leggi in pdf - Cultura Commestibile

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direttore
simone siliani
redazione
gianni biagi, sara chiarello, aldo
frangioni, rosaclelia ganzerli,
michele morrocchi, barbara setti
progetto grafico
emiliano bacci
Con la cultura
non si mangia
N° 10
7
Io vengo da Firenze e la mia città è diventata una città incredibile non
per la qualità degli artisti ma per la presenza del sistema bancario e
questa presenza del sistema bancario ha creato le basi per lo sviluppo
dell’arte, della cultura, di queste attività
Matteo Renzi
intervista a Class Nbc (in inglese)
La città più bella del mondo
editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Da non
saltare
di
24
gennaio
2015
pag. 2
Sul treno della memoria
Un diario di viaggio
Paolo Ciampi
“
Chi ascolta un superstite diventa a sua volta un testimone”.
Santa Maria Novella. Difficile
dire quanti abbiano ben presente
queste parole di Elie Wiesel tra
quanti stanno per salire sul Treno
della Memoria organizzato dalla
Regione Toscana. Però ci si può
scommettere: è qualcosa del genere
che anima i volti e i cuori degli
studenti che, in questo freddo
lunedì mattina, stanno cercando il
loro scompartimento.
Il binario, il numero 16, non è
stato scelto a caso. Da qui, all’alba
del 6 novembre 1943, partì il treno
su cui i nazi-fascisti ammassarono
gli ebrei fiorentini rastrellati.
Un monumento, in testa a quel
binario, ricorda quanto è successo.
Forse qualcuno dei ragazzi si è
fermato lì davanti, anche solo per
il pensiero di un istante. Già in
questo modo il Treno della Memoria ha messo in movimento ciò che
deve muovere.
Questo è un convoglio carico di
persone chiamate a diventare testimoni. Forse già lo sono, sui loro
cellulari, sui loro tablet. Dovere
della testimonianza, o piuttosto,
responsabilità. Attenzione all’etimologia: responsabile è colui che
risponde. Ovvero chi sa ascoltare e
non rimane indifferente a ciò che
ascolta.
Ricordando Primo Levi. È inevitabile, sono molti i pensieri che
sono saliti a bordo con noi, sul
treno che ha appena lasciato la
stazione di Firenze, puntando
verso il Nord, ripercorrendo la
stessa strada che fu delle migliaia di
deportati dall’Italia.
A volte pensieri apparentemente
marginali possono anche stimolare riflessioni non banali, che
comunque stanno ben dentro
quell’esperienza collettiva. Per
esempio sulla velocità di questo
treno, che certo non è quella a cui
siamo abituati oggi, con le Frecce
Rosse che solcano la penisola, ma
non è nemmeno quella dei vagoni
piombati. Difficile immaginare
quella lentezza, e con essa l’esperienza di quelle ore, di quei giorni.
I corpi stipati, la mancanza di
aria e di cibo, la paura per quanto
li avrebbe attesi alla fine di quel
viaggio.
Il nostro treno non passerà troppo
distante da Fossoli, anticamera del
lager per migliaia di internati. Sul
primo dei convogli, il 22 febbraio
1944, fu caricato anche Primo
Levi.
Nelle sue pagine ritorna il ricordo
dell’ultima notte. L’ordine di
partenza era arrivato il giorno
prima: lui e gli altri sarebbero
partiti l’indomani mattina. Tutti:
anche i vecchi e i bambini. Fu una
notte di silenzio, preghiera, attesa.
Solo apparentemente uguale alle
altre, per le incombenze: i bagagli
da sistemare, la biancheria ancora
stesa ad asciugare sul filo spinato,
i pochi giocattoli dei bambini da
raccogliere. Un giorno Primo Levi
su Fossoli avrebbe scritto anche
una poesia, col primo verso da
incidere in ogni coscienza: “Io so
cosa vuol dire non tornare”.
Non usate la parola zingari. La
storia di Auschwitz è anche la loro
storia e ricordare la loro storia è
pensare ai muri che ancora oggi
ci dividono. Passato e presente,
perché ha ragione Luca Bravi, tra i
pochi studiosi in Italia del Porrajmos - come Rom e Sinti parlano
del loro sterminio nei lager. “Non
li teniamo distanti. Fino a che li
teniamo distanti non si vince lo
stereotipo”.
Ad Auschwitz la notte del 20
agosto 1944 i nazisti liquidarono
in una sola notte tutti i 24 mila
“zingari” presenti nel campo. Cosa
accadde non potrà ricordarlo uno
di loro, ma alcuni ebrei, come
Piero Terracina, che racconterà dello sbraitare dei cani, delle persone
portate via, del silenzio del giorno
dopo.
Al processo di Norimberga non
si parlerà del Porrajmos. Più tardi
qualcuno si lascerà scappare cose
così: se l’erano cercata.
Pregiudizi e ancora pregiudizi. I
nazisti li sterminarono per il loro
istinto al nomadismo. Ma ancora
oggi li consideriamo nomadi e si
pensa che la soluzione sia quella
dei campi nomadi.
E allora fanno bene le testimonianze di Rom e Sinti su questo treno.
Persone come Ernesto Galliano,
nome italiano per una famiglia che
per generazioni ha lavorato alle
giostre. O come Demir Mustafà,
che da una casa della Macedonia
è finito in una roulotte circondata
da una rete.
“Io non ho paura di essere Rom dice quest’ultimo - non mi sento
uno sporco zingaro, conosco la
mia storia e non le vedo su di me
le cose che di me dicono. Pensare
che sono anche musulmano, in
questi giorni. Bisogna conoscere
se stessi”
Il pregiudizio dentro. “Se oggi
andiamo ad Auschwitz non ci
andiamo solo e soltanto per le vittime, ma per riflettere sui carnefici
e per capire quanto di loro c’è nel
presente”. E’ con queste parole
che, sul treno verso la Polonia, si
conclude il laboratorio dedicato
alla persecuzione degli omosessuali sotto il nazismo, assieme a
Emanuele Bambi di Azione Gay e
Lesbiche.
Parole che si intrecciano nel
vagone ristorante, mentre si passa
il confine in una notte che la neve
rende più silenziosa. Ben altri sono
i silenzi - e le reticenze - che hanno dovuto scontare le persecuzioni
per chi non rientrava nei canoni
della sessualità ammessa sotto
Hitler. E ben altri sono i confini quelli del pregiudizio - che ancora
non abbiamo saputo varcare.
Triangoli rosa, così erano marchiati
gli omosessuali nei lager. Ma quanti triangoli ci portiamo dentro di
noi, pronti a cucirli su coloro che
non rispondono alle nostre visioni
della normalità?
La famiglia svanita. Per esempio
la famiglia Huppert, una delle
tante inghiottite nella voragine
di Auschwitz. Le loro fotografie
sono appese in una delle pareti
a conclusione del percorso della
“Sauna”, l’edificio nel quale gli
ebrei che avevano scampato la
selezione e le altre persone che si
avviavano alla detenzione venivano
spogliate, rasate, lavate con getti
di acqua gelida, tatuate. Questo,
insomma, era il posto dove i nomi
diventavano numeri.
Le fotografie della famiglia Huppert e le altre fotografie di tanti
altri uomini, donne, bambini.
Immagini che si sono salvate dalla
volontà nazista di distruggere sistematicamente qualsiasi testimonianza di una vita normale. Non
solo ai corpi si doveva appiccare il
fuoco.
Almeno queste fotografie sono
arrivate a noi. Della famiglia Huppert in realtà è tutto quello che é
rimasto. Di loro si sa solo quello
che esse raccontano. Con quelle
parole sono come un pugno che
stringe il loro cuore. L’augurio che
Artur scrive sotto la foto del figlio,
il piccolo Peter, nato nel 1938:
“Possa egli vivere 120 anni”.
Questi nostri ragazzi.Hanno visitato le camere a gas e abbracciato
con lo sguardo i prati dove una
volta si accesero roghi con poveri
corpi. Hanno sostato davanti
allo stagno dove furono gettate
le ceneri delle vittime. A lungo
hanno indugiato a cercare una
ragione impossibile davanti a foto
come quelle dei bambini ungheresi
ritratti proprio sotto quelle betulle,
spensierati come per un picnic,
a poche centinaia di metri dalla
morte per Zyklon B.
Ora camminano nel corteo che
li porterà verso la cerimonia
della Toscana a Birkenau. Sono in
silenzio. Molte hanno lo sguardo
rivolto verso il basso, come a voler
cercare dentro qualcosa di più
profondo. Tra loro non ci sono i
sorrisi e i cenni di intesa delle gite
scolastiche. Diverse di loro hanno i
lucciconi agli occhi.
Sono i ragazzi che tra poco, nel
vento di Birkenau, parteciperanno
alla cerimonia di commemorazione ognuno pronunciando il nome
di un deportato al microfono. Uno
per uno. Un nome come una promessa: io non ti dimenticherò.
Il coraggio di Vera. “Non perdete
Da non
saltare
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mai la speranza, non siate mai
indifferenti quando comincia a
esserci qualcosa che non va”. E’
stato un giorno lunghissimo per
gli studenti toscani - l’arrivo il
mattino presto, i passi nel silenzio
e nel gelo di Birkenau, le molte
forse troppe emozioni - anche
senza tenere conto del lungo viaggio del giorno prima. Stanchezza
e distrazione sarebbero più che
giustificabili, dopo queste 48 ore
vissute ad alta intensità. Eppure
non vola una mosca nel cinema di
Cracovia dove si srotola il tappeto
di parole dell’incontro con Vera
Jarach, donna che ha vissuto sulla
sua pelle due crimini della storia la Shoah e la dittatura argentina:
due storie e due continenti diversi,
ma per lei lo stesso epilogo di
morti senza tomba.
Non c’è chi non sia conquistato
dalla dolcezza di Vera che sa essere
forza, coraggio, speranza. Ottimismo: questa parola avvolge
l’intera sala. La parola e ancora di
più il calore con cui Vera la offre
a chi la sta ascoltando. A pensarci
bene forse è questo che vince la
stanchezza di tutti. C’è bisogno di
questo ottimismo che sa guardare
avanti, appena pochi giorni dopo
le stragi di Parigi.
C’è fame di una donna come
Vera, “militante della memoria, o
meglio, in Italia, partigiana della
memoria”. Di una donna che, con
tutto quello che é successo, può
ancora dire: “Sono contenta della
mia vita. Anche per mia figlia, meravigliosa. E’ vero che me l’hanno
portata via, ma l’ho anche avuta.
Ragazzi, non arrendetevi mai”.
Di fronte all’orrore. Afferma Art
Siegelman, l’autore di quel capolavoro che è “Maus”, che dopo
Auschwitz la nostra civiltà è come
un personaggio dei cartoni animati
Loony Tunes - per esempio Vil
Coyote - che va avanti nel vuoto
del canyon anche quando non ha
più terreno sotto i piedi. E che per
un pezzo va avanti anche senza
accorgersene. E’ proprio questo
senso di vuoto sotto i piedi, di
voragine che inghiotte ogni nostra
certezza, che si vive uscendo dal
crematorio di Auschwitz,l’unico
rimasto in piedi dopo che i nazisti
in fuga tentarono di cancellare le
prove dei loro crimini. Ci sono i
camini da cui venivano gettate le
pasticche di veleno, ci sono i forni
dove altri schiavi attendevano il
loro turno spingendo altri corpi
nelle fiamme. Dovevano sbrigarsi,
Sul treno della memoria
Un diario di viaggio
tenere da parte i cadaveri dei bambini per sistemarli negli spazi vuoti
accanto ai cadaveri degli adulti.
Spaccare le ossa più grandi, come il
bacino, perché bruciassero prima.
“Mantieni il silenzio”, chiede
un cartello. Fuori, solo silenzio
e sguardi che si cercano quasi a
cercare conferma di ciò a cui non
si vorrebbe credere.
Con le parole di una studentessa.
