conformò la ripresa dell'elemento satiresco. Si potrebbe spingersi a supporre
che proprio questo precedente avesse costituito il coefficiente decisivo sia nell’accendere la scintilla magica
del trasferimento d'identità, sia nel favorire la scoperta di un piano della realtà diverso dal quotidiano, al
punto che vi agivano esseri ignoti all'esperienza naturale. Ma forse sarà opportuno astenersi dall'azzardare
ulteriori ipotesi: tanto più che anche questo dato di fatto si rivela illusorio, quasi beffardo. I satiri dionisiaci
sono per metà uomini, per metà capri; ma i coreuti del dramma satiresco, che tuttavia si definiscono
s£turoi, nell'arte figurata appaiono come sileni, ossia uomini con orecchie, coda e zoccoli di cavallo.
Ancora una volta si constata che nulla di attinente al capro è rimasto nella tragedia. L'unico filo che si lasci
accertare è il collegamento con Dioniso, parallelo alquanto si era dedotto dalle notizie relative alla
derivazione dal ditirambo. E del tutto verosimile che il nome tragJd…a si connettesse, in qualche maniera
ormai oscura, con ciò che esistette prima della tragedia. Ma una volta che la tragedia è nata e ha raggiunto il
suo carattere, questo nome designa soltanto il complesso concettuale e formale che nel genere tragico trova
la sua identità. Questa coincidenza del nome con l'oggetto costituito dal genere letterario fu tanto completa
ed esclusiva da provocare la scomparsa e l'oblio della sua originaria motivazione.
L’idea del tragico
Nel linguaggio corrente, oggi accade di usare le parole "tragedia" e "tragico" piuttosto nell'accezione
traslata che in quella propria; e quest'impiego si riferisce all'intrinseca natura dei casi e degli oggetti così
qualificati, non certo alla loro impronta formale. Si può affermare che l'idea del tragico è una categoria della
consapevolezza che l'uomo ha di sé e del mondo. Ma anche se nel corso del tempo questo concetto si è
svincolato dalle sue premesse storiche, la coscienza tragica nasce e si determina in pari passo con lo sviluppo
della tragedia greca, e ad essa fa continuamente ricorso. Non sarà dunque arbitrario investigare il carattere
del 'tragico' in relazione alla concreta esperienza del momento culturale in cui la tragedia ebbe origine e
raggiunse la sua forma.
Definizioni della tragedia e di tragico
Aristotele ha formulato nella Poetica una definizione celebre: «La tragedia è l'imitazione di un'azione
seria e compiuta in se stessa, di una certa estensione, in un linguaggio adorno di vari abbellimenti, applicati
ciascuno a suo luogo nelle diverse parti, rappresentata da personaggi che agiscono e non narrata; la quale,
mediante pietà e terrore, produce la purificazione di siffatte passioni»1; ma il suo eccezionale sforzo sintetico
s'arresta alla tipologia e alla psicologia della rappresentazione tragica. Sarà piuttosto una sentenza di Goethe
a prospettare la cornice più ampia e generale, entro cui va inquadrato il tentativo di definire la natura del
tragico: «Ogni tragicità è fondata su un conflitto inconciliabile. Se interviene o diventa possibile una
conciliazione, il tragico scompare»2.
1
Aristotele, Poetica, 6, 2 (1449, b 26 sgg.).