Non torna molto che nelle indicazioni stradali e anche ai cancelli
di ingresso Auschwitz sia indicato
come un museo. Sarebbe come
dire che tutto questo riguarda
solo il passato mentre, si sa, la
memoria, se è tale, è una promessa
e anche un varco verso il futuro.
Italo Calvino una volta lo disse in
un modo splendido: “La memoria conta solo se tiene insieme
l’impronta del passato e il progetto
del futuro, se permette di diventare
senza smettere di essere e di essere
senza smettere di diventare”.
Sono parole così che racchiudono
il senso di un’esperienza come il
Treno della Memoria. Ma se questa mattina ci sono parole che hanno saputo restituire questo senso,
farsi promessa, speranza, futuro,
queste sono state le parole di Kleoniki Valleri, giovane studentessa
del Parlamento degli Studenti.
“Vi chiedo di non dimenticare
di riportare a casa il senso di ciò
che avete visto e sentito. Non è
necessario fare il medico o il missionario in un posto lontano,però
è importante riuscire a indignarsi,
è importante cambiare il modo di
guardare le persone che ci sono diverse e aiutare a cambiare il modo
di guardare delle persone che ci
sono vicine”.
Parole emozionate, sospinte con
il cuore verso i coetanei radunati
di fronte al “muro della morte”,
dove migliaia di prigionieri sono
stati eliminati con un colpo alla
nuca. Parole accolte più che da un
applauso, Come una promessa che
i ragazzi e le ragazze del Treno si
sono sentiti di fare con la voce di
Kleoniki.
Il memoriale italiano Ora è sicuro,
l’annuncio viene fatto questa
mattina. Il memoriale italiano
del Block 21 sarà presto trasferito
in Toscana. Troverà ospitalità a
Firenze, a Gavinana, grazie alla
Regione e al Comune che hanno
raccolto l’appello dell’Associazione
deportati. La notizia si accompagna a una sua apertura straordinaria: era da quattro anni che non
si poteva più vedere. Ci era stato
sottratto il contratto con questa
opera, realizzata nel nome di tutte
le vittime italiane dell’Olocausto
dagli architetti Baffi e Belgioioso,
reduci di Mauthausen, con la
collaborazione artistica del pittore
Pupino Samonà, del musicista Luigi Nono e di Primo Levi. Quella
di oggi non è solo una notizia. E’
anche una nuova responsabilità da
assumersi con orgoglio.
Non solo Auschwitz. “Visitatore,
osserva le vestigia di questo campo
e medita: da qualunque paese tu
venga, tu non sei un estraneo. Fa
che il tuo viaggio non sia stato
inutile, che non sia stato inutile la
nostra morte per te e i tuoi figli”.
Queste parole di Primo Levi
salutano all’ingresso del memoriale
italiano. “Fa che il tuo viaggio non
sia stato inutile”.
A volte basta anche la domanda
giusta, non scontata. Come quella
di un ragazzo perplesso di fronte
a una mappa della macchina dello
sterminio. Treblinka, Chelmo,
Belzec, Sabibor... “Perché non
sono conosciuti come Auschwitz?”. Già, perché non si riserva la
stessa attenzione a Majdanek, la
cui struttura, peraltro, è rimasta
integra, perché i nazisti non fecero
in tempo a distruggerla?
Forse in questo caso la risposta
c’è, solo che è ancora più dolorosa
della sua assenza. Da Majdanek a
tornare furono ancora meno. Non
ci fu un Primo Levi a raccontarne
l’inferno. Fa effetto pensare che la
differenza per Auschwitz l’abbiano
fatta i sopravvissuti.
I nomi ritrovati. Sfogliano una pagina dietro l’altra di quell’immenso
libro, che da solo occupa una sala
del nuovo percorso espositivo
realizzato ad Auschwitz grazie a
Israele e allo Yad Vashem. Cinque
metri di carta, un foglio accanto
all’altro: dentro nomi, solo nomi.
Per essere precisi, il cognome, il
nome, l’anno di nascita, il luogo
dove la loro vita è stata cancellata. Sono i milioni di nomi delle
persone inghiottite dalla macchina
dello sterminio.
“Monumento” di carta che desta le
stesse emozioni del “monumento”
sonoro al memoriale di Berlino,
con la sala buia in cui si ripetono
senza interruzione i nomi delle
vittime. Quelle pagine i ragazzi
toscani non le stanno sfogliando
solo per una qualche curiosità ci sarà anche il mio cognome lì
dentro? Basta poco per capirlo. In
realtà quello che stanno cercando
è il deportato che il giorno prima,
nella cerimonia di Birkenau,
hanno adottato pronunciandone il
nome. Anche questo è resistere ai
carnefici, a coloro che con la vita
vogliono sempre portarsi via anche
la possibilità di ricordo.
Gli ultimi testimoni. Oggi è stata la
volta delle sorelle Tatiana e Andra
Bucci, da anni instancabili testimoni del treno toscano (e di tanti
altri treni), le due sorelline con i
capelli bianchi scampate a Birkenau e al dottor Mengele, deportate
a quattro e sei anni.
E con loro c’erano anche Vera
Michelin Salomon, antifascista
spedita a ventuno anni al carcere
duro in Germania dopo l’arresto a Roma e Marcello Martini,
staffetta partigiana spedito a 14
anni a Mauthausen. Anche oggi
non vola una mosca. Raccontano
storie di giovinezza, spiega Marino
Sinibaldi, direttore di RadioTre.
Certamente la loro voce è ancora
giovane. Però è impossibile non
ascoltarli senza pensare anche ai
loro anni. Cosa succederà alla memoria quando non ci saranno più?
riunione
di
famiglia
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Le Sorelle Marx
Gli studenti del liceo classico
romano Torquato Tasso se lo
ricordano ancora con la sua
camminata a petto in fuori e con
le sue continue esternazioni, fatte
più per manifestare la propria
presenza che per dire qualcosa su
qualche accadimento. Una volta
esternò così tanto che dovettero
andare a riprenderlo in giardino.
Il buon Gasparri, già ministro
della Res Pubblica, ha recentemente esternato, non richiesto da
nessuno, sulle due donne rapite in
Siria e poi rilasciate. Il nostro ha
dichiarato: “Senta, io sono contrario al pagamento del riscatto.
Anzi, scriva che se rapiscono me,
non voglio che il governo, di destra
o di sinistra, paghi. Poi, non si
sa cosa quelle due siano andate a
fare in Siria e ora che sono state
liberate ho letto che dicono pure di
volerci tornare”.
Tutti allora si sono domandati chi
inizierebbe la colletta per pagare
il ratto del Gasparri. E soprattutto chi sarebbe il rapitore (o i
Il ratto
La scoperta
di Gasparri di Palazzo Vecchio
Nardella che ride
rapitori) che ne avesse lo stomaco.
Ma poi ricordandosi dei trascorsi
liceali si sono tranquillizzati. Il
riscatto di cui parla il buon Gasparri è il suo. Solo facendo finta
di esistere ogni tanto con qualche
parola detta a caso riesce a credere
di continuare ad essere un “importanteuomopolitico”.
Il riscatto del Gasparri è un’operazione onanistica.
I Cugini Engels
Il quinto Beatles
Lo Zio di Trotzky
Fiat lux culturae
La delocalizzazione della Fiat
colpisce duro anche ai piani alti
dell’azienda torinese (ops, anglo-americano-torinese). Dirigenti, in
carica ed ex sono allo sbando e
alla ricerca di una nuova posizione di lavoro per maturare un po’
contributi per godersi una meritata
pensione. E cosa di meglio di un
posto in una fondazione, un ente
che si occupa di cultura? Il primo
a “rottamarsi” è Paolo Fresco (noto
mecenate di se medesimo) che già si
è insediato alla Scuola di Musica di
Fiesole dove potrà far valere quella
lungimiranza che lo ha portato a
produrre la Multipla (un capolavoro di dimensioni picassiane) per
“portare la Scuola oltre i confini
nazionali e farla diventare un punto di riferimento per l’educazione
musicale non solo in Italia, ma anche all’estero” come dice il sindaco
Ravoni. Ancora non sono ufficiali
ma sono praticamente cosa fatta
la nomina di Sergio Marchionne
al Maggio Musicale dove solo con
l’obbligatorietà dei maglioncini per
gli orchestrali al posto del costoso
frac genererà un risparmio tale da
permettersi l’innaffiamento del
parco della Musica; e quella di
Cesare Romiti alla Pergola, classe
1923 perfettamente in sintonia
con il pubblico habitué del teatro
fiorentino. Per svecchiare un po’
però a fianco di Romiti ci sarà Lapo
Elkan nel posto di responsabile per
l’innovazione, progetti speciali e
marketing del maestro Riccardo
Ventrella. E già si pensa ad un teatro ridipinto in verde mimetico…
Bobo
Emiliano Fossi, sindaco di Campi
Bisenzio, si è fatto immortalare
per una campagna sulla sicurezza
stradale nel suo comune insieme
a assessori e collaboratori nel rifacimento della famosa copertina
di Abbey Road dei Beatles, nella
posa e posizione che fu di Paul
McCartney. Il sindaco, da qualche
giorno anche assessore alla cultura
della neonata città metropolitana, o non è superstizioso o non
conosce la leggenda sulla morte
di Paul McCartney. Quella per
la quale il bassista sarebbe morto
in un incidente stradale (quello
di A Day in a Life) e sostituito
da un sosia. Una leggenda che i
Beatles stessi hanno contribuito
ad alimentare inserendo nelle loro
opere riferimenti e citazioni, da
I’m the Walrus alla copertina di
Abbey Road per l’appunto, dove
gli “indizi” sarebbero la targa
della Volkswagen maggiolino parcheggiata a sinistra e McCartney
che attraversa scalzo (simbolo che
nelle filosofie orientali frequentate
all’epoca dai membri del gruppo
sta a significare proprio il trapasso
dalla vita alla morte) la strada.
Noi a Fossi invece auguriamo
lunghissima vita personale e
politica. La seconda perché è un
sindaco bravo e competente e
perché come assessore alla cultura
metropolitano avrà tanto da fare,
per la novità dell’ente, il bilancio
ristrettissimo e soprattutto per il
confronto col collega della capitale
Firenze, nonché sindaco della
stessa e della città Metropolitana.
Insomma al prode Fossi capiteranno molte notti di giornate dure.
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di John
C
Stammer
on la recente apertura del
museo del Novecento (o per
meglio dire del museo che
accoglie alcune opere di alcuni dei
movimenti artistici del Novecento,
già facenti parte delle collezioni
comunali) nei locali dell’antico
ospedale di San Paolo, poi scuole
Leopoldine (che già ospita il
museo Alinari), si è concluso l’intervento di riqualificazione della
piazza di Santa Maria Novella. Il
progetto era stato avviato dall’amministrazione comunale nel 2006.
La realizzazione della piazza fu
avviata, su iniziativa del comune di
Firenze, intorno alla fine del XIII
secolo (la conclusione dei lavori
è databile intorno al 1325) per
garantire lo spazio per accogliere
i cittadini che volevano assistere
alle prediche dei padri Domenicani del prospiciente convento
di Santa Maria Novella. La sua
forma deriva dalla demolizione
di edifici preesistenti. Ha subìto
varie trasformazioni fra le quali la
più significativa, che permane fino
ad oggi, fu la apposizione di due
obelischi in “marmo mischio di
Serravezza” poggianti su basamenti in pietra bigia. Gli obelischi,
realizzati intorno alla fine del XVI
secolo, e posti in opera intorno
al 1608, erano le mete della corsa
dei “cocchi” che si svolgeva il
23 giugno, vigilia della festa del
patrono della città. Il restauro
della piazza si collocava allora (nel
2004-2005 quando si inizio a
progettarlo) nell’ambito di un più
ampio progetto di sistemazione
delle piazze cittadine che si sta
concludendo ora con la parziale
pedonalizzazione della piazza
del Carmine. La piazza era stata
oggetto nel corso del secolo scorso
di diversi interventi di “sistemazione” fra i quali quello, che poi
è risultato determinate, realizzato
nella prima metà degli anni trenta
con la realizzazione di alcune
aiuole inerbite che seguivano si
dice (ma non ci sono mai stati
elementi certi) uno schema disegnato da Pietro Porcinai. L’idea
iniziale di sistemazione prevedeva
la eliminazione delle aiuole poste
all’interno dell’ideale percorso dei
cocchi intorno agli obelischi, e la
completa pavimentazione della
piazza in pietra, riprendendo la
originale uniformità della pavimentazione, che prima del secolo
scorso era unitaria. Ma la possibilità dell’accendersi di polemiche e
La piazza spezzata
discussioni, che avrebbero potuto
ritardare e mettere a rischio la
realizzazione dell’opera, consigliarono un atteggiamento di “autocensura preventiva” sul progetto.
Fu così che si scelse di realizzare
le aiuole come “inserti” di verde
all’interno della pavimentazione
in pietra, senza nessun elemento di caratterizzazione in alzato
(cordoli, piante, ecc.) nel punto di
passaggio fra una pavimentazione
e l’altra. Le due pavimentazioni,
quella in pietra e quella con erba,
dovevano essere alla stessa quota,
divise solamente da un elemento
in bronzo, anch’esso alla quota del
pavimento, di contenimento della
terra inerbita, in modo da garantire, se non nei materiali, almeno
nella percezione visiva, la assoluta
continuità e la totale percorribilità
della piazza. Fu anche deciso di
eliminare la grande aiuola centrale,
che ospitava anche una vasca con
fontana, e di sistemare quello
spazio con sedute per i cittadini.
Queste sedute, alcune delle quali
realizzate con finiture in acciao
corten, sono molto usate nelle
stagioni miti ma impossibili da
utilizzare in estate, e i fiorentini le
hanno già ribattezzate “friggipassere”.
Ma si sa che le vie dell’inferno
sono lastricate di buone intenzioni
e difatti da li a poco qualcuno
ha ben pensato di recingere le
“specchiature” a verde della piazza
con interventi di “abbellimento”,
piantumando rose fiorentine ai
bordi delle parti a verde.
La recinzione in rose è stata inoltre
ulteriormente “arricchita” da una
piccola recinzione di sostegno e da
cartelli di “non calpestare le aiuole”.L’effetto di questo intervento
è la completa rottura della lettura
unitaria della piazza che oggi
risulta “compartimentata” in una
infinità di piccoli spazi e di fatto
limitata nella sua fruizione, tradendo la scelta iniziale del progetto di
restituire, pur con il mantenimento degli elementi più importanti
degli interventi del passato, la
completa fruibilità e godimento
della vasta spianata fatta realizzare,
davanti alla facciata, poi completata dall’Alberti, della chiesa dei
Domenicani, proprio per ospitare i
cittadini in uno spazio aperto.
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pag. 6
Laura Monaldi
[email protected]
di
D
ipingere la realtà significa
dotarla di toni personali
e soggettivi, densi di
aspettative ed emozioni; significa porsi in un rapporto diretto
con il dato da rappresentare,
essenzializzandolo nelle proprie
specifiche particolarità, al fine di
operare una riduzione estetica
atta a creare un’immagine vivificata e interpretativa; significa,
in definitiva, sapere cogliere il
senso dell’esistenziale insito nel
quotidiano e i tratti fenomenologici della percezione capace
di tradursi in un’espressione
figurativa dal sapore letterario e
descrittivo. La fascinazione del
quadro nasce nel momento in
cui l’artista concretizza la propria poetica nelle forme e nelle
cromie che solo il gesto artistico
riesce a donare agli occhi dello
spettatore, ignaro di condividere il pathos della percezione
al momento della realizzazione
artistica, la quale procede come
una vera e propria narrazione,
all’interno dell’immanenza
meditativa del pensiero. Nelle
opere di Piero Vignozzi il dato
sensibile si veste di toni lirici
dall’alto sapore elegiaco, in
quanto piena contemplazione
dell’essenzialità. I particolari del
quotidiano sono colti nella loro
perfezione formale, spogliati da
ogni artificio retorico, convenzione o accomodamento stilistico, per vivere sul supporto come
sostanze pure, in un figurativo
dettato dalla volontà di rappresentare, esprimere e imprimere
sul supporto estetico la propria liricità. Vi è nell’artista la
necessità di accedere all’anima
delle cose al fine di cogliere
l’esperienza più intima e personale: quell’esperienza capace
di superare i limiti del Tempo e
porsi al di là delle declinazioni
temporali, trascendendo l’istante e il senso dello scorrere e della
durata sugli oggetti del mondo.
Quello di Piero Vignozzi è uno
sguardo in continua tensione,
volto a cogliere le suggestioni legate alla riflessione e alla
contemplazione, colme di una
poetica capace di farsi leggere
nel suo intimismo commovente
e travolgente. Le immagini dei
luoghi dell’esperienza soggettiva
si traducono in codici di vita
vissuta, in un correlativo oggettivo velato dalle evanescenze del
La perfezione
del quotidiano
Piero
Vignozzi
ricordo, che trasmette al lettore
le suggestioni e le emozioni
proprie del gesto estetico. Un
continuo vagare fra presente e
passato, fra atmosfere rarefatte e
tenui cromie, fra ricordi e visioni oniriche, in grado di ricostruire intellettualmente la forma
pura di una realtà sfuggente e
dalla quale è necessario imparare a cogliere quell’essenzialità
intima e innocente chiusa fra la
materia e lo spirito del mondo.
Dall’alto
Scalinata a Villa Bardini, 1979
Olio su tavola
cm. 83x93
Finestra, 1982
Olio su carta intelata
cm. 99x69
Natura morta, 1983
Olio su cartoncino
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Tutte Courtesy
Collezione Carlo Palli, Prato
24
gennaio
2015
pag. 7
Danilo Cecchi
[email protected]
di
N
onostante sia passato quasi
mezzo secolo dalla scoperta
e dalla pubblicazione delle
lastre fotografiche di Bellocq, e
nonostante sia stato quasi del
tutto dissipato il mistero che
sembrava circondare la sua figura,
questo personaggio e la sua opera
stentano ancora a trovare un
posto nelle diverse e sempre più
corpose “Storie della Fotografia”
pubblicate negli ultimi decenni al
di qua ed al di là dell’Atlantico.
Non facilmente classificabile e
non etichettabile, John Ernest
Joseph Bellocq (1873-1949) viene
quasi sistematicamente ignorato
dagli storici, e quando viene ricordato viene relegato fra i fotografi
“vernacolari” o fra i fotografi “dei
bordelli”. Non avendo mai aderito a scuole, accademie, circoli
o confraternite, non avendo mai
partecipato al dibattito culturale, e non avendo mai esposto o
pubblicato le proprie immagini,
Bellocq risulta indigeribile alla
maggior parte degli storici. La
natura delle sue immagini, ritratti
di prostitute in abiti più o meno
discinti, quando non completamente nude, rende ancora
meno digeribile questo fotografo,
nato e morto a New Orleans nel
quartiere francese, mentre viene
accettata (bongré-malgré) la sua
opera, composta da numerosi ritratti realizzati nei primi anni del
Novecento all’interno del quartiere a luci rosse di Storyville. Di
professione fotografo industriale,
Bellocq ama passare il proprio
tempo libero frequentando le
prostitute, e, come molti fotografi
professionisti insoddisfatti della
propria condizione, ama portare
con sé la propria fotocamera, cercando al di fuori della professione
il soddisfacimento delle proprie
pulsioni estetiche, artistiche o
semplicemente espressive. La
familiarità con le ragazze e le
donne di Storyville gli permette
di instaurare con esse un rapporto di fiducia e di complicità, e
di realizzare una serie di ritratti
altrimenti impensabili. Non è
possibile conoscere l’ampiezza
complessiva dell’opera di Bellocq,
ma dalle relativamente poche lastre ritrovate fortunosamente alla
fine degli anni Sessanta, per lo più
in penose condizioni di conservazione, è possibile comprenderne
la profondità e la grandezza. Le
Bellocq
genio
incompreso
ragazze posano per Bellocq nei
loro momenti di libertà, in maniera spontanea e secondo le loro
stesse inclinazioni e preferenze, in
esterni oppure in interni, completamente abbigliate o parzialmente
o completamente nude, in piedi,
sedute o sdraiate, da sole o in coppia, talvolta con il loro animaletto
preferito, un gatto o un cagnolino. Nessuna di esse viene costretta
o condizionata in alcun modo,
ed è facilmente immaginabile che
almeno una copia delle immagini scattate venisse consegnata a
loro come una sorta di omaggio,
risarcimento o rimborso per il
tempo perduto. Qualcuna di esse
espone il volto come espone il
corpo, altre mostrano il corpo ma
nascondono il volto dietro una
piccola maschera nera. Su alcune
lastre viene cancellato mediante
abrasione il volto della modella,
non in segno di disprezzo o di
violenza sull’immagine, come
qualcuno ha voluto insinuare, ma
in segno di rispetto, e molto probabilmente su richiesta della stessa
modella, in seguito ad un ripensamento o forse nella prospettiva
di cambiare vita e professione,
senza lasciare tracce troppo evidenti di un passato per lo meno
imbarazzante. La delicatezza e la
profondità con cui Bellocq tratta i
propri personaggi femminili sono
molto diverse dall’atteggiamento
di altri fotografi, citati su tutte le
storie della fotografia, nel corso
delle loro occasionali e frettolose
visite nei bordelli e di cui hanno
lasciato registrazioni visive. Ben
più di un semplice “fotografo dei
bordelli” Bellocq si innalza con la
sua statura allo stesso livello dei
grandi della fotografia dell’inizio
del secolo, al pari di un Atget o
di un Sander, con buona pace di
Walter Benjamin che non ebbe
mai l’occasione di conoscerlo.
24
gennaio
2015
pag. 8
Paolo Marini
[email protected]
di
V
a premesso che il
testo, di sicuro interesse
storico (e, aggiungo,
spirituale), non sempre è di
agevole lettura e i nuclei tematici dispiegati nel suo svolgimento sono, per così dire, da
cultori della materia: il primo
sul pellegrinaggio in Terra
Santa (con 8 saggi), il secondo sulle controverse relazioni
tra ordini religiosi nel pieno/
tardo Medioevo (con 6 saggi).
Il volume “Monaci e pellegrini
nell’Europa medievale”, curato
da Francesco Salvestrini (Edizioni Polistampa, 2014, pagg.
272, € 20,00), così raccoglie gli
atti di due seminari del Centro
Internazionale di Studi “La
‘Gerusalemme’ di San Vivaldo” promossi dal Comune di
Montaione e svoltisi nel luglio
del 2006 e 2007.