2
W. Goethe, Colloqui con Eckermann (6 giugno 1824)
Libertà e necessità
Nell'esperienza dell'uomo, il conflitto inconciliabile più di tutti è quello e fra libertà e necessità: ossia fra
l'azione volontariamente decisa in vista di un fine e le forze che ne impediscono il raggiungimento, siano
queste forze, a seconda dei casi e di come si preferisce intenderle, metafisiche, naturali, storiche o d'altro
genere. L'itinerario concettuale storico della tragedia procede di pari passo con la presa di coscienza di
questo conflitto. Ciò accade quando il radicale impulso ad autodeterminare la propria esistenza, che fu tipico
della civiltà ellenica e nella fattispecie attica, venne posto in crisi da due constatazioni diverse, e tuttavia
convergenti. La prima di esse insegnava che all'uomo - fosse pure il più dotato e determinato, e per quanto
fossero giusti e validi i suoi motivi e preponderanti le sue forze - non è dato di prevalere in ogni caso e con
assoluta certezza sul corso degli eventi. In secondo luogo occorreva prendere atto della ricorrente possibilità
che un'azione rivolta a un fine, sebbene realizzata nel modo più congruente alle intenzioni originarie, si
rivelasse poi foriera di esiti affatto opposti a quelli progettati.
La conflittualità del reale
Allorché Atene si trovò al vertice della sua fortuna, l'intensa dinamica della vita politica, sociale, culturale
portò con sé anche conseguenze di segno opposto: l'osservazione della fondamentale problematicità e
conflittualità del reale, l'accertamento del suo carattere ambiguo, quando non contraddittorio. Ma anziché
rassegnarsi a un inerte fatalismo di fronte alla precarietà di ogni azione, l'uomo greco apprese ad esorcizzare
il rischio e il sentimento della frustrazione, scaricandone le tensioni nella forma artistica della tragedia. In tal
modo gli riuscì di oggettivare il mistero dell'insuccesso, della rovina, della condanna che non apparissero
motivati da un errore o da una colpa, riconoscendo in quest'assurdo una condizione inevitabile non soltanto
nell'agire, bensì nello stesso vivere umano.
Nella prospettiva tragica, dunque, l'azione è sì la conseguenza di una decisione: ma essa è anche una
scommessa sull'ignoto. Quest'ignoto assume la figura della divinità, che ne diviene per così dire la metafora;
e gli dèi sono gli arbitri ultimi dell'umano agire. Quella che all'inizio appare come libertà degli uomini, è
destinata a svelarsi una necessità imposta dal volere divino: la scelta fra due alternative è soltanto un
inganno, una sola via si apre davanti all'individuo, ed egli è forzato a seguirla. E ancora un agire quello di
Oreste, di Edipo, di Fedra: oppure è già un patire, sotto l'apparenza dell'azione? Il patimento vero e proprio
verrà poi, quando l'eroe sconterà nel disastro l'errore a cui è stato costretto; ma esso è preceduto da un
simulacro di azione, in cui la libertà soggettiva non è altro che un'illusione. Il protagonista trova il suo unico
margine di autonomia nell'accettazione eroica di ciò che è fissato da una norma superiore ed imperscrutabile.
La tragedia è l'espressione della problematica esperienza che è imposta dalla sostanziale ambiguità del reale;
e questa si riflette nella condizione del personaggio tragico.
La peripezia tragica non soggiace a una valutazione morale, perché essa esclude una relazione di colpa e
pena, se non in rarissimi casi. Di qui discende l'impossibilità di conciliare o di espiare il conflitto, che
determina il destino dell'eroe. Alla base di questo sta, come dice Aristotele, una ¢mart…a, un «errore»; ed
occorrerà intendere la sua indicazione come il riconoscimento di una 'colpa oggettiva', non imputabile a una
scelta del soggetto, a un peccato della sua volontà. Tuttavia il marchio di una condanna metafisica preme
sull'uomo come inevitabile impulso all'azione che lo conduce a violare la sanzione divina, e di essa lo rende
colpevole. Un mistero, certo: ma la tragedia sorse come simbolo scenico di questo mistero; ed essa ne porta a
consapevolezza l'esistenza, senza pretendere di spiegarlo.
Ciò che definiamo il 'tragico' è questa consapevolezza; e nello stesso tempo 'tragico' è il fatto che, pure
conoscendo la condanna che inevitabilmente grava sull'azione, l'uomo tuttavia agisce. «Che io la uccida, e
poi muoia!» esclama l'Oreste eschileo, accingendosi a vendicare sulla madre l'eccidio paterno. Ritorniamo al
punto da cui siamo partiti: la tragedia è lo scontro fra la volontà e la necessità, il confine dove si fronteggiano
il riconoscimento della determinazione imposta dall'esterno, e l'impulso a determinarsi in forma autonoma.