Diffuso presso tutte le religioni
(tranne quelle a carattere panteistico), il pellegrinaggio ebbe,
in epoca medievale e in ambito
cristiano, tre grandi mete:
Gerusalemme, Roma e Santiago
di Compostela. Premesso il suo
tradizionale carattere religioso-devozionale, quasi mai attento a luoghi e persone, nei primi
decenni del Trecento – come
riporta Renzo Nelli nel suo “il
pellegrinaggio in trasformazione” - acquistò un inedito interesse per gli aspetti ‘profani’ del
viaggio, si dilatò “la percentuale
di incidenza dell’osservazione
personale e della autonoma
capacità di giudizio rispetto
all’autorità delle fonti usate” e
la narrazione del viaggio acquistò più spazio anche per la parte
che si svolgeva fuori della Terrasanta. Ma la vicenda umana è
sempre complessa e per alcuni
valeva più la ‘participatio’ alla
Città Celeste che la ‘peregrinatio’ ai Luoghi Santi. Come bene
illustra Francesco Vermigli (in
“Bernardo di Chiaravalle e la
Terrasanta”), la vicinanza fisica
a Gerusalemme fu reputata effimera, né abbisognava il monaco
“della vista di quei luoghi per
incamminarsi lungo la strada
che conduce, già qui e ora,
alla conoscenza di Dio”. Nel
pensiero bernardino, ad una
estetica “aniconica” (“colui che
indugia sulle immagini artistiche attesta di una vita spirituale
Storie senza tempo
Monaci e pellegrini
nell’età di mezzo
monasticamente inordinata”)
si congiunse l’idea che “chi
pellegrina verso quei luoghi che
sono stati testimoni della vita,
della morte e della Resurrezione del Cristo (…), vive una
condizione spirituale che non è
quella che si vive nel chiostro,
dove si insegna una conoscenza
del Cristo (…) totalmente slegata da qualsiasi vicinanza fisica
ed affettiva alla Gerusalemme
di quaggiù”. Da qui il lettore
può ormai muovere agevolmente verso il mare scomposto
Lido Contemori
[email protected]
di
Il
migliore
dei Lidi
possibili
delle controversie religiose,
spesso originate da motivi che
si ripeteranno nella storia. Lo
scontro che oppose “i monaci
neri di Cluny ai monaci bianchi
di Citeaux nasceva - spiega
Antonella Degl’Innocenti in
“Polemiche monastiche nella
Francia dei secoli XI e XII” - da
due diverse concezioni della
vita monastica, che la comune
radice benedettina rendeva
paradossalmente ancora più distanti e inconciliabili”. Ancora
una volta uno dei protagonisti
fu Bernardo di Clairvaux, che
stigmatizzò l’intemperanza nel
mangiare e nel bere, la rilassatezza dei costumi, l’incuria degli
abati, l’amore per il lusso dei (o
di alcuni) monaci cluniacensi.
Il conflitto poteva anche, un po’
meno nobilmente, riguardare
la riconducibilità di un santo
alla propria o altrui tradizione
monastica, come avvenuto tra
benedettini vallombrosani e
francescani minori a proposito
del “rustico anacoreta” Torello
da Poppi (vedasi “‘Sacre dispute’ e affermazioni di identità”
di Francesco Salvestrini) che,
dichiaratosi indegno dell’abito
monastico, aveva compiuto la
scelta di “ascetico ritiro”.
Queste sono solo alcune delle
storie che si possono gustare,
leggendo il volume, con piacere
sottile e meditabondo. Per qualcuno potranno avere un sapore
ignoto o astruso, lontane come
appaiono dalla (in)sensibilità
di questo tempo. Chi scrive
propende, per l’appunto, per
una loro insospettata modernità: avendo sempre a che fare,
direttamente o mediatamente,
con l’idea/realtà di Dio e i
limiti dell’uomo, emergono
dalla storia quasi fossero senza
tempo.
24
gennaio
2015
pag. 9
Alessandro Michelucci
[email protected]
di
Nell’ultimo mezzo secolo il
folk inglese ha espresso molti
artisti di grande rilievo: da
Shirley Collins a Ewan McColl,
da Martin Simpson a Martin
Carthy. Quest’ultimo, attivo dal
lontano 1962, ha inciso il primo disco tre anni dopo (Martin
Carthy, 1965). Lo affiancava il
violinista Dave Swarbrick, col
quale avrebbe sviluppato un
rapporto intenso e duraturo.
Nel 1972 Carthy si è unito al
gruppo vocale dei fratelli Waterson (Elaine, Mike e Norma).
Il suo legame sentimentale e
artistico con Norma Waterson avrebbe avuto un effetto
determinante sul folk inglese
del Novecento. I due artisti, che
si sono sposati nel 1972, hanno
dato vita a una lunga serie di
collaborazioni fra i vari membri
della famiglia. Blue Murder,
The Waterdaughters e Waterson:Carthy’s sono soltanto
alcuni dei gruppi nati da questo
incessante intreccio di musicisti
imparentati.
Dall’unione di Norma e
Martin, oltre a una sterminata
discografia, sono nate Eliza e
Lucy. Entrambe hanno scelto
di dedicarsi alla musica, ma è
la prima che merita particolare
attenzione. Pur essendo stata
avvantaggiata dall’ambiente in
cui è cresciuta, Eliza ha saputo sviluppare una personalità
artistica autonoma. Cantante,
compositrice e violinista, questa
inglese ruspante ha realizzato
una discografia pregevole.
In Anglicana (2003), premiato
col Mercury Music Prize, Eliza
ha riaffermato l’intenzione di
fare un disco inglese, cioè di
ridare piena visibilità a un patrimonio musicale a lungo oscurato da quello celtico (gallese,
irlandese e scozzese).
Nonostante le tante collaborazioni fra i membri della
famiglia, però, la musicista non
aveva ancora realizzato un disco
in duo col padre. Per colmare questa lacuna i due hanno
inciso The Moral of the Elephant
(Topic Records, 2014). L’album è stato prodotto da Oliver
Knight, cugino di Eliza e nipote
di Norma Waterson.
“Grand Conversation on Napoleon” è una canzone di Ralph
Vaughan Williams,
(1872-1958) il grande compositore che ha avuto un ruolo
centrale nella riscoperta del
folk inglese (a lui è intitolata
la biblioteca della English Folk
Dance and Song Society). La dolce “Happiness” è una vecchia
canzone scritta da Molly Drake,
madre di Nick Drake (1948-
1974). Questo cantautore
raffinato e malinconico è stato
riscoperto molti anni dopo la
morte, diventando oggetto di
culto per appassionati e musicisti. “The Queen of Hearts” è
la nuova versione di un brano
tradizionale già apparso sul
primo LP di Martin Carthy.
La conclusiva “Died for Love”
è dedicata a Mike Waterson
(1941-2011), zio di Eliza e
membro del vecchio gruppo
vocale insieme a Norma. È un
brano tradizionale che aveva
arrangiato lui.
Il violino di Eliza e la chitarra
di Martin, insieme alle loro
voci, scolpiscono suoni che
attingono alla tradizione, ma al
tempo stesso moderni e stimolanti: “Non mi interessa parlare
di patrimonio culturale: questa
roba è viva” ha detto Martin in
un’intervista al Guardian.
Il disco è uscito in coincidenza
con i settacinque anni della
Topic Records, che può essere
definita la principale portabandiera del folk inglese. Nata
nell’ambiente della sinistra
marxista, l’etichetta si è poi
affrancata dai condizionamenti
politici assumendo un ruolo
centrale nel folk revival degli
anni Settanta. Oggi pubblica
i dischi di molti musicisti folk
britannici, fra i quali Nic Jones,
June Tabor e Linda Thompson.
The Voice of the People, la serie di
20 CD pubblicata nel 1999, è
un monumento al folk inglese.
ed organizzare tali eventi con la
consapevolezza della loro necessità. Per questo tra le tante e belle
iniziative che in questi giorni
si prospettano, quella che va in
scena oggi e domani al Teatro di
Rifredi credo sia decisamente da
consigliare. Intanto per la qualità
dello spettacolo, Stones, della
compagnia israeliana orto-da che
torna a Rifredi dopo un grande
successo nel 2010. Uno spettacolo che parte da delle pietre,
le stesse pietre che Hitler aveva
scelto per il suo monumento
alla vittoria che l’artista Nathan
Rapoport utilizzerà, dopo la
guerra, per erigere il monumento che celebra le vittime della
rivolta del ghetto
di Varsavia e che si
trova all’ingresso
dell’ex ghetto della
capitale polacca.
E’ proprio quel
monumento che
prende vita in scena, che si trasforma
tra riso e pianto, tra
i simboli dell’olocausto che diventano stelle nel cielo. Uno spettacolo visivo di grande impatto che
non fossilizza l’esperienza della
shoah, la manifesta nel nostro
tempo. Ci rende consapevoli del
suo potenziale e possibile riproporsi, senza moralismi, senza
retorica, solo attraverso la poetica
della mimica e delle immagini.
Orto-Da Theatre Group, Stones
24 e 25 gennaio (sabato ore
21-domenica ore 16:30) al Teatro di Rifredi, via V. Emanuele
303, Firenze.
La famiglia
del folk inglese
Pietre di memoria
Michele Morrocchi
twitter @michemorr
di
Mai come in questi giorni
l’importanza della memoria ci
appare così essenziale, così come
importante ci dovrebbe apparire
la naturalezza del dottor Rieux
ne la Peste di Camus, per il quale
il contagio si combatte, persino contro la speranza, perché
così bisogna fare. Dunque ci
dovrebbe apparire naturale,
avvicinandosi al giorno della
memoria, sentirci naturalmente
in dovere di mettere in moto la
memoria della shoah. Non un
obbligo, non un forzato bisogno.
Così come, chi fa l’operatore
culturale, dovrebbe approcciarsi
eco
lette
ratura
24
gennaio
2015
pag. 10
Diego Salvadori
[email protected]
di
Nel rispondere a Fernand
Desnoyer, Baudelaire era stato
categorico: “la natura che fiorisce
e si rinnova ha in sé qualcosa di
impudente […] di rivoltante”.
Sulla stessa linea si era posto
Oscar Wilde, condannando una
natura imprevidente e crudele,
cui l’arte deve insegnare a stare al
suo posto. Esempi, questi, di un
anti-naturalismo poi impugnato
dall’Avanguardia: una presa di
distanza rivendicata con piglio,
quasi a voler occultare un legame
profondo. Prima di allora, la
natura era stata ‘altro’: kosmos
per i greci; consustanziale nel
Medioevo; liber naturae secondo
Galileo; fonte e sede di poesia
vera per Schelling, Novalis e gli
altri romantici.
Mai come adesso scrittura e natura vengono a porsi l’una di fronte
all’altra: la narrazione richiama i
luoghi, gli spazi, in un continuo
moltiplicarsi dove il reale viene
guardato, sondato e riscritto
attraverso un’ottica inedita. Le
parole, insomma, mostrano una
natura autentica e – per quanto
spaventosa o minacciata – fedele
a se stessa, dove la diversità (la
biodiversità) diviene un valore
aggiunto e propizia un rapporto
inedito con l’umano: uno scambio – quasi un’empatia – suggerito e tracciato dalla scrittura, ora
Simone Siliani
[email protected]
di
Non Brigitte e Paula e neppure
il loro (sfortunato, perduto,
angosciante) amore sono i protagonisti del romanzo di Elfrfiede
Jelinek, che il teatrino Giullare
ha magistralmente messo in scena al Teatro Studio di Scandicci
(13-14 gennaio 2015); bensì la
provincia. Una qualsiasi, piccola,
ipocrita, non necessariamente
quella provincia della Stiria dove,
forse, è ambientata la vicenda di
Brigitte, operaia in una fabbrica
di reggiseni, e di Paula, quindicenne che per sfuggire a una vita
senza prospettive lotta contro i
genitori per studiare da sarta. E’
in questa provincia che la Jelinek
squaderna davanti a noi, con
un linguaggio straordinario, il
modello di una vita fondata sulla
crudeltà nei rapporti personali e
familiari, sulla insensatezza della
vita in fabbrica, sull’ossessione
Tra le parole
della natura
un viaggio
con più ritorni
chiamata a dare soluzioni e risposte all’emergenza ambientale.
L’ecocritica, o ecologia letteraria, muove il proprio assunto
dalla constatazione che la crisi
ambientale sia anche una crisi
culturale; e la questione investe
la letteratura poiché il testo non
solo risponde – per dirlo con
Jauss – a un preciso “orizzonte
di attesa”, ma soprattutto narra,
e rivela, lo stato presente delle
cose. Inizialmente nate sulla
scia del movimento ecologista,
le teorie ecocritiche si sono
poi sviluppate come un ponte
interdisciplinare che sovverte
l’ordinamento consueto degli
studi letterari e si concentra sul
setting, l’ambiente testuale. Se
la natura è un sistema di segni,
questa viene fatta propria dalla
scrittura e genera una semiosi
inedita, inaspettata, che fa del
L’amore difficile
in una tediosa provincia
della ricerca di un amore che
serva a tenere la posizione sociale
nel sistema delle convenzioni
vigente. Una ricerca introspettiva attraverso la psicologia dei
personaggi, che però mette allo
scoperto la meschinità delle convenzioni familiari, le depravazioni dello sfruttamento lavorativo e
dell’alcolismo perfettamente consustanziali alla vita di provincia,
la profondità di solitudini, l’incapacità sentimentale degli uomini
e degli stessi genitori. La noia, la
ripetitività degli schemi sociali
rendono claustrofobica, prigione
senza possibilità di evasione la
provincia della Jelinek. Non c’è
scampo: anche quando i sogni
si realizzano, siamo condannati
liber risposta e specula da cui
guardare la realtà in corso.
Come affermato da Cheryll
Glotfelty – che nel 1989 curò
The Ecocriticism Reader, testo
chiave dell’ecocritica – il letterato torna a essere militante e
viene chiamato a rispondere alla
distruzione della natura. Chi si
occupa di ecocritica deve sapere
uscire dai banchi accademici e,
soprattutto, abbandonare gli
stereotipi che, da sempre, viziano
il concetto di stesso di ‘natura’.
Non più, quindi, loci amoeni o
giardini all’inglese, né tantomeno
spiagge paradisiache o paesaggi
da cartolina: importa l’accezione
di ‘ambiente’, inteso come risposta e cartina di tornasole della
realtà in atto, anche culturale.
Entro un’ottica della compresenza, natura e intelletto cessano di
essere separate e originano un’etica altra, desumibile anche, e
soprattutto, dalle opere letterarie,
pronte a farsi portatrici di immagini di valore: di un ethos che risponde alle urgenze del presente.
Secondo Serenella Iovino – che
per prima si occupata di tali teorie in ambito italiano – l’ecologia
letteraria si propone un duplice
intento: ricostruire la storia della
crisi ecologica e individuare un
modello alternativo di valore che
possa sostituirsi a quelli consueti.
La parola, insomma, torna a
essere ancora di salvezza.
a tornare al punto di partenza e
il male di vivere, “il tedio, l’odio
o morte del vivere in provincia”
(per dirla alla Guccini) attanaglia
senza possibilità di fuga la vita di
tutti, vittime e carnefici. Il sarcasmo del testo e le trovate sceniche
del Teatrino Giullare rendono la
messa in scena scandiccese davvero strepitosa: ritmo e delicatezza
insieme per raccontare in forma
satirica la retorica sull’Eros. Una
pièce che alterna sorrisi beffardi,
pugni nello stomaco e tragedie
immani: “se qualcuno vive un
destino, allora non qui. se qualcuno ha un destino, è un uomo.
se qualcuno riceve un destino, è
una donna. disgraziatamente qui
la vita passa, solo il lavoro resta.
qualche volta una delle donne
cerca di unirsi alla vita che passa
e di chiacchierare un po’ con
lei. ma spesso la vita va via in
macchina, troppo veloce per la
bicicletta, arrivederci!”
24
gennaio
2015
pag. 11
Simonetta Zanuccoli
[email protected]
di
A
vevo sentito alla televisione e letto sui giornali che
i recenti episodi terroristici avevano sconvolto la vita
quotidiana dei parigini anche se
il resuscitato Hollande continua
a ripetere la vie doit reprendre
sa place e lui stesso ha tenuto
a dimostrare di non rinunciare
alle sue abitudini istituzionali e
private. Arrivata a Parigi tutto
mi sembra infatti normale. Per
le strade pochissima polizia e
la solita vita frenetica, i soliti
grandi magazzini presi d’assalto
per le liquidazioni (con oltre
100.000 persone al giorno),
lunghissime file davanti all’ingresso dei musei e delle mostre
più importanti: al Grand Palais
negli ultimi giorni della mostra
di Hokusai erano previsti fino
a 5 ore d’attesa, 3 per quella di
Niki de Saint Phalle anche se la
Notte dedicata a questa artista
il 31 gennaio è stata annullata.
Tutto come prima quindi e mi
sono venute alla mente le parole
di Jacques Brel cantate da Juliette Gréco agli inizi degli anni
60: on n’oublie rien de rien, on
s’habitue c’est tout.
Ma sotto questa apparente
normalità, da una settimana sono
stati prese misure eccezionali: nel
territorio parigino, l’esercito pasFabrizio Pettinelli
[email protected]
di
Via Carlo Maggiorelli è una traversa
di Via Villamagna, nella zona della
Nave a Rovezzano: presumo che
pochi di quelli che leggono queste
note abbiano avuto ragione di percorrerla e che, di quei pochi, forse
alcuni addirittura ignorano chi fosse
quell’uomo. In compenso credo che
molti di Voi il 4 novembre 1966
lo abbiano vissuto o, almeno, ne
abbiano sentito parlare da amici e
parenti.
Mi è sembrato giusto iniziare il racconto, scandito su più puntate, di
alcuni degli episodi legati alle non
poche volte che l’Arno si è accanito
su Firenze cominciando dal ricordo
di quest’uomo, uno degli eroi sconosciuti del novembre 1966.
Carlo Maggiorelli aveva 52 anni e
viveva a Pozzolatico. La sera del 3
novembre era arrivato con la SITA:
doveva effettuare il turno di notte di
sorveglianza agli impianti dell’acquedotto dell’Anconella. Nelle
prime ore del 4 novembre l’Arno
Pensieri da Parigi
sato da 2.500 unità a 10.000 e i
4.700 poliziotti (sono stati sospesi
tutti i congedi) sono mobilitati a
proteggere i siti più a rischio: stazioni, edifici amministrativi, luoghi di culto, scuole, luoghi molto
frequentati e, per i recenti fatti,
anche le sedi dei giornali. Misure
di sicurezza che sono entrate, in
parte, anche nella vita familiare
come, ad esempio, la sospensione
delle settimane bianche nelle
scuole per evitare spostamenti in
massa di bambini e ragazzi (e per
questo provvedimento interi settori dediti agli sport invernali già
parlano di disastro economico).
Ma è il tessuto sociale, sotto
l’apparente normalità, a essere
quello più seriamente provato. Beur FM, la radio delle comunità
islamiche che dal 1990 trasmette su una ventina di frequenze
in tutta la Francia con più di
200.000 ascoltatori l’anno, è stata
presa d’assalto dalle tantissime telefonate tanto da dover riadattare
il suo normale palinsesto fatto
di notizie e di musica. La gente,
dice il suo direttore, ha bisogno
di parlare, di esprimere la paura
di essere oggetto di islamofobia,
di denunciare il dramma di una
comunità che non si riconosce in
un Islam violento e sanguinario,
di dichiararsi non musulmani
Via Maggiorelli
Storie dell’Arno
cattivo
esondò proprio in quella zona e
l’acqua invase gli impianti. Franco
Nencini, giornalista della “Nazione”, riuscì a mettersi in contatto telefonico con Maggiorelli e lo esortò
a lasciare immediatamente i locali,
ma l’uomo rispose che stava cercando di staccare le pompe per fermare
i motori e ridurre al minimo i danni
all’impianto. Lo trovarono due
giorni dopo, sepolto nel fango.
Altre persone erano al lavoro quella
notte: una guardia notturna avvertì
Cesare Nesi, custode dell’ippodromo delle Mulina, che il Mugnone
aveva rotto gli argini al Barco e stava
per inondare la zona. Allora non
c’erano i cellulari, ma Nesi riuscì
a mettere in piedi, alle 2 di notte,
una catena telefonica, avvertendo
proprietari e allenatori di accorrere per mettere in salvo i cavalli;
duecento furono salvati, ma per
settanta non ci fu niente da fare: le
loro carcasse furono bruciate con i
lanciafiamme qualche giorno più
tardi.
A poche centinaia di metri dalle
Mulina c’era il piccolo zoo delle Cascine; il Mugnone lo travolse: tutti
gli animali rimasero intrappolati e
morirono annegati (riuscirono ad
evadere dalle loro gabbie solo la cer-
della Francia ma francesi musulmani. Per il rispetto per il loro
Dio, dice il conduttore Yassine
Belattar, vorrebbero dire Je ne
suis pas Charlie ma hanno paura
ad essere considerati degli estremisti. Anche a Radio J, l’emittente del mondo ebraico aperta
nel 1981, i palinsesti sono stati
stravolti. Anche in questa radio
gli ascoltatori sentono la necessità di esprimere le loro crescenti
angosce. Dalle loro telefonate si
rileva il fenomeno, che a partire
dal 2000 si è acuito in questi
giorni, dei molti ebrei di qualsiasi origine sociale, anche quelli
integrati nell’alta borghesia, che
esprimono il desiderio di lasciare
la Francia che giudicano per loro
non più sicura.
Vorrei terminare questa breve e
insufficiente cronaca con le parole
di Voltaire trovate tra le pagine
dell’allegato di Le Figaro. Nel
1723 Voltaire scrive La Henriade.
Il testo tratta dei tragici eventi accaduti nel 1572 quando migliaia
di francesi cattolici trucidarono
migliaia di francesi protestanti.
Riflettendo su questo evento
Voltaire si pone la domanda e la
pone all’umanità: Che rispondere
a un uomo che vi dice che preferisce obbedire a Dio piuttosto che
agli uomini e che di conseguenza
è sicuro di meritare il Paradiso
sgozzandovi? va Matilde e la cinghialessa Esmeralda). Fra gli altri morì il cammello
Canapone, idolo dei bambini
fiorentini che non accettarono
però la scomparsa del loro amico e
continuarono a lasciare noccioline
e ricordini dove tante volte avevano
allungato la mano per cercare di
accarezzare il muso di Canapone.
A Natale arrivò a Firenze il circo
equestre Palmiri e i proprietari,
commossi, regalarono due cammelli
alla città. Così un altro Canapone
tornò al piccolo zoo ricostruito: ma
non fu più la stessa cosa.
Quella notte non ci furono solo
tragedie: 80 detenuti, trasferiti
all’ultimo piano del carcere di
Santa Teresa, riuscirono ad evadere.
Alcuni, saltando di tetto in tetto,
arrivarono, in Via Manzoni, alla
terrazza della famiglia Lumachini,
che aprì loro la porta e offrì ospitalità. Andando via all’alba, dopo
aver rimesso in ordine la casa, uno
di loro disse: “Signora, appena sarò
in grado di fare un buon colpo, mi
ricorderò di lei e dei suoi figli”
24
gennaio
2015
pag. 12
di
Francesco Carini
“
A connotare in maniera
inconfondibile l’operazione
di Fabrizio Crisafulli nell’odierno panorama del teatro di
ricerca è la sua capacità, quasi
un istinto rabdomantico, di
andare oltre il valore puramente
formale degli strumenti operativi, per captare una dimensione nascosta, impenetrabile
alla ricognizione implacabile
dell’occhio, percepibile solo
attraverso le antenne sensibili
di un movimento interiore, una
particolare disposizione dell’anima. L’originalità del suo lavoro
non consiste nella scelta degli
strumenti o nella spettacolarità
delle soluzioni multimediali,
ma nel come i suoi materiali
vengono indagati e rielaborati
all’interno di un processo che
scaturisce da una qualità rara in
un professionista dello spettacolo, la disposizione all’ascolto”.
Questo scrive Silvana Sinisi
nell’introduzione a Place, Body,
Light: The Theatre of / Il teatro
di Fabrizio Crisafulli, volume
bilingue edito da Artdigiland,
curato da Nika Tomasevic, pubblicato in occasione dei vent’anni di attività della compagnia di
Crisafulli, regista e ricercatore
teatrale italiano, particolarmente attivo all’estero.
Ascolto è un termine che ricorre
spesso anche negli scritti di Crisafulli: il regista individua in esso
una qualità che dovrebbe caratterizzare non solo il lavoro registico,
ma anche quello degli attori, dei
danzatori e di chi si occupa degli
altri aspetti dello spettacolo, come
lo spazio, la luce e il suono. Le
ragioni e il nutrimento relazionale del teatro sono per Crisafulli
fortemente legati all’attitudine
all’ascolto.