Non esiste tragedia nelle culture che negano l'autonomia e il significato dell'azione; e di converso la tragedia
è la suprema dignità dell'uomo che sappia rivendicare la propria libertà, sia pure quella di affrontare un
destino di sconfitta e di morte, accettandolo ma non subendolo.
A una simile interpretazione del tragico si possono accompagnare alcune considerazioni ulteriori, atte a
chiarire certi rapporti fra la concezione tragica dell'esistenza e il suo concreto manifestarsi nell'opera
drammatica. Volere, decidere, agire, errare, patire sono prerogative eminentemente individuali; e l'eroe
tragico assume perentoriamente sopra di sé la responsabilità della propria sorte. Il dolore, la caduta sono il
compenso assurdo della sua esclusiva grandezza, come la beatificazione in cui a volte si corona il suo
patimento: nelle due tragedie di Edipo questo principio fu svolto da Sofocle fino alle estreme conseguenze. Il
protagonista della tragedia vive nell'isolamento, si misura da solo con il proprio destino: poiché ogni uomo
ha una sua volontà diversa da tutti gli altri, e ogni volontà si crea un'opposizione altrettanto diversa e
peculiare. Anche quando tra i protagonisti di una medesima tragedia sussistono dei rapporti interpersonali,
ognuno di loro vive fino in fondo un suo particolare fato, che s'incrocia con quello degli altri, ma non ne è
determinato se non nelle circostanze esteriori: così, assorti nell'esecuzione di una loro individuale sorte,
agiscono Clitemnestra e Oreste, Eracle e Deianira, Ippolito e Fedra.
Inoltre, la legge suprema della necessità imposta dagli dèi è l'arbitrio; e può anche accadere che, a
conclusione dei conflitti fra la volontà dell'eroe e la costrizione che gli è opposta, la vicenda si chiuda con
una conciliazione che sembra premiare l'uomo, mettendo in dubbio la concezione di una tragedia
necessariamente conclusa dalla sua rovina. Ma il conflitto tragico rimane: la necessità divina può imporsi
anche assecondando i progetti umani, in modo tuttavia che l'uomo abbia dovuto subire la propria impotenza
di fronte all'ignoto e provare il presentimento della sconfitta. E però gli dèi hanno deciso altrimenti, gli hanno
decretato un successo che resta altrettanto misterioso ed estraneo alla sua determinazione, quanto lo sarebbe
stata la sconfitta.
Lo scopo della tragedia
Ci si può chiedere, infine, quale fosse l'intenzione dei tragediografi antichi: se lo scopo della tragedia
fosse in senso lato etico, oppure se essi mirassero solo a scrivere buoni drammi, da un punto di vista scenico
e artistico. Abbiamo visto che, nella definizione sopra riportata, Aristotele parla di una purificazione della
pietà e del terrore: ma egli non si muove nel territorio della morale, bensì usa un'immagine mutuata dalla
medicina. Il dolore e l'angoscia dell'esistenza avviliscono l'uomo, e la k£qarsij tragica ha la funzione di
risanarlo da quest'abbattimento, che è uno stato patologico. È un altro luogo dello stesso Aristotele che avvia
a una soluzione del problema: la tragedia, egli afferma, «è più filosofica della storia», in quanto consente una
conoscenza più profonda, che trascende il particolare per attingere all'universale. La verità con cui essa
rappresenta la condizione umana, nella complessità e problematicità dei suoi fenomeni, adempie a un fine
che è nello stesso tempo etico ed estetico. Al di là dei singoli progetti svolti nell'uno o nell'altro dramma, è
questo il disegno supremo che occorre riconoscere alla tragedia greca e ai suoi autori.
Da D. Del Corno, Letteratura Greca, Principato