Il volume è stato presentato nei
giorni scorsi alla Casa dei Teatri
di Roma, per iniziativa dell’Assessorato alla Cultura di Roma
Capitale, con interventi, oltre che
di Silvana Sinisi e della curatrice,
di Paolo Ruffini, di Raimondo
Guarino e di Silvia Tarquini,
direttore editoriale Artdigiland.
Guarino, storico del teatro e
docente al DAMS di RomaTre,
è intervenuto in particolare sul
teatro dei luoghi, progetto che
Crisafulli conduce fin dall’inizio
della sua ricerca e che consiste nel
collocare il luogo nel punto di
Place,
Body,
Light
partenza del processo creativo, nel
considerarlo matrice della creazione: in una posizione simile, quindi, a quella che nel teatro è più
usualmente occupata dal testo. Il
luogo, in questo tipo di lavoro,
non è solo spazio, scenografia,
ambientazione. Ispira, suggerisce,
genera le scelte riguardanti tutti
gli aspetti del lavoro: lo spazio e i
percorsi, certamente, ma anche e
soprattutto la parola, le azioni, il
movimento, il suono, la luce. Lo
studioso ha poi suggerito un confronto tra il teatro dei luoghi di
Crisafulli e il site-specific theatre,
nell’accezione di Mike Pearson,
il principale teorico di questa
modalità del teatro “fuori dai
teatri”. Con immagine suggestiva,
ha associato il site-specific theatre,
nel quale il teatro viene “associato” ai siti e spesso affascinato da
Il teatro
di Fabrizio
Crisafulli
luoghi polverosi e abbandonati,
alla figura del “fossile” e il teatro
dei luoghi, per la sua ricerca di
essenza e di struttura e per le
nitide visioni con cui rigenera
l’immagine del luogo, alla figura
del “cristallo”. Ha anche messo
l’accento sul fatto che la ricerca visiva di Crisafulli e il suo originale
uso della luce, costituiscano aspetti strutturali e non di contorno
del suo teatro. Si legge in un suo
scritto del 2003, riportato nel
libro: “La presenza di Crisafulli
nel teatro non è la mera proiezione di una competenza artistica,
ma la sua ridefinizione in termini
di teatro. E, nello stesso tempo,
una delle riformulazioni possibili
dell’identità registica. In questo
senso vanno rivisti gli spartiacque
novecenteschi tra il regista come
creatore di azioni attraverso gli
attori, e come pedagogo creatore
di attori; e il regista che, in una
diversa accezione, agisce indirettamente sull’attore attraverso il
contesto materiale, e che sollecita
l’apporto dell’attore, provocandolo attraverso una ricerca comune”.
Del “contesto materiale”, nel
lavoro di Crisafulli, il luogo e la
luce sono elementi importantissimi, che vengono messi in campo
con funzione generativa. Ancora
Guarino: “Tra il suo itinerario e
l’esperienza fondatrice delle avanguardie, e il loro uso della scena,
tra lui e l’esperienza prossima
del teatro-immagine dei registi
romani degli anni ’70, corre la
distanza di una disillusione, di un
altro livello di coscienza nell’uso
e nella produzione di immagini.
Si tratta della distanza che separa
l’immagine come asserzione, e il
suo uso proiettivo e progettuale,
dall’immagine come elemento e
oggetto di sospensioni e analisi
capziose e straniate”.
Il libro, molto ben curato anche
dal punto di vista editoriale (contiene peraltro oltre 300 immagini,
la maggioranza a colori, che ben
restituiscono il lavoro di Crisafulli), è significativo della linea
editoriale di Artdigiland, nuova
casa editrice internazionale con
sede a Dublino, creata da un’italiana col supporto alle start-up del
programma Enterpise Ireland. Artdigiland sta pubblicando diversi
libri sul cinema e sul teatro, con
particolare attenzione al tema della luce (tra i titoli usciti: La luce
necessaria, un volume-intervista
su Luca Bigazzi, uno dei nostri
migliori direttori della fotografia),
e dedica spazio alla riscoperta di
artisti di alta levatura che la storiografia ha imperdonabilmente
lasciato nell’ombra. È il caso, ad
esempio, del regista francese Marc
Scialom, il cui Lettre à la prison
è giustamente definito nel bel volume Marc Scialom: Impasse du
cinéma, “il film mancante della
nouvelle vague”
24
gennaio
2015
pag. 13
Simone Siliani
[email protected]
di
C’è ovviamente un debito di riconoscenza verso Susanne Linke
che Angela Torriani Evangelisti
tributa alla grande ballerina e
coreografa tedesca nel suo ultimo lavoro “Mit Affekt”, andato
in scena al Teatro Cantiere
Florida lo scorso 17 gennaio in
prima nazionale. Ma non è un
debito fermo, immobile. Angela
Torriani lo dichiara in apertura della coreografia: nel 1989
– mentre cadeva il Muro di
Berlino e di rovesciavano mondi
e assetti ideologici ritenuti incrollabili – lei assiste al debutto
italiano di “Affekte” della Linke
con Urs Dietrich e il suo personale mondo ne viene stravolto,
rivoluzionato: le impostazioni
classiche nella danza concepite
come assoluto di perfezione
formale vengono strappate e
sconvolte da un universo artistico e formale parallelo, rovesciato per certi aspetti. Cambia, da
allora, completamente la sua
visione artistica e la sua ricerca.
E Angela Torriani ce lo dice
in apertura della coreografia
che si rifà esplicitamente alle
atmosfere della Linke con i due
ballerini che cambiano il piano
e la prospettiva su cui lavorano, non più quella verticale e
frontale con il pubblico, bensì
il piano orizzontale, quello di
Marco Pacioni
[email protected]
di
t martiri cristiani dei primi secoli
erano coloro che cadevano vittime
per aver testimoniato la loro fede.
Oggi martire è più spesso definito
come chi per uccidere è disposto a morire. Chi viene definito
“votato al martirio” è colui che
è determinato a farsi ammazzare
per ammazzare. Qui omicidio e
suicidio, orrore e terrore, vittima
e carnefice, sacrificio e sacralità
della vita vengono a coincidere.
Invece quelli come Santo Stefano
– si festeggia il giorno successivo
a Natale collegando inquietantemente così la nascita del bambino
Gesù con il futuro sacrificio di
Cristo – non erano martiri perché
votati alla morte, ma perché
vittime della violenza a causa della
loro testimonianza. Per loro, oltre
a testimoniare, continuava a rimanere importante anche avere salva
la vita se ciò era possibile. Comunque erano definiti martiri dopo la
Con affetto
calpestio su cui inizia a svolgersi
lo spettacolo. Fino alla camminata di schiena finale che è chiaramente il tributo che Angela
Torriani paga alla Linke. Ma in
25 anni da quella fulminazione
di “Affekte”, Angela Torriani ha
fatto molta strada. Intanto ha
potuto costruire un sodalizio
artistico con la Linke con un
lavoro realizzato insieme dal
2003 al 2008. Ricordo quando
Angela me ne parlò la prima
volta (allora svolgevo pro tempore le funzioni di assessore alla
cultura del Comune di Firenze)
e, al di là del rilievo di avere a
Favola delle parole
Martirio
morte violenta inflitta da altri e
non prima perché preventivamente
votati a morire, cioè a suicidarsi.
Nei votati al martirio di cui nuovamente si parla in questi giorni non
si salva nessuna distinzione. Oltre
che martire, suicida, vittima, carnefice, il terrorista è anche soldato.
Ed è proprio in questa indistinzione che la violenza illegale dell’atto
terroristico inizia a giustificare la
sospensione interna della legalità
e la legittimazione esterna della
guerra. Il votato al martirio del terrorista diventa l’analogo del capro
espiatorio. Questo viene sacrificato
per stabilire la sacralità della propria comunità; il terrorista viene
sacralizzato per giustificare sia il
sacrificio della libertà all’interno
della comunità sia il sacrificio
bellico all’esterno contro un’altra
comunità. Firenze per un iniziale periodo
di 3 anni una delle più importanti coreografe del mondo,
colpiva la luce negli occhi di
Angela, l’incredulità quasi di
aver raggiunto il sogno di una
vita e allo stesso tempo il senso
della sfida a cui un progetto con
Susanne Link l’avrebbe messa di
fronte. Quell’incontro professionale e artistico ha lasciato
il segno, ovviamente, anche
in “Mit Affekt”: il tema degli
affetti, con le paure, l’amore, il
dolore, la compassione, l’avvicinarsi e il respingersi delle
persone che altro non è che il
contenuto delle nostre vite, si
carica qui dell’esperienza e delle
mediazioni di una vita vissuta
e non invece dalla furia iconoclasta di chi ha davanti tutta
una esistenza da sconvolgere e
rovesciare. Così Angela Torriani
e Leonardo Diana (l’ottimo
ballerino che accompagna “con
affetto” Angela Torriani escono
dalla scena camminando schiena rivolta al pubblico con l’eco
delle note dei Pink Floyd e della
“Notte” di Dino Campana:
“Ricordo una vecchia città,
rossa di mura e turrita, arsa su
la pianura sterminata nell’Agosto torrido, con il lontano
refrigerio di colline verdi e
molli sullo sfondo. Archi
enormemente vuoti di ponti
sul fiume impaludato in magre
stagnazioni plumbee: sagome
nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio
lontano di un canneto lontane
forme ignude di adolescenti e il
profilo e la barba giudaica di un
vecchio: e a un tratto dal mezzo
dell’acqua morta le zingare e un
canto, da la palude afona una
nenia primordiale monotona e
irritante: e del tempo fu sospeso
il corso....
Uno spettacolo intenso e maturo. Una lettera di ringraziamento alla coreografa tedesca da una
cui la sua arte ha cambiato la
vita. Con affetto, Angela.
L
24
gennaio
2015
pag. 14
a datazione del Battistero di Firenze continua a
essere dibattuta: da una
parte chi sostiene una cronologia paleocristiana (ammettendo
comunque che l’edificio sia poi
stato incrostato di marmi in
età romanica) e dall’altra una
romanica, a sua volta collocata
da alcuni nell’XI secolo e da
altri, fra cui Tigler, nella prima
metà del XII. Tuttavia è proprio
l’innegabile relazione formale
col Pantheon di Adriano, già
osservata da Giovanni Villani
e Vincenzo Borghini, a dover
essere ribadita con forza, anche
se non nei termini di una
parentela formale fra edifici
contemporanei bensì in quella
di un rapporto modello - copia.
Il Battistero fiorentino va quindi
a inserirsi nella lista di libere
riprese medievali dal Pantheon,
già correttamente individuata
da Richard Krautheimer, costituendo inoltre un esempio della
tendenza all’imitazione architettonica caratteristica del Romanico toscano: analogamente il
distrutto Duomo Vecchio di
Arezzo si ispirava a San Vitale
Il Battistero
e il Pantheon
a Ravenna; il Duomo di San
Giovanni e Santa Reparata di
Firenze, consacrato nel 1059,
riprendeva Cluny II; il Battistero di Pisa il Santo Sepolcro di
Gerusalemme.
Resta da capire perché la
committenza del Battistero di
Firenze abbia chiesto all’anonimo architetto (probabilmente lo
Cristina Pucci
[email protected]
Dalla collezione di Rossano schi nudi da rivestire e, in gruppo,
Entriamo nella sezione, non
abbastanza esplorata, degli oggetti
d’arte di Rossano, non necessariamente bizzarri forse, ma sempre
interessanti. Statuetta di bronzo, a
cera persa, di Piero Bertelli, “L’impagliatrice” o “Fiascaia”, raffigura
la madre dell’artista che esercitava
questa professione, tipicamente
femminile e tipicamente della
zona di Signa, Montelupo e non
solo. La statuetta di Rossano è la
versione mignon di quella, sempre
in bronzo, a grandezza naturale
collocata di fronte al Museo del
vetro di Montelupo Fiorentino. Spiegare la tecnica “a cera
persa” potrebbe essere parecchio
complesso così come complesso e completamente manuale e
bisognoso di attenzione ed abilità
è il suo procedimento attuativo: si
tratta di creare un modello dell’opera che si immagina e desidera
creare, in cera, lo si chiude poi tra
due forme di materiale refrattario:
l’anima, interna e il mantello,
esterno. Attraverso un processo di
cottura delle forme, si ottiene lo
scioglimento della cera e la formazione di una intercapedine nella
quale viene colato il bronzo fuso.
Una volta liberato il bronzo dal
mantello e dall’anima è necessario
un lavoro di ripulitura, cesellatura
e patinatura, minuzioso e preciso,
esclusivamente manuale, che può
durare mesi o anni, a seconda
delle dimensioni dell’opera. Forse
voi conoscevate la fusione a cera
persa, ma mi piaceva dedicare spazio ad una locuzione così carina...
Il nostro Bertelli, nato a Montelupo nel 1940, a soli 15 anni fu
messo a lavorare presso la famosa
Fonderia fiorentina Marinelli
e fu proprio lì, ove passavano e
passano artisti e scultori di chiara
fama e grande abilità, che imparò
prima a cesellare e ripulire le forme degli altri e poi, scopertasi la
passione, a coltivarla apprendendo
l’arte dello scolpire sue personali
opere. Tuttora attivo espone alla
Galleria “Pietro Bazzanti e figlio”
di Firenze. Impagliare era attività
da femmine, le donne del contado
partivano con i loro barrocci per
procurarsi dai maestri vetrai fia-
a cura di
Bizzarria
degli oggetti
d’inverno al chiuso e in estate
sull’uscio o nelle aie, si accingevano a questa opera. Erano malpagate, ci potete credere, nel 1896
nel corso di uno sciopero c’erano
anche loro a rivendicare migliori
condizioni economiche. Passiamo
ora al fiasco :.. “vaso di vetro, rotondo e corpacciuto, senza piede,
con una copertura di erba palustre
che ne cinge il corpo e forma a piè
di esso la base..” così nel 1887 l
‘Accademia della Crusca. Nasce in
vetro soffiato con la forma che ha,
in quanto di semplice soffiatura,
intorno al 1200, per il rivestimento che gli permette di stare ritto
e che fu per molto tempo a fasce
orizzontali, si usano essiccate delle
erbe ,una sala, un’altra strancia, e
anche foglie e steli di quelle piante dal fiore cilindrico marroncino
che si vedono lungo laghi e fiumi
dette “tife”. Tutte le piante utili
venivano “sfalciate” nelle epoche
giuste per non danneggiare la successiva produzione, c’era grande
attenzione, come sempre in altri
tempi, a non minare gli ecosistemi in cui crescevano distruggendo
una ricchezza naturale. Esiste un
EcoMuseo delle erbe palustri a
stesso che nel coevo prospetto di
San Miniato al Monte rievocava
la facciata di San Pietro in Vaticano, con le sue cinque navate
e il suo mosaico apocalittico) di
prendere a modello proprio il
Pantheon, trasformato nel 609
in chiesa di Sancta Maria ad
Martyres.
Dopo il grande successo del
primo ciclo di conferenze
Firenze prima di Arnolfo, la
seconda parte dell’iniziativa,
promossa dall’Opera di Santa Maria del Fiore, è iniziata
martedì 13 con Il Battistero e il
Pantheon a cura di Guido Tigler.
Il ciclo di conferenze, nato
da una proposta dallo storico
della viabilità Renato Stopani e
coordinata da Mons. Timothy
Verdon, prevede 6 conferenze, a
ingresso gratuito, che si terranno di martedì, alle ore 17.00,
presso il Centro Arte e Cultura
dell’Opera di Santa Maria del
Fiore (Piazza San Giovanni 7,
Firenze). Il secondo appuntamento è previsto il 27 gennaio
con Nicoletta Matteuzzi e le
Tarsie marmoree del Battistero
fiorentino.
Villanova di Bagnocavallo. Nella
Cappella degli Scrovegni Giotto
ha dipinto un fiasco impagliato;
allego la foto della “Nascita di
S.Giovanni Battista” del Ghirlandaio ( Santa Maria Novella,
Cappella Tornabuoni ) in cui una
giovane donzella tiene in mano
due fiaschi, ben vestiti fino al
collo, e,verosimilmente, contenenti del vino con cui far riprendere
dalle fatiche del parto la puerpera. Pantagruel :”O fiasco, ognor
sincero / gravido di mistero / oh,
dimmi tu del vero...”
Al
cinema
24
gennaio
2015
pag. 15
Stefano Vannucchi
[email protected]
di
“
Uno normale non avrebbe
mai potuto farcela” dice
l’amica Joan Clarke (Keyra
Knightley) a Alan Turing (un
grande Benedict Cumberbatch) nel film “The imitation
game” adattamento cinematografico della biografia “Alan
Turing. Una biografia” di
Andrew Hodges.
Solo lui poteva farcela e ce l’ha
fatta, ma a un prezzo incredibile. Iniziato a pagare fin da
bambino. Perché era diverso,
troppo diverso. Faceva parte di
quel piccolo gruppo di persone
prive di un senso naturale della
destra e della sinistra e perciò
si dipingeva una macchiolina
rossa sul pollice sinistro (la
chiamava “il puntino sapiente”). Era omosessuale e genio
assoluto e irritante anche a
causa di una scorza che veniva
dalla lotta per sopravvivere e
dalla sua particolarità. Lui,
meraviglioso crittografo, ha
sofferto per tutta la vita l’ostilità dei tanti che non avevano
gli strumenti o la pazienza per
decifrare il suo linguaggio. Secondo quelle statistiche che gli
piacevano tanto, Alan Turing
ha salvato circa 14 milioni di
persone decifrando Enigma,
il codice di comunicazione
nazista, e abbreviando così la II
guerra mondiale. Ha fatto questo e molto di più. Ha salvato
il futuro e tutti noi aprendoci
delle porte incredibili grazie ai
suoi studi e al suo calcolatore
digitale. L’antenato del computer costruito a mano nel ‘40
durante la guerra. Un’impresa
straordinaria. Come quella
di mantenere i suoi segreti e
sopravvivere al dolore e alla
solitudine. Iniziata poco più
che bambino quando il preside
del rigido college inglese in cui
studia e viene perseguitato per
le sue stranezze e la sua fragilità
gli annuncia che l’amato Christopher, l’unico che capisce la
sua lingua e ha la pazienza di
tradurla, è morto di tubercolosi bovina, malattia coraggiosamente tenuta nascosta. Alan
è distrutto, ma capisce che
non può farlo vedere perché
già si chiacchiera dell’amicizia
troppo stretta fra i due e così
con uno sforzo immane resta
impassibile e nega tutto. Lo
Genio,
benemerito
e
perseguitato
The imitation
game
farà per tutta la vita finché non
lo scopriranno e lo distruggeranno con una castrazione
chimica a furia di ormoni che
è costretto ad accettare per non
finire in carcere e abbandonare
Christopher, la meravigliosa
macchina sogno di una vita. Le
conseguenze di quella “cura”
lo porteranno al suicidio nel
1954.
L’omosessualità era illegale in
Gran Bretagna (Oscar Wilde
fece le spese della legislazione
repressiva) e lo restò fino al
1967.
Un film, seppur bellissimo, è
poco per ricordare quest’uomo
straordinario. Incrementerà
però la sua riscoperta già in
corso da anni fra studiosi e giovani di tutto il mondo che ora
sanno che senza quell’ “anormale” non avremmo avuto i
Bill Gates e Steve Jobs. Senza
di lui e senza Christopher che
ha creduto in lui, ha avuto la
pazienza di ascoltare e cercare di capire il suo linguaggio
(come farà Joan Clarke con il
Turing adulto) senza sbeffeggiarlo, lo ha protetto finché
ha potuto e gli ha regalato il
primo testo di crittografia.
Francesco Cusa
[email protected]
di
I
mmaginiamo non sia facile
concepire e realizzare un film
sul cecchino texano Chris
Kyle, uomo dalle ruvide certezze e
dai pochi solidi principi: in poche
parole, il prototipo del soldato
americano. Tratto dall’autobiografia dello stesso Kyle, il film
ripropone da un lato lo scarno
cliché quotidiano del vissuto di
un uomo cresciuto a pane e valori,
fedele alla bandiera e alla manichea
concezione di male e bene, dall’altro lo stacco surreale dello scenario
di guerra, nell’intermittenza che
segna le varie fasi di crisi del personaggio. Certamente è possibile
aderire alla vicenda del cecchino e,
volendo, leggere nell’omaggio alla
vita di questo infallibile tiratore
una qualche sintonia con la visione
senile di Eastwood, magari di
una sua palese identificazione con
l’attuale scenario socio-politico,
secondo uno sguardo pragmatico
e poco critico. Oppure è possibile
fruire queste grandi pagine di
cinema come una sorta di transfert
- proprio nel senso freudiano di
morfologia dell’inconscio che si
struttura simbolicamente nel corpo
dell’opera, - ovvero di un vero e
proprio passaggio del testimone che Eastwood consegna al
pubblico, riportando fedelmente i
fatti e le vicende nella nuda follia
della guerra irachena. Di certo
una visione troppo aderente non
renderebbe plausibile il cortocircuito generato dall’inversione del
concetto di eroe. Il mondo di Kyle
è tolemaico e governato dalle leggi
del Fato. L’assurdo della guerra in
Iraq è il buco nero della depressione che non può essere esplorato.
Da qui, nella fissità di un universo di stelle e valori perpetui,
il processo di straniamento del
cecchino, che pare scindersi in due
distinti personaggi: in guerra lo
spietato e glaciale soldato, in casa
l’uomo traumatizzato in preda ai
fantasmi della battaglia. A partire
da questi cardini, appare evidente
che la forza del film sta tutta nella
capacità evocativa delle immagini,
nella forza simbolica dello scenario
bellico che si alterna senza filtri a
quello dell’ordinario e, altrettanto
(in)verosimile familiare. Kyle ambisce a salvare tutte le vite, perfino
quelle dei caduti in guerra, ma non
riesce a vivere il suo Reale, la sua
vita. E’ l’onirico-bellico che rivive
nell’assunto lacaniano: “”La realtà
Il cecchino
texano
American
Sniper
è una costruzione di fantasia che
ci permette di mascherare il Reale
del nostro desiderio”. La mannaia
giunge alla fine sotto il mascheramento di una ritrovato equilibrio,
nel momento topico della tragedia
e ancora una volta con l’irruzione
della follia nel quotidiano (come
nella Maggie di “Million Dollar
Baby”, la paralisi che costringerà
Frankie-Eastwood al gesto estremo): perdere la vita per mano di
un ex reduce dopo essere sopravvissuti agli apocalittici scenari di
guerra. E’ per queste ragioni che
il cinema di Eastwood non è mai
realmente descrittivo: lo è semmai
falsamente; è letteralmente una
“messa in scena”. I paragoni con
i pur encomiabili lavori di una
Bigelow possono essere efficaci
fino ad un certo punto, giacché il
nostro Clint mira sempre a quel
nucleo irriducibile, al petit object
a che è la roccia densa di significato, irriducibile che ci lega al
significato dell’esistenza. L’immaginario ideologico di Kyle non trova
posto dunque, paradossalmente,
nell’accettazione della vita quotidiana, che è elemento succedaneo
all’onirico bellico ove prospera il
sogno ideologico individuale e di
una nazione (la folla al funerale, a
salutare la salma, nelle immagini
di repertorio che scorrono sui
titoli di coda). E’ ancora una volta
l’Assurdo a porre termine ad ogni
“resistenza” e a far breccia sull’Inganno, devitalizzando l’automa e
restituendolo Kyle alla vita dello
spirito, ai suoi fantasmi.
24
gennaio
2015
pag. 16
Scottex
Aldo Frangioni presenta
L’arte del riciclo di Paolo della Bella
Il piacere concesso da “i marmi di carta” è determinato dalla
piena libertà che l’autore concede alle osservazioni o alla critiche di chi guarda. Quando gli abbiamo detto che Scottex n° 6
è per noi una sublime opera sacra, l’estasi di una santa, al pari
della Teresa d’Avila del Bernini, lui ci ha risposto: “Se vi pare,
va bene così, per me è solo un foglio stropicciato che ho usato
per pulire lo schermo della televisione”.
6
Scultura
leggera
Sara Chiarello
[email protected]
di
P
apa Francesco ai fornelli e
in braccio a Putin, il premier Renzi nei panni di
Pinocchio, l’Italia allo sbando:
torna il Carnevale di Viareggio,
per fortuna! E propone un mese
intero di carnevale, dal 1 al 28
febbraio, che si concluderà con
il quinto corso mascherato, una
sfilata eccezionale sui viali a
mare, che inizierà alle ore 20.30
e terminerà con la proclamazione dei vincitori e lo spettacolo pirotecnico. Domenica 1
febbraio alle ore 15 i tre colpi
di cannone daranno il via alla
prima sfilata dei carri. I giganti
di cartapesta torneranno sui
viali nelle domeniche 8, 15 e 22
febbraio (a partire dalle ore 15).
Per il giorno di martedì grasso
(17 febbraio), in sostituzione
della sfilata, è in programma
una grande festa nella piazza
Burlamacco, alla Cittadella del
Carnevale. A essere protagonista
sarà soprattutto la satira, dai
temi sociali (violenza sui mino-
ri, temi di salvaguardia dell’ambiente), fino ai ritratti ironici
dei personaggi più noti (torna
anche Mina). Le sfilate saranno
trasmesse dalla Rai e è in programma un contest fotografico e
di filmati, in collaborazione con
l’Istituto Europeo di Design. ‘Il
carnevale di Viareggio è un’eccellenza a livello mondiale, con
una ricaduta economica di 2
milioni e 300.000 euro’, è stato
detto in conferenza stampa. Per
ulteriori informazioni www.
ilcarnevale.com.
Grandi
corsi
mascherati
Torna
il Carnevale
di Viareggio
in
24
gennaio
2015
pag. 17
giro
La storia della società israeliana
e gli orizzonti dell’ebraismo
“La società non si esaurisce nello
stato, né lo stato può cooptare
nella sua struttura tutta la società”,
però può avvenire che la storia
“metta più in luce lo stato che
non la società”. E’ ciò che accade
oggi a Israele. Ma ne “sappiamo a
sufficienza della società israeliana
distinta dallo stato di Israele? E’
possibile separare la società come
organizzazione istituzionale e
pratica della vita quotidiana per
milioni di cittadini e lo stato come
apparato normativo della sicurezza
e della difesa e soggetto internazionale?”.
Così Mario Aldo Toscano, per
lungo tempo ordinario di storia e
teoria sociologica presso l’UniversiPERCEPIRE: I CINQUE SENSI DELLA MEMORIA
29 e 30 gennaio 2015
TATTO: L’ARCHIVIO MATERIA
Questa sessione si svolge in parallelo al convegno.
Saranno presentati in forma multimediale alcune
significative realtà archivistiche e i risultati di
progetti in corso o già realizzati.
Salvati dalle acque: il difficile recupero
degli archivi alluvionati di Aulla
VISTA: L’ARCHIVIO IMMAGINE
Il Museo Salvatore Ferragamo e il suo
archivio: luogo di memoria e
laboratorio di ricerca
L’archivio dei filmati di famiglia raccolti
dalla Banca della Memoria del
Casentino: una storia per immagini
Design e prodotto attraverso l’archivio
della Cooperativa artieri dell’alabastro
di Volterra
Archivio Andrej Tarkovskij: dalla
fotografia al film
OLFATTO: L’ARCHIVIO PROFUMO
DEL TEMPO
L’Archivio Luciano Caruso tra
sperimentazione artistica e militanza
culturale
Archivi di famiglia nelle case dei
proprietari
UDITO: L’ARCHIVIO SUONO
L’archivio di Tempo Reale, Centro di
produzione, ricerca e didattica
musicale
Progetto Gra.fo: Grammo-foni.
Le soffitte della voce
Soprintendenza
Archivistica
per la Toscana
ARCHIVI IN TOSCANA
FARE
RETE
SFIDARE IL FUTURO
Dal Parione a Le Corti: l’archivio
Corsini cambia casa
L’archivio della Società italo-britannica
Manetti & Roberts
GUSTO: L’ARCHIVIO DEI SAPORI
Agricoltura e territorio: gli archivi di
fattoria
Gli archivi Frescobaldi: storie di
famiglia, di fattoria e di produzione
vinicola
Per informazioni e prenotazioni:
F O N DA Z IO N E P R IM O CO N TI
[email protected]
Tel. 055 597095
29-30 gennaio 2015
“Le Murate. Progetti Arte Contemporanea”
Piazza delle Murate - Firenze
Come raggiungerci:
dalla Stazione Santa Maria Novella autobus linea 14-C2-C3-23
in collaborazione con
e con
Si ringrazia per la cortese ospitalità l’Associazione MUS.E e Valentina Gensini direttore artistico
Immagine di copertina: Gianfranco Baruchello, “La Grande Biblioteca”, 1976/1986 (particolare)
GUERRIERI A DIFESA
un’ opera di
PAOLO STACCIOLI
al
Teatro del Popolo
Interverranno:
Maria Cristina Giglioli
Presidente Fondazione Teatro del Popolo
Alessio Falorni
Sindaco del Comune di Castelfiorentino
Claudio Paolini
Soprintendenza BAPSAE
Maria Cristina Masdea
Soprintendenza BAPSAE
Claudio Rosati
Direttore Museo Villa Caruso
Paola Panichi
Dal Natum Videte di Alberto Cavallini
Dirigente Scolastico di Castelfiorentino ed Empoli
ai Guerrieri di Paolo Staccioli:
Associazione Differenze Culturali e Non Violenza Onlus
Andrea Bigalli
una memoria per il futuro
Sabato 24 gennaio 2015
ore 17,00
Teatro del Popolo
Castelfiorentino
Piazza Antonio Gramsci, 80 - 50051 Castelfiorentino FI
Per informazioni: Tel. 0571 633482
L’ opera è stata realizzata il 26 maggio 2013 in occasione
del 20° anniversario della strage di via dei Georgofili
in collaborazione con:
Associazione Differenze Culturali e Non Violenza Onlus
Firenze
Gruppo Culturale Ricreativo Il Mattone
La Rotta (PI)
Unione delle Fornaci della Terracotta
Samminiatello - Montelupo Fiorentino (fi)
Associazione Caba
Sticciano - Certaldo (FI)
tà di Pisa, riassume le questioni al
centro dell’incontro sul tema “La
fondazione dello Stato di Israele
e i nuovi orizzonti dell’ebraismo”
organizzato lunedì 26 gennaio,
alle 16, dalla Fondazione il Fiore
presso l’auditorium dell’Ente Cassa
di Risparmio di Firenze (via Folco
Portinari 5) nell’ambito delle iniziative regionali per il Giorno della
Memoria 2015. Un momento di
riflessione a partire dai libri ‘Storia
di Dan’ (Asterios Editore, Trieste
2013), di cui è autore lo stesso
Mario Aldo Toscano, e ‘Costruire
la società. Israele tra passato e
futuro’, curato da Claudia Damari
e Dan Soen (Pisa University Press,
2014), a cui interverranno, oltre
a Mario Aldo Toscano e Claudia
Damari, Paolo de Nardis e Claudia
Napolitano. “Due volumi che, per
quanto diversi nell’ispirazione e
nell’impostazione, - spiega Mario
Aldo Toscano - permettono di introdurre una serie di argomenti per
una discussione non convenzionale
su Israele, al di là delle ideologie e
nel segno di una esigenza analitica
e critica fortemente legata alla
conoscenza del processo storico
e alla lettura documentaria della
condizione attuale”.
Durante l’incontro, moderato
dalla presidente della Fondazione il
Fiore Maria Giuseppina Caramella,
saranno toccati anche altri argomenti: dalla rievocazione di aspetti
dell’Olocausto al futuro dell’ebraismo. E in chiusura interverrà
Marianne Zazo, che racconterà
come sua madre riuscì a salvarla
dai campi di sterminio nazisti.
“La storia dell’ebraismo e la
memoria dell’Olocausto – scrive
Mario Aldo Toscano inquadrando
storicamente l’appuntamento del
26 gennaio - hanno oggi un protagonista che un tempo non c’era
e che costituisce un riferimento
assolutamente indispensabile per
il recente passato, per il presente e
per il futuro: Israele”.
“La deliberazione n.181 delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947,
che prevede due stati in terra di Palestina, e la successiva dichiarazione
della fondazione e indipendenza
dello stato ebraico (Medinat Israel)
del 14 maggio 1948 ad opera di
Ben Gurion – continua - sono
dense di conseguenze. Il National
Home del 1917 di cui parla la
lettera di Lord Balfour al barone
Rothschild è solo la premessa di
qualcosa di enormemente più
consistente”.
“Dopo quella data fatidica, la questione ebraica ha assunto significati
ulteriori e le ripercussioni sulla coscienza pubblica mondiale sono del
pari assai vaste e profonde. Anche
la memoria dell’Olocausto ha un
soggetto preciso che la custodisce
e la difende e dalla quale trae una
elevata dose di legittimazione. Israele intanto si organizza e dà corso
ad un’altra storia: che dura fino ad
oggi. Conosciamo le tristi vicende
delle guerre tra Israele e gli Stati
Arabi, e conosciamo i tentativi di
pace, più volte ostacolati da forze
avverse, dentro e fuori di Israele.
Ma Israele non è solo uno stato,
è una società nata e cresciuta via
via nel corso del tempo da un piccolo nucleo di comunità di ebrei
residenti in zone diverse della Palestina. Dovremmo concordare che
nessuno stato può essere istituito
senza una società sottostante, come
nessuna società può durare senza
un assetto normativo che almeno
nella modernità occidentale ha assunto la conformazione dello stato.
Nello stesso tempo la società non
si esaurisce nello stato, né lo stato
può cooptare nella sua struttura
tutta la società”Per ulteriori informazioni, Tel.: 055 22507
horror
vacui
24
gennaio
2015
pag. 18
Impropriamente sognando Paul Klee
e il suo Angelus Novus
“La mia ala è pronta al volo
ritorno volentieri indietro,
poiché restassi pur tempo vitale,
avrei poca fortuna”
Gerhard Scholem,
Gruss von Angelus
Disegni di Pam
Testi di Aldo Frangioni
L
immagine
ultima
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gennaio
2015
pag. 19
Dall’archivio
di Maurizio Berlincioni
[email protected]
A
l riparo di una tenda questa donna sta preparando il cibo per la sua famiglia e per altri che stanno raccogliendo la frutta. Così ad
occhio mi pare di ricordare che si trattasse degli immancabili “fagioli” che i messicani, almeno quelli che ho incontrato da queste parti
e in quel periodo, sembravano consumare in quantità quasi industriali. Come si vede chiaramente l’ambiente è di fortuna e la confusione sotto il tendone regna sovrana. Ogni volta che rivedo questa immagine mi chiedo come fosse possibile per lei indossare degli abiti
così pesanti con un clima così caldo. La signora è stata molto gentile e mi ha invitato a pranzo raccontandomi poi un sacco di notizie sulla
sua famiglia e il suo piccolo paese di origine. Le sue parole mi hanno fatto tornare subito alla mente un sacco di cose che avevo letto a suo
tempo sui libri di Steinbeck.
Patterson, San Joaquin Valley, 1972